N. 28 SENTENZA 25 - 28 gennaio 2010
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Ambiente - Rifiuti - Ceneri di pirite e polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale - Previsione di appartenenza ai sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006 - Contrasto con la disciplina comunitaria e con la giurisprudenza della Corte di giustizia, che esigono in concreto l'esistenza di un rifiuto o di un sottoprodotto - Illegittimita' costituzionale in parte qua. - D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4. - Costituzione, artt. 11 e 117; direttiva n. 75/442/CEE, direttiva n. 91/156/CEE; direttiva 91/689/CEE; direttiva 94/62/CE; direttiva n. 2006/12/CE; direttiva n. 2008/98/CEE.(GU n.5 del 3-2-2010 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI; ha pronunciato la seguente
Sentenza nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente) - nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale) - promossi dal Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo, con ordinanze del 29 settembre e del 13 ottobre 2008, iscritte, rispettivamente, ai nn. 2 e 140 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4 e 20, prima serie speciale, dell'anno 2009. Visti l'atto di costituzione di P. S., nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 12 gennaio 2010 e nella camera di consiglio del 13 gennaio 2010 il giudice relatore Gaetano Silvestri; Uditi l'avvocato Giampaolo Maria Cogo per P.S. e l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza del 29 settembre 2008 il Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente) - nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale) - nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006. Dall'ordinanza indicata risulta che lo stesso rimettente, nell'ambito del medesimo giudizio a quo, aveva sollevato una questione identica a quella odierna, definita dalla Corte costituzionale con un provvedimento di restituzione degli atti in forza di variazioni normative sopravvenute (ordinanza n. 83 del 2008). L'odierno atto di promovimento riproduce, in gran parte, il testo di quello precedente. 1.1. - Il Tribunale riferisce di essere chiamato a giudicare due imputati nei cui confronti e' stato emesso decreto di citazione a giudizio per la violazione, tra l'altro, degli artt. 51, commi 1 e 5, e 51-bis del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), trasfusi rispettivamente nell'art. 256, commi 1 e 5, e nell'art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006. Il procedimento penale e' stato instaurato in relazione al sequestro preventivo, in data 22 marzo 2002, di un deposito di ceneri di pirite (in quantita' pari a circa un milione di tonnellate), sito in localita' Gambarare del Comune di Mira. Secondo l'accusa, nell'area in sequestro, di estensione pari a circa 80.000 metri quadrati, la societa' Veneta Mineraria S.p.A. (di cui uno dei due imputati risultava all'epoca legale rappresentante) e la ditta individuale appaltatrice dei lavori di movimentazione e carico delle ceneri (il cui titolare e' l'altro imputato) avrebbero effettuato attivita' di gestione di rifiuti pericolosi in assenza di autorizzazione, ovvero sulla base di un'autorizzazione scaduta, in violazione dell'art. 57 del d.lgs. n. 22 del 1997, in particolare «espletando, su tale discarica non piu' attiva, realizzata negli anni '70, la messa in riserva di tali rifiuti in vista del loro avvio a recupero presso cementifici». Inoltre, la gestione e messa in riserva delle ceneri di pirite sarebbe stata effettuata in carenza di misure precauzionali atte a tutelare l'integrita' dell'ambiente; in particolare, l'area sarebbe stata sottoposta ad attivita' di escavazione, con conseguente esposizione delle ceneri di pirite agli agenti atmosferici e al dilavamento, «senza che fossero stati adottati presidi idonei ad intercettare le acque di percolazione, dal che sarebbe derivata una grave compromissione dei terreni confinanti [...] delle falde acquifere sotterranee e dell'area lagunare circostante». Il rimettente precisa che, sempre in tesi accusatoria, gli imputati, autorizzati dalla Provincia di Venezia a «miscelare le ceneri di pirite del deposito con altro materiale sempre a base di ceneri di pirite», avrebbero eseguito dette operazioni con modalita' tali da determinare pericolo per la salute e per l'integrita' dell'ambiente - in particolare provocando una «prolungata esposizione delle ceneri al dilavamento delle acque meteoriche» - in violazione del disposto degli artt. 2, comma 2, e 9, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997. E' contestato agli imputati, inoltre, di non aver proceduto alla bonifica dei terreni circostanti la discarica dopo aver cagionato, o comunque incrementato, l'inquinamento delle predette aree. Il Tribunale di Venezia precisa infine che nel processo, ormai giunto alla fase decisoria (e' stato dichiarato chiuso il dibattimento), si sono costituiti parti civili la Provincia di Venezia, il Comune di Mira ed i proprietari di uno dei fondi confinanti con il deposito in oggetto. Tanto premesso in fatto, il giudice a quo procede ad esporre le ragioni a sostegno del sollevato dubbio di costituzionalita', a partire dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, ponendo in evidenza, in primo luogo, che il d.lgs. n. 152 del 2006, entrato in vigore il 29 aprile 2006, ha inteso tra l'altro riordinare, nella parte quarta, la materia della gestione dei rifiuti e della bonifica dei siti contaminati, con espressa abrogazione delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 22 del 1997 (cosi' l'art. 264 dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006). I fatti di reato contestati nel giudizio principale sono dunque disciplinati dal nuovo decreto legislativo: in particolare, il testo dell'art. 256, commi 1 e 5, corrisponde a quello del previgente art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, pur con una lieve modifica nella previsione delle pene pecuniarie; diversamente, la fattispecie in precedenza sanzionata dall'art. 51-bis del citato d.lgs. n. 22 del 1997, oggi prevista dall'art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006, ha subito una modifica significativa, con l'introduzione, in qualita' di elemento costitutivo del reato, del superamento delle concentrazioni soglia di rischio. Successivamente, prosegue il rimettente, in data 15 maggio 2006 e' entrata in vigore la direttiva comunitaria 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio), che sostituisce ed abroga la precedente direttiva 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti) e le successive modifiche. La nuova disciplina comunitaria, che costituisce l'attuale punto di riferimento normativo in ambito europeo per il trattamento dei rifiuti, riproduce, lasciando sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le nozioni del precedente assetto normativo. In particolare, l'art. 1, comma 1, della direttiva 2006/12/CE definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione di disfarsi o l'obbligo di disfarsi». Definizione analoga e' contenuta nella norma interna, l'art. 183, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, che qualifica come rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». Quest'ultima norma, nella versione antecedente alle modifiche apportate con il d.lgs. n. 4 del 2008, comprendeva anche le definizioni di sottoprodotto e di materia prima secondaria, le quali, come e' noto, non sono contemplate dalle direttive comunitarie. Per quanto di interesse nel procedimento in esame, il rimettente esamina la previsione contenuta nel testo originario della lettera n) del comma 1 dell'art. 183, che definiva sottoprodotto «i prodotti dell'attivita' dell'impresa che, pur non costituendo l'oggetto dell'attivita' principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo». La disposizione proseguiva prevedendo che i sottoprodotti sono sottratti alla normativa sui rifiuti a condizione che si tratti di «sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare» di «sottoprodotti impiegati direttamente dall'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa stessa direttamente per il consumo o per l'impiego, senza la necessita' di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo». Inoltre era stabilito che «l'utilizzazione del prodotto deve essere certa e non eventuale [...]. L'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attivita' produttive». Dopo aver definito in via generale la nozione di sottoprodotto, il legislatore nazionale aveva previsto, nella medesima disposizione, che «Rientrano altresi' tra i sottoprodotti non soggetti alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte al procedimento di bonifica o di ripristino ambientale». Il giudice a quo, in relazione alle definizioni appena richiamate, evidenzia i requisiti e le condizioni necessari affinche' un residuo di produzione fosse sottratto alla disciplina sui rifiuti: esso doveva provenire da attivita' di produzione (e non di consumo); doveva scaturire da tale attivita' in via continuativa (come residuo tipico di quella produzione); non doveva essere abbandonato dall'impresa (che dunque non se ne disfaceva); doveva poter essere reimpiegato direttamente, o commercializzato a condizioni economicamente vantaggiose, senza attivita' di trasformazione preliminare (che ne modificasse l'identita'); il riutilizzo del residuo in altro ciclo produttivo doveva essere certo ed effettivo (circostanza che a sua volta doveva essere attestata con dichiarazioni scritte delle imprese di «partenza» e di «destinazione»); tale riutilizzo non doveva comportare condizioni peggiorative per l'ambiente o per la salute rispetto a quelle che derivavano dalle normali attivita' produttive. Il rimettente rammenta che la richiamata nozione di sottoprodotto ha sostituito quella contenuta nell'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 8 agosto 2002, n. 178, «gia' oggetto di aspre critiche e di plurimi rilievi di sospetta incostituzionalita' per l'inopinata restrizione della nozione comunitaria di rifiuto». Tuttavia il rimettente precisa che l'odierna questione non riguarda la compatibilita' con il diritto comunitario della nozione generale di sottoprodotto introdotta dal legislatore nazionale, prima con l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 e, successivamente, in termini piu' puntuali e precisi, con il richiamato art. 183, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, bensi' la qualificazione espressa delle ceneri di pirite come sottoprodotto. E' quindi richiamata diffusamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea ed in particolare la sentenza 11 novembre 2004, in C-457/02, Niselli, in cui si ammette, in linea con i precedenti di analogo oggetto, che i materiali derivanti da processi di fabbricazione o estrazione non principalmente destinati a produrli possono costituire non residui ma sottoprodotti, di cui l'impresa non ha intenzione di disfarsi, ma si precisa anche che tale qualificazione «deve essere circoscritta alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale ma certo senza previa trasformazione e avvenga nel corso del processo di produzione» [punti 44 e 45]. Il Tribunale di Venezia richiama ulteriori, successive pronunce della Corte del Lussemburgo, assunte nell'ambito di procedure di infrazione (sentenza 8 settembre 2005, in cause C-4167/02 e C-121/03, Commissione c. Regno di Spagna), nelle quali si trova affermato che i residui dell'attivita' zootecnica, accumulati dall'impresa in attesa di successivo utilizzo, avrebbero potuto essere utilizzati anche «per il fabbisogno di operatori economici diversi» dal produttore originario. Le richiamate sentenze, prosegue il giudice a quo, erano state di poco precedute da un'altra pronuncia, resa in forma di ordinanza, il 15 aprile 2004 nella causa C-235/02, Saetti Freudiani, nella quale la Corte ha enunciato il principio secondo cui un residuo di produzione (il coke da petrolio di Gela) utilizzato con certezza «per il fabbisogno di energia della stessa impresa produttrice e di altre industrie non costituisce rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, n. 91/156/CEE». In tali decisioni, osserva il rimettente, sembrerebbe quindi ravvisarsi un'apertura del giudice comunitario sulla estensione della nozione di sottoprodotto all'utilizzo del residuo di produzione da parte di soggetti terzi rispetto all'impresa produttrice. 1.2. - Cosi' definito il quadro normativo di riferimento, il Tribunale di Venezia passa ad esaminare lo specifico residuo di produzione costituito dalle ceneri di pirite, oggetto del giudizio a quo, esponendo quanto emerso all'esito del dibattimento. Le ceneri di pirite sono un residuo di produzione (necessario ed inevitabile) del procedimento industriale di fabbricazione dell'acido solforico, cioe' di uno dei piu' importanti prodotti intermedi dell'industria chimica di base. Il procedimento in parola, consistente nel cosiddetto arrostimento in forni speciali del minerale denominato pirite, e' stato utilizzato fino ai primi anni '70, epoca in cui alla materia prima pirite e' stato sostituito lo zolfo. In Italia erano stati realizzati circa 100 stabilimenti, di varia potenzialita', per la produzione dell'acido solforico con l'utilizzo della pirite, ed ancora oggi esistono depositi delle relative ceneri in varie zone del Paese. Il deposito sito in localita' Gambarare di Mira, posto sotto sequestro nel procedimento a quo, era stato attivo fino ai primi anni '70, per essere poi «messo in sicurezza», mediante ricopertura dei cumuli di cenere con uno strato di terra successivamente piantumata. Dopo circa venti anni, a partire dal 1994, «il deposito e' stato riaperto e coltivato dalla Veneta Mineraria S.p.A. che aveva appaltato a M.E. i lavori materiali di movimentazione delle ceneri ed il loro successivo carico su camion per il [...] conferimento del materiale a cementifici italiani ed esteri». Le ceneri di pirite costituiscono, infatti, un additivo fondamentale nella produzione del cemento, nel quale sono impiegate senza attivita' preliminare di trasformazione. Cio' detto, ad avviso del Tribunale di Venezia sarebbe proprio la particolare origine del residuo di produzione in esame a rendere impossibile la sottrazione dello stesso dal novero dei rifiuti. Posto infatti che, secondo la definizione di cui all'art. 1, comma 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, si ha sempre rifiuto quando il produttore/detentore «si disfa» di un determinato residuo produttivo e non lo reimpiega ne' lo commercializza, «stabilire che un residuo va considerato sottoprodotto [...] a prescindere dal fatto che l'impresa produttrice se ne e' gia' disfatta e' operazione che contrasta con il diritto comunitario». Tale conclusione, secondo il rimettente, non potrebbe essere superata dalla considerazione che assume a riferimento il produttore originario e non l'attuale detentore, cioe' il soggetto il quale si trova, come nella vicenda in esame, a gestire depositi e commercializzare le ceneri di pirite, alienandole a cementifici. Del resto, osserva il giudice a quo, e' la stessa normativa nazionale a porre alla base della disciplina generale dei sottoprodotti l'impresa che li produce, facendo riferimento a questa per tutto quanto concerne i presupposti che debbono ricorrere per sottrarre il residuo di produzione all'applicazione della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006. In senso contrario, prosegue il rimettente, nemmeno si potrebbe sostenere che gli accumuli di ceneri di pirite distribuiti sul territorio nazionale, compreso quello oggetto del procedimento principale, non siano mai stati «abbandonati» dagli originari produttori, e cio' in quanto negli anni in cui per la produzione dell'acido solforico era impiegata la pirite, le ceneri residue erano oggetto di conferimenti ai cementifici «a pie' di impianto», sicche' l'accantonamento riguardava solo il surplus di produzione, in vista del futuro utilizzo. Al contrario, il dato fattuale - puntualmente recepito dal legislatore che, nella norma censurata, menziona «stabilimenti dismessi» ed «aree industriali e non» - dal quale emerge che tale accantonamento e' assai risalente nel tempo (di almeno trent'anni), dimostrerebbe come, per un lungo periodo, l'utilizzo del residuo non sia stato affatto certo o probabile. Tutto cio' renderebbe evidente, secondo il Tribunale di Venezia, come la normativa interna, di cui si chiede lo scrutinio di costituzionalita', si ponga in contrasto non solo con il requisito del «non disfarsi» del residuo da parte del produttore originario - il che avviene se il materiale e' raccolto in una determinata area, che viene chiusa o messa in sicurezza, ed e' lasciato in loco per molti anni - ma anche con l'ulteriore requisito della certezza ed effettivita' dell'utilizzo del residuo di produzione al momento in cui esso e' originato, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria. Inoltre, la previsione censurata, nella parte in cui sottrae le ceneri di pirite all'applicazione della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006, «anche se sottoposte a bonifica o ripristino ambientale», appare in contrasto con il principio secondo cui l'utilizzo di un sottoprodotto deve avvenire senza arrecare pregiudizio per l'ambiente e per la salute (art. 4 della direttiva 2006/12/CE), posto che nelle indicate evenienze e' probabile che i materiali raccolti possano essere contaminati, cosi' da risultare pericolosi per la salute e per l'ambiente. In definitiva, secondo il rimettente, la disposizione contenuta nell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006 contrasterebbe con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. Inoltre, ai sensi dell'art. 174, n. 2, del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunita' europea), nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009, ora trasfuso nell'art. 191 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, in vigore dal 1° dicembre 2009, la politica comunitaria in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela ed e' fondata, in particolare, sui principi «della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonche' sul principio "chi inquina paga"». Pertanto, secondo il giudice a quo, il legislatore italiano, nell'introdurre una norma in contrasto con siffatti principi, avrebbe anche violato il generale obbligo di leale collaborazione di cui all'art. 10 del Trattato che istituisce la Comunita' europea (articolo successivamente abrogato dall'art. 2, punto 22, del Trattato 13 dicembre 2007 - Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunita' europea), il quale prevede che gli Stati «si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato». 1.3. - Il rimettente esamina quindi il profilo dei rimedi alla rilevata antinomia tra diritto interno e diritto comunitario, escludendo di poter procedere alla disapplicazione della norma interna, come invece sostenuto dal pubblico ministero, secondo il quale la direttiva 75/442/CEE e successive modifiche e la direttiva 2006/12/CE sarebbero «autoapplicative», quanto meno con riferimento alla nozione di rifiuto. Sul punto sono richiamate espressamente le argomentazioni esposte dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 1414 del 2006), secondo cui il giudice puo' procedere alla disapplicazione della norma nazionale contrastante con il diritto comunitario quando la norma comunitaria abbia efficacia diretta nell'ordinamento interno, e quindi solo nei casi di alcune norme del Trattato istitutivo, dei regolamenti, delle direttive che non richiedono, ai fini dell'applicazione, alcun provvedimento ulteriore da parte degli Stati membri, e delle decisioni rivolte ai singoli o agli Stati membri. 1.4. - Per concludere, il giudice a quo esamina la tematica degli effetti in malam partem che deriverebbero dall'accoglimento della sollevata questione, osservando come l'eventuale caducazione della norma piu' favorevole, contenuta nell'art. 183, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, riguardante le ceneri di pirite, non comporterebbe una violazione del principio di irretroattivita' della norma penale previsto dall'art. 25, secondo comma, Cost., posto che, per un verso, le ceneri di pirite costituivano senz'altro rifiuto all'epoca delle condotte contestate, non essendo ancora entrato in vigore l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, recante l'interpretazione autentica e restrittiva della nozione di rifiuto, e, per altro verso, la norma incriminatrice, contenuta nell'art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, era gia' in vigore prima della commissione dei reati contestati. La rilevanza della questione sarebbe in ogni caso assicurata, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale (e' richiamata la sentenza n. 148 del 1983), dalla incidenza che l'accoglimento della stessa potrebbe esercitare sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale, riflettendosi comunque sullo schema argomentativo della motivazione. 1.5. - Dopo l'integrale richiamo al precedente atto di promovimento, il Tribunale di Venezia riesamina il profilo della rilevanza della questione, secondo l'indicazione espressa nella citata ordinanza n. 83 del 2008 di questa Corte. La restituzione degli atti era stata disposta per lo ius superveniens costituito dal d.lgs. n. 4 del 2008, con il quale il legislatore nazionale ha riformulato l'art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006, introducendo una nuova definizione di sottoprodotto ed eliminando il riferimento specifico alle ceneri di pirite. Il rimettente evidenzia come la materia sia stata caratterizzata da numerose modifiche normative intervenute nel corso del procedimento principale: in particolare, al momento in cui e' stato effettuato il sequestro preventivo del deposito di ceneri di pirite, era vigente l'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, il quale recepiva la nozione comunitaria secondo cui e' rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». In quel contesto normativo, prosegue il giudice a quo, non vi era dubbio che «le ceneri di pirite, in quanto raccolte ed accantonate per un trentennio in un'area ricoperta di terra successivamente piantumata, rientrassero a pieno titolo nel concetto di rifiuto in quanto residuo di produzione di cui l'originario detentore si era disfatto o aveva deciso di disfarsi». Nelle more del procedimento principale, era poi entrato in vigore l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, che aveva fornito la cosiddetta interpretazione autentica dell'art. 6 del d.lgs. n. 22 del 1997. Il citato art. 14, pur nella indubbia portata «restrittiva» della nozione di rifiuto, tuttavia ancora consentiva una applicazione che tenesse conto del criterio generale di interpretazione della materia dei rifiuti, quello cioe' di non pregiudicare l'efficacia del diritto comunitario. Per un verso, infatti, la gia' evidenziata notevole distanza temporale tra il momento di produzione delle ceneri di pirite e quello del loro impiego in un diverso ciclo produttivo portava a ritenere che tale residuo fosse stato sottoposto - tramite deposito al suolo e copertura con strato di terreno piantumato - ad «attivita' di smaltimento o di recupero», e dunque rientrasse nella nozione di rifiuto di cui al comma 1 del richiamato art. 14. Per altro verso, il comma 2 del medesimo art. 14 richiedeva, ai fini della configurabilita' del sottoprodotto, che i materiali residuali di produzione (o di consumo) potessero essere e fossero «effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo», sicche' il loro riutilizzo doveva essere attuale rispetto al momento originario, e non solo potenziale. Pertanto, a parere del rimettente, anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, le ceneri di pirite continuavano ad essere disciplinate dalla normativa in materia di gestione dei rifiuti. Ad analoghe conclusioni il giudice a quo perviene avuto riguardo al successivo intervento del legislatore, attuato con la legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), il quale ha confermato, all'art. 1, comma 26 (successivamente abrogato dall'art. 2, comma 46, del d.lgs. n. 4 del 2008), la vigenza dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, sebbene la Corte di giustizia, con la richiamata sentenza Niselli, avesse gia' ritenuto tale disposizione in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto. La disciplina dettata dall'art. 14 e' dunque rimasta in vigore fino a quando, in attuazione della delega, e' entrato in vigore il d.lgs. n. 152 del 2006, che all'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, ha esplicitamente statuito che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti, cosi' introducendo una norma di favore nei confronti degli odierni imputati, ai quali, in applicazione del principio codificato nell'art. 2, quarto comma, del codice penale, dovrebbe essere applicata quest'ultima previsione, con conseguente assoluzione con formula di insussistenza del fatto, difettando la qualita' di «rifiuto» nell'oggetto materiale della condotta. Il rimettente segnala in proposito che, nelle more del precedente giudizio di costituzionalita', la Corte di giustizia, con la sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-263/05, ha accolto il ricorso per inadempimento, proposto, ai sensi dell'art. 266 del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), dalla Commissione contro la Repubblica italiana, per avere adottato e mantenuto in vigore l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002. Nella richiamata sentenza la Corte del Lussemburgo, dopo aver ribadito ancora una volta che il termine «disfarsi», e quindi la nozione di rifiuto, non possono essere interpretati in senso restrittivo [punto 33], ha svolto un excursus delle pronunce adottate in materia e dei principi in esse individuati, in esito al quale ha precisato, tra l'altro, che «in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non e' principalmente destinato a produrlo puo' costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» [...] ma che intende sfruttare o commercializzare [...] a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e intervenga nel processo di produzione o di utilizzazione». Nel prosieguo della pronuncia la Corte ha affermato che «se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonche' essere potenzialmente fonte di quei danni per l'ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non puo' essere considerato certo ed e' prevedibile solo a piu' medio o lungo termine, cosicche' la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto». Il giudice a quo osserva come tale pronuncia conforti l'interpretazione dell'art. 14, sopra prospettata, ed i limiti di applicabilita' al caso in esame, una volta chiarito che il riutilizzo del materiale residuo deve avvenire «nel corso del processo di produzione». Sul fronte della normativa nazionale, infine, la novita' e' costituita, dal d.lgs. n. 4 del 2008, che ha introdotto modifiche e correzioni al d.lgs. n. 152 del 2006, in particolare riscrivendo interamente la nozione di sottoprodotto ed eliminando il riferimento alle ceneri di pirite. Il rimettente evidenzia come la «nuova» definizione di sottoprodotto, contenuta nell'art. 183, comma 1, lettera p), del d.lgs. n. 152 del 2006, rispetto alle precedenti formulazioni, risulti senz'altro piu' rispettosa della normativa comunitaria, la' dove stabilisce che: «sono sottoprodotti le sostanze ed i materiali di cui il produttore non intende disfarsi ai sensi dell'art. 183, comma 1, lettera a), che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni: 1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione; 2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito; 3) soddisfino requisiti merceologici e di qualita' ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l'impianto dove sono destinati ad essere utilizzati; 4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualita' ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione; 5) abbiano un valore economico di mercato». La predetta definizione, secondo il rimettente, non consente in alcun modo di collocare le ceneri di pirite tra i sottoprodotti, sicche', in esito alla disamina diacronica della normativa in materia, si dovrebbe concludere che le ceneri di pirite sono un rifiuto in forza sia delle disposizioni che hanno preceduto quella oggetto di censura, sia della disposizione attualmente in vigore. Soltanto l'applicazione della norma oggetto di censura, che ha avuto una vigenza quasi biennale, condurrebbe al risultato di sottrarre il predetto materiale alla disciplina dei rifiuti. Tale norma peraltro, finche' non espunta dall'ordinamento, continua ad essere la previsione piu' favorevole, tra le varie succedutesi nel tempo, e dunque deve trovare applicazione nel giudizio a quo, con la conseguenza che, a parere del giudice a quo, la questione di costituzionalita' risulta ancora rilevante. 2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilita' e, comunque, per l'infondatezza della questione. Dopo aver ripercorso, in sintesi, l'iter argomentativo del rimettente, la difesa erariale evidenzia come il nucleo della questione afferisca alla nota problematica della cosiddetta «legge intermedia», che si pone quando tra due fattispecie normative - nel caso di specie, il d.lgs. n. 22 del 1997 e il d.lgs. n. 4 del 2008 - che qualificano, sia pure indirettamente, una condotta come reato, se ne inserisce una terza - il d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo previgente - la quale considera quella stessa condotta pienamente lecita. La dottrina prevalente e' dell'opinione che tali situazioni debbano essere regolate alla luce del disposto dell'art. 2, secondo comma, del codice penale, secondo cui «nessuno puo' essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato». In altri termini, l'effetto depenalizzante retroagirebbe a prescindere dalla circostanza che successivamente sia entrata in vigore una legge che abbia ripristinato la rilevanza penale della condotta. Tale soluzione, a parere dell'Avvocatura generale, sarebbe in tutto ragionevole, posto che, in caso contrario, la punibilita' dell'imputato verrebbe a dipendere dalla circostanza che il processo penale si sia concluso in vigenza della (nuova) norma incriminatrice anziche' nella vigenza della legge depenalizzante. Il rimettente, prosegue la difesa dello Stato, intenderebbe eliminare la norma depenalizzante attraverso una pronuncia di illegittimita' costituzionale per contrasto della stessa con le norme comunitarie ed, in via derivata, con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. Tuttavia tale pretesa contrasta con il principio di legalita', sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, nell'affermare il principio per cui nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati, o che, comunque, per effetto di una sentenza costituzionale, possano essere ampliate o aggravate figure di reato gia' esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalita' del legislatore (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 161 del 2004, n. 49 del 2002, nn. 508 e 183 del 2000, n. 411 del 1995, e l'ordinanza n. 580 del 2000). Secondo l'Avvocatura generale, l'assunto risulterebbe ancor piu' valido se si considera che «e' comune in dottrina e in giurisprudenza un principio esattamente opposto all'obiettivo, perseguito dal giudice remittente, di giungere ad una dichiarazione di colpevolezza anche in deroga al principio del favor rei: un'interpretazione sistematica degli articoli 25 e 136 della Costituzione fa infatti ragionevolmente ritenere che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima, se piu' favorevole, potra' essere applicata al caso specifico anche a rischio di mettere in dubbio il principio di certezza del diritto». Infine e indipendentemente dai rilievi fin qui svolti, la difesa erariale evidenzia la singolare scelta compiuta dal rimettente Tribunale di Venezia, il quale intende perseguire la verifica di conformita' della norma interna al diritto comunitario attraverso una strada diversa dalla rimessione della questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, senza considerare che nessuna fonte dell'Unione europea impone che gli Stati membri perseguano penalmente le violazioni sulla disciplina dei rifiuti. 3. - Con memoria depositata il 16 febbraio 2009, si e' costituito in giudizio uno degli imputati del processo a quo, prospettando l'inammissibilita', l'irrilevanza e l'infondatezza della questione, e in ogni caso la preclusione connessa agli effetti in malam partem che deriverebbero dall'eventuale accoglimento, in violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost. Dopo avere richiamato diffusamente gli argomenti prospettati dal Tribunale di Venezia, la difesa della parte privata evidenzia, in primo luogo, come la pretesa del rimettente di risolvere la questione di conformita' all'ordinamento comunitario di una norma interna, attraverso l'incidente di costituzionalita', risulti inammissibile. La soluzione della questione «pertiene alla giurisdizione della Corte di giustizia a norma dell'art. 234 del Trattato CE, sotto la specie della competenza a risolvere in via pregiudiziale le questioni di interpretazione della normativa comunitaria quanto alla compatibilita' della normativa interna con la medesima». A tale riguardo, rammenta la parte privata, la Corte costituzionale si e' espressa di recente (e' richiamata l'ordinanza n. 103 del 2008), affermando che nel giudizio pendente davanti al giudice comune, al fine dell'interpretazione delle norme comunitarie necessarie per l'accertamento della conformita' delle norme interne con l'ordinamento comunitario, lo stesso giudice deve avvalersi, all'occorrenza, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. La questione sarebbe poi irrilevante, in ragione della genericita' delle conseguenze prospettate dal rimettente circa l'incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento nel giudizio principale, che e' un giudizio penale, ancorche' fondato su nozioni extrapenali che entrano a far parte della norma incriminatrice. In particolare, la parte privata sottolinea come la tesi della reviviscenza della pregressa normativa di per se' ponga, in sede di responsabilita' penale, «questioni insormontabili», attesa la prevalenza assoluta del principio del favor rei, e come proprio su tali problematiche il rimettente non abbia adeguatamente motivato. Nel merito, infine, la questione risulterebbe infondata. La difesa della parte privata procede all'esame della disposizione contenuta nel censurato art. 183, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, evidenziando come la stessa - suddivisa in sei periodi, inseriti in un unico contesto - introduca la nozione di sottoprodotto, stabilisca le condizioni ed i requisiti in presenza dei quali i sottoprodotti sono sottratti alle disposizioni della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006, includa le ceneri di pirite tra i sottoprodotti, stabilisca, infine, le regole che ne disciplinano l'utilizzabilita', senza che derivino condizioni peggiorative per l'ambiente o la salute rispetto a quelle delle normali attivita' produttive. Ad avviso della stessa parte, il tenore letterale e la ratio della norma, da valutare con riferimento alla definizione di rifiuto contenuta nel medesimo art. 183, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, «non possono significare altro che in difetto dei requisiti, delle regole e delle condizioni da essa stabilite (prima tra tutte, ed in via generale non derogata, quella del "non disfarsi"), i prodotti di cui trattasi, non escluse le ceneri di pirite, sono naturalmente soggette alla normativa, anche sanzionatoria, dettata per i rifiuti nella parte quarta del d.lgs. n. 152/2006». Il dubbio di legittimita' costituzionale, sempre secondo la parte privata, sarebbe stato prospettato dal rimettente presupponendo una portata derogatoria, rispetto al contesto di riferimento, che la norma censurata non presenta, ne' dal punto di vista letterale, ne' alla luce del significato che ragionevolmente deve esserle attribuito, in coerenza e rispondenza con il predetto contesto. Inoltre, costituirebbe una petizione di principio l'affermazione del giudice a quo, secondo cui il lungo tempo trascorso dalla produzione delle ceneri di pirite renderebbe ineluttabile che il produttore se ne fosse gia' disfatto, sicche' la previsione censurata necessariamente derogherebbe al requisito del «non disfarsi». Analoghe considerazioni, sempre a parere della parte costituita, varrebbero per gli altri profili di censura prospettati dal rimettente, attinenti, in particolare, all'incertezza ed alla dubbia effettivita' dell'utilizzo delle ceneri di pirite - stante il lungo tempo trascorso tra la loro produzione ed il passaggio dal produttore originario al detentore che ne cura la commercializzazione - ed alla sicurezza dell'utilizzo. Quanto al primo aspetto, lo stesso rimettente da' atto della progressiva apertura della giurisprudenza comunitaria circa la possibilita' che l'alienazione dei sottoprodotti avvenga anche per il tramite di soggetti diversi dal produttore, i quali provvedano in un tempo successivo alla commercializzazione, senza subordinare a precisi limiti temporali la durata del deposito, l'epoca della commercializzazione e l'effettivo utilizzo (e' richiamata la sentenza della Corte di giustizia 8 settembre 2005, in causa C-416/02, Commissione c. Regno di Spagna). Non troverebbe percio' conferma, in ambito comunitario, «l'asserto secondo cui il requisito dell'utilizzo certo ed effettivo puo' essere garantito soltanto allorche' "il sottoprodotto" viene utilizzato nella fase in cui esso viene alla luce», per quanto sia innegabile che questa fosse l'interpretazione originariamente seguita dalla giurisprudenza comunitaria. Con riguardo poi al significato dell'inciso «anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale», la difesa della parte privata osserva come erroneamente il rimettente riferisca tale espressione al materiale ceneri di pirite, anziche' alle aree ove lo stesso si trova depositato, cosi' ravvisando anche un contrasto tra la norma censurata ed il principio generale secondo cui l'utilizzo del sottoprodotto deve avvenire senza che cio' arrechi pregiudizio per l'ambiente e per la salute. Per smentire l'assunto sarebbe sufficiente considerare che l'ultimo periodo del censurato art. 183, comma 1, lettera n), prevede espressamente che «l'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attivita' produttive». Secondo la parte privata anche la ricostruzione del quadro normativo comunitario, come prospettata dal rimettente, risulterebbe opinabile, incompleta ed errata sotto molteplici profili. La definizione di rifiuto costituisce una delle questioni piu' controverse nell'ambito del diritto interno dell'ambiente e di quello comunitario, ed e' stata oggetto di numerose e complesse decisioni della Corte di Lussemburgo, che hanno espresso orientamenti non sempre univoci. Da ultimo, la parte privata segnala il contributo fornito dalla Commissione con la Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti del 21 febbraio 2007, che in premessa ha evidenziato la complessita' della distinzione tra rifiuto e sottoprodotto per il conflitto di interessi che ruota attorno ad essa. In linea generale, la Commissione ha ritenuto che un'interpretazione troppo ampia della nozione di rifiuto finisca per gravare le imprese di «costi superflui, rendendo meno interessante un materiale che avrebbe potuto invece rientrare nel circuito economico», cosi' chiarendo la ratio della disciplina comunitaria e della controversa distinzione, la cui finalita' e' di evitare che i rifiuti si producano. In una simile prospettiva verrebbe valorizzata al massimo la possibilita' di «generare prodotti che risultino idonei ad un proficuo riutilizzo e che siano dotati di caratteristiche merceologiche definite e di valore economico determinabile». In termini analoghi, gia' la direttiva 2006/12/CE, al quinto e sesto considerando e poi all'art. 3, ha sollecitato gli Stati membri a favorire il recupero dei rifiuti e l'utilizzazione dei materiali di recupero come materie prime, a limitare la formazione dei rifiuti, promuovendo le tecnologie «pulite» e i prodotti riciclabili e riutilizzabili. Nella direzione di una nozione «condivisa» di rifiuto, la Commissione ha sottolineato la centralita' dell'elemento soggettivo - il concetto di «disfarsi» -, ribadendo il carattere meramente indicativo delle elencazioni comunitarie. Cio' che, del resto, emergerebbe gia' dalla direttiva 2006/12/CE, ove si legge, al quarto considerando, che «una regolamentazione efficace e coerente dello smaltimento e del recupero dei rifiuti dovrebbe applicarsi, fatte salve talune eccezioni, ai beni mobili di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi». Quanto al profilo soggettivo, la difesa della parte privata richiama l'ordinanza della Corte di giustizia 15 gennaio 2004, in causa C-235/02 Saetti Freudiani, nella quale si trova affermato che, poiche' il materiale in questione (il coke da petrolio di Gela) era «il risultato di una scelta tecnica» volta deliberatamente a produrlo, non poteva essere considerato residuo di produzione. Cio' significa che, al fine di stabilire se un materiale costituisca un rifiuto, occorre verificare se il fabbricante abbia deliberatamente scelto di produrlo. Altro indice che il prodotto derivi da una scelta tecnica si puo' ricavare dalla modifica del sistema di produzione tale da conferire allo stesso caratteristiche specifiche che lo rendano idoneo ad essere utilizzato e commercializzato: in base a tali indici, la richiamata ordinanza ha concluso che il coke da petrolio, in quanto e' il risultato di una scelta tecnica, nell'ambito di un processo destinato principalmente a produrre un diverso materiale, va considerato prodotto (petrolifero) e non residuo di produzione, dal momento in cui vi e' certezza che l'intera produzione verra' utilizzata. La difesa della parte costituita evidenzia come un ulteriore importante indice di valutazione sia rappresentato dal vantaggio finanziario che deriva dalla vendita del prodotto. Nella gia' richiamata sentenza Niselli la Corte di giustizia ha affermato che «se, oltre alla mera possibilita' di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilita' di tale riutilizzo e' alta. In un'ipotesi del genere la sostanza in questione non potra' piu' essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di "disfarsi", bensi' un autentico prodotto» [punto 46]. Importanti indicazioni in materia provengono inoltre, secondo la parte, dalle pronunce rese in cause C-416/02 e C-121/03 (Commissione c. Regno di Spagna), nelle quali la Corte di Lussemburgo ha escluso che dovesse considerarsi rifiuto il letame utilizzato come fertilizzante nell'ambito di una pratica legale di spargimento, e cio' pur se detto materiale e' destinato ad essere utilizzato da soggetti terzi, in un contesto produttivo del tutto diverso, ed anche se prima dell'utilizzo deve essere depositato e lasciato essiccare. Lo spostamento dal luogo o stabilimento di produzione «da solo non basta a costituire una prova» per affermare che si tratti di un residuo anziche' di un prodotto. La parte privata richiama ancora le sentenze della Corte di giustizia in cause C-9/00, Palin Granit Oy, e C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy, nelle quali e' stata negata la qualificazione di rifiuti ai residui di roccia depositati in vista di un ulteriore utilizzo, come materiale di riempimento, senza necessita' di alcuna misura di recupero e senza alcun pericolo per la salute o per l'ambiente. La Corte di giustizia ha ritenuto, nella specie, che non e' giustificato assoggettare alla disciplina in tema di rifiuti «beni materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti». Analoghe considerazioni dovrebbero valere per le ceneri di pirite, le quali sono destinate ad essere utilizzate, senza alcuna trasformazione, per la produzione di cemento, non ostando a cio' la loro provenienza da produzioni industriali cessate e la specificita' dei luoghi ove le stesse sono depositate. Del resto, prosegue la difesa della parte, nessuno dei comportamenti posti in essere dagli imputati dimostrerebbe la volonta' di disfarsi di questi materiali, «oggettivamente dotati di interessante valore commerciale e percio' degni di essere acquistati e rivenduti», sicche' l'assunto del rimettente risulterebbe, anche sotto tale profilo, infondato. 4. - Con ordinanza del 13 ottobre 2009, il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del d.lgs. n. 4 del 2008, nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006. Il rimettente riferisce che oggetto del procedimento principale e' l'accertamento della responsabilita' penale di quattro persone, imputate del reato gia' previsto dall'art. 53-bis del d.lgs. n. 22 del 1997, ora trasfuso nell'art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006. Secondo l'accusa gli imputati, «in concorso tra loro, attraverso l'allestimento di mezzi ed attivita' continuativa organizzata, avrebbero effettuato un traffico illecito di rifiuti tossico-nocivi, nella fattispecie costituti da un ingente quantitativo di ceneri di pirite (8.084 tonnellate) provenienti dall'ex cantiere Perfosfati di Portogruaro, destinandole ad attivita' non consentita, cioe' al miscelamento con altre ceneri di pirite site in un impianto di Mira, invece di destinarle in discarica di II categoria, tipo C». Tanto premesso in fatto, il rimettente procede all'esame del quadro normativo interno e comunitario, nonche' della giurisprudenza comunitaria in materia di rifiuti, in particolare soffermandosi sull'evoluzione della nozione di sottoprodotto, ed espone, a sostegno della non manifesta infondatezza e della rilevanza della questione, argomenti in tutto identici a quelli prospettati nell'ordinanza n. 2 del 2009, gia' sopra illustrata. 5. - Con atto depositato il 9 giugno 2009 e' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilita' o, comunque, per l'infondatezza della questione. Dopo aver richiamato i fatti oggetto del procedimento a quo ed aver ripercorso, in sintesi, l'iter argomentativo del rimettente, la difesa dello Stato illustra le ragioni a sostegno delle indicate conclusioni in termini in tutto identici a quelli rappresentati nell'atto di intervento depositato l'11 febbraio 2009, nel giudizio introdotto dall'ordinanza reg. ord. n. 2 del 2009, sopra sintetizzato. Considerato in diritto 1. - Il Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo, con due ordinanze di analogo tenore, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente), nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006. 2. - Preliminarmente, in ragione della identita' della questione, i giudizi devono essere riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia. 3. - La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 4 del 2008, e' fondata. 3.1. - L'oggetto del giudizio principale - l'asserita violazione delle norme che disciplinano l'attivita' di gestione di rifiuti pericolosi in assenza di autorizzazione o con autorizzazione scaduta - dipende strettamente dalla definizione di rifiuto e dalla differenza tra tale nozione e quella di sottoprodotto, secondo la normativa comunitaria e nazionale. 3.2. - La direttiva 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti), come modificata dalla direttiva 18 marzo 1991, n. 91/156/CEE (Direttiva del Consiglio che modifica la direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti), definisce «rifiuto» «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi» (art. 1, lettera a). Sulla base di tale normativa (confermata sostanzialmente dalla direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE - Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti - che l'ha abrogata), la Corte di giustizia dell'Unione europea ha stabilito alcuni punti fermi interpretativi: a) la nozione di rifiuto deve essere intesa in senso estensivo ed in tal modo devono essere interpretate le norme che contengono riferimenti alla stessa; b) dalla suddetta nozione sono escluse le sostanze suscettibili di utilizzazione economica, nel caso in cui non si tratta di prodotti di cui il detentore si disfa; c) in tale nozione non sono compresi i sottoprodotti, intesi come beni, materiali o materie prime, che derivano da un processo di estrazione o fabbricazione, che non e' destinato principalmente a produrli, a condizione che la loro utilizzazione sia certa e non eventuale, avvenga senza trasformazioni preliminari ed al fine di commercializzare il materiale, anche eventualmente per destinarlo a soggetti diversi dal produttore (ex plurimis, sentenze 18 aprile 2002, in causa C-9/00, Palin Granit Oy, e 11 settembre 2003, in causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy). Successivamente, nella medesima materia, e' stata emanata la direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive), il cui termine di recepimento scadra' il 12 dicembre 2010. 3.3. - In attuazione delle citate direttive, il legislatore italiano ha proceduto, in un primo tempo, ad emanare il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), che riproduceva quasi testualmente la definizione comunitaria e prevedeva sanzioni penali per le attivita' poste in essere in violazione della disciplina sul trattamento dei rifiuti. Il successivo d.lgs. n. 152 del 2006 («Codice dell'ambiente») ha disciplinato ex novo l'intera materia con una serie di norme contenute nell'art. 183, che, da una parte, riproponevano la definizione comunitaria e, dall'altra, definivano i sottoprodotti come quei «prodotti dell'attivita' dell'impresa che, pur non costituendo l'oggetto dell'attivita' principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo». I sottoprodotti vengono sottratti alla disciplina dei rifiuti, a condizione che di essi l'impresa non si disfi, ne' intenda o abbia l'obbligo di disfarsi, che siano impiegati direttamente dall'impresa che li produce ovvero commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa stessa, che siano riutilizzati senza operare trasformazioni preliminari del materiale e che il riutilizzo sia certo e non eventuale e non comporti condizioni peggiorative per l'ambiente o per la salute, rispetto a quelle delle normali attivita' produttive (art. 183, comma 1, lettera n). La disposizione da ultimo citata contiene anche la norma censurata nel presente giudizio, secondo cui: «Rientrano altresi' tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimenti di bonifica o di ripristino ambientale». Infine, con il d.lgs. n. 4 del 2008 e' stato eliminato il riferimento alle ceneri di pirite ed e' stata introdotta una definizione piu' restrittiva di sottoprodotto (art. 183, comma 1, lettera p, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo attualmente vigente). 4. - La norma censurata - in contrasto con la definizione comunitaria sopra richiamata, che qualifica rifiuto ogni sostanza di cui il produttore si disfi - esclude dalla categoria dei rifiuti un materiale, le ceneri di pirite, indipendentemente dal fatto che l'impresa produttrice se ne sia disfatta. Nel caso specifico, oggetto del processo principale, le suddette ceneri, al momento del sequestro, si trovavano in un sito da circa trent'anni. Il lungo tempo trascorso fa venir meno uno dei requisiti richiesti dalle direttive e dalla giurisprudenza comunitaria per l'identificazione del sottoprodotto, che cioe' il riutilizzo del materiale sia certo ed effettivo e non solo eventuale. Si deve porre in rilievo, ai fini del presente giudizio, che la norma censurata introduce una presunzione assoluta, in base alla quale le ceneri di pirite, quale che sia la loro provenienza e il trattamento ricevuto da parte del produttore, sono sempre e comunque da qualificare «sottoprodotto». Al contrario, la normativa comunitaria fa leva anche su fatti estrinseci e sui comportamenti dei soggetti produttori ed utilizzatori e non si arresta pertanto alla mera indicazione della natura intrinseca del materiale. Per effetto della presunzione assoluta, al giudice e' inibito l'accertamento in fatto delle circostanze in cui si e' formato il materiale e che hanno caratterizzato la gestione dello stesso, una volta prodotto. Tale preclusione si pone in contrasto con l'esigenza, derivante dalla disciplina comunitaria, di verificare in concreto l'esistenza di un rifiuto o di un sottoprodotto. In questo senso si e' espressa la Corte di giustizia dell'Unione europea, la quale ha sottolineato come l'effettiva esistenza di un rifiuto debba essere accertata «alla luce del complesso delle circostanze, tenuto conto della finalita' della direttiva e in modo da non pregiudicarne l'efficacia» (sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana). Lo stesso legislatore nazionale ha recepito le direttive comunitarie sul punto, sia con il d.lgs. n. 22 del 1997, sia con il d.lgs. n. 4 del 2008. Solo per un periodo di circa due anni e' rimasta in vigore la norma censurata, che ha espunto ope legis le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, con l'indiretta conseguenza di rendere penalmente irrilevante la loro gestione al di fuori delle regole stabilite dalla legge. La parte privata costituita ha proposto una interpretazione della norma censurata, dalla quale si evincerebbe l'inesistenza di una presunzione assoluta di non appartenenza del materiale in questione alla categoria dei rifiuti, e quindi l'esperibilita' dell'accertamento, caso per caso, della natura di rifiuto o di sottoprodotto. Tale interpretazione porterebbe alla naturale conclusione dell'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale, per non avere il giudice rimettente valutato la possibilita' di una interpretazione della disposizione censurata conforme al parametro di costituzionalita', che, nel caso di specie, e' rappresentato dalle direttive in tema di rifiuti, per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. L'interpretazione conforme proposta non e' pero' plausibile, in quanto contraddice cio' che chiaramente emerge dal testo della disposizione censurata. Nella stessa infatti, dopo l'enunciazione delle condizioni di fatto che devono sussistere perche' un determinato materiale possa qualificarsi sottoprodotto, si aggiunge che rientrano «altresi'» tra i sottoprodotti le ceneri di pirite. Si tratta quindi di una previsione, diversa da quella che precede, volta ad assoggettare il materiale in questione ad una disciplina differenziata. Se si fosse trattato di una mera esemplificazione, il legislatore non avrebbe usato l'avverbio «altresi'», che vale invece ad identificare un'ipotesi ulteriore, rispetto alla quale la norma opera una inclusione autoritativa - fatta palese dal valore imperativo del predicato verbale «rientrano» - nella categoria dei sottoprodotti. Il contrasto con la normativa comunitaria di riferimento e' pertanto evidente. 5. - Non e' implausibile la motivazione con cui il giudice rimettente esclude di poter fare diretta applicazione delle direttive comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma censurata, in quanto ritenuta in conflitto con le prime. La prevalente giurisprudenza di legittimita' nega, infatti, il carattere «autoapplicativo» delle direttive de quibus, con la conseguenza che le disposizioni nazionali, ancorche' ritenute in contrasto con le stesse, hanno efficacia vincolante per il giudice (ex plurimis, Corte di cassazione, ordinanza n. 1414 del 2006). Piu' in generale, l'efficacia diretta di una direttiva e' ammessa - secondo la giurisprudenza comunitaria e italiana - solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall'applicazione della direttiva deriva una responsabilita' penale (ex plurimis, Corte di giustizia, ordinanza 24 ottobre 2002, in causa C-233/01, RAS; sentenza 29 aprile 2004, in causa C-102/02, Beuttenmüller; sentenza 3 maggio 2005, in cause C-387, 391, 403/02, Berlusconi e altri; Corte di cassazione, sentenza n. 41839 del 2008). L'impossibilita' di non applicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformita' al diritto comunitario, che spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice puo' sollevare questione di legittimita' costituzionale, per asserita violazione dell'art. 11 ed oggi anche dell'art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 170 del 1984, n. 317 del 1996, n. 284 del 2007). 6. - Da escludere altresi' e' il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, come richiesto dall'Avvocatura dello Stato e dalla parte privata costituita. Il rinvio pregiudiziale non e' necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, e si impone soltanto quando occorra risolvere un dubbio interpretativo (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 27 marzo 1963, in causa C-28-30/62, Da Costa; Corte costituzionale, ordinanza n. 103 del 2008). Nella specie, dalle norme e dalla giurisprudenza comunitarie emergono con chiarezza le nozioni di «rifiuto» e di «sottoprodotto», sulle quali non residuano margini di incertezza. Pertanto, il parametro interposto, rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., puo' considerarsi sufficientemente definito nei suoi contenuti, ai fini del controllo di costituzionalita'. 7. - Rilevato il contrasto tra la norma censurata e le direttive comunitarie sui rifiuti, nonche' l'impossibilita' di disapplicare la stessa da parte del giudice rimettente e la non necessita' del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, resta da risolvere il problema degli effetti della declaratoria di illegittimita' costituzionale di una norma extrapenale, che, sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, ha escluso, durante il periodo della sua vigenza, precedente all'abrogazione ad opera del d.lgs. n. 4 del 2008, l'applicabilita' delle sanzioni penali previste per la gestione illegale dei rifiuti alla fattispecie oggetto del giudizio principale. Nella verifica della successione delle leggi nel tempo, si deve notare che quando furono commessi i fatti per cui si procede nel giudizio a quo la norma di esclusione non esisteva, ed era pertanto pacifico che si applicassero le sanzioni penali previste dal legislatore italiano per l'inosservanza delle norme introdotte in ossequio alle direttive comunitarie sui rifiuti. Durante lo svolgimento del processo e' entrata in vigore la norma di esclusione, di cui s'e' detto nei precedenti paragrafi, che e' stata successivamente abrogata nelle more del giudizio incidentale davanti a questa Corte. Secondo il disposto dell'art. 2, quarto comma, del codice penale, se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. La legge piu' mite pertanto retroagisce, secondo il principio del favor rei, che caratterizza l'ordinamento italiano e che oggi trova conferma e copertura europea nell'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull'Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunita' europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Il citato art. 49 stabilisce: «Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena piu' lieve, occorre applicare quest'ultima». Questa Corte ha gia' chiarito, tuttavia, che la retroattivita' della legge piu' favorevole non esclude l'assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo scrutinio di legittimita' costituzionale: «Altro [...] e' la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l'efficacia spettante alle dichiarazioni d'illegittimita' delle norme penali di favore; altro e' il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile» (sentenza n. 148 del 1983 e sul punto, sostanzialmente nello stesso senso, sentenza n. 394 del 2006). Nel caso di specie, se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformita' delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie - che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell'ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. - non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie sui rifiuti, ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali. La responsabilita' penale, che la legge italiana prevede per l'inosservanza delle fattispecie penali connesse alle direttive comunitarie, per dare alle stesse maggior forza, diverrebbe paradossalmente una barriera insuperabile per l'accertamento della loro violazione. Per superare il paradosso sopra segnalato, occorre quindi distinguere tra controllo di legittimita' costituzionale, che non puo' soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali. Questa Corte ha gia' chiarito che l'eventuale accoglimento delle questioni relative a norme piu' favorevoli «verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali»; peraltro, «la pronuncia della Corte non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiche' in tal caso ne risulterebbe alterato [...] il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983). Occorre precisare inoltre che, nel caso di specie, il giudice rimettente ha posto un problema di conformita' di una norma legislativa italiana ad una direttiva comunitaria, evocando i parametri di cui agli artt. 11 e 117 Cost., senza denunciare, ne' nel dispositivo ne' nella motivazione dell'atto introduttivo del presente giudizio, la violazione dell'art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza intrinseca delle leggi. Cio' esclude che la questione oggi all'esame di questa Corte comprenda la problematica delle norme penali di favore, quale affrontata dalla sentenza n. 394 del 2006. Infine va ricordato che, posti i principi di cui all'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'art. 25, secondo comma, Cost. ed all'art. 2, quarto comma, del codice penale, la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento non e' compito di questa Corte, in quanto la stessa spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l'incidente di costituzionalita'.
Per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nel testo antecedente alle modiche introdotte dall'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede: «rientrano altresi' tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale». Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2010. Il Presidente: Amirante Il redattore: Silvestri Il cancelliere: Di Paola Depositata in cancelleria il 28 gennaio 2010. Il direttore della cancelleria: Di Paola