N. 145 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 14 novembre 2011
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 23 novembre 2011 (della Regione Veneto). Iniziativa economica privata - Finanza regionale - Adeguamento degli ordinamenti regionali al principio della liberalizzazione delle attivita' economiche, secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge - Elemento per la valutazione della c.d. "virtuosita'" degli enti territoriali, secondo il meccanismo introdotto dall'art. 20 del d.l. n. 98/2011 - Lamentato incidenza su materie riconducibili alla competenza legislativa regionale, concorrente e residuale, nonche' mancanza di concertazione - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata violazione della autonomia regionale, violazione del principio di leale collaborazione. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 3, comma 4. - Costituzione, artt. 5, 117 e 120. Bilancio e contabilita' pubblica - Finanza regionale - Sviluppo delle Regioni dell'obiettivo convergenza e realizzazione del Piano Sud - Previsione che la spesa delle cinque Regioni del Sud inserite nell'obiettivo convergenza possa eccedere i limiti di spesa imposti dal Patto di stabilita' interno - Previsione di una compensazione, al fine di assicurare gli equilibri di finanza pubblica, attraverso la maggiorazione degli oneri posti a carico di tutte le altre regioni - Lamentato contrasto con il principio della piena responsabilita' finanziaria di ciascun ente, alterazione delle corrette relazioni istituzionali, ingiustificato privilegio accordato alle Regioni meno virtuose - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata lesione della unita' e indivisibilita' dello Stato, violazione della competenza legislativa regionale nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica, violazione della autonomia finanziaria regionale. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 5-bis. - Costituzione, artt. 5 e 119. Regioni (in genere) - Consiglieri regionali - Determinazione del numero massimo dei consiglieri e degli assessori regionali, previsione di un limite massimo degli emolumenti e delle indennita', commisurazione del trattamento economico alla effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio, introduzione del trattamento previdenziale contributivo, istituzione e disciplina di un organo regionale denominato "Collegio dei revisori dei conti" - Obbligo per le Regioni di adeguamento entro i termini stabiliti - Elemento per la valutazione della c.d. "virtuosita'" degli enti territoriali, secondo il meccanismo introdotto dall'art. 20 del d.l. n. 98/2011 - Lamentata interferenza nell'ambito della potesta' statutaria e della autonomia finanziaria e organizzativa regionale, lamentata introduzione di norme di dettaglio in luogo di obiettivi di finanza pubblica - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata violazione della autonomia statutaria della Regione, violazione della competenza legislativa regionale nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica e nella materia residuale dell'organizzazione amministrativa, violazione dell'autonomia finanziaria. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 14, comma 1, lett. a), b), c), d), e). - Costituzione, artt. 117, commi terzo e quarto, 119 e 123. Enti locali - Unioni di comuni - Comuni fino a 1000 abitanti - Esercizio necessario di tutte le funzioni, incluse quelle delegate o attribuite dalle Regioni, attraverso la forma associativa dell'Unione dotata di propri organi e potesta' statutaria, e titolare di rapporti giuridici e di risorse - Attribuzione al prefetto di un potere di controllo e sostitutivo - Lamentata incidenza sull'assetto ordinamentale ed istituzionale di enti locali aventi rilevanza costituzionale, lamentata introduzione di norme di dettaglio in luogo di obiettivi di finanza pubblica, introduzione di un modello organizzativo connotato da genericita' e indifferenziazione inidoneo a garantire l'allocazione ottimale delle funzioni, previsione di un potere sostitutivo non consentito dal quadro costituzionale - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata esorbitanza dello Stato dalla competenza legislativa esclusiva in materia di funzioni fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane, violazione della competenza legislativa, regolamentare e amministrativa della Regione nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica e nella materia residuale dell'associazionismo comunale, violazione del principio di buon andamento dell'azione amministrativa. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28. - Costituzione, artt. 97, 114, 117 e 118.(GU n.1 del 4-1-2012 )
Ricorso della Regione Veneto in persona del suo Presidente pro tempore, dott. Luca Zaia, a cio' autorizzato con deliberazione della Giunta regionale 8 novembre 2011, n 1790 (doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura a margine del presente atto, dall'avv. Ezio Zanon dell'Avvocatura regionale, dall'avv. Daniela Palumbo della Direzione Affari Legislativi e dall'avv. Luigi Manzi del Foro di Roma, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma,Via Confalonieri, n.5, Nei confronti del Presidente pro tempore del Consiglio dei ministri, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli articoli 3, comma 4; 5-bis; 14, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e); 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10,11,12,13,14, 15, 16 e 28 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante: «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», pubblicato, nel testo coordinato con la legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148, nella Gazzetta Ufficiale n. 216 del 16 settembre 2011, per violazione degli articoli 5, 97, 114, 117, 118, 119, 120, 123 della Costituzione Fatto In data 16 settembre 2011 e' stata pubblicata, nella Gazzetta Ufficiale n. 216, la legge 14 settembre 2011, n.148 di conversione del decreto-legge 13 agosto 2011 n.138, in testo coordinato con il decreto-legge medesimo. Il testo normativo impugnato, rubricato «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», si innesta nella complessa e variegata attivita' di produzione legislativa di fonte statale che, gia' singolarmente problematica quanto ad interpretazione e coordinamento sistematico di taglio anche costituzionalistico, nell'ultimo periodo ha subito una brusca accelerazione, certamente per effetto del contesto preoccupante offerto dall'evoluzione patologica dei meccanismi finanziari pubblici ed imprenditoriali che ha palesato evidenti distorsioni applicative e gestionali, tali da compromettere sensibilmente gli equilibri preesistenti, anche in termini di stabilita' di governo. Orbene, seppure dettati dall'esigenza di approntare strumenti adeguati a conseguire celermente l'obiettivo di riduzione della spesa pubblica e della stabilizzazione finanziaria, fronteggiando la congiuntura estremamente sfavorevole in corso di aggravamento, le disposizioni articolate nel decreto odiernamente impugnato esprimono, in realta', contenuti di impatto irrimediabilmente confliggente con le prerogative e le attribuzioni riconosciute alle Regioni dalla Costituzione e da questa tutelate e garantite. La posizione affermante la considerevole lesivita' della normativa in esame trova anzitutto sicura conferma nel travagliato percorso di confronto tra gli esponenti politici, svoltosi nelle sedi istituzionali, che evidenzia le ripetute occasioni nelle quali le Regioni, pur nella piena consapevolezza della necessarieta' del rigore richiesto, hanno evidenziato i profili di criticita' giuridica ed ordinamentale, oltre che costituzionale, sottesi alla manovra, prima con riferimento alla bozza di documento concernente il testo del decreto-legge e, successivamente, constatato che in fase di conversione le istanze emendative espresse erano state del tutto disattese, in relazione alla disciplina come definitivamente configurata per effetto dell'avvenuta conversione. Diritto Poiche' le norme impugnate presentano profili di valutazione che consentono autonomia argomentativa, si ritiene di procedere partitamente per ciascuna di esse, fatti salvi i casi di evidente connessione logico giuridica che impongono una prospettazione omogenea ed unitaria. Profili di illegittimita' dell'articolo 3, comma 4 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, come convertito con legge 14 settembre 2011, n. 148, per violazione degli articoli 5, 117 e 120 della Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione. Con riserva di piu' approfondita trattazione, la Regione Veneto rileva fin d'ora la mancata conformita' a Costituzione dell'articolo 3, comma 4 del decreto-legge de quo, come convertito, che, introducendo una disposizione attributiva allo Stato di una rilevante potesta' di intervento nell'autonomia regionale, si pone in evidente contrasto con gli articoli 5, 117 e 120 della Costituzione, nella parte in cui e' violato il principio di leale collaborazione, tutelato dalla disposizione da ultimo citata. Innanzitutto, si reputa utile riportare la ricostruzione giuridica della materia sviluppo economico, al centro dell'intervento legislativo statale, come attualmente collocabile per effetto della dinamica evolutiva registrata in riferimento ad un contesto certamente di difficile perimetrabilita'. A seguito della nota riforma del Titolo V della Costituzione, detta materia non rientra tra quelle specificamente individuate dal comma secondo della Costituzione, relativo alle materie di competenza esclusiva dello Stato, ne' in quelle ascrivibili al terzo comma, soggette alla potesta' legislativa concorrente delle Regioni, e, pertanto, dovrebbe attenere all'ambito di competenza esclusiva regionale di cui all'articolo 117, comma quarto, della Costituzione o, comunque, assumere la configurazione di materia trasversale e, come tale, investire tutte le materie, incluse quelle di competenza regionale esclusiva o concorrente. Codesta ecc.ma Corte costituzionale, con la sentenza n. 165 del 2007, ha gia' avuto modo di precisare i limiti delle attribuzioni statali in tema di sviluppo economico, definendo sistematicamente il contenuto della locuzione di cui si tratta, anche in rapporto a preminenti esigenze di intervento statale di carattere marcatamente finanziario. Sul punto, si riporta quanto asserito al punto 4.3 della pronuncia de qua. «L'oggetto e la finalita' delle norme impugnate non permettono di ritenere che la relativa disciplina sia riconducibile ad una materia, lo "sviluppo economico", che sarebbe riservata alla competenza residuale delle Regioni. La locuzione costituisce una espressione di sintesi, meramente descrittiva, che comprende e rinvia ad una pluralita' di materie. In tal senso, e' significativo che gia' il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), nel delegare numerose funzioni alle Regioni, contemplava in un apposito Titolo (il II) le funzioni inerenti allo "sviluppo economico e attivita' produttive", precisando tuttavia che allo stesso erano riconducibili una pluralita' di materie: agricoltura e foreste, artigianato, industria, energia, miniere e risorse geotermiche, ordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, fiere e mercati e commercio, turismo ed industria alberghiera (art. 11, comma 2). L'art. 117 Costa contempla molteplici materie caratterizzate da una palese connessione con lo sviluppo dell'economia, le quali sono attribuite sia alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.), sia a quella concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), o residuale (art. 117, quarto comma, Cost.) delle Regioni. La finalita' avuta di mira dal legislatore statale ha dunque comportato che la disciplina recata dalle norme impugnate attiene a piu' materie, alcune senz'altro riservate alla competenza esclusiva dello Stato (la materia fiscale, nonche' quella dell'ordinamento civile, in quanto si e' regolata una peculiare figura associativa, intervenendo sulla disciplina delle modalita' di contrarre e della rappresentanza). Tuttavia, proprio in quanto le disposizioni sono dirette a realizzare una complessa manovra concernente lo sviluppo dell'economia e del sistema produttivo italiano, esse incidono anche su materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni, sia concorrente (quale la "ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi" (cfr. ex plurimis, le sentenze n. 31 del 2005 e n. 423 del 2004), sia residuale, quali il commercio (cfr. sentenza n. 1 del 2004); l'industria, l'artigianato (cfr. sentenza n. 162 del 2005)». Quanto premesso consente di concludere che, se e' tuttora valevole quanto affermato nella medesima sentenza al punto 4.4 , «(...)la finalita' dell'intervento e l'individuazione dell'oggetto delle norme permettono di ritenere che ci si trovi di fronte a scelte di rilevanza nazionale, in relazione alle quali, come questa Corte ha affermato, il legislatore costituzionale del 2001 ha inteso unificare in capo allo Stato strumenti che attengono allo sviluppo dell'intero Paese, anche al di la' della specifica utilizzabilita' di quelli elencati nel secondo comma dell'art. 117 Cost.», e se le ritenute esigenze di carattere unitario fossero riconosciute esistenti e rilevanti anche in relazione all'articolo 3 in esame, interferirebbero comunque con materie riservate alla competenza regionale. Per quanto attiene all'ambito applicativo della disposizione impugnata, infatti, benche' l'odierna ricorrente affermi la non diretta applicabilita' della disciplina di dettaglio riportata nell'intero articolo 3 alle Regioni, tenute tuttavia ad adeguarvisi, si rileva che le previsioni contenute nel comma 4 dell'articolo in argomento, laddove assegnano al mancato adeguamento all'obbligo di cui al comma 1, valenza di misura sanzionatoria, rendendolo fattore di valutazione della virtuosita', ai sensi dell'articolo 20, comma 3, del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, si palesano patentemente lesive della sfera di autonomia costituzionalmente attribuita alla Regione in riferimento agli articoli 5 e 117, della Costituzione per le motivazioni di seguito indicate. Si rammenta, in proposito, come codesta ecc.ma Corte, con la sentenza n. 64 del 9 marzo 2007 abbia gia' sancito la sussistenza in capo al legislatore regionale della potesta' di fissare normativamente limiti al principio di liberta' di concorrenza e di parita' di accesso al mercato, quando l'intervento non appaia ne' ingiustificato e neppure irragionevole e qualora sia sostenuto dalla necessita' di ridurre gli effetti negativi potenzialmente producibili nel tessuto economico preesistente. In punto, nel riconoscere alla norma regionale una finalita' di tutela dell'interesse generale di valorizzazione delle imprese, la sentenza pare aver ribadito come solo le discriminazioni fra attivita' imprenditoriali fondate su criteri territoriali, che non siano ragionevolmente giustificabili, possano porsi in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e di libera circolazione. L'assunto riaffermato da codesta ecc.ma Corte, per di piu', appare in sintonia con i principi di rango comunitario che asseriscono come non tutte le misure che incidono in senso limitativo siano da ritenersi restrizioni incompatibili con i principi comunitari di liberalizzazione delle attivita' economiche. Quanto sopra doverosamente richiamato costituisce argomentazione fondante la ritenuta illegittimita' dell'articolo 3, laddove, seppure qualificandola mero parametro dell'adeguamento regionale reca, invece, una disciplina dettagliata di restrizioni e limitazioni circa l'accesso e l'esercizio delle attivita' economiche. Che l'intervento statale, lungi dal consentire margini opzionali alla potesta' regionale, costruisca un quadro definito e compiuto e' asserzione che pare altresi' avvalorata dalle previsioni di cui al comma 11, dell'articolo 3 medesimo, nel quale sono indicate le condizioni legittimanti l'esclusione dell'obbligo di restrizioni. Infatti tale disposizione, che rimette ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri la puntuale individuazione delle singole attivita' economiche suscettibili di esclusione, o e' da intendersi riferita alle sole norme soggette alla potesta' normativa statale, oppure e' da intendersi estensibile anche alle Regioni. In entrambe le ipotesi gli effetti lesivi afferenti le potesta' regionali sono incontestabili. Nel primo caso, infatti, l'esercizio della potesta' normativa regionale in subiecta materia potrebbe condurre a risoluzioni normative disomogenee tra Regione e Regione, con la conseguenza di rendere inapplicabili criteri di valutazione statale uniformi, che tuttavia sono indispensabili a formulare equamente quel giudizio di congruita' fondante il responso di virtuosita' delle amministrazioni regionali. Nell'altro caso, risulterebbe del tutto vanificata la potesta' regionale consistente nella facolta' di introdurre discipline limitative, giustificate e non irragionevoli, come tali conformi al principio di liberta' e concorrenza e ritenute legittime anche da codesta ecc.ma Corte nella citata sentenza n. 64 del 2007. La normativa di dettaglio introdotta con la disposizione impugnata ed il conseguente obbligo di adeguamento imposto in modo indifferenziato anche in ordine a materie di competenza regionale, in spregio dell'autonomia riconosciuta alle Regioni dalla Costituzione e da codesta ecc.ma Corte riaffermata nelle proprie pronunce, vulnera nella sostanza il riparto di competenze normative di cui all'art. 117 della Costituzione proprio perche', con le proprie statuizioni, obbliga direttamente le Regioni nei contenuti e nelle modalita', sanzionandone direttamente la violazione, in assenza di qualsiasi forma di collaborazione istituzionale, benche' interferisca indubitabilmente con ambiti di attribuzione regionale e con materie di competenza legislativa regionale sia concorrente che residuale. La circostanza che l'anzidetto obbligo di adeguamento, come nella norma in esame, sia elevato a fattore di valutazione della virtuosita' dell'amministrazione regionale con evidenti e considerevoli ripercussioni anche sulla gestione del patto di stabilita', non attenua, ma aggrava il profilo sicuramente lesivo della disposizione. A tal riguardo si rileva, in primis, la singolare rigidita' della sanzione che si configura come sproporzionata in relazione alla condotta eventualmente difforme dal precetto ed in contrasto con i principi espressi dalla Costituzione sul punto. Ad oggi, infatti, risulta incontrovertibile, essendosi ormai consolidato il regime di riparto di competenze scaturito dalla riforma del 2001, che all'eventuale inerzia delle Regioni possa ovviarsi ancora con il meccanismo giuridico insito nella cedevolezza delle norme statali a termini dell'articolo 10, comma primo, della legge 10 febbraio 1953, n. 62 «Costituzione e funzionamento degli organi regionali» c.d. «legge Scelba». In base a tale disposizione, certamente risalente nel tempo, ma di straordinaria modernita' ermeneutica ed operativa e comunque tuttora vigente, le leggi statali che modificano i principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente abrogano le norme regionali contrastanti con esse, senza incidere sulla competenza legislativa costituzionalmente assegnata alle Regioni, che quindi possono esercitarla appieno, adeguando il proprio ordinamento alle norme statali di principio. In ogni caso, a suffragio della ritenuta incongruenza della disposizione interloquita e della evidente ultroneita' della stessa nel contesto costituzionale vigente, non si puo' non richiamare l'istituto dell'intervento sostitutivo di cui all'articolo 117, quinto comma della Costituzione, come gia' disciplinato nella clausola di cedevolezza di cui all'articolo 84 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 «Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno», di immediata applicabilita', in coerenza con l'ordinamento e con i principi costituzionali. Se, pertanto, il sistema giuridico vigente dispone gia' di efficaci strumenti di adeguamento regionale, per di piu' rispettosi delle competenze costituzionalmente assegnate e riconosciute, l'introduzione di una misura gravemente sanzionatoria quale quella indicata nella disposizione censurata, e' certamente eccessiva ed irrimediabilmente lesiva di quelle prerogative di autonomia garantite alla Regione dall'articolo 5 della Costituzione che contempla, esattamente al contrario, l'adeguamento dei principi e metodi statali alle esigenze delle autonomie locali e del decentramento. Il comma 4 dell'articolo 3, in sintesi, per conseguire celermente un risultato finanziariamente apprezzabile, sposta un profilo afferente l'assetto istituzionale, concernente il rispetto delle relazioni e della reciproca competenza legislativa, sull'asse delle relazioni economiche tra Stato e Regioni, imponendo, con un meccanismo radicalmente afflittivo, un effetto che comunque si sarebbe realizzato attraverso un comportamento normativo autonomo regionale, nel rispetto del dettato costituzionale. La disposizione, quindi, nell'ammettere un intervento statale, di impatto talmente poderoso, in un ambito riservato alla competenza legislativa regionale, viola il modello di ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni sancito all'art. 117 Cost. ed attribuisce surrettiziamente allo Stato potesta' legislative avulse dal sistema costituzionale vigente, perche' esorbitante i limiti che gli sono propri. Inoltre, anche volendo ammettere, per extrema ratio, la sussistenza di preminenti esigenze di solidarieta' nazionale cosi' incombenti da giustificare l'esercizio unitario di una funzione «economica» parallela a quella legislativa, in deroga al normale riparto di competenze stabilito dall'articolo 117 Cost., in ogni caso tale modalita', proprio perche' sminuente una prerogativa costituzionalmente garantita, dovrebbe essere soggetta al rispetto del principio di leale collaborazione, quale correttivo indefettibile dello sbilanciamento istituzionale determinato dall'interesse all'esercizio unitario che, si rammenta, di per se' non puo' costituire autonomo parametro di legittimita' della norma. La necessita' dell'unitarieta' non puo' infatti essere invocata come criterio aprioristico ed apodittico di invasione in ambiti di competenza regionale, ma deve essere concretamente parametrata alla reale esigenza di concentrare in capo allo Stato funzioni che in ambito regionale non possono essere adeguatamente esercitate . Per tutto quanto sopra argomentato, si ribadisce l'incidenza lesiva dell'articolo 3, comma 4 impugnato, su materie riconducibili alla competenza legislativa regionale, concorrente e riservata, nonche' la mancanza di concertazione fra Stato e Regioni sul punto e, quindi, la violazione del principio di leale collaborazione, con conseguente istanza di declaratoria di illegittimita' costituzionale della disposizione per violazione degli articoli 5, 117 e 120 della Costituzione. Profili di illegittimita' costituzionale dell'articolo 5-bis del decreto-legge n. 138 del 2011, come convertito dalla legge n. 148 del 2011, per violazione degli articoli 5 e 119 della Costituzione. La norma si presenta di singolare complessita' strutturale non utilmente sintetizzabile e, pertanto, viene quasi integralmente riproposta nel corso della trattazione. Il primo comma dell'articolo 5-bis, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 in esame, come convertito dalla legge n.148/2011, infatti, prevede che la spesa - in termini di competenza e di cassa effettuata annualmente da ciascuna delle «regioni dell'obiettivo convergenza (...) e del Piano per il Sud» a valere sulle risorse del fondo per lo sviluppo e la coesione - di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88 «Disposizioni in materia di risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali, a norma dell'articolo 16 della legge 5 maggio 2009, n. 42», sui cofinanziamenti nazionali dei fondi comunitari a finalita' strutturale, nonche' sulle risorse individuate ai sensi di quanto previsto dall'articolo 6-sexies del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) - possa eccedere «i limiti di cui all'articolo 1, commi 126 e 127, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, nel rispetto, comunque, delle condizioni e dei limiti finanziari stabiliti ai sensi del comma 2 del presente articolo». Inoltre, il comma 2 della medesima disposizione impugnata statuisce che i maggiori oneri derivanti dalla deroga ai tetti di spesa fissati dalla c.d. legge di stabilita' 2011 a favore delle «regioni dell'obiettivo convergenza (..) e del Piano per il Sud», dovranno essere compensati attraverso l'attribuzione allo Stato ed alle restanti regioni dei relativi maggiori oneri che saranno stabiliti con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per i rapporti con le regioni e per la coesione territoriale. Lo scopo dell'intervento normativo, apparentemente indirizzato a predisporre strumenti di sviluppo territoriale corredati dalle necessarie modalita' di perequazione finanziaria, si risolve, in sostanza, nell'introduzione di misure speciali, dichiaratamente di favore e per cio' stesso sperequative, destinate ad alcune Regioni, e solo a quelle, peraltro identificabili attraverso la locuzione di riferimento, che gia' versano in grave difficolta' finanziaria ed istituzionale, con contestuale previsione di un ripianamento in sanatoria dei disavanzi di tali Regioni, benche' qualificabili meno «virtuose», mediante un rigido meccanismo di finanziamento indiretto a destinazione vincolata. Cercando di rendere piu' chiaramente intellegibile l'architettura legislativa, risulta che tale modalita' di finanziamento indiretto consisterebbe, di diritto e di fatto, nella possibilita', accordata alle «regioni dell'obiettivo convergenza (...) e del Piano per il Sud» di eccedere, in termini di competenza e di cassa, i limiti di spesa posti dalla c.d. legge di stabilita' 2011 (legge 13 dicembre 2010, n. 220 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato»), a valere sulle risorse del fondo per lo sviluppo e la coesione di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88. Siffatta impostazione, che il groviglio sintattico e concettuale palesato nella strutturazione della disposizione non riesce del tutto a celare, si pone in evidente ed insanabile contrasto con l'articolo 119 della Costituzione, che sancisce il principio della piena responsabilita' finanziaria gravante su ciascun ente in relazione alle funzioni di cui e' tributario. E tale inderogabile principio vale, a fortiori, per quelle Regioni, come l'odierna ricorrente, che lungi dall'essere tra le possibili destinatarie del finanziamento indiretto con vincolo di destinazione, proprio perche' «virtuose», sono tenute comunque a contribuire a quei maggiori oneri derivanti dalla deroga ai tetti di spesa fissati dalla c.d. legge di stabilita' 2011. L'articolo 119 della Costituzione, in effetti, riconosce agli enti che compongono la Repubblica, e tra questi certamente alle Regioni, autonomia finanziaria di entrata e di spesa e disegna il sistema di finanziamento delle funzioni loro attribuite, limitando drasticamente la possibilita' che lo Stato possa disporre fondi di finanziamento a favore delle autonomie regionali e locali. La norma della Carta fondamentale, infatti, legittima formalmente soltanto due tipologie di fondi statali. Alla prima di dette tipologie sono riconducibili: il fondo perequativo, privo di vincoli di destinazione, di cui al comma terzo dell'art.119 Cost., utilizzabile per le amministrazioni con minore capacita' fiscale per abitante e cumulabile alle entrate ed ai tributi propri delle amministrazioni medesime, unitamente alla compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al territorio di pertinenza ai sensi dell'art. 119, comma secondo. Tutti tali cespiti finanziari sono ordinariamente destinati a finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite a Regioni ed Enti Locali ai sensi del comma quarto dell'art. 119 medesimo. L'altra tipologia consiste nelle «risorse aggiuntive» e negli «interventi speciali» previsti in favore di determinate Regioni, Province, citta' metropolitane, Comuni, al fine di «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarieta' sociale, (...) rimuovere gli squilibri economici e sociali, (...) favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, (...) provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni», ai sensi dell'art. 119, comma quinto. In relazione a quanto sopra evidenziato, sembra corretto concludere che l'intervento legislativo specificamente impugnato non possa essere annoverato, non possedendone le caratteristiche, ne' tra i fondi perequativi, ne' tra quegli speciali stanziamenti di cui al quinto comma dell'art. 119, come richiamati. Conseguentemente, non trovando collocazione nella norma della Carta fondamentale, l'art.5-bis di cui si tratta dovrebbe considerarsi incompatibile con l'art. 119 della Costituzione, cosi' come innovata per effetto della gia' evocata riforma. In altri termini, il presente patrocinio reputa che l'ingiustificato privilegio - accordato ad alcune regioni che gia' beneficiano dell'attingimento a fondi comunitari - di superare i limiti di spesa imposti dal sistema finanziario interno a tutela della stabilita' economica, snaturi e sradichi il nesso istituzionalmente e giuridicamente inscindibile tra attribuzione delle risorse ed esercizio delle funzioni, rischiando di tradursi in un'elargizione ad hoc perseguita con discutibili modalita' oblique, che codesta ecc.ma Corte ha gia' avuto modo di vagliare, censurando l'introduzione nell'ordinamento di qualsiasi «strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle regioni e degli enti locali, e di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (cfr. Corte cost., sentenza 16 gennaio 2004, n. 16). Infine, a completamento delle considerazioni che precedono, si sottopone all'attenzione di codesta ecc.ma Corte l'ulteriore profilo di illegittimita' della norma impugnata, desumibile dall'irrazionale preferenza riconosciuta alle sole «regioni dell'obiettivo convergenza (...) e del Piano per il Sud», che si concreta in meccanismi forieri di un'ingiustificata e percio' iniqua diseguaglianza, che mina nella sostanza la stessa unita' ed indivisibilita' dello Stato sancita all'articolo 5 della Costituzione. La previsione oggetto di impugnazione, per i considerevoli contenuti discriminatori che presenta, e' in insanabile contrasto con il principio di responsabilita' finanziaria, che, allo scopo di impedire il protrarsi di situazioni di sperpero e non corretto impiego delle risorse provenienti dalla fiscalita' generale, preclude allo Stato la possibilita' di attribuire risorse aggiuntive ai soggetti istituzionali che abbiano oltrepassato i limiti finanziari consentiti, ovvero che non abbiano utilizzato le disponibilita' economiche loro attribuite secondo le regole di buona amministrazione. La condizione di privilegio riservata, dalla disposizione in esame, ad alcune regioni in ordine all'obbligo di rispetto dei limiti di spesa, non si fonda, infatti, su valutazioni oggettive afferenti determinate carenze infrastrutturali o immateriali che, in termini generali, potrebbero legittimare l'intervento legislativo di favore, rendendo accettabili eventuali misure perequative necessarie a sostegno dell'unita' nazionale. Al contrario, la norma, basandosi su di una irragionevole, apodittica quanto ingiustificata presunzione di inferiorita' infrastrutturale presupposta in alcune regioni, quasi si trattasse di un fenomeno endemico, esacerba il dislivello giuridico e finanziario, alterando le corrette relazioni istituzionali e cosi' rendendo del tutto illegittimo quell'obbligo di ripianamento, posto a carico delle restanti Regioni, e, conseguentemente, si traduce in un altrettanto illegittimo depauperamento finanziario ed istituzionale. Va da se' che le risorse destinate alla perequazione provengono necessariamente dai fondi altrimenti destinati all'esercizio delle funzioni di competenza. Alla luce di tutto quanto sopra esposto, si insiste nella ritenuta illegittimita' costituzionale dell'articolo 5-bis del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, come convertito dalla legge n.148/2011, con conseguente istanza di declaratoria di illegittimita' costituzionale della disposizione per violazione degli articoli 5 e 119 della Costituzione. Profili di illegittimita' costituzionale dell'articolo 14, lett. a), b), c), d) ed e) del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con legge n. 148 del 2011, per violazione degli articoli 117, 119 e 123 della Costituzione. Anche l'articolo 14, comma 1, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 reca disposizioni che si pongono in palese violazione dell'autonomia statutaria della Regione sancita dall'articolo 123 della Costituzione, nonche' dell'autonomia legislativa e finanziaria riconosciute dagli articoli 117 e 119 della Costituzione. Come gia' rilevato in riferimento all'art.5-bis, occorre innanzitutto porre attenzione alla tecnica utilizzata per la redazione della specifica norma. Certamente consapevole del rischio di illegittimita' costituzionale evidentemente sotteso alle disposizioni in esame, il legislatore nazionale, per ovviarvi, ricorre al meccanismo delle c.d. «misure premiali» e rinvia alle norme disciplinanti il patto di stabilita' interno, nella parte in cui il riferimento e' fatto alle regioni appartenenti alla categoria degli enti piu' virtuosi. Giova, al riguardo, richiamare in toto il primo alinea dell'articolo 14 secondo cui: «1. Per il conseguimento degli obiettivi stabiliti nell'ambito del coordinamento della finanza pubblica, le Regioni, ai fini della collocazione nella classe di enti territoriali piu' virtuosa di cui all'articolo 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, oltre al rispetto dei parametri gia' previsti dal predetto articolo 20, debbono adeguare, nell'ambito della propria autonomia statutaria e legislativa, i rispettivi ordinamenti ai seguenti ulteriori parametri (....)». Ebbene, ritenuto di non indugiare sui contenuti autoqualificatori della disposizione assiomaticamente rientrante nell'alveo del «coordinamento della finanza pubblica» che, comunque, rappresenta un dato assolutamente irrilevante (cfr. Corte cost. sentenza n. 182/2011; sentenza n. 237/2009), poiche' il legislatore statale e' tenuto a rispettare nella sostanza i limiti costituzionalmente imposti a tutela dell'autonomia regionale, non vi e' dubbio che la disposizione disvela il tentativo del legislatore statale di estendere l'ambito giustificativo del «coordinamento della finanza pubblica» - sia pure attraverso il ricorso alle c.d. «misure premiali» - oltre qualsiasi ragionevole limite, fino al punto di comprimere l'autonomia statutaria regionale, al di la' del mero ossequio, chiaramente formalistico, espresso nella disposizione. In altri termini, lo scrivente patrocinio ribadisce che l'ambito legislativo sotteso alla materia «coordinamento della finanza pubblica» non puo' essere dilatato al punto da ricoprire qualsiasi previsione legislativa dello Stato centrale, soprattutto quando detti interventi manifestano ripercussioni tanto gravose sul piano della finanza pubblica quanto lesive sul piano istituzionale. Per quanto attiene la valutazione afferente le circostanze legittimanti la sussistenza, in capo allo Stato, dell'anzidetta potesta' di coordinamento, ed i conseguenti limiti di esercizio della stessa, si richiama il consolidato indirizzo interpretativo emergente dalle pronunce di codesta ecc.ma Corte al riguardo, laddove e' chiarito che il riferimento alle esigenze di «coordinamento della finanza pubblica» deve comunque «(....) rispettare il riparto concorrente della potesta' legislativa in tema di coordinamento della finanza pubblica, (....)» e quindi «(....) permettere l'estrapolazione, dalle singole disposizioni statali, di principi rispettosi di uno spazio aperto all'esercizio dell'autonomia regionale. In caso contrario, la disposizione statale non potra' essere ritenuta di principio (cfr. Corte cost., sentenza n.159 del 2008), quale che ne sia l'eventuale autoqualificazione operata dal legislatore nazionale (cfr. Corte cost., sentenza n.237 del 2009)». (cosi', testualmente, Corte cost. sentenza n. 182 del 2011). Orbene, appare di palmare evidenza come la norma in esame, nel determinare in maniera analitica le singole e minute voci di spesa su cui la Regione dovrebbe intervenire per essere inclusa nel novero delle amministrazioni «virtuose», viola i parametri enucleati da codesta ecc. ma Corte sull'argomento e quindi si pone necessariamente in contrasto, sia con l'articolo 117, comma 3, Cost., che, in materia di coordinamento della finanza pubblica, consente allo Stato la sola legislazione di principio, sia con l'articolo 119 Cost. che, nel contesto ermeneutico risultante dalla copiosa e consolidata giurisprudenza di legittimita' costituzionale, preclude allo Stato la possibilita' di legiferare nel dettaglio, individuando le singole voci di spesa da limitare, seppure con interventi teleologicamente orientati al rispetto dei vincoli comunitari di politica economica e monetaria, poiche' altrimenti verrebbe lesa l'autonomia finanziaria regionale, costituzionalmente garantita, che implica la facolta' riconosciuta a ciascuna regione di scegliere le modalita' di contenimento della spesa (cfr. ex plurimis, Corte cost. le sentenze n. 36 del 2004; n. 390 del 2004; n. 417 del 2005; n. 449 del 2005; n. 88 del 2006; n. 297 del 2009; n. 182 del 2011 cit.). Quanto sopra evidenziato in termini generali non esaurisce, tuttavia, la trattazione degli ulteriori profili di illegittimita' costituzionale che si rinvengono nelle singole disposizioni di cui la norma impugnata si compone e che vengono congiuntamente considerati in ragione del nesso argomentativo che li collega. In particolare, al comma 1 dell'art.14: la lettera a) determina il numero massimo di consiglieri regionali in relazione al numero di abitanti della Regione; la lettera b) prevede un numero massimo di assessori regionali in relazione al numero dei componenti del Consiglio regionale; la lettera c) prevede la riduzione degli emolumenti ed utilita' in favore dei consiglieri regionali entro il limite dell'indennita' massima spettante ai membri del Parlamento; la lettera d) prevede che il trattamento economico dei consiglieri regionali sia commisurato all'effettiva partecipazione ai lavori in Consiglio regionale; la lettera e) dispone l'istituzione dal 1° gennaio 2012 di un collegio di Revisori dei Conti quale organo di vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed economica della gestione dell'ente. Nonostante il legislatore statale, come gia' rilevato, abbia apparentemente posto la dovuta attenzione all'autonomia statutaria e legislativa delle Regioni, la precisazione riportata nella nonna, secondo la quale l'adeguamento degli ordinamenti regionali deve avvenire «nell'ambito della propria autonomia statutaria e legislativa» si configura meramente formalistica e le disposizioni sopraindicate sono tutte censurabili in quanto indebitamente interferenti proprio con quell'autonomia. In dettaglio, con riferimento alle disposizioni contenute nelle lettere a) e b), relative alla determinazione del numero di consiglieri ed assessori, pare sufficiente riportare quanto disposto dall'articolo 123, primo comma della Costituzione, secondo il quale «ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento». Appare difficilmente opinabile l'assunto che riconduce alla determinazione della forma di governo regionale anche la definizione dei rapporti intercorrenti tra gli organi fondamentali della Regione, come determinati dall'articolo 121 della Costituzione, ovvero Consiglio regionale, Giunta e suo Presidente. Codesta ecc.ma Corte ha gia' avuto occasione di affermare che «le scelte fondamentali in ordine al riparto delle funzioni tra gli organi regionali, ed in particolare tra il Consiglio e la Giunta, alla loro organizzazione e al loro funzionamento sono riservate dall'articolo 123 alla fonte statutaria. Tale riserva impedisce al legislatore regionale ordinario, in assenza di disposizioni statutarie, di disciplinare la materia» (cfr. Corte cost., sentenza n. 188/2007). Se, dunque, i poteri e le relazioni tra Consiglio regionale, Giunta e suo Presidente costituiscono materia riservata agli statuti regionali, al medesimo ambito vanno ricondotte necessariamente le ulteriori specificazioni dispositive, tra le quali particolare rilevanza assume il numero dei componenti gli organi fondamentali regionali. Sul punto si richiama quanto precisato da codesto ecc.mo Collegio nella recentissima sentenza n. 188 del 2011, laddove si legge che: «l'art. 123 Cost. prevede l'esistenza nell'ordinamento regionale ordinario di vere e proprie riserve normative a favore della fonte statutaria rispetto alle competenze del legislatore regionale»; e che «nell'ambito di tali riserve normative, rientra la determinazione del numero dei membri del Consiglio, in quanto la composizione dell'organo legislativo regionale rappresenta una fondamentale scelta politica sottesa alla determinazione della forma di governo della Regione». Non pare, pertanto, potersi dubitare che la determinazione del numero dei consiglieri regionali si riflette sul sistema di governo regionale, riservato agli statuti, e cio' non puo' non valere anche con riguardo al numero degli assessori regionali. Si sostiene l'indiscutibile sussistenza della riserva statutaria di cui si tratta e di cui lo stesso legislatore statale sembra consapevole, laddove, con la disposizione censurata, sembra postulare di potersi sottrarre al vaglio di legittimita' costituzionale strutturando formalmente la norma in termini di facolta' e non di obbligo, nel senso che l'adeguamento previsto parrebbe rimesso all'autodeterminazione di ciascuna Regione, in conformita' all'anzidetta riserva statutaria. Tuttavia, in realta' cosi' non puo' essere, considerato che, creando una connessione inscindibile tra l'atteso adeguamento degli ordinamenti regionali e le note «misure premiali» -che consentono l'accesso ai benefici destinati alle amministrazioni c.d. «virtuose», o quantomeno precludono l'applicazione delle misure sanzionatorie -, l'esigenza primaria, data dalla necessita' di non subire aggravamenti finanziari determinati dal mancato adeguamento, si traduce, per le Regioni, nella necessita' di adempiere ad un autentico obbligo generato, peraltro, da un'imposizione statale incompatibile con l' esercizio dell'autonomia statutaria. Parimenti lesiva delle competenze regionali si configura la disposizione di cui all'articolo 14, comma 1 lett. e), che impone alle Regioni l'istituzione di un Collegio di Revisori dei Conti quale organo di vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed economica della gestione dell'ente. Si ritiene che l'ascrivibilita' all'autonomia organizzativa regionale anche dei contenuti della disposizione de qua non abbisogni di particolari argomentazioni. Non v'e' dubbio, infatti, che la previsione di un nuovo organo di controllo nel contesto dell'organizzazione regionale spetti solo ed esclusivamente alla Regione stessa, nell'ambito dell'accresciuto spazio normativo riconosciutole dal Titolo V della Costituzione, come novellato. Tale assunto non pare seriamente contestabile neppure qualora l'intervento di cui si tratta venga inteso come strumento indispensabile ad incrementare anche qualitativamente le modalita' di controllo gestionale dell'ente Regione allo scopo di razionalizzare le modalita' di contenimento della spesa pubblica e di riduzione degli sprechi. Come codesta ecc.ma Corte ha piu' volte riconosciuto, infatti, la materia dell'organizzazione amministrativa regionale e' attribuita alla competenza residuale delle Regioni prevista dall'articolo 117, quarto comma della Costituzione, da esercitare nel rispetto dei principi fondamentali di organizzazione e funzionamento fissati negli statuti (cfr. Corte cost., sentenza n. 188/2007 cit.). Infine, per quanto si riferisce alle disposizioni concernenti il trattamento economico dei consiglieri regionali, la norma appare censurabile per violazione degli articoli 117 e 119 della Costituzione. Si richiama, in proposito la pronuncia di codesto ecc.mo Collegio che, nella sentenza n. 157 del 2007, ha ribadito come la gia' menzionata legge n. 62 del 1953 abbia rimesso la fissazione delle indennita' spettanti ai titolari delle cariche politiche della Regione alle leggi regionali e ai rispettivi statuti ed attualmente, per quanto riguarda la ricorrente, la legge regionale del Veneto 30 gennaio 1997, n. 5 determina appunto il trattamento indennitario dei consiglieri regionali. Le lettere c) e d), al comma 1 dell'articolo 14, riducendo gli emolumenti e le utilita', comunque denominati, previsti in favore dei consiglieri regionali entro il limite dell'indennita' massima spettante ai membri del parlamento, e prevedendo che il trattamento economico degli stessi sia commisurato all'effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio regionale, pone un precetto specifico e puntuale che si pone in palese contrasto sia con l'articolo 119 della Costituzione che garantisce l'autonomia finanziaria regionale, sia con l'articolo 117, terzo comma della stessa, che, si ribadisce una volta di piu', impone che lo Stato, in materia legislativa concorrente qual e' il coordinamento della finanza pubblica, si limiti a fissare nonne di principio. Come costantemente affermato da codesta Ecc.ma Corte, infatti, «la legge statale puo' prescrivere criteri e obiettivi (ad esempio, il contenimento della spesa pubblica), non imporre alle Regioni minutamente gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi. Cio' si risolve in un'indebita invasione dell'aera riservata dall'art. 119 Cost. alle autonomie regionali» (cfr. Corte cost., sent. n. 157 del 2007 cit.). Infine, a conferma della forzatura, rispetto ai limiti costituzionali, tentata dallo Stato con gli interventi normativi censurati supra, appare pertinente riportare quanto espresso nel parere sul disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 138 del 2011 approvato dalla I Commissione permanente Affari costituzionali del Senato in data 24 agosto 2011. La I Commissione aveva infatti espresso parere non ostativo sul disegno di legge, a condizione che, «salvo contrasto insanabile con norme costituzionali» fossero riformulati alcuni articoli, tra cui il comma 1 dell'articolo 14. La richiesta di riformulazione si fondava sul rilievo, peraltro del tutto ignorato in sede di conversione del decreto, che la disposizione «pone la riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori regionali, nonche' delle relative indennita', quali elementi necessari per il conseguimento delle misure premiali relative alla nuova configurazione del patto di stabilita'. La norma appare lesiva dell'autonomia costituzionalmente riconosciuta alle regioni, con particolare riguardo all'articolo 123, primo comma, della Costituzione, che attribuisce a ciascuna regione, attraverso il proprio statuto, la facolta' di determinare la forma di governo e i relativi principi fondamentali di organizzazione e funzionamento». Profili di illegittimita' dell'articolo 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14 , 15 e 16, per violazione degli articoli 97, 114, 117, e 118 della Costituzione. L'articolo in esame impone ai comuni con popolazione fino a mille abitanti di esercitare obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative, mediante un'unione di comuni dettagliatamente disciplinata nei commi specificati. La complessa norma, secondo quanto espressamente indicato nella rubrica e nel relativo comma 1 e' finalizzata, secondo il noto meccanismo di autoqualicazione ripetutamente utilizzato dal legislatore statale nella manovra in esame, a conseguire due differenti scopi cosi' riassumibili. In primo luogo e' perseguita la riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica allo scopo di assicurare il conseguimento degli obiettivi di coordinamento di finanza pubblica, nonche' il contenimento delle spese degli enti locali; In secondo luogo, l'intervento e' dichiaratamente finalizzato alla razionalizzazione delle modalita' di organizzazione delle funzioni comunali per migliorare l'esercizio delle funzioni amministrative e l'offerta dei servizi pubblici. Tali obiettivi dovrebbero essere conseguiti attraverso nuove ed obbligatorie forme associative tra comuni, c.d. «unioni municipali», peraltro limitate a quelle amministrazioni con densita' abitativa inferiore a mille abitanti. Per i comuni appartenenti alla fascia con densita' di popolazione immediatamente superiore viene inoltre regolamentato dettagliatamente l'assetto ordinamentale della nuova unione, ivi compresa la disciplina transitoria dal previgente regime a quello innovativo, introdotto con le disposizioni censurate. Quanto sopra premesso, a cornice generale del complesso di disposizioni che la norma impugnata presenta, si ritiene di analizzare partitamente dette disposizioni, apoditticamente ricondotte dal legislatore statale nell'alveo dell'articolo 117 della Costituzione, e piu' precisamente nell'ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato. Preliminarmente si osserva come, qualora il testo legislativo in esame trovasse appropriata collocazione tra gli strumenti necessari a perseguire la riduzione dei costi ed inserito tra le azioni indispensabili al raggiungimento dei noti e difficili obiettivi di finanza pubblica, le puntuali disposizioni in esso contenute dovrebbero appartenere alla categoria delle c.d. «norme di coordinamento della finanza pubblica» ed automaticamente ascriversi all'omonima materia di competenza concorrente ai sensi del comma terzo dell'articolo 117 della Costituzione. Ancora una volta si ribadisce, conformemente alle pronunce formulate al riguardo da codesta ecc.ma Corte, che in tale materia la disciplina di principio dei vincoli finanziari, vale a dire il contesto normativo rimesso alla competenza legislativa dello Stato, si configura compatibile con l'autonomia degli enti costituzionalmente garantiti come le Regioni ed i Comuni solo allorquando stabilisca tassativamente ed esclusivamente un limite complessivo di intervento - avente ad oggetto o l'entita' del disavanzo di parte corrente o i fattori di crescita della spesa corrente - lasciando agli enti stessi piena autonomia e liberta' di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa. (cfr. Corte cost., sentenza n. 417 del 2005). Infatti appare ormai consolidato l'orientamento del giudice delle leggi secondo il quale «norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalita' per il perseguimento dei suddetti obiettivi (cfr. in tal senso Corte cost., sentenze n. 289 e n. 120 del 2008, n. 139 del 2009 e n. 326 del 2010).» Per converso, le disposizioni suindicate integrano, invece, una disciplina di dettaglio ed autoapplicativa che non puo' essere ricondotta alla nozione di principio fondamentale della materia del coordinamento della finanza pubblica. Ed invero si tratta di imposizioni di carattere imperativo e puntuale a cui soggiacciono in via diretta le amministrazioni comunali ed in via riflessa le Regioni, alle quali non e' lasciata alcuna autonomia opzionale in aperta violazione dell'articolo 114 della Costituzione, secondo comma, per il quale «I Comuni, le Province, le Citta' metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.». La censura che precede, nel senso della violazione del precitato principio costituzionale di equiordinazione, posto a tutela delle autonomie locali e delle Regioni, deve essere riproposta in relazione al comma 7 dell'articolo 16, che impone ex lege la cessazione delle precedenti forme associative previste nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (c.d. Testo unico degli enti locali), sostituite da quelle indicate nella riforma. Non puo', pertanto, non suscitare considerevoli perplessita' la dichiarata finalita' del conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica che accompagna l'intervento impugnato dall'odierna ricorrente, quasi si trattasse di un'egida di cosi' ampia valenza protettiva da giustificare intromissioni cosi' lesive nel tessuto delle garanzie costituzionali. In proposito, infatti, nelle disposizioni in commento, per un verso risulta assente la necessaria indicazione del risparmio di spesa conseguente, mentre, per altro verso, l'effetto dirompente della norma risulta piu' di carattere ordinamentale che finanziario, particolarmente laddove vengono disciplinati compiutamente gli organi della nuova forma associativa, eccezion fatta, ovviamente, per il comma 15 afferente le indennita' spettanti ai consiglieri nonche' gli emolumenti degli amministratori. Per affrontare correttamente la questione incentrata sulla legittimita' della norma impugnata, appare utile soffermarsi sull'inquadramento costituzionale della manovra legislativa posta in essere, specificamente per quanto attiene la collocazione della razionalizzazione delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici di spettanza comunale, che si dubita costituisca un profilo riconducibile de plano alla lettera p) del comma secondo dell'articolo 117 della Costituzione. Ed invero la locuzione «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Citta' metropolitane», contemplata alla lettera p) della norma predetta, si riferisce espressamente alle funzioni individuate dallo stesso legislatore statale, anche se in via provvisoria, nell'articolo 21, comma 3 della legge 5 maggio 2009, n. 42 recante «Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione.» e successivamente confermate nell'articolo 3, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216 rubricato «Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Citta' metropolitane e Province.» Si rammenta, in proposito, che entrambe le disposizioni citate si riferiscono alle sole funzioni fondamentali di competenza delle amministrazioni comunali. Per converso le disposizioni in commento si riferiscono alla totalita' delle funzioni amministrative ed ai servizi pubblici locali, ivi comprese anche quelle non qualificabili come fondamentali e, pertanto, non appartenenti all'ambito necessariamente assoggettato alla potesta' legislativa esclusiva statale di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera p) della Costituzione. Tuttavia, a sostegno della ritenuta ipotesi di un inammissibile esercizio, da parte dello Stato, della potesta' legislativa in subiecta materia, in violazione di quanto consentito a termini dell'art.117, comma secondo, lettera p), si rinvengono ulteriori argomenti in relazione agli «organi di governo» contemplati dalla norma in esame. Invero, l'indicazione contenuta negli articoli 114 e 117, comma secondo, lettera p) della Carta fondamentale, laddove e' fatto riferimento a Comuni, Province, citta' metropolitane, presenta carattere tassativo, nel senso che si dubita che le garanzie costituzionali espresse dalle norme citate possano estendersi ad eventuali forme associative, comunque composte. A suffragio dell'assunto, si richiamano le pronunce di codesta ecc.ma Corte a proposito delle Comunita' montane. Infatti, per un verso e' stato esplicitamente escluso che tali enti, seppure integranti peculiari unioni di Comuni, appartengano all'anzidetto contesto costituzionale (cfr. Corte cost. sentenza n.397 del 2006); per altro verso, richiamando quanto affermato nella sentenza n. 244 del 2005, e' stata inequivocabilmente individuata la natura giuridica delle Comunita' montane che rappresentano un caso speciale di unione di Comuni, in quanto «create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo piu' adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei comuni montani, "funzioni proprie", "funzioni conferite" e "funzioni comunali" (cfr. Corte cost. sentenza n. 229 del 2001) e che tale qualificazione pone in evidenza l'autonomia di tali enti (non solo dalle Regioni ma anche dai Comuni) , come dimostra, tra l'altro, l'espressa attribuzione agli stessi della potesta' statutaria e regolamentare (art. 4, comma 5, della legge n. 131 del 2003).» Se, dunque, alle Comunita' montane e' stata riconosciuta, pur non essendo enti costituzionalmente garantiti, specifica autonomia statutaria e regolamentare, non si vede per quale ragione analoga autonomia non dovrebbe essere riconosciuta alle nuove figure di unioni di comuni, anche per quanto concerne l'individuazione dei propri organi di governo. Invece, l'art. 16, nelle disposizioni contenute ai commi da 10 a 14, disciplina appunto gli organi di governo dell'unione municipale dei comuni, che, per quanto forma istituzionale destinata all'esercizio associato di funzioni di Comuni, e' ente diverso ed autonomo dalle amministrazioni di cui si compone. Conseguentemente, per quanto sopra esposto, non essendo tali unioni municipali giuridicamente assimilabili ai Comuni, men che meno secondo meccanismi di interpretazione estensiva inconciliabili con la tassativita' del dettato costituzionale, le stesse sono da ritenersi escluse dall'ambito di riferimento proprio degli artt. 114 e 117, comma secondo, lettera p) della Costituzione e, per cio' stesso, non sono imputabili alla titolarita' legislativa statale. Orbene, se da quanto supra argomentato appare di tutta evidenza come la potesta' legislativa esclusiva dello Stato non possa legittimamente estendersi oltre i limiti rigorosamente segnati dai campi di disciplina espressamente menzionati nella lettera p) del secondo comma dell'articolo 117 Cost., non pare temerario affermare, al riguardo, la sussistenza di una competenza legislativa residuale delle Regioni, in base al criterio di riparto stabilito nel nuovo articolo 117 della Costituzione, che, elencando solo le materie di competenza esclusiva statale e di competenza concorrente, consente di far rifinire nella potesta' residuale delle Regioni quelle non esplicitamente incluse nell'uno o nell'altro ambito. (cfr., in tal senso, Corte cost., sentenza n. 261 del 2011). Se i principi affermati da codesta ecc.ma Corte, con riferimento al fenomeno dell'associazionismo proprio delle Comunita' montane, sono valevoli anche in relazione alle forme associazionistiche espresse dalla disciplina oggetto delle censure dell'odierna ricorrente, non puo' non lamentarsi la lesione delle prerogative riconosciute alle Regioni in materia, atteso che l'«associazionismo comunale», non essendo riconducibile alla lettera p) del comma secondo dell'articolo 117 della Costituzione ne' al comma terzo del medesimo articolo, deve essere di sicura competenza legislativa esclusiva regionale. Nell'annosa questione afferente l'eccessiva frammentazione istituzionale connessa all'evidente inadeguatezza delle dimensioni demografiche e territoriali di alcuni Comuni italiani, alla quale in piu' riprese si e' cercato di ovviare sia con l'introduzione nell'ordinamento di incentivi alla fusione, sia con l'imposizione di limiti demografici all'istituzione di nuovi Comuni, la Regione ha sempre svolto un ruolo fondamentale, particolarmente per quanto attiene il profilo organizzativo afferente la gestione degli incentivi di tipo economico. Infatti e' sempre stata la Regione il soggetto deputato a regolamentare le modalita' concessorie di questi ultimi incentivi, destinati a favorire l'esercizio associato delle funzioni, nonche' ad individuare i livelli ottimali di dimensionamento demografico da definire in concerto con gli enti locali, come previsto, ad esempio nell'articolo 3 del decreto legislativo n. 112 del 1998, nonche' all'articolo 33 del decreto legislativo n. 267 del 2000. Tuttavia si rinviene una differenza sostanziale tra le disposizioni da ultimo menzionate e quelle in commento, atteso che solo nelle prime e non nelle seconde si riscontra il riconoscimento espresso della titolarita' legislativa regionale e si riafferma la piena liberta' dei Comuni circa la determinazione volta a modificare il proprio assetto funzionale, poiche' gli stessi esercitano «le funzioni in forma associata, individuando autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie, entro il termine temporale indicato dalla legislazione regionale». Ribadita la non condivisibilita', per tutto quanto sopra esposto, della posizione interpretativa che pretende di ricondurre il complesso normativo in esame all'alveo della competenza legislativa di esclusiva spettanza statale a termini dell'art.117, comma secondo, lettera p), a sostegno della lesione della ritenuta competenza residuale sussistente in tema di associazionismo, si richiama anche quanto recentemente disposto con l'art.14, commi da 27 a 31 del decreto-legge 31 maggio 2010, n.78, convertito, con modificazioni, con la legge 30 luglio 2010, n. 122, che aveva introdotto una disciplina concernente l'associazionismo comunale di improbabile armonizzazione con quella di cui ora si discute. Tale norma, infatti, si configura aderente al dettato costituzionale, specialmente operando le doverose distinzioni che il riparto di competenze attualmente vigente impone e prevede che le Regioni, nelle materie di cui ai commi terzo e quarto dell'art.117 Cost. possano individuare con propria legge la dimensione, ottimale ed omogenea all'interno dell'area geografica, per l'esercizio di funzioni comunali in forma associata, con facolta' di stabilire limiti demografici diversi da quelli determinati dallo Stato. Ma se la disposizione richiamata ha riconosciuto la competenza normativa regionale in fattispecie per le quali l'intervento statale era limitato alla previsione dell'associazionismo quale forma di esercizio delle sole funzioni fondamentali, non si vede per quale ragione tale competenza dovrebbe essere venuta meno con riferimento all'associazionismo quale forma di esercizio di tutte le funzioni amministrative, incluse quelle non fondamentali. Infine, si reputa di evidenziare un ulteriore profilo critico, certamente di non secondaria rilevanza. Proprio la titolarita' legislativa regionale in materia di associazionismo, riconosciuta nel gia' citato comma 30 dell'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2010, viene a distanza di poco piu' di un anno integralmente disconosciuta dalle disposizioni in commento. Tale successione di leggi in tempi cosi' ravvicinati e con modalita' redazionali e contenuti cosi inconciliabili, genera un'insostenibile incertezza normativa, oltre a pregiudicare sensibilmente la concreta operativita' delle amministrazioni comunali anche per quanto concerne l'esercizio delle funzioni amministrative di competenza regionale, in violazione del principio di buon andamento dell'azione amministrativa tutelato dall'art. 97 della Costituzione. Si segnala, per completezza, che, proprio in attuazione della normativa delineata dal decreto-legge n. 78 del 2010, la Regione del Veneto, con il progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale n. 196 del 2011, ha legittimamente avviato il proprio iter legislativo di riordino. Ma v'e' di piu'. Le norme in esame si configurano lesive delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle Regioni in tema di associazionismo comunale non soltanto per quanto concerne l'esercizio della potesta' legislativa, ma anche per quanto concerne l'esercizio della potesta' amministrativa, ai sensi dell'art.118 Cost.. Infatti, il contenuto di dettaglio espresso, con imposizione autoritativa, nelle disposizioni censurate, anche relativamente a funzioni diverse da quelle di esclusiva spettanza statale, nella misura in cui si riferisce a funzioni amministrative di competenza regionale, non puo' non generare un'evidente violazione anche al riparto di competenze amministrative di cui all'articolo 118 della Costituzione. Il modello di unione di Comuni delineato ed imposto dallo Stato, connotato da genericita' ed indifferenziazione, non puo' definirsi aprioristicamente idoneo a garantire quelle esigenze di efficienza organizzativa che rappresenta l'indispensabile portato dell'allocazione ottimale delle funzioni, in ossequio a quei principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza che dovrebbero connotare il sistema di amministrazione locale. In tal senso, il conferimento, fatto agli Enti locali con legge regionale, di funzioni amministrative nelle materie di competenza legislativa regionale, costituisce appunto la declinazione in concreto, nell'ambito territoriale proprio, degli anzidetti principi, allo scopo di razionalizzare, secondo criteri oggettivi e consapevoli, l'esercizio delle funzioni amministrative. Correlativamente, analoga valutazione in ordine alle caratteristiche peculiari delle singole funzioni suscettibili di diversa allocazione, compete allo Stato nelle materie di propria esclusiva attribuzione. Qualora, invece, l'esercizio delle funzioni amministrative di spettanza regionale subisca indebite compressioni per effetto di interventi normativi statali autoritativi e generalizzati, non puo' non ritenersi sussistente la violazione dell'articolo 118 della Costituzione, nei termini sopra descritti, e cioe' in riferimento alle prerogative regionali circa l'esercizio di funzioni amministrative. In via meramente incidentale, si rammenta che l'imposizione all'adozione di una determinata forma organizzativa di tipo associativo appare altresi' lesiva dell'articolo 117, comma sesto della Costituzione, che riconosce ai Comuni autonoma potesta' regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite ed a tale ambito deve necessariamente essere ricondotta la scelta metodologica concretantesi nell'esercizio delle funzioni secondo forme associative. Del resto, la liberta' di organizzazione riconosciuta dal legislatore statale ai Comuni e' indiscutibile ed e' testimoniata dalla pluralita' di disposizioni in materia di associazionismo comunale tuttora vigenti e presenti nell'ordinamento, secondo cui i comuni esercitano «le funzioni in forma associata, individuando autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie, entro il termine temporale indicato dalla legislazione regionale.» e tale violazione puo' essere legittimamente prospettata anche dalla Regione, come chiarito da codesta ecc.ma Corte nelle decisioni n. 196 del 2004 e n. 417 del 2005. Da ultimo, si reputa di affrontare separatamente la norma contenuta al comma 28 dell'articolo 16, che specifica la pluralita' di poteri attribuiti al Prefetto allo scopo di vigilare in ordine al veloce conseguimento degli obiettivi individuati. Innanzitutto si impone a tale Autorita' di accertare l'avvenuta attuazione, da parte di tutti gli enti locali interessati, di quanto stabilito all'articolo 2, comma 186, lettera e) della legge n. 191 del 2009 e all'articolo 14, comma 32 della legge 31 maggio 2010, n. 78, cui consegue, nelle ipotesi di acclarato inadempimento, l'esercizio del potere sostitutivo statale. In sostanza la disposizione prevede che, al fine di verificare il perseguimento degli obiettivi di semplificazione amministrativa ed organizzativa, nonche' di riduzione delle spese effettuate dagli enti locali, il Prefetto debba accertare che gli enti territoriali interessati abbiano proceduto alla soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali, ad eccezione dei bacini imbriferi montani, e si siano conformati al divieto imposto ai comuni con popolazione inferiore a trenta mila abitanti di costituire societa'. L'accertamento evidenziante l'inadempienza dell'Ente locale determina l'attivazione dell'intervento sostitutivo statale. Per le modalita' dell'esercizio del potere sostitutivo la disposizione rinvia all'articolo 8, commi 1, 2, 3 e 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131 recante «Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.» che attua appunto l'articolo 120 della Costituzione. In proposito, ed in via preliminare, la difesa regionale rileva che il potere sostitutivo di cui si tratta pare esulare dall'ambito proprio dell'articolo 120 della Costituzione che consente al Governo di legittimamente sostituirsi agli organi dei Comuni solo nelle ipotesi tassativamente ivi elencate, ovvero per: a)mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria; b) pericolo grave per l'incolumita' e la sicurezza pubblica; c) tutela dell'unita' giuridica ed economica con particolare riguardo alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e tali fattispecie sono certamente tipizzate e tassative. Orbene e' palese ed incontrovertibile come nessuna delle ipotesi sopra riportate possa attagliarsi ad un contesto come quello oggetto della norma censurata, nella quale, per esplicita affermazione del medesimo legislatore statale, gli unici obiettivi posti a fondamento dell'intervento sono quelli della semplificazione e della riduzione delle spese. Ne' si reputa condivisibile la posizione interpretativa che vorrebbe ricondurre il potere sostitutivo de quo ad una ritenuta preminente esigenza di garanzia dell'unita' economica, intesa come il complesso della macroeconomia nazionale, costituito da moneta, risparmio e mercati finanziari, ai sensi dell'art.117, comma secondo, lettera e) della Costituzione, atteso che la finalita' di contenimento della spesa pubblica e' perseguibile dallo Stato con mere previsioni normative di principio, nell'alveo del piu' volte menzionato sistema di coordinamento della finanza pubblica di cui al comma terzo della Costituzione, e non puo' quindi legittimare il potere sostitutivo statale in argomento. Ad avviso del patrocinio regionale, la circostanza che tale potere sostitutivo si configuri come straordinario, e come tale e' appunto definito in alcune decisioni di codesta ecc.ma Corte, e collocato in posizione aggiuntiva rispetto alle altre ipotesi di potere sostitutivo c.d. ordinario, non puo' consentire alcuna violazione del riparto di competenze tutelato e garantito dagli articoli 117 e 118 della Costituzione. Se, infatti, il potere sostitutivo straordinario si pone quale presidio ad esigenze avvertite come fondamentali, di eguaglianza, sicurezza e legalita' la cui tutela appare necessaria al fine di garantire unita' e coerenza dell'ordinamento, mentre quello ordinario e' correlato necessariamente all'esercizio della potesta' legislativa statale ed alla potesta' afferente l'esercizio delle funzioni amministrative attribuite ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione, le esigenze di coordinamento della finanza pubblica, sottese alla disposizione censurata, non sono in alcun caso perseguibili anche mediante il ricorso ad un intervento sostitutivo straordinario, ma al piu' a quello ordinario, nei termini sopra riportati. In altre parole, al di fuori delle ipotesi prospettate, si profila la violazione tanto dell'art. 117 quanto dell'art. 118 della Costituzione. Questo perche', in sostanza, il mero principio di coordinamento della finanza pubblica, integrato rispettivamente da un obbligo di soppressione dei consorzi di funzioni e da un divieto di costituzione di societa', e' strumentale all'esercizio di una funzione amministrativa che, in conformita' all'articolo 118 della Costituzione, puo' rientrare anche in ambiti di competenza regionale. Non pare contestabile che il Comune possa aver deciso di costituire un consorzio per l'esercizio di funzioni amministrative di competenza regionale ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, conferite ai Comuni ai sensi del successivo art. 118. In tale fattispecie l'esercizio di un potere sostitutivo statale che sfociasse nella nomina di un commissario ad acta con il compito di sopprimere il consorzio produrrebbe effetti sulle modalita' di esercizio di una funzione amministrativa di attribuzione non statale, ma regionale. Analoghe considerazioni di carattere concretamente gestionale possono essere elaborate in riferimento alla disciplina relativa all'eventuale partecipazione societaria, circoscritta all'ambito dei servizi pubblici, per quanto tale contesto presenti certamente connotati di maggiore complessita', che non tollerano sterili generalizzazioni. D'altro canto, e' pacificamente ammessa la legittimita' di una legge regionale che «intervenendo in materie di propri competenza, e nel disciplinare, ai sensi dell'art. 117, terzo e quarto comma, e dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione, l'esercizio di funzioni amministrative di competenza dei Comuni, preveda anche poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di atti o di attivita' obbligatorie, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell'ente competente, al fine di salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall'inerzia o dall'inadempimento medesimi» (cfr. Corte cost., sentenza n. 43 del 2004). Ne discende che il potere sostitutivo statale non puo' e non deve riguardare amministrazioni che esercitano funzioni amministrative di competenza regionale ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione. Al riguardo, nella decisione n. 303 del 2003, codesta ecc.ma Corte ha affermato che «Nel nuovo Titolo V l'equazione elementare interesse nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa previgente sorreggeva l'erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, e' divenuta priva di ogni valore deontico, giacche' l'interesse nazionale non costituisce piu' un limite, ne' di legittimita', ne' di merito, alla competenza legislativa regionale.»
P. Q. M. Chiede che codesta ecc. ma Corte costituzionale, accogliendo il presente ricorso, voglia dichiarare la illegittimita' costituzionale dell'articolo 3, comma 4, 5-bis, 14, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e), 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante: «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», pubblicato nel testo coordinato con la legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148, nella Gazzetta Ufficiale n. 216 del 16 settembre 2011, per violazione degli articoli 3, 5, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione. Si allega: 1) copia conforme all'originale della deliberazione della Giunta regionale del Veneto 8 novembre 2011 n. 1790, di autorizzazione alla proposizione del ricorso. Venezia - Roma, addi' 14 novembre 2011 avv. Zanon - avv. Palumbo - avv. Manzi Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1, comma 1, lettera c), della legge 7 giugno 1993, n. 183 «Norme in materia di utilizzazione dei mezzi di telecomunicazione per la trasmissione degli atti relativi a procedimenti giurisdizionali», dichiaro conforme all'originale il suesteso atto trasmesso a mezzo fax. Avv. Zanon Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1, comma 1, lettera c), della legge 7 giugno 1993, n. 183 «Norme in materia di utilizzazione dei mezzi di telecomunicazione per la trasmissione degli atti relativi a procedimenti giurisdizionali», sottoscrivo il suesteso atto ut supra dichiarato conforme all'originale e trasmesso a mezzo fax. Avv. Manzi