N. 28 SENTENZA 25 - 28 gennaio 2010

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Ambiente - Rifiuti - Ceneri di pirite e polveri di ossido  di  ferro,
  provenienti dal processo di arrostimento  del  minerale  noto  come
  pirite o solfuro di ferro per la produzione di  acido  solforico  e
  ossido di  ferro,  depositate  presso  stabilimenti  di  produzione
  dismessi,  aree  industriali  e  non,   anche   se   sottoposte   a
  procedimento di bonifica o di ripristino ambientale - Previsione di
  appartenenza ai sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui
  alla parte quarta del d.lgs. n. 152 del  2006 -  Contrasto  con  la
  disciplina comunitaria e  con  la  giurisprudenza  della  Corte  di
  giustizia, che esigono in concreto l'esistenza di un rifiuto  o  di
  un sottoprodotto - Illegittimita' costituzionale in parte qua. 
- D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett.  n),  quarto
  periodo, nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art.
  2, comma 20, del d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4. 
- Costituzione, artt. 11 e 117; direttiva n. 75/442/CEE, direttiva n.
  91/156/CEE; direttiva 91/689/CEE; direttiva 94/62/CE; direttiva  n.
  2006/12/CE; direttiva n. 2008/98/CEE. 
(GU n.5 del 3-2-2010 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
  QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE,  Maria  Rita  SAULLE,  Giuseppe   TESAURO,   Paolo   Maria
  NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI; 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  183,  comma  1,
lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.
152 (Norme in materia  di  ambiente) -  nel  testo  antecedente  alle
modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del decreto  legislativo
16  gennaio  2008,  n.  4  (Ulteriori  disposizioni   correttive   ed
integrative del d.lgs. 3  aprile  2006,  n.  152,  recante  norme  in
materia ambientale) - promossi dal Tribunale  ordinario  di  Venezia,
sezione distaccata di Dolo, con ordinanze del 29 settembre e  del  13
ottobre 2008, iscritte, rispettivamente, ai nn. 2 e 140 del  registro
ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 4 e 20, prima serie speciale, dell'anno 2009. 
    Visti l'atto di costituzione  di  P.  S.,  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 12 gennaio 2010 e nella camera di
consiglio del 13 gennaio 2010 il giudice relatore Gaetano Silvestri; 
    Uditi l'avvocato Giampaolo Maria Cogo per P.S. e l'avvocato dello
Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ordinanza del 29 settembre 2008 il  Tribunale  ordinario
di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha sollevato, in  riferimento
agli artt. 11 e 117, primo comma, della  Costituzione,  questione  di
legittimita' costituzionale  dell'art.  183,  comma  1,  lettera  n),
quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152  (Norme
in materia di  ambiente)  -  nel  testo  antecedente  alle  modifiche
introdotte con l'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio
2008, n. 4 (Ulteriori  disposizioni  correttive  ed  integrative  del
d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale)  -
nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite  rientrano  tra  i
sottoprodotti non soggetti alle disposizioni  contenute  nella  parte
quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006. 
    Dall'ordinanza  indicata  risulta  che  lo   stesso   rimettente,
nell'ambito  del  medesimo  giudizio  a  quo,  aveva  sollevato   una
questione  identica  a   quella   odierna,   definita   dalla   Corte
costituzionale con un provvedimento di  restituzione  degli  atti  in
forza di variazioni  normative  sopravvenute  (ordinanza  n.  83  del
2008). L'odierno atto di promovimento riproduce, in  gran  parte,  il
testo di quello precedente. 
    1.1. - Il Tribunale riferisce di essere chiamato a giudicare  due
imputati nei cui confronti e' stato emesso  decreto  di  citazione  a
giudizio per la violazione, tra l'altro, degli artt. 51, commi 1 e 5,
e 51-bis del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.  22  (Attuazione
della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti,  della  direttiva  91/689/CEE
sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi  e
sui rifiuti di imballaggio), trasfusi rispettivamente nell'art.  256,
commi 1 e 5, e nell'art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006. 
    Il procedimento  penale  e'  stato  instaurato  in  relazione  al
sequestro preventivo, in data 22 marzo 2002, di un deposito di ceneri
di pirite (in quantita' pari a circa un milione di tonnellate),  sito
in  localita'  Gambarare  del  Comune  di  Mira.  Secondo   l'accusa,
nell'area in sequestro, di  estensione  pari  a  circa  80.000  metri
quadrati, la societa' Veneta Mineraria S.p.A. (di  cui  uno  dei  due
imputati  risultava  all'epoca  legale  rappresentante)  e  la  ditta
individuale appaltatrice dei lavori di movimentazione e carico  delle
ceneri (il cui titolare e'  l'altro  imputato)  avrebbero  effettuato
attivita'  di  gestione  di  rifiuti   pericolosi   in   assenza   di
autorizzazione, ovvero sulla base di  un'autorizzazione  scaduta,  in
violazione dell'art. 57 del d.lgs. n. 22  del  1997,  in  particolare
«espletando, su tale discarica non piu' attiva, realizzata negli anni
'70, la messa in riserva di tali rifiuti in vista del  loro  avvio  a
recupero presso cementifici». Inoltre, la gestione e messa in riserva
delle ceneri di pirite sarebbe stata effettuata in carenza di  misure
precauzionali  atte  a  tutelare   l'integrita'   dell'ambiente;   in
particolare,  l'area  sarebbe  stata  sottoposta  ad   attivita'   di
escavazione, con conseguente esposizione delle ceneri di pirite  agli
agenti  atmosferici  e  al  dilavamento,  «senza  che  fossero  stati
adottati presidi idonei ad intercettare le acque di percolazione, dal
che sarebbe derivata una grave compromissione dei terreni  confinanti
[...]  delle  falde  acquifere  sotterranee  e   dell'area   lagunare
circostante». 
    Il rimettente  precisa  che,  sempre  in  tesi  accusatoria,  gli
imputati, autorizzati dalla Provincia  di  Venezia  a  «miscelare  le
ceneri di pirite del deposito con altro materiale sempre  a  base  di
ceneri di pirite», avrebbero eseguito dette operazioni con  modalita'
tali da  determinare  pericolo  per  la  salute  e  per  l'integrita'
dell'ambiente - in particolare provocando una «prolungata esposizione
delle ceneri al dilavamento delle acque meteoriche» -  in  violazione
del disposto degli artt. 2, comma 2, e 9, comma 2, del d.lgs.  n.  22
del 1997. 
    E' contestato agli imputati, inoltre, di non aver proceduto  alla
bonifica dei terreni circostanti la discarica dopo aver cagionato,  o
comunque incrementato, l'inquinamento delle predette aree. 
    Il Tribunale di Venezia precisa infine che  nel  processo,  ormai
giunto  alla  fase  decisoria  (e'   stato   dichiarato   chiuso   il
dibattimento), si  sono  costituiti  parti  civili  la  Provincia  di
Venezia, il Comune  di  Mira  ed  i  proprietari  di  uno  dei  fondi
confinanti con il deposito in oggetto. 
    Tanto premesso in fatto, il giudice a quo procede ad  esporre  le
ragioni a sostegno  del  sollevato  dubbio  di  costituzionalita',  a
partire dalla ricostruzione  del  quadro  normativo  di  riferimento,
ponendo in evidenza, in primo luogo, che il d.lgs. n. 152  del  2006,
entrato  in  vigore  il  29  aprile  2006,  ha  inteso  tra   l'altro
riordinare, nella parte quarta, la materia della gestione dei rifiuti
e della bonifica dei siti contaminati, con espressa abrogazione delle
disposizioni contenute nel d.lgs. n. 22 del 1997  (cosi'  l'art.  264
dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006). 
    I fatti di reato contestati nel giudizio principale  sono  dunque
disciplinati dal nuovo decreto legislativo: in particolare, il  testo
dell'art. 256, commi 1 e 5, corrisponde a quello del previgente  art.
51 del d.lgs. n. 22 del  1997,  pur  con  una  lieve  modifica  nella
previsione delle pene pecuniarie;  diversamente,  la  fattispecie  in
precedenza sanzionata dall'art. 51-bis del citato d.lgs.  n.  22  del
1997, oggi prevista dall'art. 257 del d.lgs.  n.  152  del  2006,  ha
subito una modifica significativa, con l'introduzione, in qualita' di
elemento costitutivo del reato, del superamento delle  concentrazioni
soglia di rischio. 
    Successivamente, prosegue il rimettente, in data 15  maggio  2006
e' entrata in vigore la  direttiva  comunitaria  5  aprile  2006,  n.
2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e  del  Consiglio),  che
sostituisce ed abroga la precedente  direttiva  15  luglio  1975,  n.
75/442/CEE  (Direttiva  del  Consiglio  relativa  ai  rifiuti)  e  le
successive  modifiche.   La   nuova   disciplina   comunitaria,   che
costituisce  l'attuale  punto  di  riferimento  normativo  in  ambito
europeo  per  il  trattamento  dei  rifiuti,   riproduce,   lasciando
sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le nozioni del
precedente assetto normativo. 
    In particolare, l'art. 1, comma  1,  della  direttiva  2006/12/CE
definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto  che  rientri  nelle
categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi  o
abbia l'intenzione di disfarsi o l'obbligo di disfarsi».  Definizione
analoga e' contenuta  nella  norma  interna,  l'art.  183,  comma  1,
lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, che  qualifica  come  rifiuto
«qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie  riportate
nell'allegato A alla parte quarta del presente decreto e  di  cui  il
detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». 
    Quest'ultima norma, nella  versione  antecedente  alle  modifiche
apportate  con  il  d.lgs.  n.  4  del  2008,  comprendeva  anche  le
definizioni di sottoprodotto e di materia prima secondaria, le quali,
come e' noto, non sono contemplate dalle direttive  comunitarie.  Per
quanto di interesse nel procedimento in esame, il rimettente  esamina
la previsione contenuta nel testo originario  della  lettera  n)  del
comma  1  dell'art.  183,  che  definiva  sottoprodotto  «i  prodotti
dell'attivita'  dell'impresa  che,  pur  non  costituendo   l'oggetto
dell'attivita'  principale,  scaturiscono  in  via  continuativa  dal
processo industriale dell'impresa  stessa  e  sono  destinati  ad  un
ulteriore  impiego  o  al  consumo».   La   disposizione   proseguiva
prevedendo che i sottoprodotti  sono  sottratti  alla  normativa  sui
rifiuti a condizione che si tratti di «sottoprodotti di cui l'impresa
non si disfi, non sia obbligata a disfarsi  e  non  abbia  deciso  di
disfarsi ed in particolare» di «sottoprodotti impiegati  direttamente
dall'impresa  che  li  produce  o   commercializzati   a   condizioni
economicamente favorevoli per l'impresa stessa  direttamente  per  il
consumo  o  per   l'impiego,   senza   la   necessita'   di   operare
trasformazioni preliminari in  un  successivo  processo  produttivo».
Inoltre era stabilito che «l'utilizzazione del prodotto  deve  essere
certa e non eventuale [...]. L'utilizzo del  sottoprodotto  non  deve
comportare  per  l'ambiente  o  la  salute  condizioni   peggiorative
rispetto a quelle delle normali attivita' produttive». 
    Dopo aver definito in via generale la nozione  di  sottoprodotto,
il legislatore nazionale aveva previsto, nella medesima disposizione,
che «Rientrano altresi' tra i sottoprodotti non soggetti  alla  parte
quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di
ferro, provenienti dal processo di  arrostimento  del  minerale  noto
come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e
ossido  di  ferro,  depositate  presso  stabilimenti  di   produzione
dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte al procedimento
di bonifica o di ripristino ambientale». 
    Il  giudice  a  quo,  in  relazione   alle   definizioni   appena
richiamate, evidenzia i requisiti e le condizioni necessari affinche'
un residuo di produzione fosse sottratto alla disciplina sui rifiuti:
esso doveva provenire da attivita' di produzione (e non di  consumo);
doveva scaturire da tale attivita' in via continuativa (come  residuo
tipico  di  quella  produzione);  non   doveva   essere   abbandonato
dall'impresa (che dunque non se ne disfaceva);  doveva  poter  essere
reimpiegato   direttamente,   o   commercializzato    a    condizioni
economicamente  vantaggiose,  senza   attivita'   di   trasformazione
preliminare (che  ne  modificasse  l'identita');  il  riutilizzo  del
residuo in altro ciclo produttivo doveva essere  certo  ed  effettivo
(circostanza  che  a  sua   volta   doveva   essere   attestata   con
dichiarazioni   scritte   delle   imprese   di   «partenza»   e    di
«destinazione»); tale riutilizzo  non  doveva  comportare  condizioni
peggiorative per l'ambiente o per la salute  rispetto  a  quelle  che
derivavano dalle normali attivita' produttive. 
    Il rimettente rammenta che la richiamata nozione di sottoprodotto
ha sostituito quella  contenuta  nell'art.  14  del  decreto-legge  8
luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti  in  materia  tributaria,  di
privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica  e  per  il
sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito  in
legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 8 agosto  2002,  n.
178, «gia' oggetto di aspre critiche e di plurimi rilievi di sospetta
incostituzionalita'  per  l'inopinata   restrizione   della   nozione
comunitaria di rifiuto». 
    Tuttavia  il  rimettente  precisa  che  l'odierna  questione  non
riguarda la compatibilita' con il diritto comunitario  della  nozione
generale di sottoprodotto introdotta dal legislatore nazionale, prima
con l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 e, successivamente, in termini
piu' puntuali e precisi, con il richiamato art. 183, comma 1, lettera
n), del d.lgs. n. 152 del 2006,  bensi'  la  qualificazione  espressa
delle ceneri di pirite come sottoprodotto. 
    E' quindi richiamata diffusamente la giurisprudenza  della  Corte
di giustizia dell'Unione europea ed in  particolare  la  sentenza  11
novembre 2004, in C-457/02, Niselli, in cui si ammette, in linea  con
i precedenti  di  analogo  oggetto,  che  i  materiali  derivanti  da
processi di fabbricazione o estrazione non principalmente destinati a
produrli possono costituire non  residui  ma  sottoprodotti,  di  cui
l'impresa non ha intenzione di disfarsi, ma si precisa anche che tale
qualificazione «deve essere circoscritta alle situazioni  in  cui  il
riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia
solo eventuale ma certo senza previa  trasformazione  e  avvenga  nel
corso del processo di produzione» [punti 44 e 45]. 
    Il Tribunale di Venezia richiama ulteriori,  successive  pronunce
della Corte del Lussemburgo,  assunte  nell'ambito  di  procedure  di
infrazione (sentenza 8 settembre 2005, in cause C-4167/02 e C-121/03,
Commissione c. Regno di Spagna), nelle quali si trova affermato che i
residui dell'attivita' zootecnica, accumulati dall'impresa in  attesa
di successivo utilizzo, avrebbero potuto essere utilizzati anche «per
il  fabbisogno  di  operatori  economici  diversi»   dal   produttore
originario. 
    Le richiamate sentenze, prosegue il giudice a quo, erano state di
poco precedute da un'altra pronuncia, resa in forma di ordinanza,  il
15 aprile 2004 nella causa C-235/02, Saetti Freudiani, nella quale la
Corte ha enunciato il principio secondo cui un residuo di  produzione
(il coke da  petrolio  di  Gela)  utilizzato  con  certezza  «per  il
fabbisogno di energia della stessa impresa  produttrice  e  di  altre
industrie non  costituisce  rifiuto  ai  sensi  della  direttiva  del
Consiglio 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE, relativa  ai  rifiuti,  come
modificata  dalla  direttiva  del  Consiglio  18   marzo   1991,   n.
91/156/CEE». In tali decisioni, osserva  il  rimettente,  sembrerebbe
quindi  ravvisarsi  un'apertura   del   giudice   comunitario   sulla
estensione della nozione di sottoprodotto all'utilizzo del residuo di
produzione  da  parte  di   soggetti   terzi   rispetto   all'impresa
produttrice. 
    1.2. - Cosi' definito il  quadro  normativo  di  riferimento,  il
Tribunale di Venezia passa  ad  esaminare  lo  specifico  residuo  di
produzione costituito dalle ceneri di pirite, oggetto del giudizio  a
quo, esponendo quanto emerso all'esito del dibattimento. 
    Le ceneri di pirite sono un residuo di produzione (necessario  ed
inevitabile) del procedimento industriale di fabbricazione dell'acido
solforico, cioe'  di  uno  dei  piu'  importanti  prodotti  intermedi
dell'industria  chimica  di  base.   Il   procedimento   in   parola,
consistente  nel  cosiddetto  arrostimento  in  forni  speciali   del
minerale denominato pirite, e' stato utilizzato fino  ai  primi  anni
'70, epoca in cui alla materia prima pirite e'  stato  sostituito  lo
zolfo. In Italia erano stati realizzati circa  100  stabilimenti,  di
varia potenzialita',  per  la  produzione  dell'acido  solforico  con
l'utilizzo della pirite,  ed  ancora  oggi  esistono  depositi  delle
relative ceneri  in  varie  zone  del  Paese.  Il  deposito  sito  in
localita' Gambarare di Mira, posto sotto sequestro nel procedimento a
quo, era stato attivo fino ai primi anni '70, per essere  poi  «messo
in sicurezza», mediante ricopertura dei  cumuli  di  cenere  con  uno
strato di terra successivamente piantumata. Dopo circa venti anni,  a
partire dal 1994, «il deposito e' stato riaperto  e  coltivato  dalla
Veneta Mineraria S.p.A. che aveva appaltato a M.E. i lavori materiali
di movimentazione delle ceneri ed il loro successivo carico su camion
per il [...] conferimento del materiale  a  cementifici  italiani  ed
esteri». Le ceneri di  pirite  costituiscono,  infatti,  un  additivo
fondamentale nella produzione del cemento, nel quale  sono  impiegate
senza attivita' preliminare di trasformazione. 
    Cio' detto, ad avviso del Tribunale di Venezia sarebbe proprio la
particolare origine del residuo di  produzione  in  esame  a  rendere
impossibile la sottrazione dello stesso dal novero dei rifiuti. Posto
infatti che, secondo la definizione  di  cui  all'art.  1,  comma  1,
lettera a), della direttiva 2006/12/CE, si ha sempre  rifiuto  quando
il  produttore/detentore  «si  disfa»  di  un   determinato   residuo
produttivo e non lo reimpiega ne' lo commercializza,  «stabilire  che
un residuo va considerato sottoprodotto [...] a prescindere dal fatto
che l'impresa produttrice se ne e' gia' disfatta  e'  operazione  che
contrasta con il diritto comunitario». 
    Tale conclusione, secondo  il  rimettente,  non  potrebbe  essere
superata dalla considerazione che assume a riferimento il  produttore
originario e non l'attuale detentore, cioe' il soggetto il  quale  si
trova,  come  nella  vicenda  in  esame,   a   gestire   depositi   e
commercializzare le ceneri di pirite, alienandole a cementifici. 
    Del resto, osserva il giudice  a  quo,  e'  la  stessa  normativa
nazionale  a  porre  alla  base   della   disciplina   generale   dei
sottoprodotti l'impresa che li produce, facendo riferimento a  questa
per tutto quanto concerne i presupposti  che  debbono  ricorrere  per
sottrarre il  residuo  di  produzione  all'applicazione  della  parte
quarta del d.lgs. n. 152 del 2006. 
    In senso contrario, prosegue il rimettente, nemmeno  si  potrebbe
sostenere che gli  accumuli  di  ceneri  di  pirite  distribuiti  sul
territorio  nazionale,  compreso  quello  oggetto  del   procedimento
principale,  non  siano  mai  stati  «abbandonati»  dagli   originari
produttori, e cio' in quanto negli anni  in  cui  per  la  produzione
dell'acido solforico era impiegata la pirite, le ceneri residue erano
oggetto di conferimenti ai cementifici «a pie' di impianto»,  sicche'
l'accantonamento riguardava solo il surplus di produzione,  in  vista
del futuro utilizzo. Al contrario, il dato  fattuale  -  puntualmente
recepito  dal  legislatore  che,  nella  norma  censurata,   menziona
«stabilimenti dismessi» ed «aree  industriali  e  non»  -  dal  quale
emerge che tale accantonamento  e'  assai  risalente  nel  tempo  (di
almeno  trent'anni),  dimostrerebbe  come,  per  un  lungo   periodo,
l'utilizzo del residuo non sia stato affatto certo o probabile. 
    Tutto cio' renderebbe evidente, secondo il Tribunale di  Venezia,
come  la  normativa  interna,  di  cui  si  chiede  lo  scrutinio  di
costituzionalita', si ponga in contrasto non solo  con  il  requisito
del «non disfarsi» del residuo da parte del  produttore  originario -
il che avviene se il materiale e' raccolto in una  determinata  area,
che viene chiusa o messa in sicurezza, ed e'  lasciato  in  loco  per
molti anni - ma anche con l'ulteriore  requisito  della  certezza  ed
effettivita' dell'utilizzo del residuo di produzione  al  momento  in
cui  esso  e'   originato,   come   ripetutamente   affermato   dalla
giurisprudenza comunitaria. 
    Inoltre, la previsione censurata, nella parte in cui  sottrae  le
ceneri di pirite all'applicazione della parte quarta  del  d.lgs.  n.
152  del  2006,  «anche  se  sottoposte  a  bonifica   o   ripristino
ambientale»,  appare  in  contrasto  con  il  principio  secondo  cui
l'utilizzo  di  un  sottoprodotto  deve   avvenire   senza   arrecare
pregiudizio per l'ambiente e per la salute (art.  4  della  direttiva
2006/12/CE), posto che nelle indicate evenienze e'  probabile  che  i
materiali raccolti possano essere  contaminati,  cosi'  da  risultare
pericolosi per la salute e per l'ambiente. 
    In definitiva, secondo il rimettente, la  disposizione  contenuta
nell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152
del 2006 contrasterebbe con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. 
    Inoltre, ai sensi dell'art. 174, n. 2, del Trattato 25 marzo 1957
(Trattato che istituisce la Comunita'  europea),  nella  versione  in
vigore fino al 30 novembre  2009,  ora  trasfuso  nell'art.  191  del
Trattato sul funzionamento dell'Unione  europea,  in  vigore  dal  1°
dicembre 2009, la politica comunitaria in materia ambientale mira  ad
un elevato livello di tutela  ed  e'  fondata,  in  particolare,  sui
principi «della precauzione e dell'azione preventiva,  sul  principio
della correzione, in via prioritaria alla fonte,  dei  danni  causati
all'ambiente, nonche' sul principio "chi  inquina  paga"».  Pertanto,
secondo il giudice a quo, il  legislatore  italiano,  nell'introdurre
una norma in contrasto con siffatti principi, avrebbe  anche  violato
il generale obbligo di leale collaborazione di cui  all'art.  10  del
Trattato   che   istituisce   la    Comunita'    europea    (articolo
successivamente abrogato dall'art.  2,  punto  22,  del  Trattato  13
dicembre  2007  -  Trattato  di  Lisbona  che  modifica  il  Trattato
sull'Unione  europea  e  il  Trattato  che  istituisce  la  Comunita'
europea), il quale prevede che gli Stati «si astengono  da  qualsiasi
misura che rischi di compromettere la realizzazione degli  scopi  del
presente trattato». 
    1.3. - Il rimettente esamina quindi il profilo  dei  rimedi  alla
rilevata  antinomia  tra  diritto  interno  e  diritto   comunitario,
escludendo  di  poter  procedere  alla  disapplicazione  della  norma
interna, come invece sostenuto dal  pubblico  ministero,  secondo  il
quale la direttiva 75/442/CEE e successive modifiche e  la  direttiva
2006/12/CE sarebbero «autoapplicative», quanto meno  con  riferimento
alla nozione di rifiuto. 
    Sul punto sono richiamate espressamente le argomentazioni esposte
dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 1414 del 2006),  secondo  cui
il giudice puo' procedere alla disapplicazione della norma  nazionale
contrastante con il diritto comunitario quando la  norma  comunitaria
abbia efficacia diretta nell'ordinamento interno, e quindi  solo  nei
casi di alcune norme del Trattato istitutivo, dei regolamenti,  delle
direttive  che  non  richiedono,  ai  fini  dell'applicazione,  alcun
provvedimento  ulteriore  da  parte  degli  Stati  membri,  e   delle
decisioni rivolte ai singoli o agli Stati membri. 
    1.4. - Per concludere, il giudice a quo esamina la tematica degli
effetti in malam partem  che  deriverebbero  dall'accoglimento  della
sollevata questione, osservando come  l'eventuale  caducazione  della
norma piu' favorevole, contenuta nell'art. 183, comma 1, lettera  n),
del d.lgs. n. 152 del 2006, riguardante  le  ceneri  di  pirite,  non
comporterebbe una violazione del principio di irretroattivita'  della
norma penale previsto dall'art. 25, secondo comma, Cost., posto  che,
per un verso, le ceneri di  pirite  costituivano  senz'altro  rifiuto
all'epoca delle condotte contestate, non essendo  ancora  entrato  in
vigore l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, recante  l'interpretazione
autentica e restrittiva della nozione di rifiuto, e, per altro verso,
la norma incriminatrice, contenuta nell'art. 51 del d.lgs. n. 22  del
1997,  era  gia'  in  vigore  prima  della  commissione   dei   reati
contestati. 
    La rilevanza della questione sarebbe  in  ogni  caso  assicurata,
secondo l'insegnamento della Corte costituzionale (e'  richiamata  la
sentenza n. 148 del 1983), dalla incidenza che  l'accoglimento  della
stessa potrebbe esercitare sulle formule  di  proscioglimento  o  sui
dispositivi  della  sentenza  penale,  riflettendosi  comunque  sullo
schema argomentativo della motivazione. 
    1.5.  -  Dopo  l'integrale  richiamo  al   precedente   atto   di
promovimento, il Tribunale di  Venezia  riesamina  il  profilo  della
rilevanza  della  questione,  secondo  l'indicazione  espressa  nella
citata ordinanza n. 83 del 2008  di  questa  Corte.  La  restituzione
degli atti era stata disposta per lo ius superveniens costituito  dal
d.lgs. n. 4 del 2008,  con  il  quale  il  legislatore  nazionale  ha
riformulato l'art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006,  introducendo  una
nuova definizione  di  sottoprodotto  ed  eliminando  il  riferimento
specifico alle ceneri di pirite. 
    Il rimettente evidenzia come la materia sia stata  caratterizzata
da  numerose  modifiche   normative   intervenute   nel   corso   del
procedimento principale: in particolare, al momento in cui  e'  stato
effettuato il sequestro preventivo del deposito di ceneri di  pirite,
era vigente l'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997,
il quale recepiva la  nozione  comunitaria  secondo  cui  e'  rifiuto
«qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie  riportate
nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia
l'obbligo di disfarsi».  In  quel  contesto  normativo,  prosegue  il
giudice a quo, non vi era dubbio che «le ceneri di pirite, in  quanto
raccolte ed accantonate per un trentennio  in  un'area  ricoperta  di
terra successivamente piantumata, rientrassero  a  pieno  titolo  nel
concetto  di  rifiuto  in  quanto  residuo  di  produzione   di   cui
l'originario detentore si era disfatto o aveva deciso di disfarsi». 
    Nelle more del procedimento principale, era poi entrato in vigore
l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, che aveva fornito  la  cosiddetta
interpretazione autentica dell'art. 6 del d.lgs. n. 22 del  1997.  Il
citato art.  14,  pur  nella  indubbia  portata  «restrittiva»  della
nozione di rifiuto, tuttavia ancora consentiva una  applicazione  che
tenesse conto del criterio generale di interpretazione della  materia
dei rifiuti, quello cioe' di non pregiudicare l'efficacia del diritto
comunitario. Per un verso,  infatti,  la  gia'  evidenziata  notevole
distanza temporale tra il  momento  di  produzione  delle  ceneri  di
pirite e quello del loro  impiego  in  un  diverso  ciclo  produttivo
portava a ritenere che tale residuo fosse stato sottoposto -  tramite
deposito al suolo e copertura con strato di terreno piantumato  -  ad
«attivita' di smaltimento o di recupero», e dunque  rientrasse  nella
nozione di rifiuto di cui al comma 1  del  richiamato  art.  14.  Per
altro verso, il comma 2 del medesimo  art.  14  richiedeva,  ai  fini
della configurabilita' del sottoprodotto, che i  materiali  residuali
di  produzione  (o   di   consumo)   potessero   essere   e   fossero
«effettivamente e  oggettivamente  riutilizzati  nel  medesimo  o  in
analogo o diverso ciclo produttivo o di  consumo»,  sicche'  il  loro
riutilizzo doveva essere attuale rispetto al  momento  originario,  e
non solo potenziale. 
    Pertanto, a parere del rimettente, anche dopo l'entrata in vigore
dell'art.  14  del  d.l.  n.  138  del  2002,  le  ceneri  di  pirite
continuavano ad essere disciplinate dalla  normativa  in  materia  di
gestione dei rifiuti. 
    Ad analoghe conclusioni il giudice a quo perviene avuto  riguardo
al successivo intervento del legislatore, attuato  con  la  legge  15
dicembre 2004,  n.  308  (Delega  al  Governo  per  il  riordino,  il
coordinamento  e  l'integrazione  della   legislazione   in   materia
ambientale e misure di diretta applicazione), il quale ha confermato,
all'art. 1, comma 26 (successivamente abrogato dall'art. 2, comma 46,
del d.lgs. n. 4 del 2008), la vigenza dell'art. 14 del  d.l.  n.  138
del 2002, sebbene la Corte di giustizia, con la  richiamata  sentenza
Niselli, avesse gia' ritenuto tale disposizione in contrasto  con  la
nozione comunitaria di rifiuto. La disciplina dettata dall'art. 14 e'
dunque rimasta in vigore fino a quando, in attuazione  della  delega,
e' entrato in vigore il d.lgs. n. 152 del  2006,  che  all'art.  183,
comma 1, lettera n), quarto periodo, ha esplicitamente  statuito  che
le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti, cosi' introducendo
una norma di favore nei confronti degli odierni imputati,  ai  quali,
in applicazione del principio codificato nell'art. 2,  quarto  comma,
del codice penale, dovrebbe essere applicata quest'ultima previsione,
con conseguente assoluzione con formula di insussistenza  del  fatto,
difettando la qualita'  di  «rifiuto»  nell'oggetto  materiale  della
condotta. 
    Il rimettente segnala in proposito che, nelle more del precedente
giudizio di costituzionalita', la Corte di giustizia, con la sentenza
18 dicembre 2007, in  causa  C-263/05,  ha  accolto  il  ricorso  per
inadempimento, proposto, ai sensi dell'art. 266 del Trattato 25 marzo
1957  (Trattato  sul  funzionamento   dell'Unione   europea),   dalla
Commissione contro la  Repubblica  italiana,  per  avere  adottato  e
mantenuto in vigore l'art.  14  del  d.l.  n.  138  del  2002.  Nella
richiamata sentenza la Corte  del  Lussemburgo,  dopo  aver  ribadito
ancora una volta che il termine «disfarsi», e quindi  la  nozione  di
rifiuto, non possono essere interpretati in senso restrittivo  [punto
33], ha svolto un excursus delle pronunce adottate in materia  e  dei
principi in esse individuati, in esito al  quale  ha  precisato,  tra
l'altro, che «in determinate situazioni, un bene, un materiale o  una
materia  prima  che  deriva  da  un  processo  di  estrazione  o   di
fabbricazione che non e' principalmente  destinato  a  produrlo  puo'
costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto,  del  quale
il detentore non cerca di «disfarsi» [...] ma che intende sfruttare o
commercializzare  [...]  a  condizioni  ad  esso  favorevoli,  in  un
processo successivo, a condizione  che  tale  riutilizzo  sia  certo,
senza  trasformazione  preliminare  e  intervenga  nel  processo   di
produzione o di utilizzazione».  Nel  prosieguo  della  pronuncia  la
Corte ha affermato che «se per tale riutilizzo  occorrono  operazioni
di  deposito  che  possono  avere  una   certa   durata,   e   quindi
rappresentare un onere per il detentore nonche' essere potenzialmente
fonte  di  quei  danni  per  l'ambiente   che   la   direttiva   mira
specificamente a limitare, esso non puo' essere considerato certo  ed
e' prevedibile solo a  piu'  medio  o  lungo  termine,  cosicche'  la
sostanza di  cui  trattasi  deve  essere  considerata,  in  linea  di
principio, come rifiuto». 
    Il  giudice  a  quo  osserva   come   tale   pronuncia   conforti
l'interpretazione dell'art. 14, sopra prospettata,  ed  i  limiti  di
applicabilita' al caso in esame, una volta chiarito che il riutilizzo
del materiale residuo  deve  avvenire  «nel  corso  del  processo  di
produzione». 
    Sul fronte della  normativa  nazionale,  infine,  la  novita'  e'
costituita, dal d.lgs. n. 4 del 2008, che ha introdotto  modifiche  e
correzioni al d.lgs. n. 152  del  2006,  in  particolare  riscrivendo
interamente la nozione di sottoprodotto ed eliminando il  riferimento
alle ceneri di pirite. 
    Il  rimettente  evidenzia  come   la   «nuova»   definizione   di
sottoprodotto, contenuta nell'art. 183,  comma  1,  lettera  p),  del
d.lgs. n.  152  del  2006,  rispetto  alle  precedenti  formulazioni,
risulti senz'altro piu' rispettosa della normativa  comunitaria,  la'
dove stabilisce che: «sono sottoprodotti le sostanze ed  i  materiali
di cui il produttore non intende disfarsi  ai  sensi  dell'art.  183,
comma 1,  lettera  a),  che  soddisfino  tutti  i  seguenti  criteri,
requisiti e  condizioni:  1)  siano  originati  da  un  processo  non
direttamente destinato alla loro produzione; 2) il loro  impiego  sia
certo,  sin  dalla  fase  della  produzione,  integrale   e   avvenga
direttamente nel corso del processo di produzione o di  utilizzazione
preventivamente  individuato  e  definito;  3)  soddisfino  requisiti
merceologici e di qualita' ambientale idonei a garantire che il  loro
impiego  non  dia  luogo  ad  emissioni  e  ad   impatti   ambientali
qualitativamente e quantitativamente diversi  da  quelli  autorizzati
per l'impianto dove sono  destinati  ad  essere  utilizzati;  4)  non
debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni
preliminari per soddisfare i requisiti  merceologici  e  di  qualita'
ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla
fase della produzione; 5) abbiano un valore economico di mercato». 
    La predetta definizione, secondo il rimettente, non  consente  in
alcun modo di collocare le ceneri  di  pirite  tra  i  sottoprodotti,
sicche',  in  esito  alla  disamina  diacronica  della  normativa  in
materia, si dovrebbe concludere che  le  ceneri  di  pirite  sono  un
rifiuto in forza sia delle disposizioni che  hanno  preceduto  quella
oggetto di censura, sia della  disposizione  attualmente  in  vigore.
Soltanto l'applicazione della norma oggetto di censura, che ha  avuto
una vigenza quasi biennale, condurrebbe al risultato di sottrarre  il
predetto materiale alla disciplina dei rifiuti. 
    Tale  norma  peraltro,  finche'  non  espunta   dall'ordinamento,
continua ad essere  la  previsione  piu'  favorevole,  tra  le  varie
succedutesi  nel  tempo,  e  dunque  deve  trovare  applicazione  nel
giudizio a quo, con la conseguenza che, a parere del giudice  a  quo,
la questione di costituzionalita' risulta ancora rilevante. 
    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilita' e,  comunque,  per
l'infondatezza della questione. 
    Dopo  aver  ripercorso,  in  sintesi,  l'iter  argomentativo  del
rimettente,  la  difesa  erariale  evidenzia  come  il  nucleo  della
questione afferisca alla nota problematica  della  cosiddetta  «legge
intermedia», che si pone quando tra due fattispecie normative  -  nel
caso di specie, il d.lgs. n. 22 del 1997 e il d.lgs. n. 4 del 2008  -
che qualificano, sia pure indirettamente, una condotta come reato, se
ne inserisce una terza -  il  d.lgs.  n.  152  del  2006,  nel  testo
previgente - la quale considera  quella  stessa  condotta  pienamente
lecita. 
    La dottrina  prevalente  e'  dell'opinione  che  tali  situazioni
debbano essere regolate alla luce del disposto dell'art.  2,  secondo
comma, del codice penale, secondo cui «nessuno puo' essere punito per
un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato». 
    In  altri  termini,  l'effetto  depenalizzante  retroagirebbe   a
prescindere dalla circostanza  che  successivamente  sia  entrata  in
vigore una legge che abbia ripristinato  la  rilevanza  penale  della
condotta. 
    Tale soluzione, a parere  dell'Avvocatura  generale,  sarebbe  in
tutto ragionevole, posto  che,  in  caso  contrario,  la  punibilita'
dell'imputato verrebbe a dipendere dalla circostanza che il  processo
penale si sia concluso in vigenza della (nuova) norma  incriminatrice
anziche' nella vigenza della legge depenalizzante. 
    Il rimettente,  prosegue  la  difesa  dello  Stato,  intenderebbe
eliminare  la  norma  depenalizzante  attraverso  una  pronuncia   di
illegittimita' costituzionale per contrasto della stessa con le norme
comunitarie ed, in via derivata, con gli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost. Tuttavia tale pretesa contrasta con il principio di  legalita',
sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., che, secondo la  costante
giurisprudenza costituzionale, nell'affermare il  principio  per  cui
nessuno puo' essere punito se non in forza di una  legge  entrata  in
vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte  costituzionale
possa introdurre in via additiva nuovi reati, o  che,  comunque,  per
effetto di una sentenza costituzionale,  possano  essere  ampliate  o
aggravate figure di reato gia' esistenti, trattandosi  di  interventi
riservati in via  esclusiva  alla  discrezionalita'  del  legislatore
(sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale  n.  161  del
2004, n. 49 del 2002, nn. 508 e 183 del 2000,  n.  411  del  1995,  e
l'ordinanza n. 580 del 2000). 
    Secondo l'Avvocatura generale, l'assunto risulterebbe ancor  piu'
valido se si considera che «e' comune in dottrina e in giurisprudenza
un  principio  esattamente  opposto  all'obiettivo,  perseguito   dal
giudice remittente, di giungere ad una dichiarazione di  colpevolezza
anche in  deroga  al  principio  del  favor  rei:  un'interpretazione
sistematica degli articoli 25 e 136  della  Costituzione  fa  infatti
ragionevolmente ritenere che la norma  dichiarata  costituzionalmente
illegittima, se piu' favorevole,  potra'  essere  applicata  al  caso
specifico anche a rischio  di  mettere  in  dubbio  il  principio  di
certezza del diritto». 
    Infine e indipendentemente dai rilievi fin qui svolti, la  difesa
erariale  evidenzia  la  singolare  scelta  compiuta  dal  rimettente
Tribunale di Venezia, il quale  intende  perseguire  la  verifica  di
conformita' della norma interna al diritto comunitario attraverso una
strada diversa dalla rimessione della  questione  pregiudiziale  alla
Corte di giustizia, senza considerare che nessuna  fonte  dell'Unione
europea  impone  che  gli  Stati  membri  perseguano  penalmente   le
violazioni sulla disciplina dei rifiuti. 
    3. - Con memoria depositata il 16 febbraio 2009, si e' costituito
in giudizio uno degli  imputati  del  processo  a  quo,  prospettando
l'inammissibilita', l'irrilevanza e l'infondatezza della questione, e
in ogni caso la preclusione connessa agli effetti in malam partem che
deriverebbero dall'eventuale accoglimento,  in  violazione  dell'art.
25, secondo comma, Cost. 
    Dopo avere richiamato diffusamente gli argomenti prospettati  dal
Tribunale di Venezia, la difesa della  parte  privata  evidenzia,  in
primo luogo, come la pretesa del rimettente di risolvere la questione
di conformita' all'ordinamento  comunitario  di  una  norma  interna,
attraverso l'incidente di costituzionalita', risulti inammissibile. 
    La soluzione della questione «pertiene alla  giurisdizione  della
Corte di giustizia a norma dell'art. 234 del Trattato  CE,  sotto  la
specie della competenza a risolvere in via pregiudiziale le questioni
di  interpretazione   della   normativa   comunitaria   quanto   alla
compatibilita' della normativa interna con la medesima». 
    A  tale  riguardo,  rammenta   la   parte   privata,   la   Corte
costituzionale si e' espressa di recente (e'  richiamata  l'ordinanza
n. 103 del 2008), affermando che nel  giudizio  pendente  davanti  al
giudice comune, al fine dell'interpretazione delle norme  comunitarie
necessarie per l'accertamento della conformita' delle  norme  interne
con l'ordinamento comunitario,  lo  stesso  giudice  deve  avvalersi,
all'occorrenza, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. 
    La  questione  sarebbe  poi   irrilevante,   in   ragione   della
genericita'  delle  conseguenze  prospettate  dal  rimettente   circa
l'incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento  nel  giudizio
principale, che e' un giudizio penale, ancorche' fondato  su  nozioni
extrapenali che entrano a far parte della norma incriminatrice. 
    In particolare, la parte privata sottolinea come  la  tesi  della
reviviscenza della pregressa normativa di per se' ponga, in  sede  di
responsabilita'  penale,  «questioni   insormontabili»,   attesa   la
prevalenza assoluta del principio del favor rei, e  come  proprio  su
tali problematiche il rimettente non abbia adeguatamente motivato. 
    Nel merito, infine, la questione risulterebbe infondata. 
    La  difesa  della   parte   privata   procede   all'esame   della
disposizione contenuta nel censurato art. 183, comma 1,  lettera  n),
del d.lgs. n. 152 del 2006, evidenziando come la stessa  -  suddivisa
in sei periodi, inseriti in un unico contesto - introduca la  nozione
di sottoprodotto, stabilisca le condizioni ed i requisiti in presenza
dei quali i sottoprodotti  sono  sottratti  alle  disposizioni  della
parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006, includa le ceneri di  pirite
tra  i  sottoprodotti,  stabilisca,  infine,   le   regole   che   ne
disciplinano  l'utilizzabilita',  senza   che   derivino   condizioni
peggiorative per l'ambiente o  la  salute  rispetto  a  quelle  delle
normali attivita' produttive. 
    Ad avviso della stessa parte, il  tenore  letterale  e  la  ratio
della norma, da valutare con riferimento alla definizione di  rifiuto
contenuta nel medesimo art. 183, comma 1, lettera a), del  d.lgs.  n.
152 del 2006, «non possono  significare  altro  che  in  difetto  dei
requisiti, delle regole e delle condizioni da essa  stabilite  (prima
tra  tutte,  ed  in  via  generale  non  derogata,  quella  del  "non
disfarsi"), i prodotti di cui trattasi,  non  escluse  le  ceneri  di
pirite,   sono   naturalmente   soggette   alla   normativa,    anche
sanzionatoria, dettata per i rifiuti nella parte quarta del d.lgs. n.
152/2006». 
    Il dubbio di legittimita' costituzionale, sempre secondo la parte
privata, sarebbe stato prospettato dal rimettente  presupponendo  una
portata derogatoria, rispetto al  contesto  di  riferimento,  che  la
norma censurata non presenta, ne' dal punto di vista  letterale,  ne'
alla  luce  del  significato   che   ragionevolmente   deve   esserle
attribuito, in coerenza e rispondenza con il predetto contesto. 
    Inoltre, costituirebbe una petizione di principio  l'affermazione
del giudice a  quo,  secondo  cui  il  lungo  tempo  trascorso  dalla
produzione delle ceneri di  pirite  renderebbe  ineluttabile  che  il
produttore se ne fosse gia' disfatto, sicche' la previsione censurata
necessariamente derogherebbe al requisito del «non disfarsi». 
    Analoghe considerazioni, sempre a parere della parte  costituita,
varrebbero  per  gli  altri  profili  di  censura   prospettati   dal
rimettente, attinenti, in particolare, all'incertezza ed alla  dubbia
effettivita' dell'utilizzo delle ceneri di pirite - stante  il  lungo
tempo trascorso tra la loro produzione ed il passaggio dal produttore
originario al detentore che ne cura la commercializzazione - ed  alla
sicurezza dell'utilizzo. 
    Quanto al primo aspetto, lo  stesso  rimettente  da'  atto  della
progressiva  apertura  della  giurisprudenza  comunitaria  circa   la
possibilita' che l'alienazione dei sottoprodotti avvenga anche per il
tramite di soggetti diversi dal produttore, i quali provvedano in  un
tempo  successivo  alla  commercializzazione,  senza  subordinare   a
precisi limiti  temporali  la  durata  del  deposito,  l'epoca  della
commercializzazione e l'effettivo utilizzo (e' richiamata la sentenza
della Corte  di  giustizia  8  settembre  2005,  in  causa  C-416/02,
Commissione c. Regno di Spagna). Non troverebbe percio' conferma,  in
ambito comunitario, «l'asserto secondo cui il requisito dell'utilizzo
certo ed effettivo  puo'  essere  garantito  soltanto  allorche'  "il
sottoprodotto" viene utilizzato nella fase in  cui  esso  viene  alla
luce», per quanto sia innegabile che questa  fosse  l'interpretazione
originariamente seguita dalla giurisprudenza comunitaria. 
    Con riguardo poi al significato dell'inciso «anche se  sottoposte
a procedimento di bonifica o di  ripristino  ambientale»,  la  difesa
della parte privata osserva come erroneamente il rimettente riferisca
tale espressione al materiale ceneri di pirite,  anziche'  alle  aree
ove  lo  stesso  si  trova  depositato,  cosi'  ravvisando  anche  un
contrasto tra la norma censurata ed il principio generale secondo cui
l'utilizzo del sottoprodotto deve avvenire  senza  che  cio'  arrechi
pregiudizio per l'ambiente e per la salute. 
    Per  smentire  l'assunto  sarebbe  sufficiente  considerare   che
l'ultimo periodo del censurato art. 183, comma 1, lettera n), prevede
espressamente che «l'utilizzo del sottoprodotto non  deve  comportare
per l'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a  quelle
delle normali attivita' produttive». 
    Secondo la  parte  privata  anche  la  ricostruzione  del  quadro
normativo comunitario, come prospettata dal rimettente,  risulterebbe
opinabile, incompleta ed errata sotto molteplici profili. 
    La definizione di rifiuto costituisce una  delle  questioni  piu'
controverse nell'ambito del diritto interno dell'ambiente e di quello
comunitario, ed e' stata oggetto di numerose  e  complesse  decisioni
della Corte di  Lussemburgo,  che  hanno  espresso  orientamenti  non
sempre univoci. 
    Da ultimo, la parte privata segnala il contributo  fornito  dalla
Commissione con la Comunicazione interpretativa  sui  rifiuti  e  sui
sottoprodotti del 21 febbraio 2007, che in premessa ha evidenziato la
complessita' della distinzione tra rifiuto  e  sottoprodotto  per  il
conflitto di interessi che ruota attorno ad essa. In linea  generale,
la Commissione ha ritenuto che un'interpretazione troppo ampia  della
nozione  di  rifiuto  finisca  per  gravare  le  imprese  di   «costi
superflui, rendendo meno interessante un materiale che avrebbe potuto
invece rientrare nel circuito economico», cosi'  chiarendo  la  ratio
della disciplina comunitaria e della controversa distinzione, la  cui
finalita' e' di evitare che i rifiuti si producano. 
    In una simile prospettiva  verrebbe  valorizzata  al  massimo  la
possibilita'  di  «generare  prodotti  che  risultino  idonei  ad  un
proficuo  riutilizzo  e   che   siano   dotati   di   caratteristiche
merceologiche definite  e  di  valore  economico  determinabile».  In
termini analoghi, gia' la direttiva 2006/12/CE,  al  quinto  e  sesto
considerando e poi all'art. 3, ha  sollecitato  gli  Stati  membri  a
favorire il recupero dei rifiuti e l'utilizzazione dei  materiali  di
recupero come materie prime, a limitare la  formazione  dei  rifiuti,
promuovendo  le  tecnologie  «pulite»  e  i  prodotti  riciclabili  e
riutilizzabili. 
    Nella  direzione  di  una  nozione  «condivisa»  di  rifiuto,  la
Commissione ha sottolineato la centralita' dell'elemento soggettivo -
il  concetto  di  «disfarsi»  -,  ribadendo  il  carattere  meramente
indicativo  delle  elencazioni  comunitarie.  Cio'  che,  del  resto,
emergerebbe gia' dalla direttiva 2006/12/CE, ove si legge, al  quarto
considerando, che «una regolamentazione  efficace  e  coerente  dello
smaltimento e del recupero dei  rifiuti  dovrebbe  applicarsi,  fatte
salve talune eccezioni, ai beni mobili di cui il detentore si disfi o
abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi». 
    Quanto al profilo  soggettivo,  la  difesa  della  parte  privata
richiama l'ordinanza della Corte di giustizia  15  gennaio  2004,  in
causa C-235/02 Saetti Freudiani, nella quale si trova affermato  che,
poiche' il materiale in questione (il coke da petrolio di  Gela)  era
«il  risultato  di  una  scelta  tecnica»  volta  deliberatamente   a
produrlo, non poteva essere considerato residuo di  produzione.  Cio'
significa che, al fine di stabilire se un  materiale  costituisca  un
rifiuto, occorre verificare se il fabbricante  abbia  deliberatamente
scelto di produrlo. 
    Altro indice che il prodotto derivi da una scelta tecnica si puo'
ricavare dalla modifica del sistema di produzione tale  da  conferire
allo stesso caratteristiche  specifiche  che  lo  rendano  idoneo  ad
essere utilizzato e commercializzato:  in  base  a  tali  indici,  la
richiamata ordinanza ha concluso che il coke da petrolio,  in  quanto
e' il risultato di una scelta tecnica,  nell'ambito  di  un  processo
destinato  principalmente  a  produrre  un  diverso   materiale,   va
considerato prodotto (petrolifero) e non residuo di  produzione,  dal
momento  in  cui  vi  e'  certezza  che  l'intera  produzione  verra'
utilizzata. 
    La difesa della parte  costituita  evidenzia  come  un  ulteriore
importante indice di  valutazione  sia  rappresentato  dal  vantaggio
finanziario  che  deriva  dalla  vendita  del  prodotto.  Nella  gia'
richiamata sentenza Niselli la Corte di giustizia  ha  affermato  che
«se, oltre alla mera possibilita' di  riutilizzare  la  sostanza,  il
detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la  probabilita'
di tale riutilizzo e' alta. In un'ipotesi del genere la  sostanza  in
questione non potra' piu' essere considerata un ingombro  di  cui  il
detentore cerchi di "disfarsi", bensi' un autentico prodotto»  [punto
46]. 
    Importanti indicazioni in materia provengono inoltre, secondo  la
parte, dalle pronunce rese in cause C-416/02 e C-121/03  (Commissione
c. Regno di Spagna), nelle quali la Corte di Lussemburgo  ha  escluso
che  dovesse  considerarsi  rifiuto   il   letame   utilizzato   come
fertilizzante nell'ambito di una pratica  legale  di  spargimento,  e
cio' pur se detto materiale e'  destinato  ad  essere  utilizzato  da
soggetti terzi, in un contesto produttivo del tutto diverso, ed anche
se prima dell'utilizzo deve essere depositato e  lasciato  essiccare.
Lo spostamento dal luogo o stabilimento di produzione  «da  solo  non
basta a costituire una prova» per  affermare  che  si  tratti  di  un
residuo anziche' di un prodotto. 
    La parte privata richiama  ancora  le  sentenze  della  Corte  di
giustizia in cause  C-9/00,  Palin  Granit  Oy,  e  C-114/01,  Avesta
Polarit Chrome Oy, nelle quali e' stata negata la  qualificazione  di
rifiuti ai residui di roccia depositati  in  vista  di  un  ulteriore
utilizzo, come materiale di riempimento, senza necessita'  di  alcuna
misura di recupero e  senza  alcun  pericolo  per  la  salute  o  per
l'ambiente. La Corte di giustizia ha ritenuto, nella specie, che  non
e' giustificato assoggettare alla disciplina in tema di rifiuti «beni
materiali o materie prime che dal  punto  di  vista  economico  hanno
valore di prodotti indipendentemente da qualsiasi  trasformazione,  e
che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a  tali
prodotti». 
    Analoghe  considerazioni  dovrebbero  valere  per  le  ceneri  di
pirite, le quali sono destinate ad essere  utilizzate,  senza  alcuna
trasformazione, per la produzione di cemento, non ostando a  cio'  la
loro provenienza da produzioni industriali cessate e la  specificita'
dei luoghi ove le stesse sono depositate. 
    Del  resto,  prosegue  la  difesa  della   parte,   nessuno   dei
comportamenti  posti  in  essere  dagli  imputati  dimostrerebbe   la
volonta' di disfarsi di questi materiali, «oggettivamente  dotati  di
interessante valore commerciale e percio' degni di essere  acquistati
e rivenduti», sicche' l'assunto del  rimettente  risulterebbe,  anche
sotto tale profilo, infondato. 
    4. - Con ordinanza del 13 ottobre 2009, il Tribunale di  Venezia,
sezione distaccata di Dolo, ha sollevato, in riferimento  agli  artt.
11  e  117,   primo   comma,   Cost.,   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera  n),  quarto  periodo,
del d.lgs. n. 152 del 2006,  nel  testo  antecedente  alle  modifiche
introdotte con l'art. 2, comma 20, del d.lgs. n. 4  del  2008,  nella
parte in cui  prevede  che  le  ceneri  di  pirite  rientrano  tra  i
sottoprodotti non soggetti alle disposizioni  contenute  nella  parte
quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006. 
    Il rimettente riferisce che oggetto del  procedimento  principale
e' l'accertamento della responsabilita' penale  di  quattro  persone,
imputate del reato gia' previsto dall'art. 53-bis del  d.lgs.  n.  22
del 1997, ora trasfuso nell'art. 260 del  d.lgs.  n.  152  del  2006.
Secondo l'accusa gli imputati,  «in  concorso  tra  loro,  attraverso
l'allestimento  di  mezzi  ed  attivita'  continuativa   organizzata,
avrebbero effettuato un traffico illecito di rifiuti  tossico-nocivi,
nella fattispecie costituti da un ingente quantitativo di  ceneri  di
pirite (8.084 tonnellate) provenienti dall'ex cantiere Perfosfati  di
Portogruaro, destinandole  ad  attivita'  non  consentita,  cioe'  al
miscelamento con altre ceneri di pirite site in un impianto di  Mira,
invece di destinarle in discarica di II categoria, tipo C». 
    Tanto premesso in fatto,  il  rimettente  procede  all'esame  del
quadro normativo interno e comunitario, nonche' della  giurisprudenza
comunitaria in  materia  di  rifiuti,  in  particolare  soffermandosi
sull'evoluzione della nozione di sottoprodotto, ed espone, a sostegno
della non manifesta infondatezza e della rilevanza  della  questione,
argomenti in tutto identici a quelli prospettati nell'ordinanza n.  2
del 2009, gia' sopra illustrata. 
    5. - Con atto depositato il  9  giugno  2009  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per
l'inammissibilita' o, comunque, per l'infondatezza della questione. 
    Dopo aver richiamato i fatti oggetto del procedimento  a  quo  ed
aver ripercorso, in sintesi, l'iter argomentativo del rimettente,  la
difesa dello Stato illustra le  ragioni  a  sostegno  delle  indicate
conclusioni in termini  in  tutto  identici  a  quelli  rappresentati
nell'atto di intervento depositato l'11 febbraio 2009,  nel  giudizio
introdotto  dall'ordinanza  reg.  ord.   n.   2   del   2009,   sopra
sintetizzato. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Tribunale ordinario di  Venezia,  sezione  distaccata  di
Dolo,  con  due  ordinanze  di  analogo  tenore,  ha  sollevato,   in
riferimento agli artt. 11 e 117,  primo  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  183,  comma  1,
lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.
152 (Norme in  materia  di  ambiente),  nel  testo  antecedente  alle
modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del decreto  legislativo
16  gennaio  2008,  n.  4  (Ulteriori  disposizioni   correttive   ed
integrative del d.lgs. 3  aprile  2006,  n.  152,  recante  norme  in
materia ambientale), nella parte in cui  prevede  che  le  ceneri  di
pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti  alle  disposizioni
contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006. 
    2. - Preliminarmente, in ragione della identita' della questione,
i giudizi devono  essere  riuniti  per  essere  decisi  con  un'unica
pronuncia. 
    3. - La questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  183,
comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006,  nel
testo antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 4 del  2008,
e' fondata. 
    3.1. - L'oggetto del giudizio principale - l'asserita  violazione
delle norme che  disciplinano  l'attivita'  di  gestione  di  rifiuti
pericolosi in assenza di autorizzazione o con autorizzazione  scaduta
-  dipende  strettamente  dalla  definizione  di  rifiuto   e   dalla
differenza tra tale nozione e quella  di  sottoprodotto,  secondo  la
normativa comunitaria e nazionale. 
    3.2. - La direttiva 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE (Direttiva  del
Consiglio relativa ai rifiuti), come modificata  dalla  direttiva  18
marzo 1991, n. 91/156/CEE (Direttiva del Consiglio  che  modifica  la
direttiva  75/442/CEE  relativa  ai  rifiuti),  definisce   «rifiuto»
«qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie  riportate
nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia
l'obbligo di disfarsi» (art. 1, lettera a). 
    Sulla base di tale normativa  (confermata  sostanzialmente  dalla
direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE  -  Direttiva  del  Parlamento
europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti - che l'ha abrogata),  la
Corte di giustizia dell'Unione  europea  ha  stabilito  alcuni  punti
fermi interpretativi: a) la nozione di rifiuto deve essere intesa  in
senso estensivo ed in tal modo devono essere  interpretate  le  norme
che contengono riferimenti alla stessa;  b)  dalla  suddetta  nozione
sono escluse le sostanze suscettibili di utilizzazione economica, nel
caso in cui non si tratta di prodotti di cui il detentore  si  disfa;
c) in tale nozione non sono compresi  i  sottoprodotti,  intesi  come
beni, materiali o materie prime,  che  derivano  da  un  processo  di
estrazione o fabbricazione, che non  e'  destinato  principalmente  a
produrli, a condizione che la loro  utilizzazione  sia  certa  e  non
eventuale, avvenga senza trasformazioni preliminari  ed  al  fine  di
commercializzare il materiale, anche eventualmente per  destinarlo  a
soggetti diversi dal produttore  (ex  plurimis,  sentenze  18  aprile
2002, in causa C-9/00, Palin Granit Oy, e 11 settembre 2003, in causa
C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy). 
    Successivamente, nella medesima  materia,  e'  stata  emanata  la
direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE (Direttiva  del  Parlamento
europeo e del Consiglio relativa  ai  rifiuti  e  che  abroga  alcune
direttive), il cui termine di  recepimento  scadra'  il  12  dicembre
2010. 
    3.3. - In  attuazione  delle  citate  direttive,  il  legislatore
italiano ha proceduto, in un  primo  tempo,  ad  emanare  il  decreto
legislativo 5  febbraio  1997,  n.  22  (Attuazione  della  direttiva
91/156/CEE  sui  rifiuti,  della  direttiva  91/689/CEE  sui  rifiuti
pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui  rifiuti
di imballaggio), che riproduceva quasi  testualmente  la  definizione
comunitaria e prevedeva sanzioni penali per  le  attivita'  poste  in
essere in violazione della disciplina sul trattamento dei rifiuti. 
    Il successivo d.lgs. n. 152 del 2006 («Codice dell'ambiente»)  ha
disciplinato  ex  novo  l'intera  materia  con  una  serie  di  norme
contenute  nell'art.  183,  che,  da  una  parte,  riproponevano   la
definizione comunitaria e,  dall'altra,  definivano  i  sottoprodotti
come  quei  «prodotti  dell'attivita'  dell'impresa  che,   pur   non
costituendo l'oggetto dell'attivita' principale, scaturiscono in  via
continuativa dal processo  industriale  dell'impresa  stessa  e  sono
destinati ad un ulteriore impiego  o  al  consumo».  I  sottoprodotti
vengono sottratti alla disciplina dei rifiuti, a  condizione  che  di
essi l'impresa non  si  disfi,  ne'  intenda  o  abbia  l'obbligo  di
disfarsi,  che  siano  impiegati  direttamente  dall'impresa  che  li
produce   ovvero   commercializzati   a   condizioni   economicamente
favorevoli per l'impresa stessa, che siano riutilizzati senza operare
trasformazioni preliminari del materiale  e  che  il  riutilizzo  sia
certo e non eventuale e  non  comporti  condizioni  peggiorative  per
l'ambiente o per la salute, rispetto a quelle delle normali attivita'
produttive (art. 183, comma 1, lettera n). 
    La  disposizione  da  ultimo  citata  contiene  anche  la   norma
censurata nel presente giudizio, secondo cui: «Rientrano altresi' tra
i sottoprodotti non soggetti alle  disposizioni  di  cui  alla  parte
quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di
ferro, provenienti dal processo di  arrostimento  del  minerale  noto
come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e
ossido  di  ferro,  depositate  presso  stabilimenti  di   produzione
dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a  procedimenti
di bonifica o di ripristino ambientale». 
    Infine, con il d.lgs.  n.  4  del  2008  e'  stato  eliminato  il
riferimento  alle  ceneri  di  pirite  ed  e'  stata  introdotta  una
definizione piu' restrittiva di sottoprodotto  (art.  183,  comma  1,
lettera p,  del  d.lgs.  n.  152  del  2006,  nel  testo  attualmente
vigente). 
    4. - La  norma  censurata  -  in  contrasto  con  la  definizione
comunitaria sopra richiamata, che qualifica rifiuto ogni sostanza  di
cui il produttore si disfi - esclude dalla categoria dei  rifiuti  un
materiale, le ceneri  di  pirite,  indipendentemente  dal  fatto  che
l'impresa produttrice se ne sia disfatta. Nel caso specifico, oggetto
del  processo  principale,  le  suddette  ceneri,  al   momento   del
sequestro, si trovavano in un sito  da  circa  trent'anni.  Il  lungo
tempo trascorso fa venir  meno  uno  dei  requisiti  richiesti  dalle
direttive e dalla giurisprudenza  comunitaria  per  l'identificazione
del sottoprodotto, che cioe' il riutilizzo del materiale sia certo ed
effettivo e non solo eventuale. 
    Si deve porre in rilievo, ai fini del presente giudizio,  che  la
norma censurata introduce una  presunzione  assoluta,  in  base  alla
quale le ceneri di pirite, quale che sia la  loro  provenienza  e  il
trattamento ricevuto da parte del produttore, sono sempre e  comunque
da  qualificare   «sottoprodotto».   Al   contrario,   la   normativa
comunitaria fa leva anche su fatti estrinseci e sui comportamenti dei
soggetti produttori ed utilizzatori e non si  arresta  pertanto  alla
mera indicazione della natura intrinseca del materiale.  Per  effetto
della presunzione assoluta, al giudice e' inibito  l'accertamento  in
fatto delle circostanze in cui si e' formato il materiale e che hanno
caratterizzato la gestione dello stesso,  una  volta  prodotto.  Tale
preclusione si pone in  contrasto  con  l'esigenza,  derivante  dalla
disciplina comunitaria, di verificare in concreto l'esistenza  di  un
rifiuto o di un sottoprodotto. In questo  senso  si  e'  espressa  la
Corte di giustizia dell'Unione europea, la quale ha sottolineato come
l'effettiva esistenza di un rifiuto debba essere accertata «alla luce
del complesso delle circostanze, tenuto conto della  finalita'  della
direttiva e in modo da non pregiudicarne  l'efficacia»  (sentenza  18
dicembre  2007,  in  causa  C-194/05,   Commissione   c.   Repubblica
italiana). 
    Lo  stesso  legislatore  nazionale  ha  recepito   le   direttive
comunitarie sul punto, sia con il d.lgs. n. 22 del 1997, sia  con  il
d.lgs. n. 4 del 2008. Solo per  un  periodo  di  circa  due  anni  e'
rimasta in vigore la norma censurata, che ha  espunto  ope  legis  le
ceneri  di  pirite  dalla  categoria  dei  rifiuti,  con  l'indiretta
conseguenza di rendere penalmente irrilevante la loro gestione al  di
fuori delle regole stabilite dalla legge. 
    La parte privata costituita ha proposto una interpretazione della
norma censurata, dalla quale  si  evincerebbe  l'inesistenza  di  una
presunzione assoluta di non appartenenza del materiale  in  questione
alla   categoria    dei    rifiuti,    e    quindi    l'esperibilita'
dell'accertamento, caso per  caso,  della  natura  di  rifiuto  o  di
sottoprodotto.  Tale   interpretazione   porterebbe   alla   naturale
conclusione dell'inammissibilita'  della  questione  di  legittimita'
costituzionale, per non  avere  il  giudice  rimettente  valutato  la
possibilita' di  una  interpretazione  della  disposizione  censurata
conforme al parametro di costituzionalita', che, nel caso di  specie,
e' rappresentato dalle direttive in tema di rifiuti, per  il  tramite
degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. 
    L'interpretazione conforme proposta non e' pero'  plausibile,  in
quanto contraddice  cio'  che  chiaramente  emerge  dal  testo  della
disposizione censurata. Nella  stessa  infatti,  dopo  l'enunciazione
delle  condizioni  di  fatto  che  devono   sussistere   perche'   un
determinato materiale possa qualificarsi sottoprodotto,  si  aggiunge
che rientrano «altresi'» tra i sottoprodotti le ceneri di pirite.  Si
tratta quindi di una previsione, diversa da quella che precede, volta
ad  assoggettare  il  materiale  in  questione  ad   una   disciplina
differenziata. Se si fosse trattato di una mera esemplificazione,  il
legislatore non avrebbe usato l'avverbio «altresi'», che vale  invece
ad identificare un'ipotesi ulteriore, rispetto alla  quale  la  norma
opera  una  inclusione  autoritativa  -  fatta  palese   dal   valore
imperativo del predicato verbale «rientrano» -  nella  categoria  dei
sottoprodotti.  Il  contrasto  con  la   normativa   comunitaria   di
riferimento e' pertanto evidente. 
    5. - Non e'  implausibile  la  motivazione  con  cui  il  giudice
rimettente esclude di poter fare diretta applicazione delle direttive
comunitarie, disapplicando di  conseguenza  la  norma  censurata,  in
quanto  ritenuta  in  conflitto   con   le   prime.   La   prevalente
giurisprudenza  di   legittimita'   nega,   infatti,   il   carattere
«autoapplicativo» delle direttive de quibus, con la  conseguenza  che
le disposizioni nazionali, ancorche' ritenute  in  contrasto  con  le
stesse, hanno efficacia vincolante per il giudice (ex plurimis, Corte
di cassazione,  ordinanza  n.  1414  del  2006).  Piu'  in  generale,
l'efficacia  diretta  di  una  direttiva  e'  ammessa  -  secondo  la
giurisprudenza comunitaria e italiana - solo se dalla  stessa  derivi
un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti  dello
Stato inadempiente.  Gli  effetti  diretti  devono  invece  ritenersi
esclusi   se   dall'applicazione   della   direttiva    deriva    una
responsabilita' penale (ex plurimis, Corte di giustizia, ordinanza 24
ottobre 2002, in causa C-233/01, RAS; sentenza  29  aprile  2004,  in
causa C-102/02, Beuttenmüller;  sentenza  3  maggio  2005,  in  cause
C-387, 391, 403/02, Berlusconi e altri; Corte di cassazione, sentenza
n. 41839 del 2008). 
    L'impossibilita' di non applicare la legge interna  in  contrasto
con una direttiva comunitaria non munita  di  efficacia  diretta  non
significa  tuttavia  che  la  prima  sia  immune  dal  controllo   di
conformita' al  diritto  comunitario,  che  spetta  a  questa  Corte,
davanti  alla  quale  il  giudice   puo'   sollevare   questione   di
legittimita' costituzionale, per asserita violazione dell'art. 11  ed
oggi anche dell'art. 117, primo comma, Cost. (ex  plurimis,  sentenze
n. 170 del 1984, n. 317 del 1996, n. 284 del 2007). 
    6. - Da escludere altresi' e' il rinvio pregiudiziale alla  Corte
di giustizia  dell'Unione  europea,  come  richiesto  dall'Avvocatura
dello Stato e dalla parte privata costituita. Il rinvio pregiudiziale
non e' necessario quando il significato della norma  comunitaria  sia
evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza  della
Corte di giustizia, e si impone soltanto quando occorra risolvere  un
dubbio interpretativo (ex plurimis, Corte di giustizia,  sentenza  27
marzo 1963, in causa  C-28-30/62,  Da  Costa;  Corte  costituzionale,
ordinanza n. 103  del  2008).  Nella  specie,  dalle  norme  e  dalla
giurisprudenza comunitarie  emergono  con  chiarezza  le  nozioni  di
«rifiuto» e di «sottoprodotto», sulle quali non residuano margini  di
incertezza. Pertanto, il parametro interposto, rispetto agli artt. 11
e  117,  primo  comma,  Cost.,  puo'  considerarsi   sufficientemente
definito   nei   suoi   contenuti,   ai   fini   del   controllo   di
costituzionalita'. 
    7. - Rilevato il contrasto tra la norma censurata e le  direttive
comunitarie sui rifiuti, nonche' l'impossibilita' di disapplicare  la
stessa da parte del giudice rimettente e la non necessita' del rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea,  resta  da
risolvere  il  problema   degli   effetti   della   declaratoria   di
illegittimita'  costituzionale  di  una   norma   extrapenale,   che,
sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite  dalla  categoria  dei
rifiuti, ha escluso, durante il periodo della sua vigenza, precedente
all'abrogazione ad opera del d.lgs. n. 4 del  2008,  l'applicabilita'
delle sanzioni penali previste per la gestione illegale  dei  rifiuti
alla fattispecie oggetto del giudizio principale. 
    Nella verifica della successione delle leggi nel tempo,  si  deve
notare che quando furono commessi i fatti  per  cui  si  procede  nel
giudizio a quo la norma di esclusione non esisteva, ed  era  pertanto
pacifico  che  si  applicassero  le  sanzioni  penali  previste   dal
legislatore italiano per l'inosservanza  delle  norme  introdotte  in
ossequio  alle  direttive  comunitarie  sui   rifiuti.   Durante   lo
svolgimento del processo e' entrata in vigore la norma di esclusione,
di  cui  s'e'  detto  nei  precedenti   paragrafi,   che   e'   stata
successivamente abrogata nelle more del giudizio incidentale  davanti
a questa Corte. 
    Secondo il disposto dell'art. 2, quarto comma, del codice penale,
se la legge del tempo in cui fu commesso il  reato  e  le  posteriori
sono diverse,  si  applica  quella  le  cui  disposizioni  sono  piu'
favorevoli  al  reo,  salvo  che  sia  stata   pronunciata   sentenza
irrevocabile. La legge piu' mite  pertanto  retroagisce,  secondo  il
principio del favor rei, che caratterizza  l'ordinamento  italiano  e
che oggi trova conferma e copertura europea nell'art. 49 della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione  europea  (cosiddetta  Carta  di
Nizza), recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo  del  Trattato
sull'Unione europea  e  del  Trattato  che  istituisce  la  Comunita'
europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009.  Il  citato  art.  49
stabilisce: «Se, successivamente alla commissione del reato, la legge
prevede l'applicazione di una  pena  piu'  lieve,  occorre  applicare
quest'ultima». 
    Questa Corte ha gia' chiarito, tuttavia,  che  la  retroattivita'
della legge piu' favorevole non esclude l'assoggettamento di tutte le
norme giuridiche di rango primario  allo  scrutinio  di  legittimita'
costituzionale: «Altro [...]  e'  la  garanzia  che  i  principi  del
diritto  penale-costituzionale   possono   offrire   agli   imputati,
circoscrivendo    l'efficacia    spettante     alle     dichiarazioni
d'illegittimita' delle norme penali di favore; altro e' il  sindacato
cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire
zone franche del tutto  impreviste  dalla  Costituzione,  all'interno
delle quali la  legislazione  ordinaria  diverrebbe  incontrollabile»
(sentenza n. 148 del 1983 e sul punto, sostanzialmente  nello  stesso
senso, sentenza n. 394 del 2006). 
    Nel caso di specie, se si stabilisse che il possibile effetto  in
malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la  verifica  di
conformita' delle  norme  legislative  interne  rispetto  alle  norme
comunitarie - che sono cogenti e sovraordinate alle  leggi  ordinarie
nell'ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117,  primo
comma, Cost. - non  si  arriverebbe  soltanto  alla  conclusione  del
carattere  non  autoapplicativo  delle  direttive   comunitarie   sui
rifiuti, ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia  vincolante
per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di
norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della
previsione, da parte del medesimo legislatore italiano,  di  sanzioni
penali. 
    La responsabilita' penale, che  la  legge  italiana  prevede  per
l'inosservanza  delle  fattispecie  penali  connesse  alle  direttive
comunitarie,  per  dare  alle  stesse   maggior   forza,   diverrebbe
paradossalmente una barriera insuperabile  per  l'accertamento  della
loro violazione. 
    Per  superare  il  paradosso  sopra  segnalato,  occorre   quindi
distinguere tra controllo di  legittimita'  costituzionale,  che  non
puo' soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo  le  norme
vigenti, ed effetti  delle  sentenze  di  accoglimento  nel  processo
principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo
i principi generali che reggono la successione nel tempo delle  leggi
penali. 
    Questa Corte ha gia' chiarito che l'eventuale accoglimento  delle
questioni relative a norme  piu'  favorevoli  «verrebbe  ad  incidere
sulle formule di proscioglimento  o,  quanto  meno,  sui  dispositivi
delle sentenze penali»;  peraltro,  «la  pronuncia  della  Corte  non
potrebbe non riflettersi sullo schema  argomentativo  della  sentenza
penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiche' in  tal
caso ne risulterebbe alterato [...]  il  fondamento  normativo  della
decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n.
148 del 1983). 
    Occorre precisare inoltre che, nel caso  di  specie,  il  giudice
rimettente  ha  posto  un  problema  di  conformita'  di  una   norma
legislativa  italiana  ad  una  direttiva  comunitaria,  evocando   i
parametri di cui agli artt. 11 e 117 Cost., senza denunciare, ne' nel
dispositivo ne' nella motivazione dell'atto introduttivo del presente
giudizio,  la  violazione  dell'art.  3  Cost.  e  del  principio  di
ragionevolezza intrinseca delle leggi. Cio' esclude che la  questione
oggi all'esame di questa Corte comprenda la problematica delle  norme
penali di favore, quale affrontata dalla sentenza n. 394 del 2006. 
    Infine va ricordato che, posti i  principi  di  cui  all'art.  49
della Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione  europea,  all'art.
25, secondo comma, Cost. ed all'art.  2,  quarto  comma,  del  codice
penale, la valutazione del modo in cui il sistema normativo  reagisce
ad una sentenza costituzionale di  accoglimento  non  e'  compito  di
questa Corte, in quanto la stessa  spetta  al  giudice  del  processo
principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende  le
mosse l'incidente di costituzionalita'. 
 
                          Per questi motivi 
 
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    Riuniti i giudizi, 
    dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 183, comma  1,
lettera n), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152  (Norme  in
materia ambientale), nel testo antecedente  alle  modiche  introdotte
dall'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n.  4
(Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile
2006, n. 152, recante norme in materia ambientale),  nella  parte  in
cui prevede: «rientrano altresi' tra  i  sottoprodotti  non  soggetti
alle disposizioni di cui alla parte quarta del  presente  decreto  le
ceneri di  pirite,  polveri  di  ossido  di  ferro,  provenienti  dal
processo di arrostimento del minerale noto come pirite o  solfuro  di
ferro per la  produzione  di  acido  solforico  e  ossido  di  ferro,
depositate  presso  stabilimenti   di   produzione   dismessi,   aree
industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di  bonifica  o
di ripristino ambientale». 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2010. 
 
                       Il Presidente: Amirante 
 
 
                       Il redattore: Silvestri 
 
 
                      Il cancelliere: Di Paola 
 
    Depositata in cancelleria il 28 gennaio 2010. 
 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola