N. 51 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 ottobre 2012

Ordinanza del 26 ottobre 2012 emessa dal Tribunale  di  Salerno  Sez.
riesame nel procedimento penale a carico di P. E. G. ed altri. 
 
Processo penale - Misure cautelari  personali  -  Criteri  di  scelta
  delle misure - Obbligatorieta' della custodia cautelare in  carcere
  quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti
  commessi avvalendosi delle condizioni  previste  dall'art.  416-bis
  cod.  pen.,  ovvero  al  fine  di   agevolare   l'attivita'   delle
  associazioni  previste  dallo  stesso  articolo,  salvo  che  siano
  acquisiti elementi dai quali risulti che  non  sussistono  esigenze
  cautelari - Mancata previsione della salvezza dell'ipotesi  in  cui
  siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso  concreto,
  dai  quali  risulti  che  le  esigenze  cautelari  possono   essere
  soddisfatte con altre misure  -  Ingiustificata  parificazione  dei
  procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 del
  decreto-legge n. 152 del 1991, contestati a chi non faccia parte di
  associazioni di tipo mafioso, a quelli concernenti il reato di  cui
  all'art.  416-bis  cod.  pen.  e/o  a  quelli  aggravati  ai  sensi
  dell'art. 7  del  decreto-legge  n.  152  del  1991,  contestati  a
  imputati che facciano parte  di  associazioni  di  tipo  mafioso  -
  Irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime  cautelare  delle
  diverse  ipotesi  concrete  riconducibili  ai  paradigmi   punitivi
  considerati - Violazione  del  principio  di  inviolabilita'  della
  liberta' personale e del principio di non colpevolezza. 
- Codice di procedura penale, art.  275,  comma  3,  come  modificato
  dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio  2009,  n.  11,
  convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009,  n.  38,
  in relazione all'art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991,  n.  152,
  convertito con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203. 
- Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, e 27, comma secondo. 
(GU n.12 del 20-3-2013 )
 
                    IL TRIBUNALE CIVILE E PENALE 
 
    Visto  l'appello  proposto  dal  pubblico  ministero  avverso  le
ordinanze emesse dal Tribunale di Nocera Inferiore rispettivamente in
data 30 marzo 2012 ed in data 11 luglio 2012 con le quali sono  stati
concessi gli arresti domiciliari a G., A, P., E., G., I, D., P.,  G.,
D'A., P., M., S., G., F., A., Q., M., B., G., D'A., P., A. 
    Riuniti i procedimenti, a scioglimento della riserva assunta alla
udienza del 3 ottobre 2012 ha pronunciato e  pubblicato  la  seguente
ordinanza ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen. 
    1. Il pubblico ministero impugna,  con  l'appello  cautelare,  le
ordinanze de libertate emesse dal Tribunale di Nocera  Inferiore  con
le  quali  il  giudice  del  dibattimento  ha  sostituito,  ai  sensi
dell'art. 299 cod. proc. pen„ la misura della custodia  cautelare  in
carcere con quella degli  arresti  domiciliari  nei  confronti  degli
imputati indicati in epigrafe nonostante gli stessi fossero  attinti,
in via cautelare, da imputazioni aggravate ai sensi dell'art. 7  d.l.
152 del 1991 conv. nella legge n. 203 del 1991 e dunque dall'uso  del
metodo mafioso do dalla finalita' di agevolare associazioni  di  tipo
mafioso. 
    1.1. Il primo giudice, sulla base di un orientamento  minoritario
espresso   dalla   giurisprudenza   di   legittimita',   dispose   la
sostituzione della massima  misura  coercitiva  sul  rilievo  che  la
presunzione assoluta  di  adeguatezza  della  custodia  cautelare  in
carcere, prevista dall'art. 275, terzo comma, cod. proc. pen. , fosse
sussistente con esclusivo riferimento alla fase genetica del  vincolo
e non anche con riferimento alla fase funzionale di esso, potendo  il
giudice, in tale ultimo caso, procedere alla ordinaria  verifica  del
trattamento cautelare adeguandolo  al  caso  concreto  attraverso  la
scelta  della  misura  ritenuta   piu'   idonea   alla   salvaguardia
dell'esigenza cautelare. 
    Nella  specie,  argomento'  il  Tribunale  come   lo   stato   di
incensuratezza  della  maggior  parte  degli  imputati,  i  risalenti
precedenti penali a carico degli imputati non incensurati, il decorso
non  trascurabile  di  un  periodo  di  detenzione   complessivamente
sofferto da ognuno di essi con funzione  di  deterrente,  la  mancata
violazione delle prescrizioni connesse agli arresti  domiciliari  cui
gli imputati  furono  sottoposti,  dopo  l'esecuzione  dell'ordinanza
cautelare, con provvedimento adottato dal tribunale del riesame  che,
in un primo momento, escluse la sussistenza dell'«aggravante mafiosa»
(aggravante successivamente ripristinata all'esito  del  giudizio  di
rinvio conseguente all'annullamento pronunciato in  parte  qua  dalla
Corte Suprema di cessazione), lo scioglimento del  comune  di  Pagani
costituissero,   nella   loro   globalita',   elementi    che,    pur
insuscettibili di escludere la sussistenza delle esigenze  cautelari,
consentissero che le stesse fossero passibili di  protezione  con  la
concessione degli arresti domiciliari. 
    1.2.  Avverso  la  suddetta  decisione  ha  proposto  appello  il
pubblico ministero, affidando la  doglianza  ad  un  unico  complesso
motivo con il quale denuncia  il  vizio  di  violazione  della  legge
processuale penale (art. 299 cod. proc. pen.  in  relazione  all'art.
275, 3° comma cod. proc. pen.). 
    Deduce l'appellante come gli  argomenti,  che  primo  giudice  ha
ritenuto di trarre da taluni arresti giurisprudenziali  (Cass.  25167
del 2010 e Cass. 4424 del 2011) fossero ampiamente contraddetti da un
opposto e prevalente  indirizzo  di  legittimita'  secondo  il  quale
sarebbe logicamente insostenibile la tesi per cui la  presunzione  di
inadeguatezza  delle  misure  diverse  dalla  custodia  cautelare  in
carcere, quanto ai reati di cui all'art. 275, 3°  comma,  cod.  proc.
pen., opererebbe limitatamente alla sola fase genetica della  cautela
giacche', se cosi fosse, la  disciplina  sarebbe  connotata  da  ampi
tratti di irrazionalita' nella misura in cui imporrebbe  inizialmente
l'adozione  del  massimo  vincolo  cautelare  salvo   ad   ammetterne
immediatamente dopo la successiva graduazione. 
    Da altro lato, piu' squisitamente giuridico, l'appellante  rileva
come  il  prevalente  indirizzo  espresso  dalla  giurisprudenza   di
legittimita' fosse diversamente orientato sul rilievo che  la  chiara
lettera della disposizione processuale, di cui  art.  275  cpv.  cod.
proc. pen.,  non  autorizzerebbe  l'approdo  interpretativo,  cui  e'
giunto il primo giudice, sia perche' l'art. 275, 3° comma, cod. proc.
pen. non distingue tra fase genetica e fase esecutiva della misura  e
sia perche', quanto alla specifica fase  esecutiva,  l'art.  299,  1°
comma, cod. proc. pen., espressamente rinvia all'art. 275, 3°  comma,
cod. proc. pen. con la  conseguenza  che  il  legislatore  ha  voluto
mantenere, per taluni reati, ed anche nel corso  di  detta  fase,  la
presunzione di inadeguatezza delle  misure  cautelati  diverse  dalla
custodia in carcere (Cass. 351190 del 2011;  Cass.  11749  del  2011;
Cass. 34003 del 2010; Cass. 20447 del 2005; Cass. 23924 del 2004). 
    2. Nelle more della celebrazione  dell'udienza  camerale  per  la
decisione dell'appello proposto dal pubblico ministero, la  questione
circa l'ambito di operativita' della presunzione di cui all'art.  275
cpv. cod. proc. pen. per i reati aggravati dall'art. 7  d.l.  n.  152
del 1991 e' stata sottoposta al  vaglio  delle  Sezioni  unite  della
Corte Suprema di cessazione con la conseguenza che all'udienza del 25
maggio 2012 su accordo delle parti, l'incidente  cautelare  e'  stato
rinviato  all'udienza  del  28  settembre  2012   e   successivamente
differito all'odierna udienza, per la quale era fissato altro analogo
incidente, sicche', riunite le procedure, le parti  hanno  rassegnato
le loro conclusioni come da verbale in atti. 
    In  particolare  le  parti  private  hanno   concluso,   in   via
principale,  per  il  rigetto  dell'appello  ed  in  via  subordinata
affinche'  il  tribunale  distrettuale  sollevasse  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 275 cpv. cod.  proc.  pen.  per
contrasto, con gli artt. 3, 13 e 27 Cost. 
    3. La Corte Suprema di cassazione con le sentenze 19 luglio  2012
n. 34473 e 34474 ha statuito, a sezioni unite, che «la presunzione di
adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275  cod.  proc.  pen.,
comma 3, opera non solo in occasione dell'adozione del  provvedimento
genetico della misura coercitiva ma anche  nelle  vicende  successive
che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari». 
    4. Il Collegio non  ha  alcun  motivo  per  discostarsi  da  tale
insegnamento in  quanto  perfettamente  aderente  al  dato  normativo
espresso dalla  legislazione  ordinaria  ed  al  quale  il  tribunale
distrettuale  si  e'  attenuto  in  precedenti   decisioni   adottate
anteriormente al recente arresto delle Sezioni Unite penali,  tant'e'
che, in sede di giudizio  di  rinvio,  ripristino',  riconoscendo  la
sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n.  152  del  1991
conv. nella legge n. 203 del 1991, la custodia cautelare  in  carcere
nei confronti di tutti gli appellati. 
    5. Va infatti precisato che,  all'esito  dei  gravami  interposti
avverso la  primitiva  ordinanza  cautelare  e  con  la  quale  venne
disposta la custodia in carcere nei confronti di tutti gli appellati,
il tribunale del riesame, escludendo la  sussistenza  dell'aggravante
privilegiata, sostitui' la custodia cautelare in carcere  con  quella
degli arresti domiciliari (tranne che per la posizione di DA.,P,  A.,
per il quale annullo' l'ordinanza  impugnata  per  insussistenza  dei
gravi indizi di colpevolezza). 
    Successivamente, a seguito di  ricorso  per  cassazione  proposto
dagli imputati  e  dall'ufficio  del  pubblico  ministero,  la  Corte
Suprema, in accoglimento del solo  ricorso  proposto  dalla  pubblica
accusa, annullo' l'ordinanza del tribunale distrettuale limitatamente
alla esclusione dell'aggravante di cui all'art. 7, legge n.  152  del
1991 ed alla inconfigurabilita' del reato di  cui  all'art.  416  ter
c.p. (e per il D A., P., A., per la  ritenuta  esclusione  dei  gravi
indizi di colpevolezza) cosicche' il giudice del rinvio, in  ossequio
ai principi dettati dalla sentenza di  annullamento,  ripristino'  la
custodia carceraria (v. sub 4) in seguito sostituita,  a  sua  volta,
con la misura degli arresti domiciliari con le ordinanze  emesse  dal
Tribunale di Nocera Inferiore e  che,  con  il  presente  gravame, il
pubblico ministero impugna. 
    6. Chiarito che la  presunzione  di  adeguatezza  della  custodia
cautelare in carcere per i reati aggravati dall'art. 7,  della  legge
n.  152  dei  1991  (conv.  in  legge  n.  203  del  1991)  opera,  a
legislazione  «vigente»,  sia  nella  fase  genetica  che  in  quella
funzionale della misura, va ora valutata la  successiva  questione  e
cioe'  se  la  presunzione  assoluta  prevista  in  questi  casi  dal
legislatore  ordinario,  pro   semper   in   itinere   iudicii,   sia
costituzionalmente compatibile o comunque se  lo  sia  la  perdurante
vigenza di  essa  anche  nella  fase  successiva  all'adozione  della
cautela. Va ricordato che il tribunale distrettuale ebbe a dichiarare
la questione manifestamente infondata, in sede di giudizio di rinvio,
equiparando,  senza  alcuna  distinzione,  i  reati  di  mafia  e  di
criminalita' organizzata con quelli comunque commessi con  il  metodo
mafioso  o  con  la  finalita'  dell'agevolazione  mafiosa  anche  se
provvisoriamente attribuiti a soggetti che  non  avessero  (o  per  i
quali  fosse  insussistente  la  «prova  cautelare»   che   avessero)
collegamenti con le associazioni di cui all'art. 416 bis cod, pen. 
    L'autorevolezza e le ragioni poste a fondamento  della  questione
sollevata  dalle  Sezioni  unite,  lo  sviluppo  della   progressione
processuale (nel giudizio di  rinvio  la  valutazione  del  tribunale
distrettuale era perimetrata in relazione alla  fase  genetica  della
misura laddove, in questa sede, rileva la fase esecutiva di  essa)  e
le valutazioni di  merito  operate  dal  giudice  che  ha  emesso  il
provvedimento  impugnato  le  quali,   sebbene   non   spendibili   a
legislazione vigente a causa del  segnalato  sbarramento,  sarebbero,
rimossa la presunzione assoluta di adeguatezza  della  sola  custodia
carceraria, condivisibili con  riferimento  alla  maggior  parte  dei
rapporti  giuridici  incidentali  (esclusi  quelli   riguardanti   le
posizioni di D.A., P., A.,  D.A.,  P.  M.  e  G.,  A.)  impongono  di
sollevare la questione di legittimita' costituzionale in  quanto  non
manifestamente infondata e rilevante nel giudizio a quo. 
    7. In via preliminare, e rinviando  a  quanto  in  seguito  sara'
ulteriormente  precisato,  si   Osserva   come   la   non   manifesta
infondatezza  della  questione  si  possa  desumere   dalla   traccia
disegnata,   in   materia,   dalla   giurisprudenza    costituzionale
soprattutto a seguito alle pronunce n. 265 del  2010  nonche'  numeri
164, 231 e 331 del 2011 e n. 110 del  2012  mentre  la  questione  si
presenta poi rilevante, in relazione alla  concreta  fattispecie,  in
considerazione del fatto che, oltre a quanto  innanzi  precisato  (v.
sub. 6), a carico  degli  appellati  e'  stata  ritenuta  sussistente
l'aggravante prevista dal citato art. 7 del  d.l.  n.  152  del  1991
(conv. in l. 203 del 1991)  e  tenuto  conto  dell'espresso  richiamo
contenuto nell'art. 299 cod. proc. pen., comma  2,  alla  presunzione
stabilita dall'art. 275 cpv. cod. proc. pen. 
    7.1. Originariamente il codice di procedura penale,  in  presenza
di un titolo di reato che consentisse una restrizione della  liberta'
personale, non prevedeva alcun  trattamento  cautelare  differenziato
ne' in fase genetica e ne'  nella  fase  funzionale  (ed.  esecutiva)
della misura cautelare. 
    Delineate  le  condizioni   di   applicabilita'   delle   cautele
personali, ancorate le stesse ad una prognosi di elevata probabilita'
di colpevolezza ed al necessario perseguimento, in  concreto,  di  un
bisogno cautelare (fumus e  pericula  ex  libertate),  delimitato  il
ricorso alla custodia cautelare in carcere alle ipotesi  di  assoluta
necessita', disciplinati i casi concernenti il ruolo  assegnato  alle
fattispecie impeditive, modificative ed estintive  della  limitazione
della liberta' personale, il legislatore  delegato  ritenne  di  aver
fedelmente tradotto la direttiva n. 59, della legge delega  anche  in
conformita' al principio guida secondo cui  il  codice  di  procedura
penale doveva «attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle
norme  delle  convenzioni  internazionali  ratificate  dall'Italia  e
relative ai diritti della persona ed al processo penale». 
    Circoscritto il potere giurisdizionale in  materia  de  libertate
nell'ambito  del  principio  della  discrezionalita'  vincolata,   il
sistema processuale esigeva (ed in regime ordinario ancora esige) che
ogni singola vicenda cautelare  dovesse  essere  monitorata,  sia  al
momento dell'applicazione che nel corso della sua  esecuzione,  sulla
base non di una discrezionalita' libera  del  giudice  ma  attraverso
precisi canoni (cd. «discrezionalita' guidata»)  che  il  legislatore
aveva  fornito  (articoli  273,  274  e  275  cod.  proc.  pen.   con
particolare  riferimento,  quanto  a  tale  ultima  disposizione,  ai
principi di proporzionalita' ed adeguatezza) richiedendo, a  pena  di
nullita' (art. 292 cod. proc. pen.), l'esposizione delle  «specifiche
esigenze cautelari» e degli indizi che giustificano «in concreto»  la
misura, con l'indicazione degli  «elementi  di  fatto»  da  cui  sono
desunti; nonche' l'esposizione delle «concrete e specifiche  ragioni»
che rendono  la  custodia  in  carcere  l'unico  strumento  idoneo  a
soddisfare le esigenze cautelari. 
    Questo regime (ordinario)  e'  stato  -  a  partire  dal  1991  -
progressivamente modificato  da  un  «regime  cautelare  speciale  di
natura eccezionale» (Corte costituzionale sentenza n. 265  del  2010)
che ha escluso (con  le  presunzioni  assolute)  o  ridotto  (con  le
presunzioni relative) la discrezionalita' (pur sempre vincolata)  del
giudice introducendo  criteri  legali  di  valutazione  della  «prova
cautelare» (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.). 
    7.2. Criteri che, quanto alla  tollerabilita'  sistematica  delle
presunzioni assolute incidenti sui diritti della persona, sono  stati
ritenuti   compatibili   con   i   principi   costituzionali   (Corte
costituzionale, ordinanza n. 450 del 1995) sul rilievo che la  scelta
del  tipo  di  misura  (il  quomodo  della   cautela)   non   implica
necessariamente  l'attribuzione  al   giudice   di   un   potere   di
apprezzamento in concreto, potendo detto potere essere oggetto di una
valutazione  in  termini  generali  da  parte  del  legislatore  «nel
rispetto  della  ragionevolezza   della   scelta   e   del   corretto
bilanciamento  dei   valori   costituzionali   coinvolti»,   con   la
conseguenza  che,  perimetrato   l'ambito   di   operativita'   della
presunzione di adeguatezza della custodia  cautelare  in  carcere  ai
delitti di criminalita' organizzata di  stampo  mafioso,  l'esercizio
della discrezionalita' legislativa in proposito  puo'  ritenersi  non
irragionevole   «in   considerazione   dell'elevato    e    specifico
coefficiente di  pericolosita'  per  la  convivenza  e  la  sicurezza
collettiva  inerente  a  tali  reati  (...)  non  potendosi  ritenere
soluzione costituzionalmente obbligata quella di  affidare  sempre  e
comunque  al  giudice  la  determinazione  dell'accennato  punto   di
equilibrio  e  contemperamento  tra  il  sacrificio  della   liberta'
personale  e  gli  antagonisti  interessi  collettivi,  anch'essi  di
rilievo costituzionale». 
    La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (sentenza del  6  novembre
2003  -  ricorso  n.  60851/00),  ritenendo  conforme  la  disciplina
processuale italiana in  materia  di  criminalita'  organizzata  alle
norme convenzionali, ha precisato  come  una  presunzione  legale  di
pericolosita' possa essere giustificata, in  particolare  quando  non
sia assoluta,  ma  si  presti  ad  essere  contraddetta  dalla  prova
contraria. 
    Sulla scia di numerose precedenti pronunce (sentenze n.  139  del
1982, n. 333 del 1991, n. 225 del 2008), la Corte costituzionale, con
la sentenza  n.  139  del  2010,  ha  ribadito  che  «le  presunzioni
assolute,  specie  quando  limitano  un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit.  In   particolare,   e'   stato   posto   in   rilievo   che
l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere  tutte
le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti  reali
contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione  stessa
(sentenza n. 41 del 1999)». 
    7.3.  La  Corte  costituzionale   ha   successivamente   chiarito
(sentenze n. 265 del 2010 nonche' numeri 164, 231 e 331 del 2011 e n.
110 del 2012) come a violare il precetto  di  cui  all'art.  3  Cost.
fosse il carattere assoluto della presunzione,  in  mancanza  di  una
ratio giustificativa del  regime  derogatorio,  ratio  che  e'  stata
ravvisata in rapporto ai delitti di mafia  perche'  «dalla  struttura
stessa della fattispecie e dalle sue  connotazioni  criminologiche  -
legate alla circostanza che l'appartenenza ad  associazioni  di  tipo
mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio  criminoso  di
norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta
rete  di  collegamenti  personali  e  dotato  di  particolare   forza
intimidatrice - deriva, nella generalita'  dei  casi  e  secondo  una
regola  di  esperienza  sufficientemente  condivisa,   una   esigenza
cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in
carcere (non essendo le misure  "minori"  sufficienti  a  troncare  i
rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale  di  appartenenza,
neutralizzandone la pericolosita')», tanto sulla base del presupposto
che il vincolo  associativo  nel  delitto  di  associazione  di  tipo
mafioso  esprime  una  forza  di  intimidazione   e   condizioni   di
assoggettamento e di' omerta', che da quella derivano, per conseguire
determinati fini illeciti essendo «suscettibile di  produrre,  da  un
lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una  rigida
organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un  radicamento
territoriale e, dall'altro, una diffusivita' dei risultati  illeciti,
a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del
sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a  fornire  una
congrua "base statistica" alla presunzione considerata». 
    Data per scontata la indubbia gravita' e riprovevolezza dei fatti
di reato ricompresi nel catalogo di cui all'art. 275, comma  3,  cod.
proc. pen., non va tuttavia trascurato che in taluni casi le esigenze
cautelati pur non potendo essere completamente  escluse  -  sarebbero
suscettibili di trovare idonea risposta anche in  misure  diverse  da
quella  carceraria,  che  valgano   a   neutralizzare   il   "fattore
scatenante" o ad impedirne la riproposizione, almeno con  riferimento
alle fattispecie delittuose la cui «struttura» e le cui «connotazioni
criminologiche» non giustifichino, alla pari di quelle  gia'  oggetto
di declaratoria di incostituzionalita',  una  disciplina  derogatoria
fondata su presunzioni assolute. 
    Alla luce di tali  considerazioni,  la  Corte  costituzionale  ha
quindi ritenuto, sebbene  con  riferimento  alle  norme  oggetto  dei
precedenti scrutini, che la disposizione impugnata (l'art. 275, terzo
comma, cod. proc. pen.) violasse, in parte qua, sia l'art.  3  Cost.,
per  l'ingiustificata  parificazione  dei  procedimenti  relativi  ai
delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia,  nonche'
per l'irrazionale assoggettamento  a  un  medesimo  regime  cautelare
delle diverse ipotesi concrete riconducibili  ai  relativi  paradigmi
punitivi;  sia  l'art,  13,  primo  comma,  Cost.,  quale   referente
fondamentale del regime ordinario delle  misure  cautelari  privative
della liberta' personale; sia,  infine,  l'art.  27,  secondo  comma,
Cost,, in  quanto  attribuiva  alla  coercizione  processuale  tratti
funzionali tipici della pena. 
    Al fine  di  ricondurre  il  sistema  a  sintonia  con  i  valori
costituzionali,  la  Corte  ha  ritenuto  che  non  fosse  necessario
rimuovere integralmente  la  presunzione  de  qua,  ma  solo  il  suo
carattere  assoluto,  che  implicava  una  indiscriminata  e   totale
negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio  necessario»
e cio' in quanto «la previsione di una presunzione solo  relativa  di
adeguatezza  della  custodia  carceraria  -  atta  a  realizzare  una
semplificazione del  procedimento  probatorio  suggerita  da  aspetti
ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile
da elementi di segno contrario - non eccede, per contro, i limiti  di
compatibilita'  costituzionale,  rimanendo   per   tale   verso   non
censurabile   l'apprezzamento   legislativo   circa   la    ordinaria
configurabilita' di esigenze cautelar'nel grado piu' intenso». 
    7.4. Comportando una indubbia  semplificazione  del  procedimento
probatorio,   le   presunzioni,   in   subiecta   materia,   incidono
pesantemente sull'obbligo di motivazione, particolarmente pressante e
costituzionalmente imposto nella materia riguardante  le  limitazioni
della liberta' personale «in senso stretto», con la  differenza  che,
mentre le presunzioni assolute non ammettono la prova  del  contrario
sicche' depotenziano, al massimo  grado  possibile,  l'obbligo  della
motivazione, essendo l'effetto giuridico prodotto direttamente  dalla
legge,  viceversa  le  presunzioni  relative   ammettono   la   prova
contraria, avendo il giudice l'obbligo  di  spiegare,  quantomeno  al
cospetto di allegazioni difensive, le ragioni per le quali  il  fatto
costitutivo  della  restrizione  non  sia  suscettibile   di   essere
modificato o estinto da altri specifici fatti. 
    Da  cio'  consegue  come  sia   costituzionalmente   problematico
tollerare presunzioni assolute soprattutto quando  esse  travalichino
il momento genetico  della  restrizione  e  perdurino,  senza  limiti
temporali, durante la  fase  esecutiva  della  misura  cautelare.  La
giurisprudenza di legittimita' (Cassazione penale sez. un.  31  marzo
2011 n. 27919) ha lucidamente chiarito come l'ordinanza  che  dispone
l'applicazione  di  una  misura  cautelare   sia   atto   istantaneo,
naturalmente destinata a produrre effetti protratti nel tempo, con la
conseguenza  che,  in  relazione  allo   status   indotto   da   tale
provvedimento, non vi e' alcuna fissita',  imponendosi  una  continua
verifica circa il permanere delle condizioni che hanno determinato la
limitazione della liberta' personale e la scelta di  una  determinata
misura cautelare: «la finalita' cui la disciplina con tutta  evidenza
corrisponde  e'  quella  di  assicurare  che  in  ogni   momento   la
restrizione   sia    conforme    ai    principi    di    adeguatezza,
proporzionalita', extrema ratio: qualunque fatto nuovo giustifica una
rinnovata valutazione». 
    Attraverso tali coordinate meglio allora si' comprende  la  ratio
essendi dell'orientamento minoritario, espresso dalla  giurisprudenza
di  legittimita'  e  pienamente   sposato   dalla   motivazione   del
provvedimento  impugnato,  secondo  cui  il   momento   genetico   di
applicazione della misura  cautelare  e  le  vicende  successive  del
titolo dovrebbero essere  autonomamente  considerati  in  riferimento
alla ragione che  giustifica  la  deroga  alla  disciplina  ordinarla
prevista per i procedimenti di mafia. 
    Cio' in quanto la massima di esperienza, secondo cui  il  vincolo
di appartenenza a  un  sodalizio  criminoso  puo'  essere  interrotto
soltanto dalla misura cautelare della custodia  in  carcere,  sarebbe
altamente persuasiva in riferimento al momento applicativo, non cosi'
relativamente al  periodo  successivo,  proprio  perche'  il  vincolo
associativo sarebbe stato nel frattempo contrastato dall'applicazione
della misura con la conseguenza che la parificazione dei due momenti,
ai fini della presunzione legale  di  adeguatezza,  non  risulterebbe
giustificata secondo il criterio della ragionevolezza. 
    7.5. Nella consapevolezza che gli esiti delle recenti pronunce di
costituzionalita'  non  consentono  al  tribunale   distrettuale   di
sottoporre direttamente a scrutinio, come oggetto  del  giudizio,  la
disposizione di cui all'art. 299,  secondo  comma,  cod.  proc.  pen.
limitatamente all'alinea «salvo quanto previsto dall'art. 275,  comma
3», e' invece lecito dubitare - secondo la  traccia  disegnata  dalle
Sezioni unite 19 luglio 2012 n. 34473 e dunque fatta  esclusione  per
coloro che siano seriamente indiziati di legami con le organizzazioni
di tipo mafioso - della  legittimita'  costituzionale  dell'art.  275
c.p.p., comma 3, secondo periodo nella parte in cui -  nel  prevedere
che, quando sussistono gravi indizi  di  colpevolezza  in  ordine  ai
delitti commessi con il metodo mafioso o  al  fine  di  agevolare  le
attivita'  delle  associazioni  previste  dall'art.  416   bis   c.p.
(aggravanti cosi' contestate nel presente procedimento), e' applicata
la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti  elementi
dai quali risulti che non sussistono  esigenze  cautelari  -  non  fa
salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici,
in relazione al caso concreto, dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    A fondamento del giudizio di  non  manifesta  infondatezza  della
questione di costituzionalita', che  qui  si  intende  sollevare  con
riferimento a talune posizioni(P., Q., B., F., S. e D.P.),  militano,
in primo luogo, gli argomenti attraverso i  quali  la  giurisprudenza
costituzionale (sentenze n. 265 del 2010 nonche' numeri  164,  231  e
331  del  2011  e  n.  110  del  2012)  e'  pervenuta  ad   escludere
l'operativita'  della  presunzione  assoluta  di  adeguatezza   della
custodia cautelare in carcere  per  alcune  tipologie  di  reato  con
particolare riferimento a quelle associative rispetto alle  quali,  a
differenza delle associazioni di tipo mafioso, la natura del  vincolo
non e' stata ritenuta tale da giustificare la presunzione assoluta de
qua. 
    In secondo luogo, va considerato  che  «i  delitti  aggravati  ai
sensi del d.l. n. 152 del 1991, art. 7, - avendo,  o  potendo  avere,
una   struttura   individualistica   -potrebbero,   per    le    loro
caratteristiche, non  postulare  necessariamente  esigenze  cautelari
affrontabili esclusivamente con la custodia in  carcere»  (Cassazione
penale Sezioni unite 19 luglio 2012 n. 34473). 
    Sul punto, il  tribunale  distrettuale  ha  gia'  avuto  modo  di
precisare,  nel  presente  procedimento,  come  la  dottrina   e   la
giurisprudenza piu' recente si siano correttamente interrogate, posto
il richiamo nell'art. 7, d.l. n. 152 del 1991 alle condizioni di  cui
all'art. 416 bis  cod.  pen.,  sul  se  l'interpretazione  dei  segni
linguistici contenuti nell'art. 416 bis, comma  3  cod.  pen.,  fosse
pienamente equivalente ai  dati  contenutistici  dell'aggravante  del
metodo mafioso o se, al contrario, non fosse necessaria  una  diversa
configurazione  delle  note  descrittive  dell'associazione   mafiosa
rispetto a quelle formalmente omologhe  proprie  dell'aggravante  del
metodo mafioso e cio' sul condivisibile  presupposto  che  l'elemento
sostitutivo previsto dall'art. 416 bis cod.  pen.  e  la  circostanza
aggravante ex  art.  7  d.l.  n.  152/1991,  enunciando  un  medesimo
disvalore con il ricorso  a  cifre  diverse,  imporrebbero  una  loro
ricostruzione in termini di reciproca autonomia. 
    Ed infatti il metodo mafioso rilevante ai sensi dell'art. 416 bis
cod. pen. altro non e' che la connotazione strutturale di un fenomeno
associativo  complesso,  previsto  dalla  norma  incriminatrice   dal
momento della genesi a quello  del  consolidamento  dell'associazione
mafiosa e tale metodo (ossia quello di  cui  all'art.  416  bis  cod.
pen.)  implica  certamente  un  forte   vincolo   intersoggettivo   e
ampiamente ramificato in ambito territoriale e dunque il  ricorso  ad
un'attivita'  durevole  spiegata  attraverso   i   contenuti   tipici
descritti dalla  fattispecie  incriminatrice  ma  non  esige  che  le
condizioni tipiche  del  sodalizio  mafioso  debbano  necessariamente
tradursi in ogni singolo atto concreto del programma di delinquenza e
cioe'   riproporsi   in   qualsiasi   manifestazione    della    vita
dell'associazione mafiosa. 
    Ed infatti l'avvalersi della forza di intimidazione  del  vincolo
associativo, di cui alla fattispecie circostanziata, si aggancia  per
definizione  alle  modalita'  concrete   di   realizzazione   di   un
circoscritto fatto delittuoso, cui  necessariamente  accede,  con  la
conseguenza che e' nell'attualita' dei singolo episodio criminoso che
vanno  ricercate  le  note  tipiche  che  connotano  la   fattispecie
circostanziata de qua. 
    Integrate le predette condizioni e dunque evocato  il  potenziale
di  intimidazione  corrispondente  alle  note   tipiche   descrittive
dell'aggravante,  non   ha   senso,   in   conformita'   alla   ratio
dell'aggravante, accertare se esita una  associazione  mafiosa  e  se
fautore dei reato aggravato dal  metodo  mafioso  ne  faccia  o  meno
parte, una volta appunto che sia stata realizzata  una  condotta  che
sia inequivocabilmente riconoscibile in termini di sicura  e  precisa
evocazione  del  potenziale  intimidativo  proprio  di  un  sodalizio
mafioso, indipendentemente quindi  dalla  appartenenza  del  soggetto
agente o dalla esistenza stessa dell'associazione mafiosa,  requisiti
non  affatto  richiesti  dalla   legge   come   elementi   costituivi
dell'aggravante. 
    Come e' stato condivisibilmente rimarcato, non e' necessario  che
il  delinquente  faccia  professione,  autentica  o  millantata»,  di
appartenenza  mafiosa,   ma   e'   imprescindibile   che   tenga   il
comportamento minaccioso (anche implicito) idoneo a  richiamare  alla
mente ed alla sensibilita' del soggetto passivo tale attinenza. 
    In   questa   ottica,   peraltro,   si    inquadra    l'indirizzo
giurisprudenziale di legittimita' che, distinguendo  tra  i  versanti
dell'aggravante stessa, ossia distinguendo tra finalita' agevolatrice
e metodo mafioso,  sottolinea  la  necessita'  di  provare,  ai  lini
dell'applicazione dell'aggravante, l'effettiva esistenza,  nel  primo
caso, dell'associazione beneficiaria della finalita' agevolatrice,  a
differenza della  seconda  ipotesi,  relativa  all'utilizzazione  del
metodo mafioso, laddove e' indifferente  che  sia  reale  o  soltanto
supposto il sodalizio la cui forza di intimidazione venga evocata. 
    In questi sensi si e' espressa reiteratamente  la  giurisprudenza
del tribunale quando ha precisato che l'art. 7 d.l. 13  maggio  1991,
n. 152 convertito in I. 12 luglio 1991,  n,  203  ha  introdotto  una
circostanza aggravante ad effetto speciale, per i delitti puniti  con
pena  diversa   dall'ergastolo,   costituita   da   due   fattispecie
circostanziali, una di carattere oggettivo, qualora il  delitto  base
venga commesso «avvalendosi delle condizioni previste  dall'art.  416
Codice penale »  (c.d.  del  metodo  mafioso)  ed  una  di  carattere
soggettivo, qualora il  delitto  base  venga  commesso  al  «fine  di
agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo   stesso
articolo» (c.d. della agevolazione mafiosa), prevedendo, tra l'altro,
in  entrambi  i  casi   un   grave   inasprimento   del   trattamento
sanzionatorio. 
    A tale proposito, la ragione dell'aggravamento  di  pena  risiede
nel  fatto  che,  attraverso  l'adozione  del  metodo  mafioso,   sia
possibile, di regola,  vincere  piu'  facilmente  la  resistenza  del
soggetto passivo del reato. Non e'  quindi  necessario  che  l'agente
faccia  parte  di  un'associazione  di  stampo  mafioso,  potendo  la
circostanza  aggravante  essere  integrata  anche  nei  confronti  di
soggetti che  non  abbiano  alcun  reale  collegamento  con  sodalizi
criminali, purche' la condotta risulti concretamente  collegata  alla
forza intimidatrice del vincolo associativo, in quanto,  come  si  e'
innanzi  precisato,  la   norma   tende,   sul   versante   oggettivo
dell'aggravante, a reprimere efficacemente il metodo mafioso, ossia a
punire piu' gravemente chi faccia uso della carica  di  intimidazione
che da tale metodo promana, mentre, sul versante soggettivo di  essa,
inasprisce il trattamento sanzionatorio per coloro  che,  intranei  o
meno dell'associazione, agevolino con la realizzazione di un  singolo
fatto delittuoso il sodalizio. 
    Ne consegue  che  la  carica  di  intimidazione  o  la  finalita'
agevolativa e' adoperabile anche dal delinquente individuale e  tanto
sull'indubbio presupposto che in  determinate  aree  le  associazioni
mafiose esercitano una vera e propria signoria sul territorio,  ossia
si contraddistinguono per una presenza asfissiante ed  intollerabile,
nota ai cittadini i quali percio' risultano piu'  facilmente  esposti
alle vessazioni ed ai soprusi. 
    La giurisprudenza di legittimita'  ha  convalidato  tale  approdo
avendo precisato che la circostanza aggravante di cui all'art. 7 d.l.
13 maggio 1991, conv. in legge 12  luglio  1991,  n.  203,  qualifica
l'uso del metodo mafioso, fondato sull'esistenza in una data zona  di
associazioni mafiose, anche in riguardo alla condotta di un  soggetto
non appartenente a dette associazioni,  cio'  in  quanto  presupposto
dell'aggravante  non  e'  l'appartenenza  alla  associazione  mafiosa
applicandosi l'aggravante stessa a tutti coloro, partecipi o meno  di
una sodalizio criminoso, la cui condotta  sia  riconducibile  ad  una
delle due forme in cui puo' atteggiarsi e, per i soggetti  partecipi,
opera anche con riferimento ai reati-fine dell'associazione (v. Cass.
sez. I, 20 dicembre 2004 ric. P.G.  in  proc.  Tornasi  e  altri,  RV
230451). 
    Le Sezioni Unite avevano gia' infatti chiarito come  l'aggravante
di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991 fosse applicabile a tutti  coloro
che, in concreto, ne realizzino gli estremi, siano essi partecipi  in
qualche modo al sodalizio mafioso, siano  essi  estranei  (cassazione
penale sez. un. 28 marzo 2001 n. 10). 
    Ad ulteriore conferma della non  necessaria  sovrapposizione  tra
reato di criminalita' organizzata (nella specie reato associativo  ex
art. 416 bis cod. pen.) ed aggravante di cui all'art. 7 d.l.  n.  152
del 1991 va ricordato il principio di diritto espresso dalle  Sezioni
unite (sentenza n. 37501 del 15 luglio 2010)  secondo  cui,  ai  fini
dell'esclusione della sospensione feriale dei termini  stabiliti  per
la fase delle indagini preliminari, prevista per  i  procedimenti  di
criminalita' organizzata, e' ininfluente che il reato  specificamente
contestato al singolo indagato sia eventualmente aggravato  ai  sensi
dell'art. 7  d.l.  n.  152  del  1991,  ma  rileva  soltanto  che  la
contestazione  si  inserisca  nell'ambito  di  un   procedimento   di
criminalita' organizzata, intendendosi per  tale  quello  che  ha  ad
oggetto una  qualsiasi  fattispecie  caratterizzata  da  una  stabile
organizzazione programmaticamente orientata alla commissione di  piu'
reati. 
    In altri  termini  sarebbe  la  particolare  natura  del  vincolo
associativo  (associazioni  di  tipo  mafioso  o  altre   particolari
fattispecie  associative  in  materia   di   terrorismo)   ad   avere
l'attitudine di differenziare i casi per i quali  risulti  possibile,
in via di eccezione, ricorrere a presunzioni assolute  nella  materia
cautelare. 
    Ne  consegue  che  -  siccome,  per  quanto  innanzi  detto,   le
connotazioni criminologiche  e  strutturali  di  un  fatto  di  reato
aggravato  dall'art.  7  d.l.  n.  152  del  1991  possono  differire
notevolmente sotto il profilo dell'offensivita' e della pericolosita'
sociale rispetto alle condotte  poste  in  essere  da  chi  fa  parte
dell'associazione  di  tipo  mafioso  o  rispetto  alle  condotte  di
direzione o di partecipazione ad associazioni di tipo  mafioso  -  la
presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere a
soddisfare  il  bisogno  cautelare  non  poggerebbe  nel  primo  caso
(coincidente peraltro con i fatti di cui al presente procedimento nei
quali il vincolo  associativo  non  risulta  ne'  provato  e  neppure
contestato) su solide basi  razionali  e  su  massime  di  esperienza
generalizzate derivando da cio' un'inammissibile parificazione ed una
ingiustificabile  disciplina  derogatoria  fondata   su   presunzioni
assolute. 
    Va solo aggiunto che le medesime considerazioni valgono anche per
la  diversa  tipologia  dell'aggravante  della   c.d.   «agevolazione
mafiosa» in quanto la presunzione di adeguatezza della  misura  della
custodia  in  carcere  per  un  reato   in   tal   senso   aggravato,
comporterebbe una parificazione tra chi a  dette  associazioni  abbia
aderito e chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso in via
episodica agevolarle, rimanendo  il  proposito  criminoso  del  tutto
estraneo al programma delinquenziale dell'associazione malavitosa. 
    7.6. Alla luce delle considerazioni che la  Corte  costituzionale
ha tracciato con le sentenze n. 265 del 2010 nonche' numeri 164,  231
e 331 del 2011 e n. 110 del 2012, ne consegue, secondo il  tribunale,
la  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di'  legittimita'
costituzionale, violando la norma impugnata (art. 275,  terzo  comma,
cod.  proc.  pen.),  in  parte  qua,  sia   l'art.   3   Cost.,   per
l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi  ai  delitti
aggravati dall'art. 7 d.l. n. 152 del  1991,  contestati  a  chi  non
faccia parte di associazioni di' tipo mafioso, a  quelli  concernenti
il reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. e/o a quelli concernenti i
delitti aggravati dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991  e  contestati  ad
imputati che facciano parte di  tali  associazioni  (cd.  delitti  di
mafia) nonche'  per  t'irrazionale  assoggettamento  ad  un  medesimo
regime cautelare delle  diverse  ipotesi  concrete  riconducibili  ai
paradigmi punitivi considerati; sia l'art. 13,  primo  comma,  Cost.,
quale  referente  fondamentale  del  regime  ordinario  delle  misure
cautelari privative della liberta' personale; sia, infine, l'art. 27,
secondo  comma,  Cost.,  in  quanto  attribuisce   alla   coercizione
processuale tratti funzionati tipici della pena. 
    8. Proprio per le suindicate ragioni, va Osservato come, in punto
di  manifesta  infondatezza  della  questione  di  costituzionalita',
debbano distinguersi, dalle altre, le  posizioni  di  D'A.,  P.,  A.,
D'A., P., M e G.A. 
    Per esse l'appello del pubblico  ministero  deve  essere  accolto
senza la necessita' di dover sollevare la questione  di  legittimita'
costituzionale,  in  quanto,  a  differenza  delle  altre   posizioni
cautelari, e' predicabile nei loro  confronti  la  sussistenza,  allo
stato  degli  atti,  di  seri  e  concreti  elementi  di  legami  con
l'associazione  camorristica  capeggiata,  secondo  l'accusa,   dalla
famiglia D'A., P. 
    Gia' la Corte Suprema di cassazione ebbe a rilevare, tassando  in
parte qua il primitivo provvedimento del tribunale del riesame,  come
non  fosse  inconferente,  per  poter  legittimare   la   sussistenza
dell'aggravante del  metodo  mafioso,  l'esistenza  di  un  sodalizio
camorristico  nel  luogo  di   commissione   del   fatto   addebitato
allorquando i fruitori  dell'attivita'  di  coartazione  fossero  gli
stessi  soggetti  che  dirigevano,  come  nella  specie,  o  comunque
ruotavano nell'orbita del sodalizio camorristico che  alla  luce  del
sole  perseguiva  obiettivi  di   penetrazione   nei   gangli   della
amministrazione locale, sfruttandone economicamente le connivenze. 
    Le successive acquisizioni investigative avevano  poi  ampiamente
corroborato tale approdo facendo emergere come il G., nella  qualita'
di sindaco del comune di Pagani, avesse intessuto  profondi  rapporti
con l'organizzazione camorristica, ricevendone l'appoggio  elettorale
e mettendo a disposizione di essa la cosa pubblica con la promessa di
agevolare l'infiltrazione camorristica in attivita' economiche per la
realizzazione di vantaggi ingiusti. 
    In tal senso sarebbe particolarmente istruttiva la pressione  che
le persone offese hanno  dichiarato  di  avere  subito  nel  presente
procedimento circa le costrizioni ricevute  perche'  concedessero  ad
una cooperativa del D'A., P., M. la gestione dei parcheggi del centro
commerciale «P.». 
    Va ricordato che i suddetti appellati sono imputati di  reati  di
concorso in concussione continuata e, per il G. ed il  D'A.,  P.,  M.
anche del reato art. 416 ter  cod.  pen.  (configurato,  in  base  al
principio di  diritto  espresso  dal  giudice  di  legittimita',  con
riferimento  ad  utilita'  equiparabili  al   denaro   e   non   alla
corresponsione di  somme  di  denaro)  cosi  come  specificati  nelle
ordinanze, note alle parti, del tribunale del riesame che,  a  fronte
di una contestazione cumulativa, opero' una selezione dei fatti per i
quali  ritenne  sussistente  la  gravita'  indiziarla  dapprima   con
esclusione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del  1991  e
successivamente con il suo riconoscimento all'esito del  giudizio  di
rinvio. 
    Nel quale giudizio furono valorizzate le  dichiarazioni  prodotte
dal pubblico ministero rese da P., M., C., P., G., A. e G. 
    V. dichiarazioni  che,  in  quanto  parte  integrane  del  titolo
cautelare sostituito dal  giudice  che  ha  emesso  il  provvedimento
impugnato, devono  ritenersi  pienamente  utilizzabili  nel  giudizio
dell'appello cautelare. 
    8.1. P., M. riferiva sui rapporti tra G., V., capo di  una  cosca
limitrofa, e D'A., P., M., dirigente  dell'associazione  camorristica
paganese, rapporto di vera e propria alleanza, rinsaldato  anche  dal
comparaggio tra gli stessi, circostanza  che  serviva  a  fortificare
anche i legami criminali tra  i  gruppi  che  si  fornivano  appoggio
reciproco. 
    Quanto a sue eventuali conoscenze circa rapporti con  politici  o
pubblici amministratori da parte di G., V. e D'A., P.,  M.,  P.,  M.,
riferiva di aver visto  il  D'A.,  portare  materiale  di  propaganda
elettorale riguardante G., dicendo che quest'ultimo era amico  suo  e
che se avesse vinto le elezioni si aprivano le porte del Comune. 
    Riferiva infine di aver sentito parlare del Centro Commerciale P.
allorche',   conversando   con   altri   appartenenti   ad   ambienti
delinquenziali, tra cui Z. G., figlio di A., apprendeva che  i  D'A.,
P. stavano per prendere  in  mano  anche  il  parcheggio  del  centro
Commerciale. 
    8.2. C., P., riferiva che venivano settimanalmente consegnati  al
D'A.,  P.,  M.,  i  proventi  estorsivi  relativi   alle   estorsioni
perpetrate nella zona di «Barbazzano». 
    Riferiva che D'A., P., A., fratello di  M.,  era  il  vero  capo,
dell'organizzazione  in  quanto  deputato  a  governare  il   braccio
militare  del  gruppo  mentre  D'A.,  P.,  M.,  oltre  a  curare   la
riscossione  delle  estorsioni  in  «Barbazzano»,   trattava   grossi
quantitativi di  stupefacenti  e  gestiva  tutti  i  rapporti  con  i
colletti  bianchi,   preoccupandosi   di   dare   un   volto   pulito
all'organizzazione e riuscendo ad acquisire  di  fatto  il  controllo
della M., dei parcheggi e di altre attivita' quali  la  raccolta  dei
rifiuti. 
    I  rapporti  di  D'A.,  P.,  M.  con  persone  non   appartenenti
all'organizzazione erano incentrati, secondo  il  dichiarante,  sullo
scambio di piaceri tant'e' che, nel periodo della  prima  elezione  a
Sindaco   di   A.,   G.,   M.,   D'A.,   P.   contatto'    il    capo
dell'organizzazione, cui era incardinato il dichiarante, C., F., capo
zona del Bronx,  il  quale  dopo  una  breve  riunione  convoco'  gli
associati dicendo loro che, per espressa disposizione  di  A.  e  M.,
D'A., P., dovevano trovare il maggior numero di voti per il G. 
    Riferiva che tutto  il  territorio  (cd.«Bronx»),  fu  tappezzato
notte e giorno di manifesti elettorali del G., con una  mobilitazione
generale del gruppo tant'e' che in quel periodo dovettero organizzare
feste ed incontri con il  G.  Il  quale  si  mise  realmente  a  loro
disposizione, fornendo denaro e  posti  di  lavoro.  Ed  infatti,  in
diverse occasioni, il dichiarante ricevette denaro dal  G.  (50  euro
per volta) quale riconoscimento del suo particolare attivismo  tra  i
membri del clan A., G., fu  garantita  totale  protezione  nel  corso
della campagna elettorale nel Bronx ed in particolare tale protezione
fu garantita dalla presenza costante di M., D'A., P.  Il  G.,  veniva
condotto dalle singole famiglie alle quali il G.  regalava  somme  di
denaro che variavano a  seconda  della  composizione  della  famiglia
stessa ed in base ad i voti che queste avrebbero espresso. 
    8.3. G., A., precisava che D'A, P., A., si occupava  del  livello
direttivo  dell'organizzazione,  mentre  M.,  D'A.,  P.,  gestiva  le
cooperative dei parcheggi e  manteneva  i  contatti  con  i  politici
dedicandosi alla gestione del Bacino SA\1 di Pagani. Riferiva che nel
corso di una competizione elettorale  comunale  D'A.,  P.,  M.  aveva
sostenuto il G., con l'intesa che lo avrebbe  appoggiato  anche  alle
elezioni regionali. 
    Ricordava che in una circostanza si reco' ad una cena  assieme  a
M., D'A., P.  e  a  tale  V.,  S.,  consigliere  di  Sant'Egidio  del
Montealbino. In siffatta occasione si parlo' dei parcheggi  in  corso
di  realizzazione  nel  comune  di  Sant'Egidio  dove  si   intendeva
effettuare un'operazione simile a quella  gia'  fatta  a  Pagani.  La
gestione dei  parcheggi  a  Sant'Egidio  doveva  essere  concessa  al
dichiarante che l'avrebbe gestita  avvalendosi  della  ditta  facente
capo a M., D'A., P., il quale era solito incontrare persone presso il
Montalbino, un bar - pasticceria, luogo ove il dichiarante noto',  in
una occasione, il sindaco G., con due persone che in  genere  usavano
accompagnarlo. 
    8.4. G., V., elemento apicale di  un'organizzazione  camorristica
operante  in  Sant'Egidio  Montalbino  e  dedita  in  particolare  al
traffico degli stupefacenti, precisava i rapporti intercorsi  tra  la
sua organizzazione e quella paganese (...«con loro eravamo  una  cosa
sola»), territorialmente limitrofa alla sua, facente capo al clan F.,
D'A. 
    Del  quale  clan  il  dichiarante  tributava  l'esistenza  e   la
perdurante  operativita'  anche  dopo  le  vicende,  dal  dichiarante
(almeno allo stato) sommariamente accennate, della  scarcerazione  di
F., T. e dei contrasti tra il clan D'A.,  P.,  F.,  ed  il  clan  C.,
specificando  che   l'organizzazione   paganese   si   riforniva   di
stupefacenti dalla sua associazione  mentre  le  attivita'  estorsive
venivano condotte e pianificate, anche in  collegamento  con  il  suo
clan, dall'organizzazione paganese diretta in  particolare  da  D'A.,
P., A., che aveva rinsaldato i legami con i F., avendo sposato F., R. 
    Stretto un legame di comparaggio tra suo figlio A.  e  D'A.,  P.,
M., riferiva che i D'A., P. gli avevano chiesto,  in  due  occasioni,
voti per l'elezione del G. Una prima  volta,  nonostante  il  profuso
impegno nel procacciare voti, non erano giunti in cambio favori  alla
sua organizzazione. 
    Quando, la seconda volta, M., D'A., P. gli chiese  nuovamente  di
sostenere la candidatura di G., disse che «le  cose  erano  cambiate»
sicche' il G. si impegno' con il suo gruppo a procacciare  i  voti  e
chiese  al  D'A.,  M.  un  posto  per  il  figlio   A.,   posto   che
effettivamente ottenne (circostanza, questa, confermata da  G.,  A.),
Per la campagna elettorale a favore del il  dichiarante  riferiva  di
essersi attivamente adoperato in  piu'  direzioni,  sia  procacciando
voti tra i suoi parenti e sia tra  altre  persone  collegate  al  suo
gruppo. Per convincere le persone a votare per il  G.,  rappresentava
loro tutte le potenzialita' che, in termini di lavoro,  cio'  avrebbe
rappresentato, ossia sapeva del parcheggi che  si  dovevano  gestire,
dei capannoni che si dovevano realizzare ed  altro.  Nell'ambito  dei
suoi rapporti con M., D'A.,  F.,  si  stabili'  che  tutto  cio'  che
riguardasse il collegamento con la Pubblica  Amministrazione  sarebbe
stato gestito dal D'A. 
    Sapeva anche che nel periodo delle elezioni, G., nella zona  cosi
detta del Bronx di Pagani, ebbe a tenere piu' riunioni con persone di
quella zona. Era a conoscenza di cio' in quanto  M.,  D'A.,  P.,  gli
chiedeva di mandargli  dei  giovani  perche'  partecipassero  a  tali
riunioni. La presenza dei suoi ragazzi aveva una duplice funzione, in
quanto da un lato serviva ad  incrementare  il  pubblico  presente  e
dall'altro a mostrare il livello di sostegno a favore del G. 
    Quanto al Centro Commerciale di Pagani, cui  era  interessato  il
gruppo D'A., P., seppe dal figlio A., che  i  D'A.,  P.,  si  stavano
occupando del parcheggio del Centro Commerciale e di altro. 
    8.5. I suindicati elementi (da sub 8 a sub 8.4) depongono  dunque
per la sussistenza di profondi legami tra il G. i ed i D'A., indicati
come  esponenti  apicali  dell'omonimo  clan,  e  pertanto  nei  loro
confronti deve  ritenersi  sussistente  la  presunzione  assoluta  di
adeguatezza della custodia cautelare In carcere e  tanto  sulla  base
del principio di diritto recentemente affermato dalle  sezioni  unite
19 luglio 2012 n. 34473 e 34474  per  il  quale  «la  presunzione  di
adeguatezza della custodia in carcere ex art, 275  cod.  proc.  pen.,
comma 3, opera non solo in occasione dell'adozione del  provvedimento
genetico della misura coercitiva ma anche  nelle  vicende  successive
che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari». 
    Ne consegue che, sul punto, la doglianza mossa dall'appellante al
provvedimento  impugnato  e'  fondata  perche',  in  costanza  di  un
criterio  di  valutazione  legale  circa  l'adeguatezza  della   sola
custodia in carcere sia in fase genetica che nella fase esecutiva del
vincolo cautelare, il primo giudice non poteva, indipendentemente  da
ogni  valutazione  sull'adeguatezza  o   meno   della   misura   meno
afflittiva, sostituire la custodia cautelare in  carcere  con  quella
degli arresti domiciliari sicche' il provvedimento  impugnato  va  in
parte  qua  riformato,  come  da  pedissequo  dispositivo,  salva  la
sospensione dell'esecuzione della presente  ordinanza  ai  sensi  del
terzo comma, dell'art. 310 cod. proc. pen. 
    9. Quanto invece alla rilevanza della questione per  le  restanti
posizioni, osserva preliminarmente il  Collegio  come  nei  confronti
degli  altri  imputati  non  vi  siano  seri  e  concreti  indizi  di
appartenenza ad associazioni camorristiche: per nessuno di loro,  per
quanto consta,  risulta  condanna  o  risultano  acquisiti  atti  nel
presente o in  altro  procedimento  dai  quali  si  possano  desumere
elementi rilevanti  dimostrativi  di  un  legame  con  l'associazione
camorristica di riferimento. 
    Per  alcuni  di  essi,  peraltro,  le  vicende  cautelari   (come
cristallizzate nei titoli cautelari definitivi:  ordinanze  tribunale
del riesame dell'agosto 2011 e del  gennaio  2012)  sono  limitate  a
singoli fatti o a fatti cronologicamente distanziati; nessuno di loro
(ad eccezione del F. del  quale  riferisce  il  solo  G.,  A.,  senza
tuttavia riscontro alcuno sull'accennato collegamento  criminale)  e'
attinto dalle dichiarazioni in precedenza evidenziate. 
    Ne consegue che per le suddette ragioni, ed al  fine  di  evitare
una inammissibile assimilazione  tra  posizioni  processuali  diverse
essendo differente la rispettiva pericolosita' sociale,  deve  essere
sollevata  la  questione   di   legittimita'   costituzionale.   Cio'
precisato, l'appello cautelare del pubblico ministero dovrebbe essere
accolto  dal  tribunale  distrettuale  sul  rilievo  che,  a  diritto
vigente, la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in
carcere per i suddetti reati, in quanto aggravati ai sensi  del  d.l.
n. 152 del 1991, art. 7, deve ritenersi operante,  senza  distinzione
alcuna, sia con riferimento dell'adozione del provvedimento  genetico
della misura coercitiva e sia anche con riferimento  alle  successive
vicende del titolo. 
    Nondimeno, come in precedenza anticipato  (sub  1.1.),  il  primo
giudice motivo' nel  senso  che  lo  stato  di  incensuratezza  della
maggior parte degli imputati, i risalenti precedenti penali a  carico
di quelli non incensurati (nel caso di specie, F.),  il  decorso  non
trascurabile di un periodo di detenzione complessivamente sofferto da
ognuno di loro con funzione di detenente con particolare  riferimento
agli imputati incensurati (nel caso di specie, B., D.,  P.,  Q.,  S.,
P., E.), la  mancata  violazione  delle  prescrizioni  connesse  agli
arresti  domiciliari  cui  gli   imputati   furono   sottoposti,   lo
scioglimento  del  comune  di  Pagani   costituissero,   nella   loro
globalita',  elementi  che,  pur  insuscettibili  di   escludere   la
sussistenza delle esigenze cautelari,  consentissero  che  le  stesse
fossero passibili di protezione  con  la  concessione  degli  arresti
domiciliari. 
    Tali  aspetti,  rilevanti  ai  fini  del  trattamento   cautelare
soprattutto in considerazione del fatto che gli  arresti  domiciliari
sono apparsi in concreto adeguati alla  salvaguardia  delle  esigenze
cautelari, non  possono  essere  valutati  dal  giudice  dell'appello
cautelare qualora  non  venga  rimossa  la  presunzione  assoluta  di
adeguatezza della custodia cautelare in  carcere  prevista  dall'art.
275, comma 3, cod. proc. pen. 
    Peraltro - avuto riguardo al principio  limitatamente  devolutivo
che regola, con gli opportuni temperamenti, anche l'appello cautelare
- va  segnalato  come  non  faccia  neppure  parte  del  devoluto  la
questione circa l'adeguatezza o  meno  degli  arresti  domiciliari  a
salvaguardare i pericula libertatis, essendosi il pubblico  ministero
esclusivamente  doluto  della  violazione  di   legge   inerente   al
superamento della presunzione assoluta de  qua.  Ne  deriva  che,  se
rimossa la detta  presunzione,  il  gravame  andrebbe  rigettato  per
assenza di doglianza specifica sul punto. 
    10. Sulla base delle precedenti considerazioni, deve  dichiararsi
- con riferimento alle posizioni degli appellati P., E., G., D.,  P.,
G., S., G., F., A., Q., M. e B., G., rilevante e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art.  275,
comma 3, secondo periodo, c.p.p., nella parte in cui - nel  prevedere
che, quando sussistono gravi indizi  di  colpevolezza  in  ordine  ai
delitti commessi con il metodo mafioso o  al  fine  di  agevolare  le
attivita' delle associazioni previste dall'art. 416  bis  cod.  pen.,
contestati a chi non faccia parte di associazioni di tipo mafioso, e'
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari  non
fa  salva,  altresi',  l'ipotesi  in  cui  siano  acquisiti  elementi
specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti  che  le
esigenze cautelar'possono essere soddisfatte con  altre  misure;  non
manifesta infondatezza ravvisabile in relazione ai seguenti  articoli
della   Costituzione:   l'art.   3   Cost.,   per    l'ingiustificata
parificazione  dei  procedimenti  relativi   ai   delitti   aggravati
dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, contestati a chi non  faccia  parte
di associazioni di tipo mafioso, a quelli concernenti il reato di cui
all'art. 416 bis  cod.  pen.  e/o  a  quelli  concernenti  i  delitti
aggravati dall''art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e contestati ad  imputati
che facciano parte  di  tali  associazioni  (cd.  delitti  di  mafia)
nonche' per  l'irrazionale  assoggettamento  ad  un  medesimo  regime
cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili  ai  paradigmi
punitivi considerati;  sia  l'art.  13,  primo  comma,  Cost.,  quale
referente   fondamentale   del   regime   ordinario   delle    misure
cautelar'privative della liberta' personale; sia, infine, l'art.  27,
secondo  comma,  Cost.,  in  quanto  attribuisce   alla   coercizione
processuale tratti funzionati tipici della pena. 
    In base all'art. 23, legge 11 marzo 1953, n.  87  va  dichiarata,
limitatamente  alle   descritte   posizioni,   la   sospensione   del
procedimento e va disposta l'immediata trasmissione degli  atti  alla
Corte costituzionale, ferma restando la misura cautelare in atto. 
    Incarica la Cancelleria  di  provvedere  alla  separazione  delle
regiudicande cautelari relative alle posizioni di D'A., P., D'A., P.,
M. e G., A., rispetto a quelle relative a P., E., G., D., P., G., S.,
G., F., A., Q., M. e B., G. 
    Incarica altresi' la Cancelleria di  provvedere,  quanto  a  tali
ultime posizioni, alla notifica di  copia  della  presente  ordinanza
alle parti in causa e al Presidente del  Consiglio  dei  Ministri  ed
alla comunicazione della stessa ai Presidenti delle  due  Camere  del
Parlamento. 
 
                             P.  Q.  M. 
 
    Letti gli artt. 127 - 128 - 310 cod.  proc.  pen.,  23  legge  11
marzo 1953, n. 87 cosi provvede: 
        a) accoglie, per quanto di ragione,  l'appello  proposto  dal
pubblico ministero avverso  le  ordinanze  emesse  dal  Tribunale  di
Nocera Inferiore rispettivamente in data 30 marzo 2012 ed in data  11
luglio 2012, limitatamente alle posizioni di D'A., P., A.,  D'A.  P.,
M., G., A.,  disponendo  nei  loro  confronti,  in  parziale  riforma
dell'impugnato provvedimento, la custodia cautelare in carcere; 
    ordina agli ufficiali e agli agenti della polizia giudiziaria  di
condurre D'A., P., A., D'A., P., M., e G.,  A.,  in  un  istituto  di
custodia con le modalita' dettate dall'art. 285, comma 2, cod.  proc.
pen., per ivi  rimanere  a  disposizione  dell'autorita'  giudiziaria
procedente; 
        dichiara sospesa la  esecuzione  del  presente  provvedimento
lino a quando la decisione non sia divenuta  definitiva  per  decorso
del termine di impugnazione senza che sia stato proposto ricorso  per
cessazione o, se proposto,  sino  alla  comunicazione  dell'eventuale
rigetto di esso; 
        incarica la Cancelleria di provvedere alla separazione  delle
regiudicande cautelari relative alle posizioni di D'A., P., A., D'A.,
P., M. e G., A., nonche' di provvedere alle comunicazioni di rito; 
        b) dichiara - nei confronti di P., E., G., D.,  P.,  G.,  S.,
G., F., A., Q.,  M.  e  B.,  G.  -  rilevante  e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  275
cod. proc. pen., terzo comma, secondo periodo, in relazione  al  d.l.
n. 152 del 1991, art. 7, (convertito dalla legge n. 203 del 1991), in
riferimento all'art. 3 Cost., art. 13, primo comma, Cost„ e art.  27,
secondo comma, Cost.; 
        sospende il giudizio in corso nel loro  confronti  e  dispone
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 
        ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti in
causa  nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  del  Ministri  e  sia
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
    Manda alla Cancelleria per i conseguenti adempimenti. 
      Cosi' deciso in Salerno a scioglimento  della  riserva  assunta
all'esito della camera di consiglio del 3 ottobre 2012. 
 
                 Il Presidente estensore: Di Nicola