N. 206 SENTENZA 26 maggio - 3 giugno 1999

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Impiego pubblico - Dipendente condannato, anche non  definitivamente,
 per  determinati  delitti  di  criminalita'  organizzata, per delitti
 contro la p.a. o  a  determinate  pene  per  delitti  non  colposi  -
 Immediata  sospensione  dalla  funzione  o  dall'ufficio  - Interesse
 generale alla protezione della collettivita' -  Ragionevolezza  della
 scelta legislativa - Non fondatezza nei sensi di cui in motivazione.
 
 (Legge  19  marzo  1990,  n.  55,  art.  15,  comma  4-septies,  come
 modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16).
 
 (Cost. artt. 3, 4, 24, secondo comma, 27, secondo comma, 35, 36 e 97,
 primo comma).
 
(GU n.23 del 9-6-1999 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici: prof. Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare  MIRABELLI,  prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv. Massimo VARI,
 dott. Cesare RUPERTO, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
 prof. Carlo MEZZANOTTE,  avv.  Fernanda  CONTRI,  prof.  Guido  NEPPI
 MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  15, comma
 4-septies della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la
 prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi  forme
 di   manifestazione   di   pericolosita'  sociale),  come  sostituito
 dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in  materia  di
 elezioni  e nomine presso le regioni e gli enti locali), promosso con
 ordinanza emessa il 7 aprile 1998 dal t.a.r. per la Sicilia, iscritta
 al n. 599 del registro ordinanze 1998  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  37, prima serie speciale, dell'anno
 1998.
   Visto l'atto di costituzione di Bargi Alfredo,  nonche'  l'atto  di
 intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito  nell'udienza  pubblica del 23 marzo 1999 il giudice relatore
 Valerio Onida;
   Uditi gli avvocati Alfredo  Gaito,  Salvatore  Raimondi  e  Massimo
 Luciani  per  Bargi  Alfredo e l'avvocato dello Stato Michele Di Pace
 per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. -   Nel corso del giudizio promosso  per  l'impugnazione  di  un
 decreto  rettorale  di  sospensione  cautelare  dal  servizio  di  un
 professore  universitario,  rinviato  a  giudizio  per  i  reati   di
 corruzione  e  concorso esterno in associazione mafiosa, il Tribunale
 amministrativo regionale per la Sicilia  ha  sollevato  questione  di
 legittimita'  costituzionale,  in  relazione  agli articoli 3, 4, 24,
 secondo comma, 27, secondo comma, 35,  36  (quest'ultimo  omesso  nel
 dispositivo  dell'ordinanza  ma  evocato  nella  motivazione)  e  97,
 secondo (recte: primo) comma della Costituzione, dell'art. 15,  comma
 4-septies della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la
 prevenzione della delin-quenza di tipo mafioso e di altre gravi forme
 di   manifestazione   di   pericolosita'  sociale),  come  sostituito
 dall'art. 1 della legge 18  gennaio  1992,  n.  16.  La  disposizione
 impugnata   stabilisce   che   i   dipendenti  delle  amministrazioni
 pubbliche, i quali abbiano riportato condanna, anche non  definitiva,
 per  determinati  delitti, ovvero siano stati rinviati a giudizio per
 taluni  delitti,  ovvero  siano  assoggettati  ad   una   misura   di
 prevenzione, anche non definitiva, in quanto indiziati di appartenere
 ad  una  associazione  di stampo mafioso, sono sospesi immediatamente
 dall'ufficio ad opera del capo dell'amministrazione di appartenenza.
   Il remittente, mentre giudica manifestamente infondata  l'eccezione
 di legittimita' costituzionale sollevata dalla parte ricorrente sotto
 il  profilo  dell'eguale  trattamento  fatto ai pubblici dipendenti e
 agli amministratori elettivi (nei cui confronti il comma 4-bis  dello
 stesso  art.  15  dispone a sua volta la sospensione di diritto dalla
 carica, ricorrendo gli stessi presupposti  sopra  indicati),  ritiene
 invece  non  manifestamente  infondata  l'eccezione  sotto  ulteriori
 profili.
   Il giudice a quo ricorda anzitutto che, a partire dalla sentenza n.
 971 del 1988, questa  Corte  con  diverse  pronunce  ha  ritenuto  la
 illegittimita'  costituzionale di disposizioni che prevedevano in via
 automatica sfavorevoli incidenze sul  rapporto  di  impiego  o  sulla
 possibilita'  di  svolgere  attivita'  professionali nei confronti di
 coloro che fossero sottoposti a procedimento penale o avessero subito
 una condanna penale, affermando che misure di questo  genere  possono
 essere disposte solo in base ad una valutazione del caso concreto.
   Ricorda  ancora  il remittente che questa Corte, con la sentenza n.
 184 del 1994, ha dichiarato non fondata una questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 15, comma 4-septies della legge  n.  55  del
 1990,   in   questa  sede  nuovamente  censurato,  ritenendo  che  la
 sospensione cautelare e la sanzioni  disciplinari  siano  figure  non
 comparabili  tra  loro:  ritiene  tuttavia di riproporre la questione
 sotto alcuni specifici profili.
   Considerando che il fine del provvedimento sospensivo cautelare  e'
 quello di allontanare dal servizio l'impiegato quando vi sia pericolo
 che  la  sua ulteriore permanenza nell'organizzazione dell'ente possa
 arrecare danni a quest'ultimo, il giudice a quo ritiene che confligga
 con i principi di ragionevolezza e di  proporzionalita'  una  misura,
 come   quella   disposta   dalla   norma   impugnata,  caratterizzata
 dall'assoluto  automatismo  dell'effetto  interdittivo,  senza alcuna
 valutazione discrezionale dell'amministrazione  circa  l'opportunita'
 della  sospensione,  come invece avviene nelle ipotesi di sospensione
 facoltativa previste dagli artt.  91  e  92  del  testo  unico  sugli
 impiegati  civili  dello  Stato  approvato  con d.P.R. n. 3 del 1957:
 tanto piu' che la sospensione prevista dalla norma  censurata  opera,
 in  taluni  casi,  in  base  al  presupposto  della mera pendenza del
 procedimento penale (dopo il rinvio a giudizio),  quale  che  sia  la
 fase in cui esso si trova.
   Non  si  potrebbe  giustificare  la  previsione  come  una  "difesa
 avanzata" contro  le  infiltrazioni  della  criminalita'  organizzata
 nell'amministrazione,  diretta al fine di fronteggiare una situazione
 di emergenza. Infatti l'invocazione dell'emergenza non  basterebbe  a
 superare  i  profili  di  incostituzionalita'  della norma; e sarebbe
 incongrua la coesistenza - che deriva dalla disposizione impugnata  -
 di   una   misura   cautelare   automatica  ed  obbligatoria  con  un
 provvedimento sanzionatorio, conseguente al  passaggio  in  giudicato
 della  sentenza di condanna, che non puo' invece essere automatico ma
 richiede  una  valutazione  concreta,  in  sede   disciplinare,   del
 comportamento del pubblico dipendente.
   Cio'  impedirebbe  di  superare la rilevata incongruenza sulla base
 della diversita' di configurazione giuridica  della  sospensione,  di
 carattere cautelare, rispetto al provvedimento destitutivo, di natura
 sanzionatoria.   La   doverosita'   della   sospensione   verrebbe  a
 caratterizzare quest'ultima come una vera e propria pena  anticipata,
 la cui prevedibile lunga durata (fino a cinque anni, in base all'art.
 9,  comma  2,  della  legge  7  febbraio 1990, n. 19) produce gravi e
 irreversibili  conseguenze  sul  soggetto  colpito,  ancorche'  siano
 previsti,  verificandosene  i  presupposti, istituti e misure di tipo
 ripristinatorio.
   Per queste ragioni la norma impugnata apparirebbe in contrasto  sia
 con  i  principi di coerenza e ragionevolezza desumibili dall'art.  3
 della  Costituzione,  in  quanto  si  fonda   sul   rigido   criterio
 dell'automatismo,  senza  alcuna  possibilita'  di  apprezzamento  in
 ordine alla  gravita'  del  reato  e  alla  sua  connessione  con  il
 servizio,  e  dunque  alla adeguatezza della misura al caso concreto;
 sia   con   i   principi   di   imparzialita'   e   buon    andamento
 dell'amministrazione,  di  cui  all'art.  97  della Costituzione, che
 comporterebbero  a  loro  volta   la   necessita'   che   la   misura
 sanzionatoria  o cautelare sia adeguata al caso specifico, e anche in
 quanto l'amministrazione potrebbe subire pregiudizio per  le  mancate
 prestazioni   del   dipendente,  che  peraltro  in  seguito  dovrebbe
 successivamente remunerare, ove il procedimento  penale  si  concluda
 con  sentenza di proscioglimento; sia con il principio di presunzione
 di non colpevolezza, di  cui  all'art.    27,  secondo  comma,  della
 Costituzione,  in quanto al semplice rinvio a giudizio, e cioe' sulla
 base di una valutazione attinente soltanto  alla  legittimita'  della
 domanda  di  giudizio  formulata  dal pubblico ministero, consegue la
 sospensione automatica con effetti equiparabili a quelli derivanti da
 una sanzione anticipata.
   Sussisterebbero  inoltre  ulteriori  profili   di   non   manifesta
 infondatezza  della  questione,  in  relazione  all'art.  24, secondo
 comma, della Costituzione, in quanto viene tolta  all'interessato  la
 possibilita' di far valere le proprie ragioni in sede amministrativa,
 e  agli  articoli  4,  35  e  36  della  Costituzione,  in  quanto la
 prolungata sospensione dell'attivita' lavorativa si  traduce  in  una
 implicita,  anticipata,  e per certi aspetti irreversibile sanzione a
 carico del dipendente.
   2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata infondata o
 meglio manifestamente infondata.
   Secondo l'Avvocatura erariale, il profilo di illegittimita' fondato
 sul rigido automatismo della sospensione non sarebbe nuovo rispetto a
 quello gia' giudicato non fondato con la sentenza n.  184  del  1994,
 anche  se,  allora,  in  relazione all'art. 97 della Costituzione: in
 quella pronuncia si chiari' infatti che il  principio  costituzionale
 invocato   (come  oggi  quello  di  eguaglianza)  va  coordinato,  in
 concreto, con quello della tutela dell'ordine pubblico, cui si ispira
 la disciplina censurata. Lo stesso  dovrebbe  dirsi  del  profilo  di
 contrasto  con  l'art.  97  per  l'impossibilita'  in  cui  si  trova
 l'amministrazione di valutare l'incidenza piu' o meno negativa  della
 sospensione sulla propria attivita'.
   Quanto alla presunta violazione dell'art. 24 della Costituzione, si
 osserva  che  l'efficacia della cautela e' tanto maggiore quanto piu'
 e' pronta e sottratta all'influenza degli ambienti in cui  andra'  ad
 operare,  e  che  la  sospensione e' un provvedimento cautelare e non
 sanzionatorio,  connesso  ad  un  procedimento  penale  in   cui   le
 possibilita'  di  difesa  dell'interessato  non  sono  compromesse; i
 possibili inconvenienti derivanti da una misura  cautelare  applicata
 ingiustamente   sarebbero   giustificati   dall'esigenza   di  tutela
 dell'ordine pubblico.
   Le stesse considerazioni varrebbero a dimostrare l'infondatezza dei
 profili di violazione degli artt. 4, 35 e 36 della Costituzione.
   3. - Si e' costituito il ricorrente nel giudizio  a  quo  chiedendo
 l'accoglimento della questione.
   La  parte riassume anzitutto la propria vicenda processuale penale,
 che lo ha visto colpito dapprima da una misura coercitiva, in seguito
 annullata, e  quindi  rinviato  a  giudizio  con  una  ordinanza  che
 evidenzierebbe  la insufficienza e la contraddittorieta' degli indizi
 a carico, pur non ritenendo inutile la trattazione dibattimentale.
   Nel merito della questione, la parte  sostiene  che  valgono  nella
 specie  le stesse argomentazioni che hanno  portato la giurisprudenza
 di  questa  Corte  a  ritenere  illegittime   misure   disposte   dal
 legislatore  con  carattere di automatismo, ricordando in particolare
 la sentenza n.  239  del  1996  che  aveva  riguardo  ad  una  misura
 cautelare, come quella oggi in discussione.
   Ritiene  poi  che  il caso della sospensione a seguito del semplice
 rinvio a giudizio sia diverso da quello della sospensione  a  seguito
 di condanna, sia pure non definitiva, che venne all'esame della Corte
 con  la  sentenza  n. 184 del 1994, in quanto in questo caso manca un
 giudizio di colpevolezza dell'imputato.
   Inoltre, la parte osserva  che  il  contrasto  con  i  principi  di
 coerenza e di ragionevolezza emergerebbe anche dal fatto che la norma
 equipara  ai  fini  dell'automatica sospensione tutti coloro che sono
 legati alla pubblica amministrazione da un rapporto di servizio,  pur
 se  l'attivita' a questo inerente non comporti decisioni destinate ad
 avere  effetti  nei  confronti  di  amministrati,   come   nel   caso
 dell'attivita'  di  insegnamento,  e  manchi  ogni  relazione  fra il
 comportamento  contestato  all'interessato  e  l'esercizio  del   suo
 ufficio:  solo  una  valutazione  dell'amministrazione, effettuata in
 concreto caso per caso in relazione alla gravita' del  reato  e  alla
 sua attinenza con lo svolgimento delle funzioni demandate al pubblico
 dipendente,  potrebbe  assicurare la congruita' e l'adeguatezza della
 misura cautelare.
   Ancora, sarebbe in contrasto con i principi di cui agli artt.  3  e
 97  della  Costituzione  l'automatismo di una sospensione operante in
 ordine ad una attivita' di servizio non avente alcuna  attinenza  con
 quella  nel  cui ambito sono stati tenuti i comportamenti contestati,
 pervenendo anche a pregiudicare il buon andamento  dell'attivita'  di
 insegnamento.
   Sotto  altro  profilo,  la  parte  sottolinea  il  contrasto con il
 principio di ragionevolezza  e  con  quello  di  presunzione  di  non
 colpevolezza  derivante  dal fatto che la sospensione opera, nel caso
 in esame, sulla sola base del rinvio a  giudizio,  che  non  comporta
 alcuna   attivita'   di   giudizio  ma  solo  una  valutazione  della
 legittimita'  della  domanda  di  giudizio  formulata  dal   pubblico
 ministero.    Infine  si argomenta il contrasto della norma impugnata
 con l'art.  24, secondo comma, della Costituzione,  in  quanto  viene
 sottratta  all'interessato  la  possibilita'  di  esercitare  in sede
 amministrativa il diritto di far valere le  proprie  ragioni,  e  con
 l'art.    97    della    Costituzione,   in   quanto   si   impedisce
 all'amministrazione di adeguare la sanzione al caso  specifico  e  di
 valutare  il  vantaggio  che  essa  puo' ricavare dal mantenimento in
 servizio del dipendente.
   4. - Nella  memoria  presentata  in  vista  dell'udienza  la  parte
 privata  argomenta  anzitutto  la  novita'  della questione all'esame
 rispetto a quella decisa dalla Corte con le sentenze n. 407 del  1992
 e  n.   184 del 1994, per la novita' dei parametri e dei profili e la
 non coincidenza della norma denunciata. In particolare,  osserva  che
 nella sentenza n. 184 del 1994 l'art. 15, comma 4-septies della legge
 n.    55  del  1990  fu scrutinato solo nella parte in cui prevede la
 sospensione obbligatoria dei dipendenti nei cui confronti  sia  stata
 pronunciata  sentenza  di  condanna,  non definitiva, e non invece in
 rapporto  alla  diversa  fattispecie  del  dipendente   semplicemente
 rinviato  a  giudizio; che non erano allora evocati i parametri degli
 artt. 27, secondo  comma,  24,  secondo  comma,  4,  35  e  36  della
 Costituzione;  che  i  profili  per  i quali era considerato l'art. 3
 della  Costituzione  attenevano  alla  equiparazione  dei  dipendenti
 pubblici  ai  titolari  di  cariche  elettive  e  alla  disparita' di
 trattamento fra dipendenti  degli  enti  locali  e  dipendenti  delle
 amministrazioni  statali,  e  l'art.  97 della Costituzione veniva in
 considerazione sotto il profilo dell'assenza di un potere  valutativo
 dell'amministrazione   in   ordine  alla  convenienza  o  meno  della
 sospensione: profili tutti diversi da quelli oggi all'esame.
   La parte argomenta poi in ordine alla violazione dell'art. 3, primo
 comma, della Costituzione,  sia  per  contrasto  con  i  principi  di
 ragionevolezza   e   di   proporzionalita',   sia  per  incoerenza  e
 irrazionalita' "interna" della disciplina.  Sotto il  primo  aspetto,
 l'irragionevolezza   discenderebbe   anzitutto   dalla  rigidita'  ed
 automaticita' della sospensione, e dovrebbe essere riconosciuta sulla
 scorta della abbondante giurisprudenza di questa Corte che ha sancito
 la necessita' di valutazioni in concreto sulle misure sanzionatorie o
 cautelari,  affinche'  l'adeguatezza  della  misura  sia regolata dal
 principio di proporzione. Cio' varrebbe per le misure cautelari  come
 per  le  vere  e proprie sanzioni, come emergerebbe dalla circostanza
 che alcune pronunce di questo filone (in particolare le  sentenze  n.
 40  del  1990  e  n. 239 del 1996) si riferiscono a misure cautelari.
 D'altro canto, prosegue la  parte,  la  distinzione  fra  sanzioni  e
 misure   cautelari   sarebbe  opinabile  e  comunque  irrilevante  in
 fattispecie come la presente: nella legislazione sul pubblico impiego
 non vi sarebbe una differenziazione netta fra sospensione cautelare e
 sospensione dalla qualifica come misura sanzionatoria, tanto e'  vero
 che  quando  viene  inflitta  tale sanzione il periodo di sospensione
 cautelare e' computato nella sanzione. Si tratterebbe pur  sempre,  a
 parte  subiecti,  di misure afflittive, sanzionatorie quoad effectum.
 Lo Stato potrebbe bensi' difendersi nei confronti delle infiltrazioni
 della criminalita' organizzata,  ma  non  al  prezzo  del  sacrificio
 irrimediabile  e  non  proporzionato  di diritti costituzionali, come
 nella specie il diritto di accesso ai pubblici uffici e  la  liberta'
 di  insegnamento.  La  sospensione sarebbe di per se' eccessiva e non
 proporzionata nei riguardi dei docenti universitari, che non svolgono
 attivita' suscettibili di mettere in  pericolo  l'interesse  pubblico
 alla  protezione  dell'ordine  e  della sicurezza: tanto piu' quando,
 come  nella  specie,  il  procedimento  penale  da  cui  consegue  la
 sospensione attiene a presunti reati commessi nell'esercizio non gia'
 dell'attivita'  di  professore,  ma  dell'attivita'  di avvocato, del
 tutto  separata  dalla  prima.  Cosi'  che,  per  rimediare  a   tale
 irragionevolezza,  ove  non  si  addivenisse  alla  dichiarazione  di
 illegittimita' costituzionale "secca" della norma, non resterebbe che
 interpretarla in conformita' alla Costituzione,  ritenendo  che  essa
 non si applichi quando i fatti contestati non attengano all'attivita'
 di  pubblico  funzionario, ovvero dichiararla illegittima nella parte
 in cui prevede l'irrogazione  di  misure  afflittive  per  fatti  non
 attinenti  alle  pubbliche  funzioni  dell'interessato,  ovvero nella
 parte in cui non prevede che l'amministrazione compia un accertamento
 in concreto del collegamento fra  fatti  contestati  e  attivita'  di
 pubblico  funzionario.  La sospensione del professore inciderebbe poi
 sull'elettorato passivo ai fini delle cariche elettive universitarie,
 onde varrebbe anche la ratio decidendi della sentenza n. 141 del 1996
 che ha dichiarato illegittima la norma sulla "incandidabilita'"  alle
 cariche  elettive  per effetto del rinvio a giudizio o della condanna
 non  definitiva  per  determinati  reati.    Ulteriore  elemento   di
 irragionevolezza  della disciplina denunciata sarebbe il collegamento
 della misura  cautelare  alla  mera  sottoposizione  al  procedimento
 penale:  il  rinvio  a  giudizio sarebbe infatti mero atto di impulso
 processuale, che prescinde da un apprezzamento di merito  secondo  un
 canone,  sia  pure prognostico, di colpevolezza.  L'automatismo della
 sospensione contraddirebbe poi con i principi di  proporzionalita'  e
 di  non  eccessivita'  delle  misure afflittive.   Stante l'autonomia
 reciproca  fra  giudizio  penale  e   giudizio   disciplinare,   solo
 quest'ultimo  sarebbe  la  sede  naturale  perche'  si  assicurino la
 gradualita' e  l'adeguatezza  delle  misure,  anche  non  formalmente
 sanzionatorie,  ma  comunque  sostanzialmente  afflittive.   Sotto il
 profilo della irrazionalita' interna  della  disciplina,  apparirebbe
 paradossale  la  previsione  dell'automatismo della misura cautelare,
 quando poi non vi e' automatismo nel caso di condanna definitiva.  In
 ordine  alla  violazione  dell'art.  97  della Costituzione, la parte
 osserva  che  il  pregiudizio  derivante  dal  mancato  rispetto  del
 principio di proporzione e' anche quello subito dall'amministrazione,
 privata  di  forze  lavorative  anche  ove,  in ipotesi, cio' non sia
 necessario.  Ribadite infine le censure di violazione  del  principio
 di  presunzione  di  non  colpevolezza,  di violazione del diritto di
 difesa, anche sotto il profilo della tutelabilita'  delle  situazioni
 soggettive  nel  processo amministrativo (poiche' l'automatismo della
 misura toglierebbe senso al ricorso al giudice amministrativo), e  di
 violazione  degli  artt.    4,  35  e 36 della Costituzione, la parte
 conclude  avanzando,  in  subordine  rispetto   alla   richiesta   di
 accoglimento della questione, quella di una pronuncia interpretativa,
 nel  senso  che la sospensione cautelare non possa essere inflitta al
 pubblico  funzionario  in  conseguenza  di  un  procedimento   penale
 relativo  a  fatti  non  connessi  all'esercizio  delle sue pubbliche
 funzioni.
                         Considerato in diritto
   1. -  E' messa in dubbio la legittimita'  costituzionale  dell'art.
 15,  comma  4-septies  della  legge  19  marzo  1990,  n.  55  (Nuove
 disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo  mafioso  e
 di  altre  gravi  forme  di manifestazione di pericolosita' sociale),
 come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme
 in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali).
 La disposizione impugnata dispone che si faccia luogo alla "immediata
 sospensione"  dalla  funzione  o  dall'ufficio  nei   confronti   dei
 dipendenti  delle  amministrazioni  pubbliche "qualora ricorra alcuna
 delle condizioni di cui alle lettere a), b), c), d),  e)  ed  f)  del
 comma  1"  del  medesimo  articolo:  condizioni  che  si  sostanziano
 nell'aver riportato condanna, anche non definitiva,  per  determinati
 delitti  di  criminalita' organizzata (associazione per delinquere di
 stampo mafioso, associazione  finalizzata  al  traffico  illecito  di
 sostanze  stupefacenti  e  altri  delitti  connessi a detto traffico,
 nonche' al traffico di armi, favoreggiamento  personale  o  reale  in
 relazione  a taluno dei predetti reati: lettera a), o per determinati
 delitti  contro  la  pubblica  amministrazione  (lettera  b),  ovvero
 condanna confermata in appello per altri delitti commessi con abuso o
 violazione  dei doveri inerenti ad una pubblica funzione (lettera c),
 ovvero a determinate pene per qualsiasi delitto non colposo  (lettera
 d);  nell'essere  sottoposto  a procedimento penale, quando sia stato
 disposto il rinvio a giudizio o la presentazione o  la  citazione  in
 udienza  per il giudizio per i delitti di criminalita' organizzata di
 cui alla lettera a (lettera e);  nell'essere  sottoposto,  anche  con
 provvedimento  non  definitivo,  a  misura  di  prevenzione in quanto
 indiziato di  appartenere  ad  una  associazione  di  stampo  mafioso
 (lettera f).
   Ancorche'  il  comma  4-septies  rinvii a tutte le disposizioni del
 comma 1, la questione deve intendersi circoscritta - sia in forza dei
 limiti in cui sussiste la  rilevanza  nel  giudizio  a  quo,  sia  in
 ragione  degli argomenti specificamente addotti dal remittente - alla
 sola ipotesi, riferita alla lettera e di sospensione  conseguente  al
 rinvio  a  giudizio (o alle circostanze equivalenti) per i delitti di
 cui alla lettera a del medesimo comma 1.  Di piu', la  Corte  non  e'
 chiamata,   nel   presente  giudizio,  a  valutare  singolarmente  le
 specifiche  ipotesi  delittuose contemplate dalla lettera a, sotto il
 profilo dell'adeguatezza o della proporzione fra ciascuna di  esse  e
 la  misura  disposta  dal  comma  4-septies  ma  solo  a giudicare se
 contrasti  di  per  se'  con  la  Costituzione  la  previsione  della
 sospensione "obbligatoria" dalla funzione o dall'ufficio collegata al
 rinvio   a  giudizio  per  i  delitti  di  cui  a  detta  lettera  a,
 complessivamente considerati.
   I parametri invocati dal  remittente  sono  molteplici,  e  possono
 essere raggruppati nei seguenti profili:
     a) la sospensione "obbligatoria" contrasterebbe con i principi di
 ragionevolezza  e  di  proporzionalita',  desunti  dall'art.  3 della
 Costituzione, nonche' con i  principi  di  imparzialita'  e  di  buon
 andamento  dell'amministrazione  di  cui  all'art.  97, per il rigido
 automatismo che la caratterizza, e che esclude ogni  possibilita'  di
 apprezzamento  in  concreto,  da  parte  dell'amministrazione,  della
 adeguatezza della misura al caso, sia sotto il profilo della gravita'
 del reato e della sua connessione  con  la  funzione,  sia  sotto  il
 profilo  del  pregiudizio  che  potrebbe derivare, dalla sospensione,
 alla stessa amministrazione;
     b) la sospensione "automatica" collegata  al  semplice  rinvio  a
 giudizio  farebbe  assumere  alla  misura  il carattere di una vera e
 propria sanzione anticipata, in contrasto con la presunzione  di  non
 colpevolezza  di  cui all'art. 27, secondo comma, della Costituzione,
 nonche' con i diritti del lavoratore di cui agli articoli 4, 35 e  36
 della Costituzione;
     c)  l'automatismo  denunciato  contrasterebbe altresi' con l'art.
 24 della Costituzione, in quanto sarebbe sottratta all'interessato la
 possibilita' di far valere concretamente le proprie ragioni, in  sede
 amministrativa  (e di giurisdizione amministrativa), contro la misura
 sospensiva.
   2. - La questione non e' fondata nei termini di seguito precisati.
    L'art. 15 della legge n. 55 del 1990, nel  suo  testo  originario,
 prevedeva,  nel  quadro  di  una  serie di misure normative dirette a
 rafforzare la prevenzione  della  delinquenza  di  tipo  mafioso,  la
 sospensione  dall'ufficio dei componenti degli organi esecutivi delle
 Regioni e degli enti locali rinviati a giudizio  per  il  delitto  di
 associazione  per  delinquere  di  stampo  mafioso  o  per  quello di
 favoreggiamento in  relazione  ad  esso,  nonche'  la  decadenza  dei
 medesimi  a  seguito  del  passaggio  in  giudicato della sentenza di
 condanna.
   Con la legge n. 16 del 1992 si sono estese  le  ipotesi  delittuose
 cui  si collegano la sospensione, volta a volta in connessione con il
 rinvio a giudizio o con la condanna  di  primo  grado  o  con  quella
 confermata in appello, e la decadenza nel caso di condanna passata in
 giudicato;  si  e'  estesa  la  disciplina,  da  un lato, a tutti gli
 amministratori elettivi, sancendo per  questi  la  "incandidabilita'"
 ove le condizioni contemplate sussistessero al momento dell'elezione,
 dall'altro  lato ai dipendenti delle amministrazioni (non solo quelle
 regionali e locali, secondo l'interpretazione accolta anche da questa
 Corte:  sentenza  n.  184  del  1994),  prevedendo   la   sospensione
 "obbligatoria"  di  cui  e' giudizio, nonche' la decadenza in caso di
 condanna  definitiva.    Questa  Corte  e'  stata  chiamata  in  piu'
 occasioni  a  scrutinare  la  legittimita'  costituzionale di singoli
 aspetti di tale tessuto normativo.
   A parte la sentenza n. 407 del 1992, nella quale furono esaminate e
 respinte  le  censure  mosse  alla  novella  del 1992 dalla Provincia
 autonoma di Trento sotto il profilo della violazione della  autonomia
 provinciale, si sono succedute nel tempo la sentenza n. 197 del 1993,
 che  dichiaro'  la  illegittimita'  costituzionale del comma 4-octies
 dell'art. 15 in esame, relativo  alla  destituzione  di  diritto  dei
 dipendenti  condannati con sentenza definitiva, censurato perche' non
 consentiva la necessaria adeguatezza e gradualita' sanzionatoria,  in
 rapporto  al  caso concreto, attraverso il procedimento disciplinare;
 la sentenza n. 184 del 1994 (seguita dalle ordinanze n. 370 e n.  428
 del 1994), in cui la Corte giudico' non fondata la  questione  allora
 sollevata  nei riguardi della stessa disposizione qui censurata, vale
 a  dire  il  comma  4-septies   dell'art.   15,   sotto   i   profili
 dell'assimilazione  del  trattamento dei dipendenti e di quello degli
 amministratori  elettivi,  della  presunta  (e  negata  dalla  Corte)
 disparita'  di trattamento fra dipendenti di enti locali e dipendenti
 dello  Stato,   e   della   sottrazione   all'amministrazione   della
 valutazione  in  concreto sulla convenienza della sospensione; infine
 la  sentenza  n.  141  del  1996,  con  la  quale  fu  dichiarata  la
 illegittimita'  costituzionale  del  comma  1  dell'art.    15  sulla
 "incandidabilita'" alle elezioni regionali e locali di coloro che  si
 trovino nelle condizioni ivi previste, ritenuta incompatibile con gli
 articoli  2,  3  e  51  della Costituzione per la sproporzione fra la
 misura stessa, comportante l'esclusione dall'elettorato passivo, e  i
 valori  tutelati.   La norma ora censurata non comporta la privazione
 della capacita' di accesso a uffici o  cariche  pubbliche,  come  nel
 caso deciso con la sentenza n. 141 del 1996: ne' puo' condividersi il
 richiamo  della  parte  privata  a  quella  ratio decidendi, sotto il
 profilo della perdita da  parte  del  docente  universitario  sospeso
 della  eleggibilita' alle cariche elettive universitarie, poiche' - a
 parte l'assenza dell'art.   51 della  Costituzione  tra  i  parametri
 invocati  nel presente giudizio - sta di fatto che si tratta, semmai,
 di una eleggibilita' condizionata alla titolarita' dell'ufficio,  cui
 la  sospensione  si riferisce. Non comporta nemmeno l'applicazione di
 una misura destitutiva conseguente ad una  accertata  responsabilita'
 penale,  come  nel  caso deciso con la sentenza n. 197 del 1993. Essa
 configura invece una tipica misura cautelare, collegata alla pendenza
 di un'accusa penale  nei  confronti  del  funzionario  pubblico:  una
 misura  fondamentalmente  simile a quella che in via generale prevede
 l'art. 91, primo comma, del d.P.R. n.  3 del 1957  sotto  la  rubrica
 "Sospensione   cautelare   obbligatoria",  anche  se  in  realta'  la
 sospensione ivi disciplinata deve essere  obbligatoriamente  disposta
 solo   nel  caso  in  cui  l'impiegato  sia  colpito  da  una  misura
 restrittiva della liberta', mentre negli altri casi essa puo'  essere
 disposta "quando la natura del reato sia particolarmente grave".
   Ed  infatti  la sostanziale novita' introdotta dalla disciplina qui
 esaminata, che fonda le censure di illegittimita' costituzionale,  e'
 proprio  il  carattere  obbligatorio della sospensione, in dipendenza
 non  gia'  di  una  circostanza,  come  la  presenza  di  una  misura
 restrittiva  della  liberta'  personale,  che di per se' impedisce la
 normale  prosecuzione  dell'esercizio   delle   funzioni   da   parte
 dell'impiegato, ma della sola pendenza del procedimento penale.
   3.  -  La natura cautelare della misura prevista comporta, in primo
 luogo, che, ai fini dello scrutinio di  legittimita'  costituzionale,
 non  si possa, direttamente, mettere in gioco il parametro costituito
 dal principio di presunzione di non colpevolezza  dell'imputato  fino
 alla  condanna  definitiva,  di cui all'art. 27, secondo comma, della
 Costituzione. Le misure cautelari, infatti, operano  per  definizione
 prima  dell'accertamento  definitivo  della colpevolezza in ordine ai
 reati a cui esse pure talora (come nella  specie)  si  collegano.  La
 presunzione  di  non  colpevolezza  potrebbe essere chiamata in causa
 solo indirettamente, in quanto la misura, per  i  suoi  caratteri  di
 irragionevolezza  assoluta  o  di  sproporzione o di eccesso rispetto
 alla funzione cautelare, dovesse in realta' apparire,  non  come  una
 cautela  ma  come  una sorta di sanzione anticipata, conseguente alla
 commissione del reato: essendo  criterio  costituzionalmente  imposto
 quello  secondo  cui  una  misura  siffatta, incidendo su diritti, in
 tanto si giustifica in quanto sia  disposta  "in  base  ad  effettive
 esigenze  cautelari",  sia "congrua e proporzionata rispetto a queste
 ultime", e non abbia "presupposti di tale  indeterminata  ampiezza  e
 caratteristiche  di  tale  automatismo" da trasformarsi in una vera e
 propria sanzione anticipata (sentenza n. 239 del 1996).
   Cosi', pure, i parametri costituiti dal diritto  al  lavoro  e  dai
 diritti  del  lavoratore  (artt.  4,  35  e  36  della  Costituzione)
 potrebbero  venire  in  considerazione,  ancora   una   volta,   solo
 indirettamente,  nel  caso in cui risultasse che l'incongruita' della
 misura rispetto alle esigenze cautelari (di per se'  suscettibili  di
 condurre,  nell'ambito  di un bilanciamento non irragionevole, ad una
 temporanea  compressione  di  altri  diritti)  la  rendesse  tale  da
 restringere   quei   diritti   senza   una   ragione  giustificatrice
 sufficiente.
   4. - E' necessario, dunque,  verificare  quali  siano  le  esigenze
 cautelari cui risponde la misura in questione, per valutare poi, alla
 luce  del  principio  di ragionevolezza, se essa si presenti come non
 incongrua, e quindi costituzionalmente  non  intollerabile,  rispetto
 alle  esigenze medesime.   E' evidente, in primo luogo, che si tratta
 di esigenze cautelari  di  natura  tutt'affatto  diversa  rispetto  a
 quelle  che  costituiscono  il fondamento delle misure adottabili dal
 giudice nel corso del procedimento  penale,  ancorche'  il  contenuto
 della  misura possa per avventura coincidere (e' il caso della misura
 interdittiva della sospensione dall'esercizio di un pubblico  ufficio
 o  servizio,  disciplinata  dall'art.  289 cod.   proc. pen.). Queste
 ultime, infatti, sono finalizzate agli scopi  del  processo  e  della
 prevenzione  di  nuovi  reati,  e  per  questo  sono  assoggettate  a
 condizioni connesse a tali scopi (cfr. art.  273  e  274  cod.  proc.
 pen.)  e  sono  affidate  al giudice. La misura in questione, invece,
 risponde ad esigenze proprie della funzione  amministrativa  e  della
 pubblica  amministrazione  presso  cui  il  soggetto  colpito  presta
 servizio:  logicamente,  dunque,  essa  e'  svincolata  da   esigenze
 processuali  e  da  finalita' di prevenzione speciale, ed e' disposta
 con un provvedimento dell'amministrazione, sia  pure,  nella  specie,
 vincolato  dalla  legge  (e  sottoposto,  com'e'  ovvio,  a controllo
 giurisdizionale per quanto riguarda la sua rispondenza ai presupposti
 legalmente  stabiliti).    L'esigenza  cautelare  e'  qui   collegata
 all'accusa  penale  solo  in  quanto e' la pendenza dell'accusa, come
 tale, che mette in pericolo interessi  connessi  all'amministrazione,
 che  la  espone  cioe' ad un pregiudizio direttamente derivante dalla
 permanenza  dell'impiegato  nell'ufficio.  Il  pregiudizio  possibile
 concerne in particolare la "credibilita'" dell'amministrazione presso
 il pubblico,  cioe'  il  rapporto  di  fiducia  dei  cittadini  verso
 l'istituzione,  che  puo'  rischiare di essere incrinato dall'"ombra"
 gravante su di essa a causa dell'accusa da cui e' colpita una persona
 attraverso la quale l'istituzione stessa opera.
   Si tratta certamente, in linea di principio, di un interesse  della
 collettivita'   meritevole   di   protezione   dal   punto  di  vista
 costituzionale, essendo riconducibile al principio di buon  andamento
 dell'amministrazione (art. 97, primo comma, della Costituzione), e in
 definitiva al rapporto "politico" che lega gli utenti e i destinatari
 dell'attivita'   amministrativa  a  coloro  che,  occupando  pubblici
 uffici, hanno il dovere  di  adempiere  le  funzioni  pubbliche  loro
 affidate  "con  disciplina  ed onore" (art.  54, secondo comma, della
 Costituzione), ponendosi "al servizio esclusivo della Nazione"  (art.
 98, primo comma, della Costituzione).
   5.  -  E'  rispetto  alla  presenza  e  alla  consistenza di questa
 esigenza di protezione dell'interesse pubblico, e alla ragionevolezza
 del bilanciamento operato dal legislatore  fra  siffatta  esigenza  e
 quella di tutela dei diritti compressi dalla misura cautelare, che va
 verificata la congruenza della misura.
   Si  comprende,  allora, in primo luogo, come la misura cautelare in
 tanto   si   giustifichi,   come   volta   a    tutelare    interessi
 "amministrativi",  in  quanto incide solo sui diritti del singolo che
 afferiscono direttamente al rapporto  di  servizio  con  la  pubblica
 amministrazione (lo jus ad officium e gli jura in officio).
   Si  comprende,  ancora, come non venga in diretta considerazione, a
 questo riguardo, la maggiore o  minore  probabilita'  che  l'imputato
 risulti  colpevole del reato ascrittogli, e dunque il requisito della
 gravita' degli indizi di colpevolezza, che  condiziona  invece,  alla
 radice,  le  misure  cautelari  demandate  al  giudice  dal codice di
 procedura penale (art. 273, comma 1): ma solo l'esistenza o meno  del
 periculum   in   mora   derivante   dalla   permanenza   nell'ufficio
 dell'impiegato accusato nonostante la  pendenza  dell'accusa,  e  nel
 periodo che precede la verifica di questa in sede penale.
   Non  a  caso,  ai fini dell'applicazione della misura (sotto questo
 profilo assimilabile) della sospensione di cui all'art. 91 del d.P.R.
 n. 3 del 1957, rileva che "la natura del  reato  sia  particolarmente
 grave",  e  non  la  gravita'  degli  indizi  da  cui  l'imputato sia
 raggiunto.      Ne',   del   resto,   si   potrebbe    pensare    che
 l'amministrazione,  chiamata  ad  apprezzare  l'esigenza  di cautela,
 formuli prognosi di colpevolezza o  meno,  sostituendosi  al  giudice
 penale.
   Naturalmente,   cio'   non  significa  che  qualsiasi  sospetto  di
 commissione  di  un  reato  grave   possa   legittimamente   condurre
 all'adozione  di  misure siffatte. Non realizzerebbe un bilanciamento
 ragionevole una previsione che, sulla base  di  un'accusa  dotata  di
 minima  consistenza  (come  potrebbe  essere  quella derivante da una
 semplice denuncia o dalla semplice apertura di indagini preliminari),
 facesse discendere una conseguenza pur sempre  cosi'  grave  come  la
 sospensione  dall'ufficio  o  dalla funzione.   Ma il requisito della
 consistenza dell'accusa va commisurato,  in  questo  caso,  non  alla
 situazione  concreta - rispetto alla quale l'amministrazione, come si
 e' detto, non potrebbe esprimere valutazioni  pertinenti  -  ma  alla
 astratta  previsione degli elementi idonei a rendere l'accusa tale da
 poter essere ritenuta fornita, appunto,  del  minimo  di  consistenza
 necessario per giustificare la misura cautelare.
   6.  -  Cio'  chiarito,  i  quesiti a cui questa Corte e' chiamata a
 rispondere dalle argomentazioni, non certo prive di consistenza,  del
 remittente e della parte privata, si riducono ai due seguenti:
     a)  se  sia  legittimo  che  il  legislatore  disponga  la misura
 sospensiva  come  obbligatoria  al   verificarsi   delle   condizioni
 stabilite,  anziche'  affidare alla amministrazione la valutazione in
 concreto,  caso  per  caso,  della  sua  opportunita'  e  della   sua
 rispondenza all'interesse pubblico;
     b)  se  sia  legittimo  che  si  preveda  l'adozione della misura
 sospensiva in presenza del semplice rinvio a giudizio dell'impiegato,
 e non di una condanna, ancorche' non definitiva.
   Quanto al primo problema, non viene in considerazione qui la  ratio
 che  ha  condotto  questa  Corte,  in numerose occasioni, a negare la
 legittimita' costituzionale di norme che  prevedevano  l'applicazione
 di  diritto,  o  automatica,  di  sanzioni  destitutive  a seguito di
 determinate   condanne   penali    definitive,    senza    consentire
 all'amministrazione  una  graduazione  in relazione all'apprezzamento
 concreto del fatto per il quale  e'  intervenuta  la  condanna  (cfr.
 sentenze n. 971 del 1988, n. 16 del 1991, n. 197 del 1993, n. 363 del
 1996).  Nel  caso in esame, infatti, non trattandosi di una sanzione,
 ma di una misura cautelare, l'esigenza  di  proporzionalita'  non  si
 pone rispetto al fatto commesso costituente reato, bensi' rispetto al
 pregiudizio   derivante   all'interesse   pubblico  dalla  permanenza
 dell'impiegato  nell'ufficio  nonostante  la   pendenza   dell'accusa
 penale, non ancora accertata: non si prospetta quindi una esigenza di
 "graduazione"  della  misura in relazione al fatto, ma di adeguatezza
 della stessa rispetto all'esigenza cautelare.
   Vero e', invece, che la  misura  deve  risultare  congrua  rispetto
 all'effettivita'  e  alla  consistenza dell'esigenza cautelare che la
 fonda, in rapporto alla gravita' dell'accusa, al nesso di questa  con
 le  funzioni  pubbliche  svolte  dall'impiegato,  alla  natura  delle
 funzioni medesime, nonche' al bilanciamento con l'eventuale interesse
 dell'amministrazione   a   continuare   ad    avvalersi    dell'opera
 dell'impiegato nonostante la pendenza dell'accusa.
   7. - Trattandosi della valutazione di interessi strettamente legati
 all'attivita'  amministrativa, non v'e' dubbio che, in via ordinaria,
 debba  essere  la  stessa  amministrazione  a  compiere  il  relativo
 apprezzamento, con riguardo alle caratteristiche del caso concreto.
   Tuttavia  non  si puo' negare al legislatore, nell'esercizio di una
 non  irragionevole  discrezionalita',  la  facolta'  di  identificare
 ipotesi  circoscritte  nelle  quali l'esigenza cautelare che fonda la
 sospensione e' apprezzata in via generale ed  astratta  dalla  stessa
 legge   (compiendosi   dunque  per  legge  quella  valutazione  della
 particolare gravita' della "natura  del  reato"  che  normalmente  e'
 affidata all'amministrazione in sede di adozione del provvedimento di
 sospensione  ai sensi dell'art.  91, primo comma, del d.P.R. n. 3 del
 1957);  e  parimenti  e'  stabilito  in  via  generale  l'ambito   di
 applicazione  della  misura  in  relazione ai soggetti e al nesso fra
 l'accusa e le funzioni pubbliche, ed  e'  apprezzata  sempre  in  via
 generale  l'opportunita'  di  far  prevalere  l'esigenza cautelare su
 altri eventuali interessi contrari della stessa amministrazione.
   Sotto quest'ultimo profilo, deve escludersi anche che la previsione
 legislativa  di  una  sospensione  obbligatoria  violi  di per se' il
 principio di buon andamento dell'amministrazione di cui  all'art.  97
 della  Costituzione,  come  non  lo  viola  di  per  se'  ogni scelta
 legislativa diretta a  vincolare  l'operato  dell'amministrazione  in
 rapporto a determinati presupposti normativamente stabiliti.
   Le  precisazioni  svolte  circa  la  natura  cautelare della misura
 consentono anche di superare la censura fondata su quella che  appare
 una contraddizione, e cioe' che lo stesso delitto, la cui imputazione
 conduce  alla  sospensione  obbligatoria  dell'impiegato,  una  volta
 intervenuta  la  condanna  definitiva  non  comporta  piu'  (dopo  la
 dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale dell'art. 15, comma
 4-octies in relazione al comma 4-quinquies della stessa legge  n.  55
 del  1990:  sentenza  n.  197 del 1993) la destituzione di diritto ma
 solo, eventualmente, la destituzione decisa in sede disciplinare.
   In realta' non si tratta di una contraddizione. Dopo il  definitivo
 accertamento   della   responsabilita'   penale,   con   la  connessa
 applicazione delle sanzioni penali (che possono, o  meno,  comportare
 anche  la perdita della capacita' di ricoprire l'ufficio), vi e' solo
 da verificare in concreto se e quali conseguenze debbano discenderne,
 in sede disciplinare, sul rapporto di servizio.  La  vicenda  e'  per
 cosi'  dire  chiusa  con tutte le conseguenze che per legge saranno o
 potranno essere fatte discendere  da  essa,  e  che  dovranno  essere
 adeguate   al   fatto  come  definitivamente  accertato;  mentre  non
 sussistono piu', per definizione,  esigenze  di  tipo  cautelare.  Al
 contrario, quando pende l'accusa, e fino alla condanna definitiva, il
 reato  non  puo', come tale, produrre alcuna conseguenza sul rapporto
 di servizio (salve le eventuali misure  cautelari  adottate  in  sede
 giudiziale),  e  sussistono  invece,  o  possono sussistere, esigenze
 cautelari che si collegano, appunto, alla  pendenza  dell'accusa  non
 ancora  definitivamente verificata. Non e' di per se' contraddittorio
 che  siano  diversi  i  regimi  cui  sono  sottoposti,  da  un  lato,
 l'apprezzamento  di tali esigenze cautelari in vista di provvedimenti
 provvisori,  dall'altro  l'adozione  dei   provvedimenti   definitivi
 conseguenti al fatto, e che investono il rapporto di servizio.
   8.  -  Venendo  ora  allo  scrutinio di ragionevolezza della scelta
 legislativa censurata in questa sede, si deve osservare che i delitti
 per i quali  l'art.  15  della  legge  n.  55  del  1990  prevede  la
 sospensione  obbligatoria  vuoi  a seguito di condanna non definitiva
 (lettera a), vuoi a  seguito  di  rinvio  a  giudizio  dell'impiegato
 (lettera  e),  sono  qualificati  non  tanto  dalla  loro gravita' in
 relazione al "valore"  del  bene  offeso  o  all'entita'  della  pena
 comminata  dalla  legge,  quanto  da  una caratteristica che tutti li
 accomuna:  di  essere  cioe'  delitti  di  criminalita'   organizzata
 (associazione   per   delinquere   di  stampo  mafioso,  traffico  di
 stupefacenti, traffico di armi,  favoreggiamento  in  relazione  agli
 stessi  reati). Si tratta cioe' di delitti per i quali la sussistenza
 di un'accusa a carico di pubblici impiegati fa sorgere immediatamente
 il sospetto di un inquinamento dell'apparato  pubblico  da  parte  di
 quelle  organizzazioni  criminali, la cui pericolosita' sociale va al
 di la' della gravita' dei singoli  delitti  che  vengono  commessi  o
 contestati.
   Non  a  caso  la  norma impugnata e' contenuta in una legge recante
 disposizioni "per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso  e
 di  altre gravi forme di manifestazione di pericolosita' sociale"; e'
 inserita nel contesto del capo  II  di  tale  legge,  contenente  fra
 l'altro disposizioni "a tutela della trasparenza dell'attivita' delle
 regioni  e  degli  enti  locali";  ed  e' accompagnata da norme sullo
 scioglimento delle amministrazioni locali nei casi  in  cui  emergano
 "elementi  su  collegamenti  diretti o indiretti degli amministratori
 con la criminalita' organizzata o su forme di  condizionamento  degli
 amministratori  stessi,  che  compromettono  la libera determinazione
 degli organi elettivi  e  il  buon  andamento  delle  amministrazioni
 comunali e provinciali, nonche' il regolare funzionamento dei servizi
 alle  stesse  affidati  ovvero che risultano tali da arrecare grave e
 perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza  pubblica"  (art.
 15-bis   comma   1,   della   legge  n.  55  del  1990  e  successive
 modificazioni), o che prevedono interventi di controllo e sostitutivi
 quando si ritenga che "esistano tentativi di  infiltrazioni  di  tipo
 mafioso"  nelle  attivita'  riguardanti  appalti  di  opere  e lavori
 pubblici (art. 16, comma 1, della stessa legge).
   Il legislatore ha introdotto in questo contesto norme, come  quella
 impugnata,  che riguardano non gli amministratori elettivi, ma coloro
 che   prestano   servizio   professionale   presso    le    pubbliche
 amministrazioni,  non  solo  locali:  ma la ratio e' sempre quella di
 prevenire   e   combattere   i   pericoli   di   inquinamento   delle
 amministrazioni  da  parte  delle  organizzazioni criminali, cioe' di
 salvaguardare "interessi fondamentali dello Stato",  suscettibili  di
 essere  compromessi  anche  in  relazione alla posizione dei soggetti
 legati  alla  pubblica  amministrazione  da  rapporto   di   servizio
 professionale (sentenza n. 184 del 1994).
   E'   in   relazione   alla   specificita'  di  siffatti  rischi  di
 inquinamento degli apparati  amministrativi,  e  alla  necessita'  di
 troncare  anche  visibilmente  ogni  legame  che  possa  far apparire
 l'amministrazione, agli occhi del pubblico, come non immune  da  tali
 infiltrazioni  criminali, che si puo' giustificare la scelta drastica
 di considerare incompatibile con l'interesse pubblico  la  permanenza
 nell'ufficio  o nella funzione di persone sulle quali gravi un'accusa
 per questo tipo di delitti; operando per  legge  e  in  via  generale
 l'apprezzamento dell'esigenza cautelare, e cosi' sottraendo la stessa
 amministrazione  ai  rischi  di  condizionamenti  diretti o indiretti
 derivanti dalla stessa presenza delle organizzazioni  criminali,  che
 potrebbero alterarne le valutazioni.
   9.  -  Alla  luce  di  queste considerazioni, si palesano infondati
 anche  i  dubbi  prospettati  circa  la  rigidita'  di   una   scelta
 legislativa  che  non distingue e non permette di distinguere caso da
 caso in relazione alla natura delle mansioni svolte dall'impiegato  e
 alla  sussistenza  o  meno  di un nesso fra la funzione pubblica e il
 fatto di reato a lui contestato.
   Sotto il primo  profilo,  il  pregiudizio  derivante  all'interesse
 pubblico  dalla  permanenza  dell'impiegato  nell'ufficio  non deriva
 tanto dal rischio di una distorsione nell'esercizio  della  specifica
 funzione  a  cui  egli  e'  assegnato  (rischio  al quale si potrebbe
 ovviare  con  misure  cautelari  specifiche  intese  a  prevenire  la
 commissione  di  nuovi  reati,  o con misure organizzative di diverso
 tipo, quali ad esempio il trasferimento dell'impiegato ad altra  sede
 o  ad  altro  ufficio  o  ad  altra mansione), quanto dal sospetto di
 inquinamento  degli  apparati,  che grava indipendentemente dal ruolo
 specifico che l'impiegato riveste nell'amministrazione: senza dire  -
 con  riguardo alla situazione specifica oggetto del giudizio a quo, e
 sulla quale la parte privata sofferma talune delle sue argomentazioni
 - che la permanenza nell'ufficio di dipendenti con  mansioni  di  per
 se'  non  "a  rischio"  di  inquinamento,  come  l'insegnamento, puo'
 nuocere all'interesse pubblico quanto la permanenza di impiegati  con
 diverse  funzioni,  se  non  altro per l'autorita' "morale" legata al
 pubblico esercizio della funzione docente.
   Sotto il secondo profilo, i delitti qui considerati, e  qualificati
 dal  collegamento  con  la  criminalita' organizzata, sono di per se'
 estranei  alla  funzione  pubblica,   ma   esprimono   un   tipo   di
 pericolosita' sociale che, per le ragioni esposte, e' suscettibile di
 mettere  a  repentaglio  l'amministrazione  in  quanto  tale e il suo
 rapporto   con   i   cittadini:   onde   puo'    giustificarsi    che
 nell'apprezzamento  compiuto  dal legislatore non si sia dato rilievo
 al nesso fra l'accusa e la pubblica funzione svolta dal dipendente.
   10.  -  Una  volta  ammessa  la  legittimita'  di  una  sospensione
 obbligatoria in relazione alle circostanze specifiche individuate dal
 legislatore, non puo' riconoscersi fondamento nemmeno alla censura di
 violazione  del  diritto  alla  difesa,  di  cui all'art. 24, secondo
 comma, della Costituzione.
   La sospensione non opera, propriamente, di diritto, ma deve  essere
 disposta   con   un  provvedimento  dell'amministrazione  competente,
 ancorche' vincolato nei presupposti e nel contenuto: contro  di  esso
 l'interessato  puo'  far  valere pienamente, in sede giurisdizionale,
 proprie  eventuali  doglianze,  nonche'  far  valere  eventuali  vizi
 derivanti  dalla inesistenza dei presupposti legalmente stabiliti. Ma
 il diritto costituzionale di difesa  (come  lo  stesso  diritto  alla
 tutela   giudiziaria,   di   cui  all'art.  24,  primo  comma,  della
 Costituzione) attiene alla possibilita' effettiva di far  valere  nel
 giudizio le proprie posizioni giuridicamente protette, e non riguarda
 l'esistenza  e  il  contenuto  di queste ultime, onde non puo' essere
 invocato quando manchi la posizione di  diritto  sostanziale  di  cui
 possa  essere  chiesta  la tutela giudiziaria (cfr.  sentenze nn. 317
 del 1990, 146 del 1996, 420 del 1998; ordinanza n. 141 del 1990).
   11. - Resta da esaminare  il  secondo  problema  accennato,  quello
 cioe'  della  sufficienza  del  presupposto  del  semplice  rinvio  a
 giudizio  a  giustificare  l'adozione  di  una   misura,   anche   se
 provvisoria,    pur   sempre   gravemente   incidente   sui   diritti
 dell'impiegato, come la sospensione.
   Si e' gia' chiarito  come  non  sia  pensabile,  in  questo  campo,
 affidare  all'amministrazione  la  formulazione di prognosi di piu' o
 meno  probabile  colpevolezza,  che  solo   l'autorita'   giudiziaria
 potrebbe  effettuare:   cio' e' tanto piu' vero, quanto piu' il reato
 addebitato all'impiegato sia estraneo  all'esercizio  della  pubblica
 funzione.  Si  e'  pure  chiarito  come  si  tratti,  dunque, solo di
 valutare la proporzionalita' fra il presupposto costituito dal rinvio
 a giudizio (soggetto alla necessaria verifica giurisdizionale)  e  la
 misura cautelare prevista.
   Sotto  questo  profilo,  peraltro,  il  problema  non e' diverso da
 quello che potrebbe porsi in  ordine  all'ipotesi  della  sospensione
 cosi'  detta "obbligatoria" prevista dall'art. 91 dello statuto degli
 impiegati civili dello Stato (d.P.R. n. 3 del 1957).  Anzi,  in  quel
 caso  il  presupposto  a cui la legge condiziona la sospensione e' la
 semplice  sottoposizione  dell'impiegato  "a   procedimento   penale"
 (comunque  poi  debba  intendersi  questa  controversa  espressione);
 l'amministrazione e' chiamata  non  gia'  a  valutare  il  fondamento
 dell'accusa,  ma  solo  la  particolare  gravita'  della  "natura del
 reato": valutazione che, come si e' detto, nella specie ha  compiuto,
 non irragionevolmente, lo stesso legislatore.
   A  prescindere  dal  tipo  di  valutazione  insita  nel decreto che
 dispone il giudizio (cfr. sentenze nn. 64 e 401 del  1991;  ordinanze
 nn.  24  e  232  del 1996), l'esigenza cautelare che sta a fondamento
 della sospensione obbligatoria, e che il legislatore, con la norma in
 esame, ha non irragionevolmente considerato sussistente, si  collega,
 come  si e' chiarito, non gia' alla commissione del fatto o alla piu'
 o meno probabile colpevolezza  dell'imputato,  bensi'  alla  pendenza
 dell'accusa,    in    quanto    tale    suscettibile    di    gettare
 sull'amministrazione  un'"ombra"  di  inquinamento  da  parte   della
 criminalita'  organizzata.  Questo  tipo  di  pregiudizio si verifica
 proprio nelle more dell'accertamento giudiziario del  reato  e  della
 colpevolezza dell'accusato.
   L'unica  domanda cui si deve rispondere e' se il rinvio a giudizio,
 in  se',  e  dunque   prescindendo   necessariamente   da   possibili
 distorsioni  o eccessi che si verifichino nella pratica giudiziaria -
 e che debbono trovare altrove  il  proprio  rimedio  (non  da  ultimo
 nell'azione  di  risarcimento  nei casi di responsabilita' civile per
 danni  cagionati  nell'esercizio  delle  funzioni  giudiziarie)   sia
 sufficiente a fondare non irragionevolmente la sospensione.
   La risposta deve essere positiva, poiche' il rinvio a giudizio, che
 interviene al termine dell'indagine preliminare e comunque presuppone
 che siano stati raccolti elementi tali da precludere una pronuncia di
 insussistenza del fatto ovvero della colpevolezza o della punibilita'
 dell'imputato  (cfr. art. 425 cod. proc. pen.), consentendo dunque di
 eliminare semplici sospetti privi di riscontro  o  accuse  del  tutto
 prive  di  consistenza  comporta una valutazione del giudice vertente
 proprio sulla esistenza degli  elementi  che  rendono  necessario  il
 giudizio  per  accertare  definitivamente  il  reato.  Quanto  poi ai
 presupposti considerati dalla legge equivalenti al rinvio a giudizio,
 e consistenti nell'attivazione del giudizio direttissimo, la verifica
 giudiziale della non inconsistenza dell'accusa  e'  sostituita  dalla
 oggettivita'  delle  circostanze  che per legge consentono di passare
 immediatamente alla fase del giudizio.
   Non puo' dunque dirsi che sussista sproporzione fra questo  livello
 di consistenza dell'accusa e una misura sospensiva che mira appunto a
 tutelare   il  pubblico  interesse  dal  pregiudizio  che  la  stessa
 esistenza dell'accusa, in  quanto  tale,  produrrebbe  se  l'accusato
 permanesse nell'ufficio.
   12.  - Una misura cautelare, proprio perche' tale, e cioe' tendente
 a proteggere un interesse nell'attesa di un  successivo  accertamento
 (nella  specie  giudiziale), deve per sua natura essere contenuta nei
 limiti di durata strettamente indispensabili  per  la  protezione  di
 quell'interesse, e non deve essere tale da gravare eccessivamente sui
 diritti che essa provvisoriamente comprime. Se eccede da tali limiti,
 e'  suscettibile  di una valutazione di illegittimita' costituzionale
 per l'ingiustificato sacrificio, che essa comporta, dei  diritti  del
 singolo.
   La  disposizione denunciata non contiene alcuna espressa previsione
 circa la durata della sospensione  contemplata.  Se,  pertanto,  essa
 dovesse  intendersi  nel  senso  che  la  sospensione  dura  a  tempo
 indeterminato, fino al definitivo giudicato  sull'accusa  penale,  le
 censure  di  illegittimita'  costituzionale,  sotto  il profilo della
 violazione del criterio di proporzionalita', sarebbero fondate.
   Ma e' ben possibile una interpretazione che  non  incorra  in  tali
 censure.
   In  primo  luogo,  si  deve  ritenere  che,  al sopravvenire di una
 pronuncia, anche non definitiva,  di  non  luogo  a  procedere  o  di
 proscioglimento,  la  sospensione  debba  cessare. Infatti il comma 2
 dell'art. 15 in esame stabilisce che "le disposizioni di cui al comma
 1 non si applicano nel caso in  cui  nei  confronti  dell'interessato
 venga  emessa  sentenza,  anche  se  non  definitiva,  di non luogo a
 procedere o di proscioglimento".  E' bensi' vero che il  comma  1  si
 riferiva  solo  alla  ipotesi, ormai caduta, della "incandidabilita'"
 alle cariche elettive: ma il  rinvio  che  il  comma  4-septies,  qui
 impugnato, fa alle "condizioni di cui alle lettere a), b) c) d) e) ed
 f)  del comma 1" non puo' non intendersi esteso alla precisazione del
 comma 2, che limita la portata delle condizioni medesime. Infatti  la
 sopravvenienza della pronuncia assolutoria, anche se non esaurisce la
 vicenda  processuale, fa venir meno sostanzialmente, o almeno attenua
 fortemente, la ragione giustificatrice  della  misura  cautelare,  in
 quanto alla formale perdurante pendenza dell'accusa si contrappone un
 accertamento  giudiziario  negativo  al  quale,  fino a che non venga
 eventualmente rovesciato da una nuova pronunzia, non si puo' non dare
 prevalenza, affinche' resti ragionevole il bilanciamento fra esigenze
 di cautela e interesse del dipendente.
   Deve quindi ritenersi che anche nei confronti della sospensione  in
 questione  valga la regola, affermata dal comma 4-quater con riguardo
 alla  sospensione  degli  amministratori  elettivi,   per   cui   "la
 sospensione  cessa  nel  caso  in  cui nei confronti dell'interessato
 (...) venga emessa sentenza, anche se non passata  in  giudicato,  di
 non  luogo  a procedere, di proscioglimento o di assoluzione": con la
 sola avvertenza che, mentre per  gli  eletti,  sospesi  "di  diritto"
 (comma  4-bis),  la  cessazione  della sospensione opera anch'essa di
 diritto,   per   i   dipendenti,   sospesi   con   un   provvedimento
 (obbligatorio)  dell'amministrazione,  il sopravvenire della sentenza
 di non doversi procedere o di proscioglimento comportera'  la  revoca
 (altrettanto  obbligatoria  ed immediata) della sospensione medesima:
 salvo  un  eventuale  nuovo  provvedimento  di  sospensione  adottato
 discrezionalmente dall'amministrazione nel caso in cui ne ricorrano i
 presupposti.
   In  ogni  caso,  deve  ricordarsi  che l'art. 9, comma 2, secondo e
 terzo periodo, della legge 7 febbraio 1990, n.  19,  stabilisce  (nel
 contesto  della  disposizione  che vieta la destituzione di diritto a
 seguito di condanna penale, e prevede la possibilita'  di  infliggere
 la   destituzione   all'esito   del   procedimento  disciplinare,  da
 promuovere o proseguire, e da concludere, entro termini fissati)  che
 "quando  vi  sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa del
 procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se  non  revocata,
 per  un  periodo  di  tempo comunque non superiore ad anni cinque", e
 "decorso  tale  termine  la  sospensione  cautelare  e'  revocata  di
 diritto".
   Siffatta  clausola  di  garanzia  e' da ritenersi applicabile anche
 all'ipotesi di sospensione obbligatoria di  cui  all'art.  15,  comma
 4-septies della legge n. 55 del 1990, anch'essa ricompresa nell'ampia
 previsione  di  una  "sospensione  cautelare dal servizio a causa del
 procedimento penale". Ne' varrebbe obiettare che l'art. 9 della legge
 n. 19 del 1990, menzionando l'ipotesi che  la  sospensione  sia  gia'
 stata  revocata,  si riferisce solo a sospensioni non obbligatorie, e
 quindi revocabili. Nulla  infatti  si  oppone  ad  una  lettura  piu'
 estensiva - e costituzionalmente corretta - della norma nel senso che
 essa  ponga  un  limite  di  durata  massima  a  tutte  le  misure di
 sospensione "a causa del procedimento  penale",  e  che  la  menzione
 dell'eventuale  revoca sia fatta con riferimento solo alle ipotesi in
 cui essa puo' aver luogo.
   Un limite massimo di durata appare d'altra parte  congruo  rispetto
 al bilanciamento fra l'esigenza cautelare, che pur potrebbe protrarsi
 anche  oltre  tale  limite, e quella di non comprimere eccessivamente
 l'interesse   del    dipendente,    quando    l'accertamento    della
 responsabilita' penale si protragga nel tempo.
   Nell'ipotesi  qui  in esame, la regola per cui la sospensione viene
 meno a seguito di una sentenza, anche non definitiva, di non  doversi
 procedere  o di proscioglimento e' idonea, nella normalita' dei casi,
 ad impedire una durata eccessiva della sospensione fondata sul rinvio
 a giudizio,  poiche'  a  questo  normalmente  fa  seguito,  in  tempi
 contenuti,  almeno  la  pronuncia di primo grado, che, se affermativa
 della responsabilita', comporta una nuova causa  di  sospensione  (ai
 sensi  del  comma 4-septies in relazione alla lettera a del comma 1);
 se negativa, fa venir meno  la  sospensione  obbligatoria.  Tuttavia,
 nelle  ipotesi,  sia  pure anomale, in cui dovesse protrarsi oltre il
 quinquennio l'intervallo temporale fra il  rinvio  a  giudizio  e  la
 pronunzia   di  primo  grado,  opererebbe  la  clausola  di  garanzia
 contenuta nell'art. 9 della legge n. 19 del 1990.
   13. - Cosi' precisata la portata della norma, essa  sfugge  dunque,
 sotto ogni profilo, alle censure mosse dal giudice a quo.
                           per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
 di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 15, comma 4-septies della
 legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove  disposizioni  per  la  prevenzione
 della  delinquenza  di  tipo  mafioso  e  di  altre  gravi  forme  di
 manifestazione di pericolosita' sociale), come modificato dall'art. 1
 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia  di  elezioni  e
 nomine   presso   le  regioni  e  gli  enti  locali),  sollevata,  in
 riferimento agli articoli 3, 4, 24, secondo comma, 27, secondo comma,
 35,  36  e  97,  primo  comma,  della  Costituzione,  dal   Tribunale
 amministrativo regionale per la Sicilia con l'ordinanza in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 26 maggio 1999.
                        Il Presidente: Granata
                          Il redattore: Onida
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 3 giugno 1998.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
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