N. 153 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 18 ottobre 2012
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 18 ottobre 2012 (della Regione Campania). Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica - Obbligo per le Regioni di procedere allo scioglimento, o in alternativa, alla privatizzazione di tutte le societa' direttamente o indirettamente controllate, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato di prestazioni di servizi in favore della p.a. superiore al novanta per cento dell'intero fatturato - Previsione di non applicabilita' dell'obbligo predetto alle societa' che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica a condizione che per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato - Ricorso della Regione Campania - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria, organizzativa e di funzionamento delle Regioni e di enti pubblici regionali, nonche' di servizi pubblici locali - Denunciata violazione dei principi di ragionevolezza, di buon andamento della pubblica amministrazione e di leale collaborazione - Denunciata violazione del principio di liberta' di iniziativa economica privata - Denunciata violazione di obblighi internazionali derivanti dal diritto comunitario, in tema di affidamenti in house - Denunciata violazione degli esiti referendari del 12 e 13 giugno 2011 - Denunciata elusione del decisum della sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012. - Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 4, comma 3. - Costituzione, artt. 5, 41, 75, 114, 117, 118 e 136. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica - Limitazione dell'affidamento dei sevizi pubblici locali alle sole ipotesi in cui il valore economico del servizio sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui - Ricorso della Regione Campania - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria, organizzativa e di funzionamento delle Regioni e di enti pubblici regionali, nonche' di servizi pubblici locali - Denunciata violazione del principio di liberta' di iniziativa economica privata - Denunciata violazione di obblighi internazionali derivanti dal diritto comunitario, in tema di affidamenti in house - Denunciata violazione degli esiti referendari del 12 e 13 giugno 2011 - Denunciata elusione del decisum della sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012. - Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 4, comma 8. - Costituzione, artt. 5, 41, 75, 114, 117, 118 e 136. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica - Riordino delle Province e loro funzioni - Previsione del riordino di tutte le Province delle Regioni a statuto ordinario, mediante decreto da emanarsi, entro dieci giorni dall'entrata in vigore del decreto-legge impugnato, con deliberazione del Consiglio dei ministri, sulla base dei requisiti minimi da individuarsi nella dimensione territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia (individuati con la deliberazione predetta, rispettivamente, in 2500 km. e in 350.000 abitanti) - Prevista partecipazione al riordino delle Province mediante atto legislativo ad iniziativa governativa, all'esito di una procedura cui partecipano il Consiglio delle autonomie locali delle singole Regioni a statuto ordinario e le Regioni stesse mediante la presentazione di ipotesi di riordino e previo parere della Conferenza unificata - Ricorso della Regione Campania - Denunciata violazione del principio democratico della sovranita' popolare, nonche' del principio autonomistico delle comunita' locali - Denunciata violazione del principio di autonomia costituzionale degli enti territoriali, nella specie delle Province - Lesione del principio di ragionevolezza per l'adozione di una misura sproporzionata e non efficace rispetto alla finalita' dichiarata dalla normativa impugnata di riduzione della spesa pubblica - Denunciata violazione dei presupposti di legittimita' costituzionale della straordinarieta' ed urgenza per l'adozione del decreto-legge - Denunciata violazione dell'assetto costituzionale ed ordinamentale della Regione - Denunciata violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Denunciata violazione dell'autonomia regionale in relazione ai principi di sussidiarieta' verticale e di adeguatezza - Denunciata lesione della potesta' regolamentare delle Province - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria ed amministrativa regionale - Violazione del principio costituzionale della partecipazione della popolazione interessata alla procedura di mutamento delle circoscrizioni provinciali e degli altri enti territoriali previsti dalla Costituzione - Denunciata violazione del procedimento per l'approvazione delle leggi costituzionali. - Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 17, commi 1, 2, 3, 4, 4-bis, 6, 11 e 12. - Costituzione, artt. 1, 2, 3, 5, 71, primo comma, 77, comma secondo, 114, 117, 118, 119, 120, 123, 133 e 138. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica - Soppressione delle Province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria con contestuale istituzione delle corrispondenti Citta' metropolitane a far data dal 1° gennaio 2014 - Ricorso della Regione Campania - Denunciata violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria ed amministrativa regionale - Violazione del principio costituzionale della partecipazione della popolazione interessata alla procedura di mutamento delle circoscrizioni provinciali e degli altri enti territoriali previsti dalla Costituzione. - Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 18, commi 1, 2, 2-bis, 7-bis, 9, lett. c) e d). - Costituzione, artt. 3, 97, 114, 117, 118, 123 e 133. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica - Riorganizzazione delle funzioni fondamentali dei Comuni ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lett. p), della Costituzione - Previsione per i Comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti dell'esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali, mediante riunione dei comuni o convenzioni di durata triennale - Previsione per i Comuni con popolazione fino a 1000 abitanti, dell'obbligo di esercizio in forma associata, mediante unione di tutte le funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici ad essi spettanti - Previsione che le Regioni, nelle materie di cui all'art. 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, individuano le dimensioni territoriali ottimali per l'esercizio delle funzioni in forma obbligatoriamente associata, mediante unioni e convenzioni - Ricorso della Regione Campania - Denunciata violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria ed amministrativa regionale - Denunciata violazione della sfera di competenza regionale in materia di associazionismo degli enti locali - Violazione del principio costituzionale della partecipazione della popolazione interessata alla procedura di mutamento delle circoscrizioni provinciali e degli altri enti territoriali previsti dalla Costituzione. - Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 19, commi 1, lett. a), b), c) e d), 2, 3, 4, 5 e 6. - Costituzione, artt. 3, 97, 114, 117, 118, 123 e 133.(GU n.48 del 5-12-2012 )
La Regione Campania (codice fiscale 80011990636), in persona del presidente della giunta regionale pro-tempore, on. dott. Stefano Caldoro, rappresentata e difesa, ai sensi della delibera della giunta regionale n. 529 del 4 ottobre 2012, giusta procura a margine del presente atto, unitamente e disgiuntamente, dall'avv. Maria D'Elia (codice fiscale DLEMRA53H42F839H), dell'avvocatura regionale, e dal prof. avv. Beniamino Caravita di Toritto (codice fiscale CRVBMN54D19H501A), del libero foro, ed elettivamente domiciliata presso l'ufficio di rappresentanza della Regione Campania sito in Roma alla via Poli n. 29 (fax 06/42001646; pec abilitata: cdta@legalmail.it); Contro Il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 3 e 8, dell'art. 17, commi 1, 2, 3, 4, 4-bis, 11, nonche' commi 6 e 12, dell'art. 18, commi 1, 2, 2-bis, 7-bis, 9, lettere c) e d), nonche' dell'art. 19, commi 1, lettere a), b), e) e d), 2, 3, 4, 5 e 6, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 189 del 14 agosto 2012, supplemento ordinario n. 173, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonche' misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», per violazione degli artt. 1, 2, 3, 5, 41, 71, comma 1, 75, 77, comma 2, 97, 114, 117, 118, 119, 120, comma 2, 123, 133, 136 e 138 della Costituzione. Fatto Il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, reca «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonche' misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario». Scopo primario del provvedimento e' la razionalizzazione della spesa pubblica attraverso la riduzione delle spese per acquisti di beni e servizi, nonche' il contenimento e la stabilizzazione della finanza pubblica anche attraverso misure volte a garantire l'efficienza e l'economicita' dell'organizzazione degli enti pubblici. Tuttavia, alcune delle disposizioni recate dall'intervento legislativo in parola appaiono di incerta idoneita' rispetto al fine programmatico dell'intervento normativo e, altresi', gravemente lesive dell'autonomia regionale. 1. In quest'ottica, l'art. 4, comma 1, di tale provvedimento prevede che nei confronti delle societa' controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001 - tra cui figurano anche regioni ed enti locali -, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90%, si proceda a dismissione mediante scioglimento o alienazione. Ai sensi del successivo comma 3 del medesimo articolo, l'obbligo di dismissione di cui al comma 1 non si applica, tra l'altro, alle societa' che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica. Peraltro, la norma menzionata subordina espressamente la non applicazione a tali societa' delle disposizioni di cui al comma 1 al ricorrere della condizione che «per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento, non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato». Al ricorrere di tale ipotesi, l'amministrazione e' tenuta a predisporre un'analisi del mercato, che viene assoggettata al parere vincolante dell'Autorita' garante della concorrenza e del mercato. Sia consentito fin da subito evidenziare come le richiamate previsioni si pongano in linea di continuita' ed analogia con l'art. 23-bis del decreto-legge n. 112/2008, abrogato a seguito del referendum del 12 giugno 2011, nonche' con il successivo art. 4 del decreto-legge n. 138/2011 - dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012 - disposizioni delle quali viene per di piu' riprodotta ampiamente la formulazione. Altra evidente lesione della sfera di competenza regionale e' perpetrata dal comma 8 dell'art. 4, a norma del quale, a decorrere dal 1° gennaio 2014, l'affidamento diretto a favore di societa' a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dal diritto comunitario per la gestione in house, viene limitato entro un valore economico del servizio o dei beni oggetto dell'affidamento non superiore a 200.000 euro annui. 2. Altra disciplina manifestamente lesiva delle prerogative regionali si rinviene nell'art. 17, rubricato «Riordino delle province e loro funzioni». A norma di tale articolo, allo scopo di conseguire obiettivi di finanza pubblica necessari al raggiungimento del pareggio di bilancio, viene disposto il riordino di tutte le province delle regioni a statuto ordinario, sulla base dei criteri delineati dai successivi commi. Il comma 2 dispone che entro dieci giorni dall'entrata in vigore del decreto-legge n. 95/2012, il Consiglio dei Ministri determini, con apposita deliberazione - su proposta dei Ministri dell'interno e della pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze - il riordino delle province sulla base di requisiti minimi, individuati nella dimensione territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia (tale deliberazione e' stata approvata il 20 luglio 2012, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 24 luglio 2012). Entro settanta giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della suddetta deliberazione governativa, e dunque entro il 2 ottobre 2012, il Consiglio delle autonomie locali (o, in mancanza, analogo organo di raccordo tra regione ed enti locali), nel rispetto del principio di continuita' territoriale, deve approvare e poi trasmettere alla regione un'ipotesi di riordino relativa alle province presenti nel territorio regionale. Entro venti giorni dalla trasmissione o, in mancanza, entro novantadue giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della deliberazione governativa (e quindi al piu' tardi entro il 24 ottobre), le regioni trasmettono al Governo una proposta di riordino delle province formulata sulla base delle ipotesi avanzate dal C.A.L. o dall'analogo organo di raccordo (comma 3). Da ultimo, il comma 4, nel delineare la fase conclusiva dell'iter descritto, prevede che, entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge n. 95/2012 (vale a dire entro il 14 ottobre), un «atto legislativo di iniziativa governativa» perfezioni il riordino delle province, sulla base delle proposte regionali pervenute. In caso di mancata trasmissione di tali proposte entro tale ultima data, il provvedimento legislativo di riordino delle province sara' assunto previo parere della Conferenza unificata. Peraltro, appare da subito evidente come il termine a quo per l'esercizio del potere sostitutivo da parte dello Stato ex comma 4 (14 ottobre) inizia a decorrere prima ancora che sia scaduto il termine ad quem (24 ottobre 2012) per l'adozione delle proposte regionali ai sensi del comma 3. Il descritto riordino prevede inoltre (comma 4-bis) che il ruolo di comune capoluogo delle singole province venga assunto dal comune gia' capoluogo di provincia con maggior popolazione residente, salvo il caso di diverso accordo tra i comuni gia' capoluogo di ciascuna provincia oggetto di riordino. All'art. 17 del decreto-legge n. 95/2012, comma 6, vi e' la previsione del trasferimento ai comuni delle funzioni amministrative in precedenza conferite alle province e rientranti nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117, comma secondo, della Costituzione, in attuazione dell'art. 23, comma 18, decreto-legge n. 201/2011, convertito in legge n. 214/2011. La norma dispone il suddetto trasferimento «fatte salve le funzioni di indirizzo e di coordinamento di cui all'art. 23, comma 14» del medesimo decreto. Il comma 12, nell'individuare gli organi di governo della provincia nel consiglio provinciale e nel presidente della provincia, fa salve, analogamente al comma 6, le previsioni di cui all'art. 23, comma 15, del citato decreto-legge n. 201/2011. Sia consentito rammentare come le suddette disposizioni dell'art. 23 sono gia' state oggetto di impugnativa da parte della regione ricorrente dinanzi a Codesta Ecc.ma Corte con ricorso n. 46 del 2012, attualmente pendete. Il comma 11 del menzionato art. 17, infine, individua le funzioni spettanti alla regione a seguito della conclusione del processo riordino provinciale, limitandole alle sole funzioni di programmazione e di coordinamento, loro spettanti nelle materie di cui all'art. 117 Cost. e a quelle esercitate ex art. 118 Cost. 3. Un altro gruppo di disposizioni violative dell'autonomia regionale si rinviene nell'art. 18, il quale, al dichiarato scopo di garantire l'efficace ed efficiente svolgimento delle funzioni amministrative, nella pretesa attuazione degli artt. 114 e 117, comma 2, lettera p), Cost., dispone alla data del 1° gennaio 2014 [Ovvero ad altra precedente coincidente con la cessazione o lo scioglimento del consiglio provinciale, ovvero con la scadenza dell'incarico del commissario eventualmente nominato.] la soppressione di una serie di province all'uopo individuate (tra cui anche quella di Napoli) e la contestuale istituzione delle relative citta' metropolitane. Il comma 1 prevede, altresi', l'abrogazione degli artt. 23 e 24, commi 9 e 10, della legge n. 42/2009 (recanti previsioni transitorie per la disciplina di prima attuazione degli enti locali da ultimo richiamati), nonche' degli artt. 22 e 23 del decreto legislativo n. 267/2000 (recanti la disciplina ordinaria per la loro istituzione, temporaneamente sospesa dalla predetta legge n. 42). Ai sensi del comma 2, il territorio della citta' metropolitana coincide con quello della provincia soppressa. E' fatto comunque salvo il potere dei comuni interessati di deliberare, con atto del consiglio comunale «l'adesione alla citta' metropolitana o, in alternativa, a una provincia limitrofa», ai sensi dell'art. 133, comma 1, Cost. Ex comma 2-bis dell'art. 18, lo statuto della citta' metropolitana puo' prevedere, su proposta del consiglio del comune capoluogo, un'articolazione del territorio del comune capoluogo medesimo in piu' «comuni». In tal caso, la proposta complessiva di statuto, sulla quale la regione esprime mero parere, e' soggetta a referendum tra tutti i cittadini della citta' metropolitana. La norma provvede altresi' a regolare la tempistica ed il quorum della consultazione referendaria. In caso di esito positivo, e' demandata alla legge regionale la revisione delle circoscrizioni territoriali comunali. Sotto diverso profilo, il comma 7 individua le funzioni fondamentali delle citta' metropolitane ai sensi dell'art. 117, comma 2, lettera p), Cost. e il successivo comma 7-bis, rispetto agli istituendi enti locali, fa salve per le regioni le sole funzioni di programmazione e di coordinamento, spettanti nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4, Cost., nonche' le funzioni esercitate ex art. 118 Cost. Sempre in tema di funzioni, il successivo comma 9 dell'art. 18 rimette allo statuto della citta' metropolitana la possibilita' di «conferire» proprie funzioni ai comuni ricompresi nel proprio territorio o alle loro forme associative, anche in forma differenziata per determinate aree territoriali, con contestuale trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie per il loro svolgimento. Allo stesso modo, secondo le modalita' previste dallo statuto medesimo, i comuni facenti parte della citta' metropolitana e le loro forme associative possono «conferire» alla medesima proprie funzioni, con contestuale trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie per il loro svolgimento. 4. L'ultima disposizione caratterizzata da evidenti criticita' in ordine alla propria legittimita' e' l'art. 19, rubricato «Funzioni fondamentali dei comuni e modalita' di esercizio associato di funzioni e servizi comunali». In primo luogo, tale articolo, nel modificare l'art. 14, comma 27, del decreto-legge n. 78/2010 - che a sua volta individua le funzioni fondamentali dei comuni -, riconosce alle regioni, rispetto ai predetti enti locali, le sole funzioni di programmazione e di coordinamento ex art. 117, commi 3 e 4, nonche' quelle esercitate ex art. 118 Cost. (art. 19, comma 1, lettera a). Riscrivendo il comma 28 dell'art. 14 del decreto-legge n. 78/2010, viene imposto ai comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (ovvero fino a 3.000 se appartenenti o appartenuti a comunita' montane) l'esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali, mediante unione di comuni o convenzione (art. 19, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 95/2012). Nell'introdurre nell'art. 14 del decreto-legge n. 78/2010 il nuovo comma 28-bis, la lettera c) della disposizione qui impugnata prevede che alle unioni suddette si applichi la disciplina ex art. 32 TUEL. Per i comuni fino a 1.000 abitanti e' prevista, invece, l'applicazione dell'art. 16, comma 17, lettera a), decreto-legge n. 138/2011, a norma del il quale consiglio comunale e' composto dal sindaco e da 6 consiglieri. In ultimo, il comma 30 dell'art. 14 del decreto-legge n. 78/2010, come modificato ora dall'impugnato art. 19, comma 1, lettera d), rimette alla regione, nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4, Cost., l'individuazione, previa consultazione del C.A.L., della dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali dei comuni. Il comma 2 del menzionato art. 19 sostituisce integralmente i commi da 1 a 16 dell'art. 16 del decreto-legge n. 138/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148/2011, con 13 nuovi commi. E' opportuno da subito segnalare che tale articolo e' stato oggetto di impugnativa da parte della regione ricorrente innanzi alla Corte costituzionale (reg. ric. n. 153 del 2011), in ragione dell'evidente portata lesiva delle competenze regionali in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali presenti sul proprio territorio. Peraltro, tali novelle non risultano idonee a ritenere superati i vizi di costituzionalita' gia' censurati dalla ricorrente con il precedente ricorso. In particolare, il novellato art. 16 del decreto-legge n. 138/2011 prevede la possibilita' per i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti di esercitare in forma associata tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici loro spettanti mediante un'unione di comuni (art. 16, comma 1) [Il successivo comma 12 dell'art. 16, nella sua nuova formulazione, prevede che l'esercizio associato possa essere svolto anche mediante convenzioni, purche' alla scadenza delle stesse sia comprovato il conseguimento di adeguati livelli di efficienza ed efficacia da parte dei comuni aderenti.]. A tale unione sono affidate per conto dei comuni associati la programmazione della potesta' impositiva sui tributi locali, nonche' quella patrimoniale relativa alle funzioni esercitate, ed e' altresi' prevista la predisposizione di apposito bilancio (comma 2). L'unione succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici in essere alla data di costituzione inerenti alle funzioni e ai servizi ad essa affidati, con contestuale trasferimento di tutte le relative risorse umane e strumentali, nonche' dei relativi rapporti finanziari (comma 3). A norma del nuovo comma 4, le forme associative in parola devono avere una popolazione complessiva superiore a 5.000 abitanti (3.000 nel caso di comunita' montane). Peraltro, il comma 5 del censurato art. 19 consente alle regioni, entro due mesi dall'entrata in vigore del decreto-legge ivi gravato, di individuare diversi limiti demografici. Il successivo comma 5 del novellato art. 16 del decreto-legge n. 138/2011, delinea il procedimento di formazione dell'unione, prevedendo che i comuni interessati avanzino alla regione una proposta di aggregazione. Peraltro, ai sensi dell'art. 19, comma 6, decreto-legge n. 95/2012, l'invio delle suddette proposte deve avvenire perentoriamente entro 6 mesi dall'entrata in vigore del decreto-legge stesso. Entro il termine perentorio del 31 dicembre 2013, la regione deve sancire l'istituzione di tutte le unioni del territorio, secondo le proposte trasmesse, anche se mancanti o non conformi. I commi da 6 a 9 del novellato art. 16 del decreto-legge n. 138/2011, provvedono, poi, ad individuare gli organi dell'unione, quali il consiglio, il presidente e la giunta, regolandone la composizione, la durata e le modalita' di elezione. Il successivo comma 10 rimette allo statuto dell'unione la disciplina delle modalita' di funzionamento e dei rapporti tra gli organi suddetti. Il comma 13 prevede che dalla proclamazione degli eletti negli organi dell'unione, gli organi di governo dei comuni associati rimangono il sindaco ed il consiglio comunale, mentre le giunte decadono di diritto. Sotto diverso profilo, il comma 3 del censurato art. 19 del decreto-legge n. 95/2012, nel sostituire integralmente l'art. 32 del decreto legislativo n. 267/2000, disciplina ex novo l'istituto dell'unione di comuni, quale ente locale costituito da due o piu' comuni, di norma contermini, finalizzato all'esercizio associato di funzioni e servizi. All'unione sono riconosciuti organi propri, formati da amministratori in carica dei comuni associati, un'autonomia statutaria e potesta' regolamentare. I comuni provvedono al trasferimento delle risorse umane e strumentali necessarie. In aggiunta, alle unioni competono gli introiti derivanti da tasse, tariffe e contributi sui servizi affidati. Oggetto di censura e' anche il comma 4 dell'art. 19, nella parte in cui dispone che i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti e facenti parte di un'unione, per l'esercizio associato delle funzioni possono optare per le forme associative prescritte dall'art. 14 del decreto-legge n. 78/2010, ovvero dall'art. 16 del decreto-legge n. 138/2012, come modificati dai commi precedenti dell'art. 19 ivi censurato. Le richiamate disposizioni del decreto-legge n. 95 del 2012, come convertite con legge n. 135 del 2012, risultano gravemente lesive delle prerogative della regione ricorrente, in quanto viziate da manifesta illegittimita' costituzionale per i seguenti motivi di Diritto 1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 3 e 8, del decreto-legge n. 95/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135/2012, per violazione degli artt. 5, 41, 75, 114, 117, 118 e 136 Cost. 1.1. Come si e' gia' avuto modo di vedere, l'art. 4 del decreto-legge n. 95/2012, nell'escludere dall'obbligo di scioglimento o alienazione da parte degli enti territoriali le societa' controllate che svolgano servizi di interesse generale anche aventi rilevanza economica, subordina tale esclusione al ricorrere della condizione che «per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento, non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato». Al ricorrere di tale ipotesi, l'amministrazione e' tenuta a predisporre un'analisi del mercato, che viene assoggettata al parere vincolante dell'Autorita' garante della concorrenza e del mercato. Peraltro, come gia' rilevato nella parte in «Fatto», tale disciplina ricalca - anche letteralmente - le previsioni di cui all'art. 23-bis, commi 3 e 4, decreto-legge n. 112/2008. Tale disposizione condizionava, infatti, gli affidamenti in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica alla presenza di determinate caratteristiche ambientali del territorio, e rimetteva all'ente appaltante l'onere di svolgere apposita analisi di mercato da sottoporre al parere dell'Autorita' garante della concorrenza e del mercato. E' altresi' noto che la nozione comunitaria di servizi di interesse generale aventi rilevanza economica ricomprenda i servizi pubblici locali di rilevanza economica. Tuttavia, nonostante l'intervenuta abrogazione del predetto art. 23-bis del decreto-legge n. 112/2008, a seguito del referendum del 12 giugno 2011 (cfr. decreto del Presidente della Repubblica n. 113/2011), la disposizione ivi censurata, nella parte in cui ritaglia una procedura ad hoc per le societa' in ordine alle quali sia precluso un utile ed efficace ricorso al mercato in ragione di peculiari caratteristiche, finisce di fatto per riprodurre la disciplina gia' espunta dall'ordinamento a seguito della ricordata consultazione referendaria. E cio' in stridente contrasto con gli artt. 5, 75, 114, 117 e 118 Cost. In particolare, e' ben noto come il referendum del 12-13 giugno 2011 abbia manifestato la volonta' popolare di non restringere, rispetto ai criteri posti dalla disciplina comunitaria, la possibilita' di ricorrere agli affidamenti in house dei servizi pubblici locali, nella convinzione che l'obbligo di apertura al mercato concorrenziale avrebbe comportato un peggioramento delle condizioni di prestazione dei suddetti servizi. Tale abrogazione ha, quindi, determinato la riespansione e l'applicabilita' nella materia dei servizi pubblici locali, della normativa comunitaria sull'affidamento in house. Tuttavia, in totale spregio degli esiti della suddetta consultazione popolare, ed in patente violazione dell'art. 75 Cost., con l'art. 4 del decreto-legge n. 95/2012 il legislatore statale ha reintrodotto una disciplina del tutto analoga a quella abrogata. Dall'analisi di tale disposizione, infatti, sembra chiaro che la stessa persegua la ratio di realizzare la privatizzazione e liberalizzazione dei servizi resi a beneficio delle pubbliche amministrazioni. Ossia l'analogo scopo al quale gia' mirava la disciplina ex art. 23-bis. Ma a ben vedere le previsioni di cui alla norma censurata risultano ancor piu' restrittive. Ed infatti, posto che in entrambi i casi l'amministrazione pubblica dovra' sottoporre al parere dell'AGCM un'analisi del mercato in ordine alla ricorrenza delle peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, risulta immediatamente evidente come l'esito negativo del suddetto parere non comportera' piu' la preclusione degli affidamenti in house di valore superiore ad euro 200.000, bensi' la necessita' di sciogliere o dismettere la stessa societa' controllata, con preclusione assoluta del ricorso a questa forma di gestione del servizio. In altre parole, la disposizione impugnata subordina la stessa sopravvivenza delle societa' controllate che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica alla valutazione circa l'impossibilita' per l'amministrazione pubblica controllante di poter efficacemente ed utilmente ricorrere al mercato. In aggiunta, a rendere ancor piu' lesiva la disciplina da ultimo recata, viene ora prescritta l'acquisizione di un parere vincolante dell'Autorita' garante della concorrenza e del mercato. Non escludendo le societa' cosiddette in house dal proprio ambito di applicazione, il censurato art. 4, comma 3, si pone pertanto in palese contrasto non solo con gli esiti referendari del 12 e 13 giugno 2011, ma anche con il netto decisum della recente sentenza n. 199 del 2012, mediante la quale Codesta Ecc.ma Corte ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4 del decreto-legge n. 138/2011, nella misura in cui recava una disciplina simile a quella oggetto di abrogazione referendaria. In particolare, con tale pronuncia Codesto Ecc.mo Giudice, nel dare accoglimento alle censure formulate dalle regioni ricorrenti, ha avuto modo di osservare come a seguito dell'abrogazione del menzionato art. 23-bis le competenze regionali e degli enti locali nel settore dei servizi pubblici locali si siano riespanse. Tale articolo, infatti, riduceva le possibilita' di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, con conseguente delimitazione degli ambiti di competenza legislativa residuale delle regioni e regolamentare degli enti locali. La sua espunzione dall'ordinamento, lungi dal creare vuoti normativi, ha determinato l'applicabilita' della disciplina comunitaria, piu' favorevole per le regioni e per gli enti locali. A fronte della chiara e netta giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte, tuttavia, con la disposizione ivi censurata la possibilita' di amministrare servizi pubblici locali a rilevanza economica mediante affidamento diretto e' stata nuovamente ridimensionata, con conseguente frustrazione dell'esercizio delle competenze regionali e degli enti locali in materia, e quindi in contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost. Peraltro, il nuovo intervento legislativo statale in tema di gestione in house dei predetti servizi pubblici locali, risultando anche letteralmente riproduttivo e comunque contraddistinto dalla medesima ratio della disciplina dichiarate costituzionalmente illegittima dalla richiamata sent. n. 199 del 2012, si traduce in una palese violazione dell'art. 136 Cost. Ne' valga obbiettare che, nel lasso di tempo intercorso (invero non lungo) tra la consultazione referendaria e l'introduzione della norma ivi censurata, si sono verificati mutamenti idonei a legittimare la reintroduzione della disciplina abrogata. Le norme reintrodotte, infatti, non danno certezza in ordine al conseguimento di effetti finanziari positivi utili a risolvere la grave congiuntura economica in atto. Tali effetti rimangono del tutto ipotetici e meramente attesi (sperati) senza la benche' minima allegazione di evidenze empiriche (al riguardo, sul punto, estremamente laconica appare la relazione tecnica di accompagnamento al decreto-legge). Invero, il rigore del giudicato costituzionale - secondo la consolidata giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte - avrebbe dovuto imporre al legislatore di «accettare la immediata cessazione dell'efficacia della norma illegittima», precludendo allo stesso di «perseguire e raggiungere, direttamente o indirettamente, esiti corrispondenti a quelli gia' ritenuti lesivi della Costituzione» (in tal senso, ex plurimis, Corte cost., sentt. n. 223 del 1983, nonche' n. 922 del 1988). Alla luce di tutto quanto supra dedotto, l'art. 4, comma 3, decreto-legge n. 95/2012 appare manifestamente illegittimo. 1.2. Sotto diverso profilo, l'art. 4, comma 3, risulta altresi' illegittimo nella parte in cui, nel prevedere l'obbligo di dismissione o scioglimento delle societa' controllate dalle amministrazioni, ricomprende tra queste ultime anche le autonomie territoriali. Cosi' facendo, infatti, il legislatore statale fuoriesce dall'ambito della competenza esclusiva in materia di tutela della concorrenza nel mercato, invadendo la competenza residuale regionale in materia di servizi pubblici locali ed ancora prima l'autonomia istituzionale in relazione all'esercizio di attivita' economiche organizzate. Ed infatti, come si e' gia' osservato, mediante le previsioni di cui al citato art. 4, lo Stato non si limita, come aveva fatto con l'art. 23-bis del decreto-legge n. 112/2008, a limitare la possibilita' di ricorrere all'affidamento in house, che rientrano nell'ambito della materia «tutela della concorrenza», secondo quanto stabilito in varie pronunce da Codesta Ecc.ma Corte (ex plurimis, sent. n. 325 del 2010). Invero, con la disposizione censurata risulta vincolata la stessa possibilita' per le regioni di mantenere partecipazioni nelle societa' interamente o parzialmente controllate, in violazione della liberta' di iniziativa economica organizzata, che costituisce senza dubbio alcuno una delle prerogative pacificamente riconosciute alle regioni, come imprescindibile corollario della propria autonomia istituzionale ex art. 114 Cost. In altre parole, la disciplina ivi indubbiata di illegittimita' consegue l'effetto di precludere in radice alle regioni la stessa possibilita' di esercitare le attivita' di rilevanza economica in precedenza esercitate tramite societa' controllate. Per tali ragioni, l'art. 4 viola altresi' gli artt. 41 e 114 Cost. 1.3. Sotto diverso profilo, illegittimo risulta altresi' il comma 8 del medesimo articolo, nella parte in cui dispone che, a decorrere dal 1° gennaio 2014, l'affidamento diretto possa avvenire solo a favore di societa' a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dal diritto comunitario in materia di in house providing, purche' il valore economico del servizio o dei beni oggetto dell'affidamento non superi 200.000 euro annui. A dimostrare la grave e manifesta illegittimita' della disposizione censurata, sia sufficiente rilevare come la stessa riproponga la soglia economica gia' stabilita dall'art. 4 del decreto-legge n. 138/2011, nella versione modificata dal decreto-legge n. 1/2012. Come si e' gia' avuto modo di osservare sopra, tale disposizione e' stata oggetto di dichiarazione di incostituzionalita' da parte della menzionata sentenza n. 199 del 2012. Nella suddetta decisione, nel pronunciarsi proprio in ordine alla legittimita' delle modifiche sopravvenute del predetto art. 4, tra le quali rientrava anche l'introduzione di una soglia di valore inferiore ad euro 200.000, Codesta Ecc.ma Corte ha espressamente sottolineato come le stesse «limitano ulteriormente le ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali, confermano il contenuto prescrittivo delle disposizioni oggetto delle censure, (...) comprimendo, anzi, ancor di piu', le sfere di competenza regionale». In aggiunta, Codesto Ecc.mo Giudice ha altresi' osservato come la limitazione espressa degli affidamenti diretti al di sotto di un massimo di valore dei beni o servizi, oltre ad escludere «qualsivoglia valutazione dell'ente locale, oltre che della regione», si pone altresi' «in difformita' rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell'ente locale, allorquando l'applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell'ente pubblico (art. 106 TFUE), alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della societa' affidataria, del cosiddetto controllo «analogo» (il controllo esercitato dall'aggiudicante sull'affidatario deve essere di «contenuto analogo» a quello esercitato dall'aggiudicante sui propri uffici) ed infine dello svolgimento della parte piu' importante dell'attivita' dell'affidatario in favore dell'aggiudicante». Se, dunque, l'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis del decreto-legge n. 112/2008 ha comportato che trovasse nuovamente applicazione la normativa comunitaria dell'in house providing (alla quale l'art. 4 del decreto-legge n. 95/2012 afferma contraddittoriamente di dare attuazione), l'introduzione di un limite di valore per gli affidamenti diretti non previsto da tale normativa comporta l'illegittima violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. In tal senso, e' appena il caso di rammentare come Codesta Ecc.ma Corte abbia gia' avuto modo di rilevare che «le disposizioni di legge che collidessero con i limiti posti dalla configurazione comunitaria dell'in house, confliggerebbero con norma interposta di costituzionalita', prestandosi al vaglio del giudice delle leggi circa il rispetto dei vincoli posti al legislatore (quali limiti all'esercizio della medesima potesta' legislativa, ai sensi dell'art. 117, primo comma della Costituzione)» (sentenza n. 439 del 2008). Sotto diverso profilo, alla violazione della normativa comunitaria in materia di affidamento diretto consegue, altresi', la compressione delle competenze legislative regionali e degli enti locali ex artt. 117 e 118 Cost., le quali, secondo la ricostruzione fornita da Codesta Ecc.ma Corte, devono intendersi riespanse a seguito della consultazione referendaria del 12-13 giugno 2011. In conclusione, il comma 8 dell'impugnato art. 4, violando il principio di autonomia e il giudicato costituzionale, risulta costituzionalmente illegittimo per contrasto con i medesimi parametri gia' invocati in riferimento al precedente comma 3 (artt. 5, 75, 114, 117, 118 e 136 Cost.). 2. Illegittimita' costituzionale dell'art. 17, commi da 1 a 4-bis, commi 6 e 12, nonche' comma 11, del decreto-legge n. 95/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135/2012, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 5, 71, comma 1, 77, comma 2, 114, 117, 118, 119, 120, 123, 133 e 138 Cost. 2,1. I commi da 1 a 4-bis dell'art. 17 del decreto-legge n. 95/2012 risultano manifestamente illegittimi laddove, descrivendo compiutamente il procedimento di riordino delle province attualmente esistenti, si pongono in stridente contrasto con le previsioni di cui all'art. 133, comma 1, Cost. Tale disposizione costituzionale prevede che il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l'istituzione di nuove province nell'ambito delle regioni siano coperti da riserva di legge rinforzata, prescrivendo l'approvazione di una legge della Repubblica su iniziativa dei comuni interessati, previo parere della regione. In via preliminare, non sembra revocabile in dubbio come la riserva di legge rinforzata prevista dalla citata norma costituzionale debba senz'altro trovare applicazione anche nell'ipotesi - quale e' quella oggetto del presente giudizio - nella quale non viene stabilita l'istituzione di una nuova provincia, ovvero il mutamento della circoscrizione di una gia' esistente, bensi' viene disposto un riordino territoriale di carattere generale, il quale deve quindi ritenersi a fortiori soggetto al richiamato procedimento legislativo speciale. Peraltro, e' appena il caso di rammentare come possa derogarsi al procedimento definito dall'art. 133 Cost. solo mediante approvazione di apposita legge costituzionale, a pena di violare, oltre alla citata norma costituzionale, altresi' il procedimento di revisione costituzionale previsto dall'art. 138 Cost. La necessita' del ricorso alla legge costituzionale per derogare al procedimento di variazione delle circoscrizioni provinciali, trova conferma da parte della giurisprudenza costituzionale. In particolare, con la sentenza n. 230 del 2001, Codesta Ecc.ma Corte ritenne legittima una legge della Regione Sardegna istitutiva di quattro nuove province, sebbene assunta in difformita' dell'art. 133 Cost., solo in considerazione del fatto che il predetto provvedimento legislativo regionale trovava il proprio fondamento direttamente nello statuto speciale della Regione Sardegna, il quale, in quanto adottato con legge costituzionale, aveva «forza derogatoria» rispetto alla predetta disposizione costituzionale. Allo stesso modo la Corte cost. ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 63, comma 2, della legge n. 142 del 1990 in base al quale sono state istituite sette nuove province con leggi delegate. In questo caso, infatti, secondo il Giudice delle leggi non vi fu deroga rispetto alla procedura disposta dall'art. 133 Cost., in quanto quest'ultima «non esclude che l'istituzione di una nuova provincia (o la modifica della circoscrizione di una provincia esistente) possa essere effettuata, oltre che con legge formale delle Camere, anche mediante il ricorso ad una delega legislativa» e «non vi sono ostacoli di natura costituzionale che impediscano che gli adempimenti procedurali destinati a "rinforzare" il procedimento (e consistenti nell'iniziativa dei comuni e nel parere della regione) possano intervenire, oltre che in relazione alla fase di formazione della legge di delegazione, anche successivamente alla stessa, con riferimento alla fase di formazione della legge delegata» (sent. 347/1994). Orbene, nel caso di specie emerge chiaramente il carattere derogatorio del procedimento di riordino delle province rispetto all'ordinario procedimento di revisione territoriale delle province. In primo luogo, un elemento in tal senso deve essere rinvenuto nella mancata previsione di un adeguato ruolo dei comuni interessati dal riordino, che ben potrebbero essere del tutto contrari alle ipotesi formulate dal CAL. Ne' del resto tali organi possono strutturalmente essere ritenuti rappresentativi dei comuni interessati. Altro elemento di incompatibilita' della disciplina ivi censurata con la disposizione costituzionale coincide con l'esplicita esclusione della possibilita' che le proposte regionali di riordino tengano conto delle eventuali iniziative comunali volte a modificare le circoscrizioni provinciali deliberate successivamente all'adozione della deliberazione del Consiglio dei Ministri che ha determinato i criteri per il riordino medesimo (deliberazione adottata in data 20 luglio 2012). Cio' manifesta una grave ed insanabile incoerenza della procedura «creata» dal Governo che, per un verso disattende il dettato costituzionale (art. 133 e art. 138 Cost.), e sotto altro profilo tuttavia «tiene conto» di una eventuale iniziativa comunale, circoscrivendola pero' ad un periodo anteriore a quello in cui i comuni interessati hanno avuto cognizione dei criteri di riordino, certamente non rispettando il principio di leale collaborazione tra istituzioni. Ulteriore dato da cui risulta desumibile la violazione del menzionato art. 133, comma 1, Cost., e' senz'altro quello alla luce del quale e' riconosciuto al Governo il potere di provvedere legislativamente al riordino delle province anche in assenza delle proposte di riordino formulate dalle regioni sulla base delle ipotesi trasmesse dall'organo di raccordo tra regione ed enti locali. Gia' dal rapido esame delle suddette previsioni, emerge in maniera incontestabile l'assoluta inconciliabilita' del procedimento previsto dall'art. 17 del decreto-legge n. 95/2012 rispetto a quello costituzionale, del quale il legislatore statale sancisce di fatto la sospensione e temporanea disapplicazione. Inoltre, la necessita' di attenersi ad un procedimento che garantisse la piu' ampia forma di partecipazione dal parte dei comuni nonche' la consultazione delle popolazioni interessate, secondo i chiari principi espressi dall'art. 133 Cost., trova ulteriore conferma nelle previsioni della Carta europea delle autonomie locali (European Charter of Local Self-Government) del 15 ottobre 1985 ratificata dall'Italia con legge 30 dicembre 1989, n. 439. La Carta, tra le numerose disposizioni poste a garanzia dell'autonomia politica, amministrativa e finanziaria delle comunita' locali, prevede altresi' espressamente, all'art. 5, che per ogni modifica dei limiti locali territoriali, le collettivita' locali interessate, dovranno essere preliminarmente consultate, eventualmente mediante referendum, qualora cio' sia consentito dalla legge e, all'art. 4, comma 2, che le collettivita' locali hanno, nell'ambito della legge, ogni piu' ampia facolta' di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un'altra autorita'. Orbene, e' noto che secondo la giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte gli articoli della Carta europea dell'autonomia locale non hanno contenuto precettivo, ma sono prevalentemente definitori, e programmatici (Corte cost. n. 325/2010). Purtuttavia essa, costituendo atto di diritto internazionale recepito con legge ordinaria nell'ordinamento interno, ben puo' rientrare nella previsione costituzionale di cui all'art. 117, comma 1, Cost. che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Ne deriva che la Carta costituisce parametro idoneo ad orientare l'attivita' del legislatore, che i suoi principi deve rispettare. Invero, alla luce delle indicazioni chiaramente desumibili dalla giurisprudenza costituzionale, una siffatta procedura di riordino generale delle circoscrizioni provinciali, imposta dallo Stato agli altri enti territoriali come obbligatoria, avrebbe senza dubbio dovuto trovare nel piu' complesso procedimento previsto per l'approvazione delle leggi costituzionali, tracciato dall'art. 138 Cost. il suo necessario fondamento, a garanzia e nel rispetto di quel principio di autonomia che la Costituzione pone a tutela degli enti territoriali nei confronti dello Stato. E del resto, non puo' certo sfuggire come lo Stato, lungi dal godere di una potesta' legislativa ordinaria generale, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lettera p), Cost., ha competenza limitatamente a legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali degli enti locali, dalla quale non appare certamente inferibile alcun titolo competenziale giustificativo in ordine alla modifica delle circoscrizioni provinciali oggetto dell'intervento legislativo qui impugnato. E' evidente, dunque, come le censurate previsioni di cui all'art. 17 risultino palesemente illegittime per violazione degli artt. 133, comma 1, Cost., nonche' dell'art. 138 Cost. Sotto diverso profilo, le disposizioni oggetto della presente questione di legittimita' costituzionale si pongono in stridente contrasto con il ruolo che la Carta costituzionale attribuisce alle province. In tal senso, sia consentito rammentare come queste ultime vengono delineate quali enti territoriali autonomi, costitutivi della Repubblica, dotati di statuti, poteri e funzioni garantiti direttamente dalla Costituzione. Tali enti istituzionali sono diretta espressione del principio autonomistico attraverso il quale le comunita' locali sono riconosciute quali formazioni sociali ai sensi dell'art. 2 Cost., nonche' del principio democratico attraverso cui si esplica la sovranita' popolare. A chiarire in maniera inequivoca il legame tra il principio di sovranita' di cui all'art. 1, il principio autonomistico, tutelato all'art. 5 Cost., e la nuova formulazione dell'art. 114 Cost., e' intervenuta la giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte che, nella sent. 106 del 2002, ha affermato che «Il nuovo Titolo V - con l'attribuzione alle regioni della potesta' di determinare la propria forma di governo, l'elevazione al rango costituzionale del diritto degli enti territoriali minori di darsi un proprio statuto, la clausola di residualita' a favore delle regioni, che ne ha potenziato la funzione di produzione legislativa, il rafforzamento della autonomia finanziaria regionale, l'abolizione dei controlli statali - ha disegnato di certo un nuovo modo d'essere del sistema delle autonomie. Tuttavia i significativi elementi di discontinuita' nelle relazioni tra Stato e regioni che sono stati in tal modo introdotti non hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranita' popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall'inizio dell'esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranita' popolare». E' evidente, pertanto, la diretta incidenza delle disposizioni censurate sui principi fondamentali sanciti dagli artt. 1, 2 e 5 Cost., in combinato disposto con l'art. 114 Cost., i quali afferiscono in via diretta agli essenziali valori democratici dell'ordinamento e alla separazione verticale dei poteri. Peraltro, le considerazioni appena svolte rilevano anche sotto un ulteriore profilo. In particolare, se deve essere riconosciuta alla disciplina di cui all'art. 17 l'attitudine a gravare direttamente sulla piena realizzazione dei predetti valori costituzionali, e' di certo indubitabile che simili previsioni non possano trovare la propria sedes materiae all'interno dello strumento del decreto-legge. Nessuna ragione di necessita' e urgenza, infatti, puo' giustificare una deroga ai richiamati principi costituzionali. Anche a voler ammettere che un simile intervento straordinario rinvenga la propria ratio nella finalita' di garantire il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, finalita' asseritamente sostenuta dal comma 1 del censurato art. 17, sia sufficiente richiamare, in senso contrario, alcune pregnanti affermazioni, mediante le quali Codesta Ecc.ma Corte, proprio in riferimento all'attuale situazione di emergenza finanziaria, ha recentemente chiarito che «il principio salus rei pubblicae suprema lex esto non puo' essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione» (sentt. n. 148 e n. 151 del 2012). Peraltro, l'esame delle disposizioni introdotte dal censurato art. 17 palesa con ogni evidenza come la disciplina statale sia carente dei requisiti di necessita' ed urgenza ai quali l'art. 77, comma 2, Cost. vincola il corretto esercizio del potere legislativo da parte del Governo. Appare chiaro, in tal senso, che l'intervento da parte dello Stato, lungi dall'integrare quei connotati di straordinarieta' prescritti dalla disposizione costituzionale, assume piuttosto il carattere di opera di riordino generale del complessivo sistema ordinamentale delle province, come tale inidoneo ad essere perseguito con lo strumento della decretazione d'urgenza. Ne' tale evidente profilo di illegittimita' potrebbe ritenersi superato dall'avvenuta conversione del decreto-legge n. 95/2012 ad opera della legge n. 135/2012. In tal senso, non pare prestarsi ad interpretazioni difformi il consolidato orientamento sulla base del quale Codesta Ecc.ma Corte ritiene che «la legge di conversione non ha efficacia sanante di eventuali vizi del decreto-legge» (Corte cost., sent. n. 355 del 2010, e le ivi richiamate sentt. n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008). Per tale ragione oltre alle gia' richiamate disposizioni costituzionali si le richiamate norme violano anche l'art. 77, comma 2, Cost. Sotto diverso profilo, la regione ricorrente non puo' esimersi dal rilevare come il procedimento descritto dall'art. 17 per il riordino degli enti provinciali, oltre a derogare illegittimamente alla procedura di mutamento delle circoscrizioni provinciali, in palese contrasto con l'art. 133 Cost., ridonda altresi' in violazione della disciplina costituzionale posta dall'art. 71 Cost. in materia di iniziativa legislativa. In particolare, sia consentito osservare che, ai sensi dell'art. 17, il riordino delle province sia realizzato mediante atto legislativo di iniziativa legislativa, adottato alla luce delle proposte regionali di riordino formulate in base all'ipotesi approvate dai CAL (o in mancanza, dagli organi di raccordo tra regioni ed enti locali). Tuttavia, tale previsione si pone in contrasto con quanto previsto dall'art. 133, comma 1, a mente del quale il potere di iniziativa spetta ai comuni interessati, sentita la regione nel cui territorio gli stessi si situano. In tal modo, pertanto, il legislatore statale finisce di fatto per spostare il potere di necessaria integrazione del formale atto di iniziativa legislativa in capo a soggetti - CAL o organi di raccordo - diversi da quelli previsti dall'art. 133 Cost. A tal fine, e' opportuno precisare che nei predetti organi di raccordo - a prescindere da ogni altra considerazione sulla loro natura e sui loro poteri - non e' comunque presente la totalita' dei comuni interessati, dal momento che vi partecipano invece soggetti che sicuramente non sono coinvolti dal riordino in base ai criteri definiti dal Governo (ad esempio, i sindaci della provincia nel cui territorio si trova il comune capoluogo di regione). La mancanza dell'iniziativa dei comuni interessati, nonche' del parere della regione per l'avvio del procedimento di riordino - atti da intendersi entrambi costituzionalmente obbligatori - rende del tutto illegittima, a norma degli artt. 133, comma 1, e 71, comma 1, Cost., la presentazione della formale iniziativa legislativa da parte del Governo. In tal senso, sia consentito rammentare come, sia pure con riferimento al diverso - ma in ogni caso analogo - procedimento di revisione territoriale ex art. 132, comma 2, Cost., Codesta Ecc.ma Corte abbia avuto modo di precisare che la legge ordinaria dovesse limitarsi alla esclusiva attuazione dei soli adempimenti prescritti da detta norma costituzionale, rimanendo invece del tutto preclusa l'introduzione di ulteriori aggravi procedimentali non previsti, in quanto inidonei a perseguire «la finalita' di consentire la complessiva emersione di tutti gli interessi locali implicati nella operazione» (Corte cost., sent. n. 246 del 2010). Orbene, nel caso di specie risulta immediatamente evidente come la trasmissione delle proposte regionali di riordino formulate sulla base delle ipotesi dei CAL o degli organi di raccordo appaia del tutto inidonea a realizzare l'acquisizione delle posizioni dei singoli comuni interessati, obiettivo invece chiaramente perseguito dall'art. 133, comma 2, Cost. Anche sotto tale profilo, pertanto, l'art. 17 deve ritenersi manifestamente contrario al dettato costituzionale. Peraltro, il coinvolgimento del CAL (o, in mancanza, dell'organo regionale di raccordo tra regioni ed enti locali) nell'ambito del procedimento descritto dalla disciplina statale censurata risulta altresi' profondamente lesivo delle competenze regionali attribuite dagli artt. 123 e 117, comma 4, Cost. E' appena il caso di rammentare come, in forza del menzionato art. 123, comma 4, Cost. «in ogni regione, lo statuto disciplina il consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la regione e gli enti locali». Codesta Ecc.ma Corte, nel pronunciarsi proprio in ordine al consiglio delle autonomie locali, ha osservato come, alla stregua della richiamata disposizione costituzionale, lo stesso costituisca un «organo costituzionalmente necessario che deve essere disciplinato dallo statuto». Sulla base di tale presupposto, interpretando il menzionato art. 123, comma 4, Cost., Codesto Ecc.mo Giudice ha precisato che «quest'ultima disposizione, imponendo una espressa riserva statutaria, presuppone ovviamente che la fonte regolatrice sia nella disponibilita' della regione» (Corte cost., sent. n. 370 del 2006). Dalle suddette riflessioni emerge chiaramente, allora, come ogni regolamentazione e specificazione delle funzioni consultive del CAL, nonche' l'eventuale attribuzione allo stesso di ogni ulteriore compito spetti in via esclusiva all'autonomia statutaria regionale, stante la predetta riserva sancita dalla Carta costituzionale. Orbene, nel caso di specie il legislatore statale, assegnando al CAL delle competenze eccedenti le funzioni consultive di tale organo, ha illegittimamente invaso la sfera di disciplina strettamente riservata all'autonomia statutaria delle regioni. Peraltro, analoghe considerazioni possono essere svolte con riguardo agli organi regionali di raccordo ai quali la disposizione statale attribuisce rilievo in mancanza dei CAL. In tal senso, non puo' certo essere revocata in dubbio la potesta' delle regioni, nell'ambito della propria competenza esclusiva in materia di organizzazione, di disciplinare discrezionalmente tali organi interni. Con precipuo riferimento alla Regione Campania, appare chiaro il contrasto delle disposizioni statali censurate con le funzioni ed i compiti meramente consultivi che la legge regionale n. 26/1996 attribuisce alla Conferenza permanente regione-autonomie locali della Campania, quale organo regionale di raccordo tra la regione stessa e gli enti locali presenti sul territorio campano. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, l'art. 17 del decreto-legge n. 95/2012 risulta altresi' in contrasto sia con l'art. 123, comma 4, Cost., sia con la competenza legislativa residuale (e quindi esclusiva) in materia di disciplina della propria organizzazione interna che l'art. 117, comma 4, Cost. riconosce alle regioni. Un ulteriore profilo di incostituzionalita' della disciplina statale deve essere rinvenuto nella previsione secondo la quale il riordino delle province avvenga nell'osservanza di requisiti minimi, la cui individuazione e' rimessa al Consiglio dei Ministri sulla base dei soli criteri della dimensione territoriale e della popolazione residente in ciascuna provincia (comma 2). Analoghe censure possono essere mosse nei confronti della disciplina relativa alla determinazione dei parametri per l'individuazione del comune capoluogo delle nuove province risultanti in esito al riordino (comma 4-bis). In quest'ultimo caso, il criterio della dimensione demografica o all'accordo tra i comuni interessati, non tiene conto dell'evidente necessita' di assicurare al capoluogo una certa centralita' all'interno del nuovo contesto territoriale. Sia consentito evidenziare come alla luce dei parametri individuati dalla delibera del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012, la provincia di Benevento non rispetta i prescritti requisiti demografici e territoriali. Ma, soprattutto, la definizione di tali criteri e' avvenuta in totale assenza di un idoneo titolo competenziale legittimante all'interno del dettato costituzionale. Di certo, tale potesta' non puo' essere rinvenuta all'interno dell'art. 117, comma 2, lettera p), Cost., alla stregua del quale la competenza statale deve limitarsi a legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali degli enti locali. Ne' alcuna attribuzione puo' discendere dal comma 3 dello stesso articolo costituzionale. Peraltro, il potere statale di determinare tali criteri non trova nemmeno riscontro nell'art. 133 Cost., il quale, come gia' visto, si limita infatti a riservare ai comuni interessati l'atto di iniziativa dello speciale procedimento per il mutamento delle circoscrizioni provinciali, da realizzarsi con eventuale legge provvedimento dello Stato. Nella richiamata disposizione costituzionale, tuttavia, alcun riferimento e' rinvenibile in ordine alla possibile determinazione ex lege di requisiti minimi delle circoscrizioni medesime. Del resto, i criteri posti dalla delibera del 20 luglio - in disparte ogni fondato rilievo sulla congruita' e appropriatezza - vengono stabiliti con deliberazione del Consiglio dei Ministri in aperta violazione della riserva di legge operante ai sensi dell'art. 133 Cost. L'art. 17 al comma 2, si limita ad una generica enunciazione dei criteri della dimensione territoriale e della popolazione residente in ciascuna provincia, senza definire alcuna loro parametrazione, neanche di massima, mentre la loro effettiva individuazione viene attribuita al Governo. L'Esecutivo risulta cosi' dotato di un potere pienamente discrezionale e del tutto arbitrario, in evidente spregio della ratio dell'art. 133 Cost., che al contrario vincola eventuali mutamenti delle circoscrizioni provinciali e l'istituzione di nuove province allo strumento della legge, posto a chiaro presidio dei principi democratici e autonomistici e della identita' territoriale delle province. Peraltro, non sfugge a codesta regione come, prima della riforma del titolo V, la revisione delle circoscrizioni provinciali abbia trovato la propria disciplina ad opera dell'art. 16, legge n. 142/1990 (poi rinnovato dall'art. 21 decreto legislativo n. 267/2000), il quale conteneva la fissazione di alcuni criteri e indirizzi per l'esercizio dell'iniziativa comunale ex art. 133 Cost., relativi, tra l'altro, alla dimensione territoriale e all'ampiezza demografica di ciascuna provincia. Tuttavia, occorre rilevare che detti criteri, oltre a non essere rigidi ma solo tendenziali, trovavano allora giustificazione alla stregua del previgente testo del titolo V, a norma del quale le province erano anche circoscrizioni di decentramento statale e regionale (art. 129 Cost.) e svolgevano funzioni determinate in via generale e attribuite dallo Stato o delegate dalle regioni, per quanto di rispettiva competenza (art. 118 v.t. e art. 128 v.t. Cost.). A seguito della legge costituzionale n. 3/2001, gli artt. 5 e 114 Cost. riconoscono ora le province quali enti autonomi costitutivi della Repubblica, dotati di propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Nell'ambito del nuovo disegno costituzionale, e' altresi' opportuno rilevare che alle province spetta il conferimento di funzioni amministrative sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza. Pertanto e' ben possibile che le stesse, in virtu' dei predetti canoni, siano attributarie di funzioni diverse in base alle diverse esigenze rilevanti sul territorio. In altre parole, in base ai nuovi principi che regolano il conferimento delle funzioni amministrative, non sono le caratteristiche territoriali delle autonomie locali a dover essere adeguate alle funzioni amministrative «decentrate» dallo Stato e dalla regione, ma le funzioni medesime a dover essere riconosciute come «proprie» o a dover essere «conferite» ad autonomie locali costitutive della Repubblica sulla base del principio di sussidiarieta' e dunque anche in maniera differenziata tra provincia e provincia secondo criteri di adeguatezza funzionale. Venuto meno il precedente criterio di uniformita' delle competenze dei vari livelli di autonomia locale, non trova quindi alcun possibile fondamento nel nuovo titolo V della Costituzione la fissazione di criteri rigidi per il riordino territoriale delle province. Sotto diverso profilo, la determinazione da parte dello Stato di requisiti minimi, fondati sulla dimensione territoriale e la popolazione residente, risulta altresi' in contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalita', con violazione dell'art. 3 Cost. E' immediatamente evidente, infatti, come il riferimento esclusivo a parametri dimensionali ovvero demografici finisca per svilire e non tenere nel benche' minimo rilievo la natura storico-identitaria delle autonomie territoriali, sancita dagli artt. 1, 2, 5 e 114 Cost. In tal senso, il legislatore statale mostra di trascurare la necessita' di prendere in prioritaria considerazione criteri storici e culturali per la delimitazione dei confini provinciali e l'individuazione dei rispettivi capoluoghi. Inoltre, anche a voler concedere che possa costituire un titolo competenziale idoneo quello invocato (ma non meglio qualificato) dal legislatore statale «al fine di contribuire al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica imposti dagli obblighi europei necessari al raggiungimento del pareggio di bilancio», i rigidi criteri fissati per il riordino delle province appaiono irragionevoli e sproporzionati rispetto agli obiettivi medesimi, determinando un vulnus dei principi costituzionali fondamentali della sovranita' popolare, dell'inviolabilita' dei diritti delle formazioni sociali e dell'autonomia locale, i quali non appaiono adeguatamente ponderati nell'ambito di quel ragionevole bilanciamento dei valori che avrebbe dovuto piu' correttamente orientare il legislatore statale nel legittimo perseguimento delle proprie finalita' di contenimento della spesa. Alla luce delle considerazioni appena svolte, appare manifesta l'illegittimita', nonche' l'irragionevolezza delle previsioni censurate. Peraltro, tale illegittimita' sussisterebbe anche nella denegata e non creduta ipotesi in cui si ritenesse che il predetto intervento legislativo possa trovare giustificazione nell'ambito della competenza legislativa statale di principio in materia di coordinamento della finanza pubblica. In tal senso, deve infatti osservarsi che la disciplina statale risulta gia' da un primo esame non coerente con le condizioni poste dalla giurisprudenza costituzionale per il legittimo esercizio della competenza medesima. Secondo l'orientamento ormai consolidato e costante di Codesta Ecc.ma Corte, infatti, affinche' le disposizioni con cui lo Stato pone dei vincoli all'autonomia regionale possano dirsi legittime occorre che le stesse «si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalita' per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (in tal senso, di recente, Corte cost., sentt. n. 148 e n. 193 del 2012). Nel caso di specie, tuttavia, nessuna delle due suddette condizioni risulta rispettata. Da una parte, infatti, la normativa volta a ridurre la spesa mediante il «riordino delle province» intenderebbe produrre l'effetto - strutturale e niente affatto transitorio - della soppressione delle province che non rispondono ai criteri fissati dallo Stato. Dall'altra, la rigida determinazione di tali criteri (individuati come requisiti minimi di dimensione territoriale e popolazione residente) risulta demandata direttamente dal Governo (con atto non normativo non soggetto al raccordo con le regioni e gli enti locali), senza alcuna possibilita' di adattamento alle esigenze del territorio degli obiettivi di' riduzione della spesa. Peraltro, in riferimento alle perseguite finalita' di contenimento della spesa pubblica, e' bene precisare come dalla relazione tecnica al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 95/2012 non sia dato evince alcun criterio di esatta quantificazione degli effetti finanziari conseguibili. Le menzionate previsioni, pertanto, risultano del tutto inidonee a definire norme di coordinamento della finanza pubblica, derivandone la violazione degli artt. 117, comma 3, e 119, comma 2, Cost. In ultimo, la disciplina relativa al procedimento di riordino delle province risulta altresi' incompatibile con gli artt. 3, 118, 120 e 133 Cost., nella parte in cui viene configurata un'ipotesi di esercizio del potere sostitutivo del Governo nei confronti delle regioni nel caso di mancato invio delle proposte di riordino da parte di queste ultime. In particolare, il comma 4 dell'art. 17 dispone che se entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge n. 95/2012 una o piu' proposte di riordino non sono trasmesse dalla regione al Governo, il provvedimento legislativo di riordino delle province e' assunto previo parere della Conferenza unificata. Peraltro, il meccanismo surrogatorio delineato dalla disposizione sopra descritta non risulta coerente con i requisiti e presupposti stabiliti dalla costante giurisprudenza costituzionale in ordine al corretto esercizio di un intervento sostitutivo dello Stato nei confronti degli enti territoriali. Requisiti che, dopo la riforma del titolo V della Costituzione trovano ora anche positivo fondamento nell'art. 120, comma 2, Cost. e nell'art. 8, legge n. 131/2003, che al primo da' attuazione. In primo luogo, e' pacifico l'orientamento di Codesta Ecc.ma Corte secondo cui la sostituzione trova il proprio ontologico presupposto nel mancato o inesatto adempimento di atti o attivita' dovuti o necessari, ossia privi di discrezionalita' nell'an (in tal senso, si vedano a titolo meramente esemplificativo, Corte cost., sentt. n. 240 e n. 43 del 2004, nonche' sent. n. 177 del 1988). Appare chiaro come tali non possano certo ritenersi le proposte regionali di riordino delle province, le quali vanno intese come atti di iniziativa del procedimento di revisione ex art. 133, comma 1, Cost., e quindi, con ogni evidenza, assolutamente discrezionali e certamente non vincolati. Sotto diverso profilo, non risulta nemmeno rispettato il principio di leale collaborazione. Dall'esame della disciplina censurata emerge come l'eventuale ritardo nella trasmissione della proposta di riordino comporti l'automatica sostituzione della volonta' regionale da parte del Governo, senza che sia garantita alla regione interessata alcuna interlocuzione, ne' «alcuna limitazione procedurale, che consenta all'ente inadempiente di compiere l'atto» (Corte cost., sent. n. 165 del 2011). In tal senso, non e' dato rinvenire all'interno della disciplina censurata nessuna delle fasi procedimentali prescritte dall'art. 8, legge n. 131/2003. Ne' il mero parere espresso dalla Conferenza unificata in ordine al provvedimento legislativo di riordino puo' ritenersi satisfattivo delle garanzie partecipative delle singole regioni. Peraltro, la mancata predisposizione di adeguate forme di collaborazione assume un profilo ancor piu' lesivo nella misura in cui, attraverso l'esercizio del suddetto intervento sostitutivo, lo Stato diventa l'unico attore di una fattispecie costituzionale che, alta stregua delle chiare indicazioni desumibili dall'art. 133, comma 2, Cost., non puo' strutturalmente ridursi all'esercizio di un potere unilaterale, che pretermetta del tutto la necessaria iniziativa dei comuni interessati e della consultazione regionale. Ne' si puo' ritenere che l'atto di iniziativa del procedimento di revisione delle circoscrizioni provinciali (sul quale deve essere sentita anche la regione) possa essere oggetto di una chiamata in sussidiarieta' dello Stato, giacche' in tal modo la «flessibilizzazione» di una specifica competenza assegnata direttamente dalla Costituzione - e non, in via mediata, dalle leggi di conferimento delle funzioni amministrative ai sensi dell'art. 118 Cost. - ridonderebbe nella violazione del principio di rigidita' costituzionale ricavabile dall'art. 138 Cost. In ultimo, ad aggravare ulteriormente la lesione del principio di lealta' istituzionale, la scrivente difesa non puo' esimersi dal rilevare come a norma del comma 4 del censurato art. 17 il termine a quo per l'esercizio del potere sostitutivo statale inizia a decorrere ancor prima della scadenza del termine ad quem per l'adozione dei provvedimenti oggetto della surrogazione. In tal senso, il potere sostitutivo e' azionato dallo Stato nel caso di mancato invio delle proposte regionali di riordino entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge n. 95/2012, ossia il 15 ottobre 2012. Tuttavia, il precedente comma 3 assegna alle regioni, come termine massimo per la trasmissione di tali proposte, novantadue giorni dalla data di pubblicazione della deliberazione del Consiglio dei Ministri avente ad oggetto l'individuazione dei requisiti minimi di riordino (ossia il 24 ottobre 2012). Il meccanismo sostitutivo delineato dalla disciplina statale, nella parte in cui riconosce al Governo un potere sostitutivo azionabile ancor prima del decorso integrale del termine per il compimento dell'attivita' oggetto di sostituzione, risulta manifestamente illegittimo, oltre che per violazione dell'art. 120, comma 2, Cost., anche per contrasto con l'essenziale principio di razionalita' interna della legge, sancito dall'art. 3 Cost. 2.2. L'art. 17 del decreto-legge n. 95/2012 risulta altresi' illegittimo nella parte in cui, ai commi 6 e 12, fa salve alcune disposizioni dell'art. 23, decreto-legge n. 201/2011, le quali sono state oggetto di precedente impugnazione da parte della Regione Campania dinanzi a Codesta Ecc.ma Corte, anche a tutela delle province presenti sul proprio territorio (reg. ric. n. 46 del 2012, udienza pubblica fissata al 6 novembre 2012). In particolare, il predetto comma 6, nel dare attuazione all'art. 23, comma 18, decreto-legge n. 201/2011, dispone il trasferimento ai comuni delle funzioni precedentemente conferite alle province con legge statale nelle materie di competenza esclusiva ex art. 117, comma 2, Cost., fatte salve le funzioni di indirizzo e coordinamento di cui al comma 14 del menzionato art. 23. Il successivo comma 12 dell'art. 17, invece, fa salvo l'art. 23, comma 15, decreto-legge n. 201/2011 (anch'esso gia' oggetto di ricorso), confermando la limitazione degli organi della provincia solamente al consiglio provinciale e al presidente della provincia. Le norme oggi censurate, nel richiamare le suddette previsioni dell'art. 23, risultano viziate dagli stessi profili di illegittimita' gia' dedotti dalla Regione Campania dinanzi a Codesta Ecc.ma Corte nei confronti di tale ultimo articolo. A tal fine, sia consentito richiamare le censure avanzate dalla ricorrente nell'ambito del giudizio di costituzionalita' precedentemente instaurato. In tale sede, e' stato in primo luogo posto in rilievo come l'art. 23, commi da 14 a 20 del decreto-legge n. 201/2011 sia gravemente viziato da irragionevolezza, arbitrarieta', incongruita', non pertinenza, ridondanti in una grave illegittimita' per contrasto con il principio di ragionevolezza, nonche' in riferimento agli artt. 1 e 5 Cost. Tale articolo opera invero un radicale intervento che colpisce in profondita' funzioni, organi e caratteristiche rappresentative delle province, alterando completamente la fisionomia del sistema delle autonomie locali. L'intervento normativo incide in modo diretto sul livello della rappresentanza politica e sulle funzioni. Viene determinata la drastica riduzione degli amministratori, e' disposta l'eliminazione delle elezioni provinciali dirette, si realizza il sostanziale svuotamento delle funzioni, fatte salve imprecisate e generiche funzioni di «indirizzo e di coordinamento», che all'evidenza necessitano di ulteriori strumenti di chiarificazione e di definizione. In particolare, si espongono a gravi e fondate critiche di legittimita' le disposizioni che prevedono: a) la limitazione delle funzioni provinciali esclusivamente a quelle «di indirizzo e coordinamento delle attivita' dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze» (comma 14); b) l'obbligo imposto alle regioni di provvedere (entro il 31 dicembre 2012) al trasferimento ai comuni (salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza) delle funzioni provinciali, con previsione, in caso di inadempimento, di esercizio dei poteri sostitutivi di cui all'art. 8 della legge 131 del 2003 (comma 18); c) l'obbligo imposto alle regioni di provvedere altresi' al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito delle medesime risorse il necessario supporto di segreteria per l'operativita' degli organi della provincia (comma 19). Le impugnate disposizioni rendono necessaria la riallocazione di funzioni, personale, risorse e strutture sia verso i comuni, sia verso la regione. L'intervento denota una grave carenza valutativa in termini di compatibilita' costituzionale, dimensione effettiva della trasformazione e funzionalita' rispetto agli obiettivi da perseguire. E' tanto piu' irragionevole perche' operata mediante lo strumento d'urgenza del decreto-legge. Produce inoltre una serie di paradossi che si oppongono, in modo assai deciso, al conseguimento degli obiettivi attesi dalla sua attuazione. Ed infatti, nonostante la perentoria proclamazione dell'intestazione dell'articolo, il risultato dell'attuazione della norma non si traduce in immediati e rilevanti risparmi di spesa, la quale spesa semplicemente viene spostata verso il nuovo destinatario delle funzioni amministrative precedentemente provinciali. Senza contare, poi, che il sistema risultante dalle disposizioni di cui all'art. 23 non esclude, ma anzi presuppone e quindi autorizza, una proliferazione di apparati amministrativi di livello regionale e sovracomunale (con particolare riguardo agli organi di raccordo previsti dal comma 21) e provinciale (le strutture che forniranno il supporto di segreteria per l'operativita' degli organi della provincia di cui al comma 19). In ultimo, non e' peregrino ritenere che la portata della trasformazione determinata dal decreto-legge n. 201/2011 implichi un processo lungo, conflittuale e con costi difficilmente quantificabili. L'insorgenza certa di tali criticita', connessa all'immediata operativita' della norme impugnate, certamente contraddice frontalmente la ratio ispiratrice dell'art. 23. Gravissime appaiono le ripercussioni delle norme in questione in ordine alla gestione delle cd. «aree vaste». In tal senso, le misure di rimodellazione della rappresentanza politica della provincia e di riallocazione forzata delle funzioni sono state assunte in assenza di qualsivoglia indicatore di segno negativo che contraddicesse l'appropriatezza delle province quale ambito territoriale ottimale per la gestione delle funzioni relative ad aree vaste. Dovendosi escludere che tutte le funzioni provinciali da riallocare, in base ai principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione, possano essere assunte direttamente dalla regione, e' da ritenere che - fino a una futura razionalizzazione dell'assetto organizzativo degli enti locali regionali - si verifichera', con ogni probabilita', un aumento dei costi, determinato dall'istituzione di nuovi apparati amministrativi sovra-comunali, dal venir meno delle economie di scala su base provinciale e, comunque, dalla necessita' di far fronte ad una fase di riorganizzazione certamente complessa e conflittuale. In aggiunta, deve porsi in rilievo come la riforma attuata dall'art. 23 colpisca le province solo quali enti autonomi, ovvero enti di gestione di funzioni amministrative regionali, e non anche quali ambiti di articolazione periferica dello Stato. L'ambito di decentramento statale di livello provinciale, con riguardo a numerosissime funzioni, continua ad essere pienamente operativo e assolutamente non inciso (si pensi al ruolo degli uffici territoriali del Governo-prefetture, dei provveditori scolastici, delle soprintendenze per i beni culturali). Non e' possibile, infine, tacere che le norme qui impugnate non introducono nessun elemento di adattamento a contesti territoriali che presentano caratteristiche di profonda differenziazione sul territorio nazionale. I gravi e numerosi problemi, di cui si e' qui fatto solo un rapido cenno, rendono palese l'incongruita', l'inadeguatezza e la piena insufficienza delle disposizioni di cui ai commi dal 14 al 20, dell'art. 23 rispetto al conseguimento dell'obiettivo di snellimento, semplificazione e riduzione dei costi del sistema. Sotto diverso profilo, appare evidente come l'impianto complessivo disegnato dall'art. 23, e in particolare dai commi 15, 16 e 20, si ponga in chiaro contrasto con l'autonomia costituzionalmente garantita delle province, in aperta violazione dell'art. 114 Cost. Cio' appare chiaro nella misura in cui il legislatore statale ha inteso trasformare radicalmente l'ente, sopprimendo le giunte provinciali e mantenendo quali unici organi di governo il consiglio provinciale e il presidente della provincia (comma 15), nonche' prefigurando una rappresentanza di secondo grado dei futuri consigli provinciali (comma 16) e la conseguente decadenza degli organi in carica delle province (comma 20). La soppressione dell'organo esecutivo provinciale appare inoltre in stridente contrasto con l'attribuzione ad opera del decreto-legge n. 95/2012 di un fascio di funzioni di grande rilievo e complessita', individuate dal legislatore statale come proprie e indefettibili dell'ente. In tal modo, la disciplina statale ha di fatto disconosciuto alla provincia la natura di ente autonomo costitutivo della Repubblica cui spetta una sfera incomprimibile, se non mediante procedimento di revisione costituzionale, di poteri, funzioni e competenze. In questo senso, il comma 19, stabilendo che lo Stato e le regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite, si pone palesemente in contrasto con l'autonomia statutaria, organizzativa, nonche' finanziaria delle province e con la riserva di potere regolamentare di cui all'art. 117, comma 6. Anche a voler concedere che il predetto intervento legislativo possa trovare la propria giustificazione nell'esercizio della competenza legislativa esclusiva di cui all'art. 117, comma 2, lettera p), Cost., in materia di legislazione elettorale ed organi di governo di comuni e province, non puo' certo revocarsi in dubbio come lo Stato non possa tuttavia incidere sul carattere democratico dell'ente territoriale, implicato dal principio autonomistico di cui agli artt. 5 e 114 Cost. Ulteriore ragione di illegittimita' dell'art. 23 deve essere poi rinvenuta nell'obbligo per le regioni di riallocare le funzioni conferite alle province dalla vigente legislazione regionale. Tale imposizione appare tanto piu' arbitraria, ingiustificata e illegittima ove si pensi che l'art. 23 non determina la soppressione assoluta dei predetti enti, i quali, ancorche' depotenziati, continuano comunque ad essere presenti nell'ordinamento. Ben possono, quindi, essere scelti discrezionalmente dalle regioni quali soggetti istituzionali destinatari delle funzioni regionali, cosi' come del resto stabilito dallo stesso art. 118 Cost. Di contro, a nulla varrebbe per lo Stato invocare il menzionato art. 117, comma 2, lettera p), Cost. Codesta Ecc.ma Corte ha, infatti, chiaramente affermato che «quale che debba ritenersi il rapporto fra le «funzioni fondamentali» degli enti locali di cui all'art. 117, secondo comma, lettera p), e le «funzioni proprie» di cui a detto art. 118, secondo comma, sta di fatto che sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004). Orbene, l'obbligo di riallocazione delle funzioni imposto al legislatore regionale determina un'illegittima invasione delle attribuzioni delle regioni, nella misura in cui viene a limitare la loro autonomia in merito alla determinazione del livello territoriale di governo piu' idoneo all'esercizio di funzioni di loro competenza. Invasione tanto piu' grave e manifesta ove solo si consideri che l'art. 23 prevede espressamente l'esercizio di un potere sostitutivo statale - per giunta di carattere legislativo - in caso di mancato adempimento. Alla luce delle censure sopra osservate, non pare revocabile in dubbio come i commi 6 e 12 dell'art. 17, decreto-legge n. 95/2012, nel fare salve, ovvero dare attuazione alle previsioni recate dal menzionato art. 23, decreto-legge n. 201/2011, finiscono per ripetere e confermare il grave vulnus arrecato dalle stesse a danno della sfera di competenze regionali. Ne deriva la loro manifesta illegittimita' costituzionale. 2.3. Infine, un'ultima ragione di illegittimita' del menzionato art. 17, decreto-legge n. 95/2012 si rinviene nella parte in cui, dopo aver individuato le funzioni di area vasta quali funzioni fondamentali delle province (comma 10), al successivo comma 11 riconosce alle regioni le sole funzioni di programmazione e di coordinamento, spettanti nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4, Cost., nonche' quelle esercitate ai sensi dell'art. 118 Cost. In altre parole, la norma suddetta, qualora dovesse essere interpretata nel senso di limitare il ruolo regionale all'esclusivo svolgimento dei compiti sopra individuati sottrarrebbe di fatto alle regioni tutte le funzioni non espressamente richiamate, malgrado le stesse siano pacificamente spettanti ai sensi del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost. E', infatti, fuori di dubbio che alla stregua del dettato costituzionale il novero dei poteri regionali in materia di esercizio delle funzioni amministrative non possa ritenersi esaurito - a differenza di quanto sembra invece affermare la norma statale - dalle sole attribuzioni di programmazione e coordinamento. In tal senso, non sfugge certo alla scrivente difesa che l'art. 118, comma 1, Cost., nella formulazione successiva alla riforma del titolo V, ha enunciato il principio della competenza generale dei comuni come enti istituzionali attributari in via preferenziale delle funzioni amministrative. Tuttavia, non puo' certo trascurarsi che tale norma costituzionale reca invero un criterio direttivo e di orientamento nei confronti del legislatore regionale. Del resto, tale conclusione trova espressa conferma anche nella giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte. In particolare «quale che debba ritenersi il rapporto fra le "funzioni fondamentali" degli enti locali di cui all'art. 117, secondo comma, lettera p), e le "funzioni proprie" di cui a detto art. 118, secondo comma, sta di fatto che sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004). Appare, pertanto, evidente che, dal momento che l'attribuzione in concreto delle funzioni amministrative necessita pur sempre di una legge statale o regionale di conferimento, non v'e' dubbio alcuno che la regione ben potra' disporre di un ampio novero di funzioni che potra' delegare, tra gli altri, anche alle province sulla base dei principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarieta'. Tale configurazione non esclude, pertanto, che nella propria opera di concreta destinazione delle funzioni amministrative rientranti nelle materie di propria competenza ex art. 117, commi 3 e 4, Cost., la regione possa riservare a se' l'esercizio di compiti diversi ed ulteriori rispetto a quelli di programmazione e coordinamento. Limitando invece il ruolo regionale allo svolgimento esclusivo di tali ultimi compiti, la disposizione censurata illegittimamente ridimensiona in maniera sensibile il potere della regione di optare per un diverso sistema di riparto delle funzioni amministrative. Cio' in palese violazione delle previsioni costituzionali sancite dagli artt. 117, commi 3 e 4, e 118 Cost. 3. Illegittimita' costituzionale dell'art. 18, commi 1, 2, 2-bis, 7-bis, 9, lettere c) e d), del decreto-legge n. 95/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135/2012, per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 123 e 133 Cost. 3.1. Ulteriore lesione delle prerogative regionali deriva dall'art. 18 del decreto-legge n. 95/2012, il quale disciplina l'istituzione delle citta' metropolitane e la contestuale soppressione delle province del relativo territorio. Come si e' gia' avuto modo di' osservare, il primo comma dell'articolo suddetto prevede la soppressione, tra le altre, anche della Provincia di Napoli, con contestuale istituzione della relativa citta' metropolitana. La stessa disposizione stabilisce, poi, l'abrogazione degli artt. 23 e 24, commi 9 e 10, legge n. 42/2009 (recanti la disciplina transitoria per la prima istituzione delle citta' metropolitane), nonche' degli artt. 22 e 23 del decreto legislativo n. 267/2000 (recanti invece la disciplina ordinaria, temporaneamente sospesa dalla predetta legge n. 42/2009). Orbene, gia' da una lettura sommaria, l'articolo censurato appare subito illegittimo nella misura in cui, pur rientrando in un decreto-legge volto alla realizzazione degli obiettivi - invero solo dichiarati - di revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, persegue tuttavia finalita' diverse da quelle generali all'oggetto del provvedimento medesimo. E' lo stesso art. 18, al primo comma, a ricollegare espressamente la disciplina di seguito recata alla «garanzia dell'efficace ed efficiente svolgimento delle funzioni amministrative, in attuazione degli artt. 114 e 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione». Dalla stessa formulazione espressa del suddetto articolo si coglie come le ragioni di necessita' ed urgenza sottese a tale intervento normativo non possano essere connesse ad obiettivi di contenimento della spesa pubblica. Peraltro, anche a voler prescindere dalla chiara lettera del citato art. 18, e' agevolmente intuibile la sua palese inidoneita' a determinare riduzioni di spesa certe o significative. In tal senso, basti considerare che la scala dimensionale per lo svolgimento delle funzioni amministrative, ora rimesse alle citta' metropolitane. In aggiunta, le ipotizzabili economie di scala per l'esercizio delle funzioni ulteriori riconosciute alle citta' metropolitane risultano ampiamente compensate dalla riduzione di scala per le funzioni svolte dai possibili nuovi comuni metropolitani. Anzi, a ben vedere emerge piuttosto la chiara attitudine delle suddette previsioni a determinare l'insorgere di nuove spese, immediate e rilevanti, in relazione all'eventuale indizione e al successivo svolgimento dei referendum, previsto dal comma 2, sulle proposte di statuto tra tutti i cittadini delle varie citta' metropolitane. Gia' da queste iniziali considerazioni appare, pertanto, evidente come la disciplina qui contestata palesi l'evidente estraneita' della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto-legge in cui e' inserita. Peraltro, di recente Codesta Ecc.ma Corte ha ribadito come sia «in contrasto con l'art. 77 Cost la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalita' eterogenei, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei» (sent. n. 22 del 2012). Ne deriva la manifesta illegittimita' dell'art. 18 per tale prima ragione. Sotto diverso profilo, e' altresi' opportuno rilevare come non sussista alcun chiaro titolo che legittimi un intervento legislativo dello Stato nella materia. Gli unici dati espressi ricavabili dalla lettura del dettato costituzionale sono quelli attinenti, da un lato, alla competenza statale in ordine all'istituzione delle province (art. 133, comma 1, Cost.), dall'altro alla competenza delle regioni per l'istituzione dei comuni (art. 133, comma 2, Cost.). Di converso, non e' dato rinvenire alcuna disposizione costituzionale che disciplini la spettanza del potere di istituzione delle citta' metropolitane. E', peraltro, evidente come lo stesso non possa certo essere ricondotto alla potesta' legislativa statale in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali» di cui all'art. 117, comma 2, lettera p), Cost. Codesta Ecc.ma Corte ha, infatti, da tempo chiarito che il suddetto titolo competenziale deve intendersi rivolto al contesto oggettivo tassativamente interessato, che si sostanzia esclusivamente nella disciplina del sistema elettorale, della forma di governo e delle sole funzioni fondamentali di detti enti (ex plurimis, sent. n. 43 del 2004). Se, dunque, rispetto alle citta' metropolitane, il legislatore statale e' certamente competente in ordine alla disciplina del sistema elettorale e degli organi, nonche' alla determinazione delle funzioni fondamentali, lo stesso non puo' dirsi per quanto attiene all'istituzione di detti enti locali. Pertanto, secondo il principio della competenza legislativa regionale residuale, alla stregua del quale «spetta alle regioni la potesta' legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, quarto comma, Cost.), puo' senza dubbio affermarsi che il silenzio in ordine a detta competenza investe senz'altro la regione dei predetti poteri. Peraltro, nella denegata e non creduta ipotesi in cui Codesta Ecc.ma Corte non ritenesse di voler aderire alla suddetta conclusione, appare comunque evidente come l'art. 18 del decreto-legge n. 95/2012 non predisponga alcuna forma di partecipazione delle regioni all'interno del procedimento di istituzione delle citta' metropolitane. In tal senso, la ricorrente non puo' esimersi dal rilevare come l'odierna disciplina si distanzi notevolmente dalle precedenti previsioni normative in materia - previsioni che, e' opportuno sottolineare, il censurato art. 18 si preoccupa altresi' di abrogare. Appare, infatti, significativo come lo stesso art. 22 del decreto legislativo n. 267/2000 rimettesse proprio alla regione, su conforme proposta degli enti locali interessati, la delimitazione territoriale dell'area metropolitana. Cio', nonostante tale articolo fosse stato adottato nella vigenza del precedente assetto istituzionale delineato dalla vecchia formulazione del titolo V. Sorprende, pertanto, come la disciplina odierna, introdotta in un contesto di formale e sostanziale equiordinazione di Stato e regioni, non riconosca a queste ultime alcun coinvolgimento nella creazione delle citta' metropolitane, in totale spregio del canone di leale collaborazione. Con riferimento alla Regione Campania, infatti, il ruolo regionale risulta circoscritto esclusivamente all'ambito dell'eventuale sub-procedimento volto all'articolazione in piu' comuni del territorio del comune di Napoli, ai sensi del comma 2-bis. Ne deriva l'evidente violazione delle prerogative regionali sancite dagli artt. 114, 117 e 118, comma 1, Cost. Ma la totale pretermissione dell'ente regionale dall'iter istitutivo della citta' metropolitana si palesa ancora piu' grave laddove si consideri che la disposizione censurata procede alla contestuale soppressione delle province elencate (tra le quali la provincia di Napoli). Sia consentito rammentare che per l'istituzione delle province l'art. 133, comma 1, Cost. delinea un particolare procedimento, nell'ambito del quale la regione deve esprimere il proprio parere. Se, dunque, la Costituzione riserva alla regione un particolare ruolo, sia pure consultivo, all'interno della vicenda genetica della provincia, risulta indubitabile come tale ruolo debba essere altrettanto osservato e garantito laddove della provincia si decida la soppressione. Alla luce di quanto sopra, il menzionato art. 18 appare altresi' contrario con l'art. 133, comma 1, Cost. Infine, la regione ricorrente osserva come la censurata disciplina, oltre a determinare la lesione delle prerogative partecipative delle regioni, si caratterizza altresi', rispetto alle precedenti disposizioni statali in materia, per l'eliminazione di una disciplina di carattere generale sul procedimento di istituzione delle citta' metropolitane. E' evidente, infatti, come l'art. 18 si limiti ad individuare 10 province esistenti, decretandone la soppressione dal 1° gennaio 2014 e la contestuale sostituzione con le relative citta' metropolitane. Non appare revocabile in dubbio che tali previsioni, nella parte in cui individuano singolarmente le province da trasformare in citta' metropolitane, difettano dei requisiti di generalita' e astrattezza, connotandosi quindi per il carattere di legge provvedimento. Tuttavia, sotto tale aspetto, le previsioni censurate appaiono sprovviste di qualsivoglia ragionevole giustificazione, con cio' ponendosi in palese contrasto con i principi di eguaglianza e ragionevolezza sanciti dall'art. 3 Cost., nonche' con il canone di imparzialita' espresso dall'art. 97 Cost. Peraltro, sia consentito osservare che il principio della ragionevolezza, sotto il profilo della proporzionalita' e dell'adeguatezza rispetto ai fini, costituisce canone di legittimita' costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, soprattutto nel caso in cui il legislatore statale intervenga in materie che incidono su aspetti connessi all'autonomia degli enti locali o su materie riservate alla potesta' legislativa regionale. Secondo l'insegnamento di Codesta Ecc.ma Corte, il sindacato di legittimita' costituzionale di una norma non rifugge dal controllo sulla ragionevolezza della stessa in relazione alle finalita' perseguite (cfr. Corte cost., sent. n. 148 del 2009), essendo ben possibile la verifica che le previsioni impugnate «non appaiano irragionevoli, ne' sproporzionate rispetto alle esigenze indicate» (Corte cost., sent. n. 326 del 2008) e che gli strumenti normativi rimessi allo scrutinio di legittimita' costituzionale appaiono «disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi» (Corte cost., sent. n. 452 del 2007 e le ivi citate sentt. n. 274 e n. 14 del 2004). In definitiva, come ribadito in altra occasione da Codesta Ecc.ma Corte «l'intervento del legislatore statale e' legittimo se contenuto entro i limiti dei canoni di adeguatezza e proporzionalita'» (Corte cost. n. 345 del 2004). Orbene, con riferimento al caso di specie, non e' dato rinvenire all'interno della disposizione impugnata alcuna indicazione circa le ragioni che hanno mosso il legislatore statale ad individuare solamente alcune determinate province come destinatarie dell'intervento di trasformazione in citta' metropolitane. La norma, infatti, non chiarisce quali siano i criteri alla stregua dei quali si e' ritenuta necessaria la soppressione dei preesistenti enti provinciali e la loro contestuale sostituzione con le nuove realta' istituzionali. Ne', tanto meno, appare possibile affermare se sara' eventualmente possibile costituire in futuro altre citta' metropolitane, ne' in che modo e a quali condizioni cio' potra' avvenire. Da tutto quanto appena osservato, appare evidente come la disciplina recata dall'art. 18 si palesi, altresi', del tutto irragionevole, laddove realizza un'ingiustificata disparita' di trattamento a danno delle province sopprimende. 3.2. Sotto diverso profilo, l'art. 18 risulta altresi' illegittimo nella parte in cui, al comma 2, prevede che il territorio della citta' metropolitana di nuova costituzione coincida con quello della provincia contestualmente soppressa «fermo restando il potere dei comuni interessati di deliberare, con atto del consiglio, l'adesione alla citta' metropolitana o, in alternativa, a una provincia limitrofa ai sensi dell'art. 133, primo comma, della Costituzione». Anche a voler tacere della formulazione non chiara della norma suddetta, quest'ultima sembra riconoscere ai comuni interessati il potere di aderire, in alternativa alla citta' metropolitana di nuova istituzione, ad una provincia limitrofa, essendo all'uopo sufficiente la semplice deliberazione del consiglio comunale. E' subito evidente che l'attribuzione ai comuni di una simile potesta' si ponga in aperto contrasto con il disposto di cui al menzionato art. 133, comma 1, Cost. Da un lato, l'adesione comunale ad una provincia limitrofa attraverso la mera deliberazione consiliare viola la riserva di legge sancita dalla citata disposizione costituzionale in materia di mutamento delle circoscrizioni provinciali. In aggiunta, viene altresi' pretermessa qualsiasi forma di coinvolgimento della regione, la quale, ai sensi dell'art. 133, comma 1, Cost., dovrebbe invece essere posta nelle condizioni di esprimere il proprio parere. Sotto diverso profilo, la previsione suddetta risulta, altresi', viziata da manifesta irragionevolezza nella misura in cui pare consentire ai comuni ricompresi nel territorio della citta' metropolitana di optare per l'aggregazione ad una provincia limitrofa, senza il necessario rispetto della continuita' territoriale della citta' metropolitana. Una simile eventualita' si porrebbe, in primo luogo, in contrasto con la stessa disciplina recata dal precedente art. 17 in materia di riordino delle province. In aggiunta, il distacco di comuni dalla citta' metropolitana senza che sia garantita alla stessa una continuita' territoriale collide anche con le stesse finalita' di efficace ed efficiente svolgimento delle funzioni amministrative dichiarate dall'art. 18. Evidente, pertanto, risulta altresi' l'irragionevolezza di una siffatta previsione, la quale si riverbera in violazione degli artt. 3 e 97 Cost. 3.3. Ulteriore profilo di incostituzionalita' della disciplina statale deve essere rinvenuto nella previsione di cui al comma 2-bis, secondo la quale lo statuto della citta' metropolitana, su proposta del comune capoluogo, puo' prevedere un'articolazione del territorio del comune capoluogo medesimo in piu' comuni. Peraltro, deve osservarsi che la predetta previsione limita la partecipazione regionale alla mera espressione di un parere, il quale deve essere rilasciato in ordine alla complessiva proposta statutaria. Peraltro, risulta chiaro come la disposizione suddetta collida con l'art. 133, comma 2, Cost., a norma del quale l'istituzione di nuovi comuni nel territorio regionale, ovvero la modificazione delle loro circoscrizioni o denominazioni sono rimesse al legislatore regionale, sentite le popolazioni interessate. L'assoluta incompatibilita' della disciplina introdotta dal comma 2-bis dell'art. 18 rispetto alla richiamata disposizione costituzionale e' sufficiente ad evidenziare la manifesta incostituzionalita' del predetto intervento statale. Ma la norma censurata risulta viziata anche sotto ulteriore profilo, nella parte in cui dispone che, nel caso in cui si opti per la suddivisione del territorio del comune capoluogo in piu' comuni, sulla proposta complessiva di statuto sia indetto referendum tra tutti i cittadini della citta' metropolitana. Il menzionato comma 2-bis non solo definisce i quorum di validita' della consultazione referendaria, ma prescrive altresi' alle regioni di adeguare con proprie leggi le circoscrizioni territoriali comunali sulla base degli esiti della consultazione medesima. Tuttavia, le previsioni suddette invadono con ogni evidenza la riserva statutaria regionale in materia di regolamentazione del referendum sulle leggi e sui provvedimenti amministrativi regionali, sancita dall'art. 123, comma 1, Cost. In particolare, dando attuazione a tale attribuzione costituzionale, il legislatore statutario campano, con l'art. 14, comma 2, dello statuto, ha previsto espressamente che «sono obbligatoriamente sottoposte a referendum consultivo delle popolazioni interessate le proposte di legge concernenti la istituzione di nuovi comuni e i mutamenti delle circoscrizioni e delle denominazioni comunali». In aggiunta, e' doveroso rilevare come, con legge regionale n. 25/1975, la Regione Campania abbia dato compiuta disciplina alla predetta ipotesi di consultazione popolare, prescrivendo anche un apposito quorum di validita'. E' palese, pertanto, che la disposizione statale censurata, introducendo una nuova ipotesi di referendum consultivo e disciplinando integralmente le modalita' ed i tempi di svolgimento, contrasta manifestamente con la predetta previsione statutaria, violando di conseguenza l'art. 123, comma 1, Cost. 3.4. Un'ulteriore ragione di illegittimita' dell'art. 18, decreto-legge n. 95/2012 si rinviene nel comma 7-bis, il quale, stante l'individuazione delle funzioni fondamentali delle citta' metropolitane da parte del precedente comma 7, sembrerebbe limitare le funzioni regionali alla sola programmazione e al solo coordinamento nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4, Cost., nonche' alle funzioni esercitate ai sensi dell'art. 118 Cost. La norma suddetta, limitando il ruolo regionale all'esclusivo svolgimento dei compiti sopra individuati, sembra sottrarre alle regioni tutte le funzioni non espressamente richiamate, malgrado le stesse siano pacificamente spettanti ai sensi del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost. E', infatti, fuori di dubbio che alla stregua del dettato costituzionale il novero dei poteri regionali in materia di esercizio delle funzioni amministrative non possa ritenersi esaurito - a differenza di quanto sembra invece affermare la norma statale - dalle sole attribuzioni di programmazione e coordinamento. In tal senso, non sfugge certo alla scrivente difesa che l'art. 118, comma 1, Cost., nella formulazione successiva alla riforma del titolo V, ha enunciato il principio della competenza generale dei comuni come enti istituzionali attributari in via preferenziale delle funzioni amministrative. Tuttavia, non puo' certo trascurarsi che tale norma costituzionale reca invero un criterio direttivo e di orientamento nei confronti del legislatore regionale. Del resto, tale conclusione trova espressa conferma anche nella giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte. In particolare, «quale che debba ritenersi il rapporto fra le "funzioni fondamentali" degli enti locali di cui all'art. 117, secondo comma, lettera p), e le "funzioni proprie" di cui a detto art. 118, secondo comma, sta di fatto che sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni» (Corte cost., cent. n. 43 del 2004). Appare, pertanto, evidente che, dal momento che l'attribuzione in concreto delle funzioni amministrative necessita pur sempre di una legge statale o regionale di conferimento, non v'e' dubbio alcuno che la regione ben potra' disporre di un ampio novero di funzioni che potra' delegare, tra gli altri, anche alle citta' metropolitane sulla base dei principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarieta'. Tale configurazione non esclude, pertanto, che nella propria opera di concreta destinazione delle funzioni amministrative rientranti nelle materie di propria competenza ex art. 117, commi 3 e 4, Cost., la regione possa riservare a se' l'esercizio di compiti diversi ed ulteriori rispetto a quelli di programmazione e coordinamento. Limitando invece il ruolo regionale allo svolgimento esclusivo di tali ultimi compiti, la disposizione censurata illegittimamente ridimensiona in maniera sensibile il potere della regione di optare per un diverso sistema di riparto delle funzioni amministrative. Cio' in palese violazione delle previsioni costituzionali sancite dagli artt. 117, commi 3 e 4, e 118 Cost. 3.5. Infine, si espone a rilievi di illegittimita' anche il comma 9 dell'art. 18, decreto-legge n. 95/2012, laddove accorda allo statuto della citta' metropolitana la possibilita' di «conferire» proprie funzioni ai comuni ricompresi nel proprio territorio o alle loro forme associative, anche in forma differenziata per determinate aree territoriali, con contestuale trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie per il loro svolgimento (lettera c), contemplando altresi' la possibilita' inversa per i comuni - secondo le modalita' previste dallo statuto medesimo - di rimettere alla citta' metropolitana proprie funzioni alle medesime condizioni (lettera d). Le norme in questione, conferendo la facolta' ad enti diversi dallo Stato o dalla regione di attribuire funzioni amministrative a comuni e citta' metropolitane, violano apertamente il disposto dell'art. 118, comma 2, Cost., a norma del quale tale potere viene riservato in via esclusiva alla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. A tale fine, sia sufficiente fare riferimento ancora una volta al pacifico orientamento giurisprudenziale desumibile dalla piu' volte citata sentenza n. 43 del 2004, mediante la quale Codesta Ecc.ma Corte ha espressamente osservato come, nonostante l'art. 118, comma 2, Cost., riconosca a comuni, province e citta' metropolitane la titolarita' di funzioni proprie e ovvero conferite, l'esercizio in concreto delle stesse e' pur sempre subordinato alla circostanza che «sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004). E' chiaro, quindi, che il riconoscimento alle citta' metropolitane ovvero ai comuni di un potere di conferimento delle funzioni ad altro livello istituzionale si pone evidentemente in contrasto con il sistema di allocazione delle funzioni amministrative delineato dalla Costituzione, ed in particolare dal combinato disposto degli artt. 117 e 118. Peraltro, il richiamato profilo di incompatibilita' delle disposizioni censurate con il dettato costituzionale vizia in via consequenziale anche la previsione relativa al contestuale trasferimento delle necessarie risorse umane strumentali e finanziarie, previsione che per di piu' risulta contrastare con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione e con la riserva di legge in materia di organizzazione dei pubblici uffici, di cui dall'art. 97 Cost. 4. Illegittimita' costituzionale dell'art. 19, commi 1, lettere a), b), c) e d), 2, 3, 4, 5 e 6 del decreto-legge n. 95/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135/2012, per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 123 e 133 Cost. Come si e' gia' avuto modo di osservare nella parte in «Fatto», l'art. 19 del decreto-legge n. 95/2012, facendo ampio ricorso alla tecnica della novella, introduce una serie di previsioni in materia, da un lato, di funzioni fondamentali dei comuni e, dall'altro, di esercizio associato delle funzioni e dei servizi da parte dei comuni, le quali appaiono gia' ad un primo esame gravemente lesive delle prerogative costituzionalmente attribuite alla regione ricorrente. 4.1. In primo luogo, un'evidente ragione di illegittimita' si rinviene nel comma 1, lettera a), dell'articolo censurato, nella parte in cui, nel modificare la disciplina delle funzioni fondamentali dei comuni precedentemente recata dall'art. 14, comma 27, decreto-legge n. 78/2010, riconosce in materia alle regioni le sole funzioni di programmazione e di coordinamento, spettanti nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4, Cost., nonche' quelle esercitate ai sensi dell'art. 118 Cost. In altre parole, la norma suddetta, limitando il ruolo regionale all'esclusivo svolgimento dei compiti sopra individuati, pretende di sottrarre di fatto alle regioni tutte le funzioni non espressamente richiamate, malgrado le stesse siano pacificamente spettanti ai sensi del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost. come gia' evidenziato sub § 3.4. In tal senso, sia consentito osservare come sia senz'altro vero che l'art. 118, comma 1, Cost., nella formulazione successiva alla riforma del titolo V, ha enunciato il principio della competenza generale dei comuni come enti istituzionali attributari in via preferenziale delle funzioni amministrative. Tuttavia, e' oggi pacifico come sia altrettanto corretto ritenere che tale norma costituzionale rechi invero un criterio direttivo e di orientamento nei confronti del legislatore. Del resto e' lo stesso comma 2 dell'art. 118 a precisare che oltre alle funzioni, proprie, le altre funzioni di cui comuni, province e citta' metropolitane sono titolari, sono quelle conferite «con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze». Dal che' appare evidente la titolarita' della regione di un ampio novero di funzioni che potra' delegare ai comuni o alle province o alle citta' metropolitane. In tal senso, appare evidente che l'attribuzione in concreto delle funzioni amministrative necessiti pur sempre di una legge statale o regionale di conferimento. Cio' trova, del resto, conferma nell'art. 7 della legge n. 131/2003, il quale, nel dare attuazione all'art. 118 Cost., ha rimesso espressamente a Stato e regioni, secondo le rispettive competenze, il compito di conferire ai comuni le funzioni amministrative precedentemente esercitate, con contestuale trasferimento delle risorse necessarie, salvo attribuzione a province, citta' metropolitane, regioni e Stato soltanto di quelle «di cui occorra assicurare l'unitarieta' di esercizio, per motivi di buon andamento, efficienza o efficacia dell'azione amministrativa ovvero per motivi funzionali o economici o per esigenze di programmazione o di omogeneita' territoriale». Il legislatore, quindi, ben potra' provvedere all'allocazione delle funzioni medesime ad un livello diverso da quello comunale, laddove cio' permetta il loro migliore esercizio. Tale configurazione non esclude, pertanto, che nella propria opera di concreta destinazione delle funzioni amministrative rientranti nelle materie di propria competenza ex art. 117, commi 3 e 4, Cost., la regione possa riservare a se' l'esercizio di compiti diversi ed ulteriori rispetto a quelli di programmazione e coordinamento. Limitando invece il ruolo regionale allo svolgimento esclusivo di tali ultimi compiti, la disposizione censurata illegittimamente ridimensiona in maniera sensibile il potere della regione di optare per un diverso sistema di riparto delle funzioni amministrative. Cio' in palese violazione delle previsioni costituzionali sancite dagli artt. 117, commi 3 e 4, e 118 Cost. 4.2. Sotto diverso profilo, il censurato art. 19 reca una serie di disposizioni, modificative di precedenti provvedimenti legislativi, inerenti le modalita' e le forme di svolgimento associato delle funzioni da parte dei comuni. In primo luogo, gravemente lesivo risulta il comma 2, il quale riscrive integralmente i commi da 1 a 16 dell'art. 16, decreto-legge n. 138/2011. Come si e' gia' avuto modo di rammentare, tale articolo e' stato oggetto di gravame da parte della regione ricorrente dinanzi a Codesta Ecc.ma Corte, mediante ricorso reg. n. 153 del 2011. In tale sede, infatti, e' stato posto in evidenza come la disciplina previgente incidesse del tutto illegittimamente sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva alla regione in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali presenti sul proprio territorio, cosi' violando l'art. 117, comma 2, lettera p), e comma 4, nonche' l'art. 118 Cost. Orbene, gia' da un primo esame delle disposizioni ivi censurate risulta evidente come le modifiche apportate alla precedente formulazione non possono assolutamente ritenersi satisfattive delle ragioni sottese al primo ricorso, confermando di contro i lamentati profili di lesione delle attribuzioni regionali. La nuova formulazione dell'art. 16 delinea ora l'esercizio associato di tutte le funzioni e di tutti i servizi, per i comuni fino a 1.000 abitanti, come non piu' obbligatorio, bensi' alternativo alle modalita' di cui all'art. 14, decreto-legge n. 78/2010. Tuttavia non v'e' dubbio che la disposizione statale continui ad incidere illegittimamente sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva alle regione in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali presenti sul proprio territorio. Cio' e' tanto piu' vero ove si consideri che restano del tutto immutate le attribuzioni riconosciute all'unione quale forma associativa. Come gia' previsto nella precedente formulazione, anche dalla disciplina ivi censurata emerge l'istituzione di un nuovo ente locale dotato di competenza di programmazione economico-finanziaria e di gestione contabile, nonche' di potesta' impositiva e patrimoniale. E', altresi', prevista la successione dell'unione a tutti gli effetti nei rapporti giuridici inerenti alle funzioni e ai servizi ad essa affidati, con trasferimento di risorse umane e strumentali, oltre ai relativi rapporti finanziari. In ultimo, l'unione ha potesta' statutaria propria e propri organi, alla cui proclamazione corrisponde la decadenza di diritto delle giunte dei singoli comuni associati. In aggiunta, la violazione delle competenze regionali da parte delle previsioni suddette trova ulteriore riscontro nella disciplina dell'iter di formazione delle menzionate forme associative. In tal senso, e' fatto obbligo alla regione di sancire l'istituzione di tutte le unioni del proprio territorio attenendosi alle proposte di aggregazione, formulate dai comuni interessati sulla base dei criteri demografici prescritti dalla normativa statale. Il carattere cogente di tale adempimento imposto alla regione e' confermato dal carattere perentorio entro il quale la regione stessa deve provvedere all'istituzione delle unioni suddette. Peraltro, la previsione - ex comma 5 dell'art. 19, decreto-legge n. 95/2012 - della facolta' per la regione di individuare limiti demografici diversi da quelli statali non vale ad escludere comunque la violazione del riparto di competenze delineato dagli artt. 117 e 118 Cost. 4.2.1. Dall'esame delle previsioni suddette emerge con evidenza la loro lesivita' e palese attitudine ad impingere su ambiti competenziali di sicura spettanza regionale. Ne', del resto, ad escludere l'illegittimita' dell'intervento normativo censurato potrebbe invocarsi la competenza esclusiva statale ex art. 117, comma 2, lettera p), Cost., relativa a «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane». Codesta Ecc.ma Corte ha da tempo chiarito come il suddetto titolo competenziale debba essere inteso nel senso che il riferimento deve ritenersi tassativamente rivolto agli enti locali elencati all'art. 114 Cost., cosi' come tassativo e' il contesto oggettivo interessato, che si sostanzia esclusivamente nella disciplina del sistema elettorale, della forma di governo e delle funzioni fondamentali di detti enti. Di contro, al di fuori dell'ambito materiale come ora circoscritto, la regolamentazione degli enti locali deve essere di certo ricondotta nella competenza residuale delle regioni ex art. 117, comma 4, Cost. Cio' anche al fine di garantire la possibilita' che la singola regione, nel ruolo di ente rappresentativo delle diverse istanze presenti sul proprio territorio, provveda all'adozione di previsioni differenziate che tengano in adeguata considerazione le esigenze espresse dalla comunita' di riferimento, in osservanza dei principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione consacrati nell'art. 118, comma 1, Cost. Tali considerazioni trovano conferma nella costante giurisprudenza costituzionale, sviluppatasi in particolare in merito alla disciplina delle comunita' montane. E' opportuno precisare come alle stesse sia stata attribuita la natura giuridica di ente autonomo, quali proiezione dei comuni facenti capo ad esse, ovvero quali «unioni di comuni, enti locali costituiti fra comuni montani» (Corte cost., sent. n. 244 del 2005, richiamata da ultimo dalla sent. n. 27 del 2010). In tal senso, Codesta Ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare che la disciplina delle comunita' montane rientra nella competenza residuale delle regioni (si vedano, in particolare, le sentt. n. 237 del 2009, n. 456 e n. 244 del 2005). Il riconoscimento della predetta potesta' regionale esclusiva trova, in particolare, fondamento nel fatto che tali comunita' devono essere identificate come autonomie sub-regionali meramente strumentali e non gia' rientranti tra gli enti necessari sulla base di norme costituzionali; alla luce di cio', pertanto, «rientra nella potesta' legislativa delle regioni disporne anche, eventualmente, la soppressione» (Corte cost., sent. n. 27 del 2010, citata, e le ivi richiamate sentt. n. 237 del 2009, citata, e n. 229 del 2001). Orbene, non v'e' chi non veda come i principi affermati dalla giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte nelle pronunce sopra richiamate trovino immediata applicabilita' alla normativa statale della cui legittimita' costituzionale qui si sospetta. Se la ratio della competenza regionale in materia di comunita' montane deve essere rinvenuta nel carattere non essenziale e non costituzionalmente indefettibile delle stesse, non puo' dubitarsi allora come nella suddetta competenza vada, altresi', ricondotta la disciplina delle forme associative di comuni e, in particolare, delle unioni. Cosi' ricostruito il riparto di attribuzioni tra Stato e regioni in materia, risulta netto il contrasto delle previsioni impugnate con il dettato costituzionale, derivandone di conseguenza la manifesta violazione delle competenze normative regionali. 4.2.2. In via subordinata, nella denegata e non creduta ipotesi in cui Codesta Ecc.ma Corte non ritenesse di riconoscere la manifesta violazione della competenza residuale della Regione Campania in merito alla disciplina delle forme associative degli enti locali, l'art. 16 del decreto-legge n. 138/2011, cosi' come novellato dall'art. 19 ivi censurato, risulta in ogni caso collidere con le previsioni recate dall'art. 118, in combinato disposto con l'art. 117 Cost. In particolare, nella misura in cui la norma statale disciplina l'esercizio in forma associata, da parte dei comuni interessati, «di tutte le funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente», essa viola in maniera palese il riparto costituzionale di potesta' legislative tra Stato e regioni in materia di disciplina dell'esercizio delle funzioni amministrative da parte degli enti locali. Sia consentito rammentare come, ai sensi dell'art. 118 Cost., nella formulazione successiva alla riforma del titolo V della Costituzione, sono attribuite in via di principio ai comuni tutte le funzioni amministrative, a prescindere dalla materia cui afferiscano, salvo la possibilita' che le stesse siano conferite, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza, ai livelli di governo superiori, al fine di garantirne il migliore esercizio. Pare, altresi', opportuno ribadire che, in forza del citato art. 117, comma 2, lettera p), Cost., la competenza legislativa esclusiva dello Stato inerisce ora alla determinazione delle sole «funzioni fondamentali» di comuni, province e citta' metropolitane. Nell'interpretare il rapporto tra le rinnovate potesta' legislative regionali risultanti dall'art. 117, come riformato dalla legge costituzionale n. 3/2001, e l'art. 118 Cost., non puo' prescindersi dalla chiara giurisprudenza espressa da Codesta Ecc.ma Corte, in particolare nella piu' volte richiamata sent. n. 43 del 2004, alla quale si fa rinvio (sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni). Pertanto, alla luce dei principi desumibili dalla richiamata giurisprudenza, non e' revocabile in dubbio come la competenza della regione in materia di disciplina dell'esercizio delle funzioni amministrative sussista ogni qualvolta le funzioni stesse interessino ambiti materiali di diretta pertinenza regionale (esclusiva o concorrente). Di contro, la censurata disposizione statale ha inteso fare riferimento indistinto a tutte le funzioni amministrative attualmente esercitate dai comuni interessati. Cosi' facendo, il legislatore statale ha sicuramente ricompreso anche funzioni ricadenti in ambiti materiali regionali, violando in tal modo le attribuzioni costituzionalmente garantite alla regione. 4.3. Sotto diverso profilo, l'art. 19 introduce disposizioni ulteriori in materia di esercizio associato delle funzioni in ambito comunale. In particolare, le previsioni contenute nelle lettere da b) a d) del comma 1 del predetto articolo modificano integralmente la disciplina posta in materia dai commi 28 e seguenti dell'art. 14, decreto-legge n. 78/2010. E' ora prescritto, infatti, l'esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali, mediante unione o convenzione, da parte dei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (3.000 se in comunita' montane). Il ruolo regionale viene limitato, nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4, Cost., alla mera individuazione, previa concertazione con gli enti locali interessati nell'ambito del C.A.L., della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica per lo svolgimento associato delle funzioni suddette. Sempre in materia di forme associative, il comma 3 dell'art. 19 modifica integralmente l'art. 32 TUEL, innovando alla disciplina delle unioni di comuni. Appare immediatamente evidente come le suddette previsioni siano manifestamente lesive della sfera di attribuzioni regionali assegnata dalla Carta costituzionale. A tal fine valga richiamare le considerazioni svolte supra (sub § 4.2) in ordine alla competenza delle regioni con riferimento alla disciplina degli strumenti e delle modalita' a disposizione dei comuni per l'esercizio congiunto delle funzioni loro spettanti. Alla stregua della chiara e pacifica giurisprudenza richiamata sul punto, appare allora immediatamente evidente come anche le suddette previsioni risultino manifestamente contrarie al disposto di cui agli artt. 117 e 118 Cost.
P. Q. M. Chiede che Codesta Ecc.ma Corte, in accoglimento del presente ricorso, voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 3 e 8, dell'art. 17, commi 1, 2, 3, 4 e 4-bis, comma 11, nonche' commi 6 e 12, dell'art. 18, commi 1, 2, 2-bis, 7-bis, 9, lettere c) e d), dell'art. 19, commi 1, lettere a), b), c) e d), 2, 3, 4, 5, 6 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonche' misure dl rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», per violazione degli artt. 1, 2, 3, 5, 41, 71, comma 1, 75, 77, comma 2, 97, 114, 117, 118, 119, 120, comma 2, 123, 133, 136 e 138 della Costituzione. Roma, 12 ottobre 2012 Il prof. avv. : Caravita di Toritto - L'avv.: D'Elia