N. 178 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 febbraio 2013
Ordinanza del 21 febbraio 2013 emessa dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio sul ricorso proposto da Ibba Giuseppe contro il Ministero della giustizia. Impiego pubblico - Sanzioni disciplinari nei confronti del personale del Corpo di polizia penitenziaria - Procedimento disciplinare per destituzione a seguito di processo penale - Previsione, in caso di proscioglimento dell'imputato per prescrizione, della decorrenza del termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento disciplinare, in assenza di notifica, dalla data di pubblicazione della sentenza, anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne ha avuto notizia - Violazione del principio di uguaglianza per l'identico trattamento, ai fini del computo del termine per l'avvio o la ripresa del procedimento disciplinare, di fattispecie diverse - Incidenza sui principi di imparzialita' e buon andamento della pubblica amministrazione. - Decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449, art. 7, comma 6. - Costituzione, artt. 3 e 97.(GU n.35 del 28-8-2013 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 3797 del 2008, proposto da: Ibba Giuseppe, rappresentato e difeso dall'avv. Davide Capitani, con domicilio eletto presso Danilo Siliquini in Roma, via Nicola Ricciotti, 9; Contro Ministero della Giustizia, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; Ministero Giustizia -Dipartimento Amm.ne Penitenziaria; Per l'annullamento del decreto dap n. 0203748 del 2007, con cui e' stata inflitta al ricorrente la sanzione disciplinare della destituzione. Visti il ricorso e i relativi allegati; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 gennaio 2013 il dott. Marco Bignami e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; 1. Con ricorso notificato il 25 marzo 2008 e depositato il successivo 23 aprile il ricorrente ha impugnato il provvedimento, notificatogli il 23 gennaio 2008, con cui gli e' stata inflitta la sanzione disciplinare della destituzione dal corpo di polizia penitenziaria, cui apparteneva. Tale atto e' stato adottato a seguito dell'instaurazione di procedimento penale a carico del ricorrente, per avere egli truffato l'amministrazione, falsificando due certificati medici al fine di porsi indebitamente in malattia ed assentarsi dal servizio. In primo grado, il Tribunale di Roma ha pronunciato condanna, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, alla pena di sei mesi e quindici giorni di reclusione e 250,00 euro di multa, per il delitto di cui all'art. 640, comma 2, n. 1) cod. pen. Successivamente, il ricorrente e' stato prosciolto con sentenza della Corte di appello di Roma n. 8588 del 2005, che ha stabilito di non doversi procedere a causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Quest'ultima sentenza e' stata deposita in cancelleria il 13 dicembre 2005 ed e' divenuta irrevocabile il 28 gennaio 2006. L'amministrazione penitenziaria ne e' stata portata a conoscenza dall'ufficio giudiziario solo il 14 luglio 2006, ed ha avviato di conseguenza il procedimento disciplinare il successivo 28 luglio. Con un preliminare ed assorbente motivo di ricorso, l'atto impugnato viene denunciato per violazione del termine indicato dall'art. 7, comma 6, del d.lgs. 30 ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395), secondo il quale «quando da un procedimento penale comunque definito emergono fatti e circostanze che rendano l'appartenente al Corpo di polizia penitenziaria passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all'Amministrazione». E' pacifico che si tratti della disposizione normativa applicabile in causa, in quanto diretta, con carattere di specialita', a definire il rapporto tra sentenza penale di proscioglimento e giudizio disciplinare, nei confronti degli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria (privo di rilievo in causa, e ai fini della questione che viene proposta con la presente ordinanza, e' invece se tale norma si applichi anche alle sentenze di condanna per cause diverse da quelle indicate dall'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 449 del 1992, ovvero se, esclusivamente per tali ipotesi, trovi invece spazio la disciplina generale recata dalla legge 27 marzo 2001, n. 97: per l'analogo caso concernente la polizia di Stato, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. , n. 10 del 2006; Cons. Stato, sez. VI, n. 2112 del 2009). Ove il termine per avviare l'azione disciplinare decorresse dal 13 dicembre 2005, data di deposito della sentenza di proscioglimento (ma la medesima conclusione, aggiunge il ricorrente, andrebbe tratta facendo riferimento alla data di passaggio in giudicato), l'amministrazione sarebbe incorsa in violazione di legge, giacche', come viene enunciato nello stesso atto impugnato, il procedimento disciplinare ha avuto inizio oltre il termine perentorio di 120 giorni da tale data, ovvero, come si e' visto, solo a partire dal 28 luglio 2006 (non risulta che la sentenza sia stata notificata antecedentemente all'amministrazione, sicche' non ha rilievo in causa il termine breve di 40 giorni previsto in tal caso dalla legge). In fase cautelare, questo Tribunale ha sospeso l'atto impugnato per tale vizio, con ordinanza, tuttavia, riformata in sede di appello dal Consiglio di Stato. La causa e' stata trattenuta in decisione all'esito dell'udienza pubblica del 24 gennaio 2013. 2. Il Tribunale, ritenuta la propria giurisdizione e competenza (ex art. 133, comma 1, lett. i, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, atteso che gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, equiparati alle forze di polizia di Stato, costituiscono personale in regime di diritto pubblico, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), stima, anzitutto, infondata l'eccezione di irricevibilita' della domanda per tardivita', avanzata dall'Avvocatura dello Stato: il sessantesimo giorno utile per proporre ricorso cadeva domenica 23 marzo 2008, giorno di Pasqua, sicche', essendo festivo anche il seguente 24 marzo, la notifica e' tempestivamente stata eseguita martedi' 25 marzo, primo giorno non festivo. In secondo luogo, appaiono prive di fondamento giuridico le censure svolte in ricorso, per profili diversi dalla violazione del termine concesso per iniziare il procedimento disciplinare. Dirimente ai fini della decisione e' percio' la doglianza, sopra esposta, relativa alla violazione dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992. Con riferimento a quest'ultima disposizione normativa, il Tribunale dubita della legittimita' costituzionale della norma, nella parte in cui essa, limitatamente al caso in cui l'imputato sia stato prosciolto a seguito di estinzione del reato per prescrizione, fa decorrere il termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento disciplinare dalla data di pubblicazione della sentenza penale, anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne abbia avuto notizia. La questione e' rilevante: ove essa fosse accolta, il procedimento disciplinare avrebbe avuto inizio nel rispetto del termine stabilito, poiche', come si e' anticipato, e' pacifico in causa che l'amministrazione abbia avuto conoscenza della sentenza della Corte di appello di Roma il 14 luglio 2006, e si sia attivata il successivo 28 luglio. Ne segue che il ricorso di cui al processo principale dovrebbe essere rigettato. Viceversa, esso andrebbe accolto, qualora la Corte ritenesse non fondata la questione di legittimita' costituzionale. Sotto tale profilo, infatti, il Tribunale esclude di poter addivenire ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma oggetto. Diversamente che nell'ipotesi di sentenza penale irrevocabile di condanna per taluni reati, regolata dall'art. 6 del d.lgs. n. 449 del 1992, il dies a quo del termine di 120 giorni per avviare il procedimento disciplinare, ove quello penale sia stato definito altrimenti (e, quindi, anche per il caso di estinzione del reato), viene fatto espressamente decorrere dall'art. 7; comma 6, impugnato non dalla data in cui l'amministrazione abbia avuto conoscenza della pronuncia penale, ma dalla data di pubblicazione di essa. Il Tribunale da' atto che parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. VI, n. 6521 del 2008; id n. 4495 del 2006), formatasi sulla norma, del tutto analoga, espressa per le forze di polizia dall'art. 9, comma 6, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 ha concluso nel senso che il termine per iniziare l'azione disciplinare decorre, anche al di fuori dei casi di sentenza di condanna, dalla conoscenza che l'amministrazione abbia avuto della pronuncia penale. Tuttavia, ai fini della motivazione sulla rilevanza della presente questione di legittimita' costituzionale, e' sufficiente osservare, anzitutto, che un simile orientamento non costituisce diritto vivente (in senso contrario, ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, n. 1894 del 2011; id. n. 3426 del 2006). In secondo luogo, che esso appare sbarrato dal chiaro ed univoco senso letterale della disposizione impugnata, a fronte del quale cede il potere del giudice comune di adeguare il tessuto normativo primario alla Costituzione, e vi subentra l'esercizio della giurisdizione costituzionale (Corte cost., sentenza n. 219 del 2008; id. n. 1 del 2013, punto 8.1 del Considerato in diritto). Del resto, che l'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992 non possa che venire interpretato nel senso qui denunciato viene confermato dal fatto che esso si inserisce in una tendenza normativa piu' ampia. Ed essa, in particolare, e' intesa a distinguere il dies a quo per la decorrenza del termine utile ai fini dell'esercizio dell'azione disciplinare, a seguito di pronuncia del giudice penale, a seconda che quest'ultima sia di condanna, ovvero di proscioglimento. Con riguardo alla sentenza di condanna, infatti, l'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 ebbe cura di precisare che detta decorrenza coincide con la data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della pronuncia, per i casi in cui in sede disciplinare si infligga la destituzione. In seguito, l'art. 5, comma 4, della legge 27 marzo 2001, n. 97 formulo' analoga previsione, con riferimento alla data di comunicazione della sentenza di condanna all'amministrazione. Diversamente, l'art. 97, comma 3, del d.P.R. n. 3 del 1957 ha enunciato la regola opposta, e ribadita dalla norma impugnata, in presenza di una sentenza definitiva di proscioglimento. Decisivo, in tale prospettiva, e' infine che simile regola non solo non sia stata adeguata in via interpretativa dalla Corte costituzionale, ma che essa sia stata invece giudicata conforme agli artt. 3 e 97 Cost. con la sentenza n. 264 del 1990, ove si e' ritenuto non irragionevole che il legislatore, per le ipotesi di proscioglimento penale del pubblico dipendente, subordinasse la correlata azione disciplinare ad un termine dalla decorrenza certa, costituito dalla data di irrevocabilita' della sentenza penale, e non dalla data di conoscenza di essa da parte dell'amministrazione. La opposta conclusione cui la Corte costituzionale e' giunta con la sentenza n. 184 del 2004 (di cui meglio si dira' in seguito) non si estende direttamente, ed in assenza di un nuovo intervento della Corte, al caso di specie, poiche' concerne l'ipotesi, disciplinata per una fase transitoria dall'art. 10, comma 3, della legge n. 97 del 2001, in cui il pubblico dipendente sia stato condannato in sede penale: essa, semmai, vale a ribadire che il legislatore continua a distinguere, per il profilo che qui rileva, pronunce penali di condanna da un lato, e di proscioglimento dall'altro. 3. La questione e' non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione. Come e' appena emerso, il giudice delle leggi e' gia' intervenuto su previsione normativa analoga alla norma impugnata, affermando che, in caso di pronuncia di proscioglimento e nel bilanciamento tra l'interesse dell'amministrazione ad esercitare l'azione disciplinare e quello del pubblico dipendente a «vedere definita la sua posizione, non puo' ritenersi irragionevole che il legislatore abbia privilegiato il secondo» (sentenza n. 264 del 1990). Tale decisione si inserisce in una linea propria della giurisprudenza costituzionale, volta a valorizzare, anche a garanzia del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, l'interesse del pubblico dipendente a non essere sottoposto senza certi.e definiti limiti temporali all'azione disciplinare (sentenza n. 1128 del 1988), fino a postulare un corrispondente «diritto alla decisione» (sentenza n. 104 del 1991; in seguito, sentenza n. 375 del 2000). Il Tribunale non ritiene di proporre argomenti in senso contrario, ma si limita a rilevare che, fino ad oggi, la Corte non ha avuto modo di pronunciarsi sull'esito del bilanciamento operato dal legislatore nel peculiare caso di specie, indotto da una sentenza penale che accerta l'estinzione del reato, a causa della prescrizione. In altri termini: la sentenza n. 264 del 1990, che e' l'obbligato punto di riferimento per apprezzare la non manifesta infondatezza dell'odierna questione, non pote' che valutare la legittimita' costituzionale dell'art. 97, comma 3, del D.P.R. n. 3 del 1957 con riguardo all'ampio genus delle sentenze di proscioglimento, poiche' in tali termini la questione era stata proposta dal giudice rimettente (benche' anche in quel caso il dubbio fosse stato originato da una pronuncia di non doversi procedere per estinzione del reato dovuta a prescrizione, la norma venne infatti impugnata nella sua interezza). La risposta della Corte, dunque, inevitabilmente fu calibrata in accordo con la generale questione proposta, senza che si potesse introdurre alcun distinguo, a seconda della natura particolare che il proscioglimento puo' assumere nel nostro ordinamento. Come e' noto, infatti, nell'ambito di tale categoria coesistono (artt. 529; 530; 531 cod. proc. pen. ) pronunce di natura assai diversa, tra le quali una posizione del tutto peculiare rivestono quelle conseguenti a prescrizione. I profili su cui il Tribunale ritiene di doversi soffermare, a tale proposito, sono due. Anzitutto, e' ben possibile che l'estinzione del reato sia dichiarata a seguito della concessione all'imputato di un attenuante, per effetto della quale il termine prescrizionale viene a ridursi. Con riguardo a tale evenienza, la giurisprudenza di legittimita' ha affermato che «nell'ipotesi (...) che alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione si giunga attraverso la concessione di circostanze attenuanti (e il relativo giudizio di prevalenza sulle eventuali circostanze aggravanti), la sentenza di proscioglimento dovra' contenere, in motivazione, l'accertamento incidentale della responsabilita' penale, quale passaggio logico pregiudiziale al riconoscimento delle attenuanti medesime» (Cass. pen. , sez. VI, n. 12048 del 5 ottobre 2000). Vi e', percio', un'ipotesi in cui al formale proscioglimento e' sotteso un pieno accertamento della penale responsabilita', con riguardo a fatti che sono poi suscettibili di assumere rilievo nell'ambito del procedimento disciplinare. In secondo luogo, e' altresi' possibile che l'azione civile di danno sia stata esperita nel giudizio penale, e che, dopo la condanna di primo grado, sopraggiunga la prescrizione: anche in tale caso, l'art. 578 cod. proc. pen. esige che il giudice penale, nel dichiarare la prescrizione, ugualmente decida sul capo civile della sentenza di primo grado. Anche per tale ipotesi, la pronuncia del giudice penale richiede un accertamento sulla responsabilita', che non puo' prescindere perlomeno dalla sussistenza del fatto e dalla attribuzione di esso all'imputato, sia pure secondo criteri di natura civilistica (Cass. pen. , sez. V, n. 42135 del 2011). Si aggiunga che tutte le sentenze penali che rilevano la prescrizione hanno dovuto escludere l'evidenza di una causa di assoluzione dell'imputato (art. 129, comma 2, cod. proc. pen. ), e che esse, come nel caso di specie, ben possono sopraggiungere all'esito di una pronuncia di condanna di primo grado, recante un compiuto accertamento della penale responsabilita' del pubblico dipendente. Anche senza arrivare a quanto affermato dall'Ad. Plen. Cons. Stato, n. 10 del 2006, in ordine alla «agevole assimilazione» tra sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato dovuta a prescrizione e sentenza cd. di patteggiamento (in termini, punto 2 del diritto analogamente, Cons. Stato, sez. IV, a 5672 del 2012), ugualmente ve ne e' per dubitare che il legislatore, ai fini dell'avvio del procedimento disciplinare sui medesimi fatti, possa accomunare sotto la stessa regola la pronuncia conseguente a prescrizione con la pronuncia di assoluzione, essendo invece la legge tenuta ad assimilare cio' che e' uguale e a separare cio' che e' diseguale. Non si discute che entrambe tali pronunce appartengano, nell'ambito dell'ordinamento penale, al genus delle sentenze di proscioglimento; ma, ai fini della risoluzione dell'attuale dubbio di legittimita' costituzionale, cio' che assume rilievo prioritario non e' quest'ultimo punto di vista, ma, piuttosto, il rapporto che puo' legare il contenuto di accertamento della sentenza penale al conseguente procedimento disciplinare. Benche', ai sensi dell'art. 653 cod. proc. pen. , l'efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare competa alle sole sentenze irrevocabili di assoluzione e di condanna, ugualmente non e' dubitabile che i fatti comunque accertati dal giudice penale con una sentenza di proscioglimento possano e debbano venire rivalutati dall'amministrazione anche tenendo conto dell'esito di detto accertamento, nell'ambito del procedimento disciplinare. Del resto, in contrasto con una linea di tendenza altrove manifestatasi (art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001; art. 7, comma 2, lett. b della legge delega 4 marzo 2009, n. 15), il legislatore, «con riguardo al pubblico dipendente in regime di diritto pubblico in linea generale (art. 117 del d.P.R. n. 3 del 1957), e nello specifico con riferimento agli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria (art. 9 del d.lgs. n. 449 del 1992), continua a subordinare l'avvio dell'azione disciplinare alla definizione del procedimento penale iniziatosi sui medesimi fatti. In tal modo, in altri termini, viene esplicitato il nesso che avviluppa, anche per l'ipotesi di sentenza penale di proscioglimento per prescrizione, l'accertamento compiuto dal giudice penale con la valutazione demandata all'autorita' amministrativa. Ne segue che, sul piano costituzionale, entra in fibrillazione con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) il punto di bilanciamento raggiunto dal legislatore con l'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992, nei soli casi in cui, per effetto di esso, l'interesse pubblico a sanzionare il dipendente in via disciplinare venga sacrificato, nonostante la pronuncia penale possa recare in se' un accertamento, implicante responsabilita', in ordine al fatto. Pare da ritenere, infatti, che, in questa peculiare ipotesi, si rafforzi l'interesse della amministrazione a tener fermi gli esiti dell'accertamento, ed a valutare se da essi possa scaturire la responsabilita' disciplinare del dipendente, anzitutto rispetto ai casi in cui l'assoluzione, accertando che il fatto non sussiste o che il dipendente non lo ha commesso, di per se' segna l'esito dell'eventuale procedimento disciplinare avente ad oggetto il medesimo episodio della vita. La disposizione impugnata, viceversa, somministra una identica regola, quanto al termine di avvio o di ripresa dell'azione disciplinare nel frattempo sospesa, per fattispecie che si differenziano obiettivamente sotto un profilo determinante ai fini del bilanciamento degli interessi contrapposti: per tale via si alimenta anzitutto il dubbio di violazione degli artt. 3 e 97 Cost. Inoltre, il Tribunale dubita della legittimita' costituzionale della scelta legislativa di equiparare, ai fini dell'avvio dell'azione disciplinare, la sentenza penale di non doversi procedere per estinzione del reato dovuta a prescrizione alla sentenza penale di assoluzione di cui all'art. 530 cod. proc. pen. , anche quando con quest'ultima si accerta che il fatto non costituisce reato, o non e' previsto dalla legge come reato, o e' stato commesso da persona non imputabile o non punibile. In queste ultime ipotesi, infatti, l'estraneita' del fatto rispetto all'area della rilevanza penale attenua di regola l'esigenza di assumerlo in considerazione a fini disciplinari, atteso il carattere di particolare gravita' che l'illecito penale riveste nell'ordinamento. E' vero che, in concreto, puo' darsi l'ipotesi in cui un fatto penalmente rilevante appaia a fini disciplinari meno grave di un fatto privo di tale requisito. Tuttavia, la disposizione impugnata finisce per assumere a proprio fondamento tale conclusione in termini generali ed astratti, poiche' si giustifica solo se si prende per buona in siffatta misura l'idea che l'interesse dell'amministrazione ad attivarsi in sede disciplinare sia del tutto indifferente alla natura penale della condotta. Ma, in via di principio, la gravita' usualmente connessa a fatti attratti nell'orbita del diritto penale inficia la natura incondizionata di un assunto di tal genere, irragionevolmente posto a base della opzione legislativa gravata dal dubbio di costituzionalita'. Quest'ultimo profilo acquisisce ulteriore forza, nel raffronto con lo sviluppo impresso dal legislatore alla normativa che lega azione penale e azione disciplinare, come interpretata dalla Corte costituzionale. Il caso della pronuncia legata a prescrizione, infatti, nulla dicendo sul carattere penale del fatto nella minore delle ipotesi, ed anzi potendo affermare la responsabilita' penale in via incidentale nella maggiore, sotto tale angolo prospettico pare valutabile alla luce del principio enunciato dalla sentenza n. 186 del 2004 della Corte costituzionale. Quest'ultima, come si e' anticipato, ha ritenuto lesiva degli articoli 3 e 97 Cost. l'opzione legislativa che, con riguardo a pronunce di condanna, faceva decorrere il termine per iniziare il giudizio disciplinare dalla conclusione del procedimento penale, anziche' dalla comunicazione della sentenza. La Corte ha, in tale occasione, fatto valere l'esigenza di assicurare «non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo, ma soprattutto una linea di maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell'azione amministrativa». Diversamente che nell'ipotesi di sentenza di assoluzione, quest'ultima necessita' costituzionale puo' essere sottesa alla pronuncia penale conseguente a prescrizione, per le ragioni sopra esposte. In questa evenienza, in particolare, si profila anche, ove l'esercizio dell'azione disciplinare sia gravato da insuperabile ostacolo, quel pregiudizio connesso «alla perdita di acquisizioni processuali», che il legislatore ha inteso in linea di principio fugare «sul versante dei rapporti tra giurisdizioni», secondo quanto posto in rilievo dalla stessa Corte costituzionale con riferimento al rapporto tra azione penale ed azione disciplinare (sentenza n. 336 del 2009). Pertanto, anche per il caso di prescrizione in sede penale, rilevante nel giudizio principale, e' prospettabile che il legislatore abbia «adottato una soluzione sbilanciata a vantaggio del dipendente pubblico, nel senso che gioca a favore di quest'ultimo lo scorrere del tempo necessario per venire in possesso di una notizia (...) che invece dovrebbe - venire comunicata ab initio all'amministrazione» (sentenza n. 186 del 2004), in violazione degli artt. 3 e 97 Cost. Del resto, gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale successiva alla sentenza n. 264 del 1990, pur collocandosi in modo armonico rispetto a tale pronuncia, hanno ugualmente posto in rilievo che non sempre l'interesse del pubblico dipendente alla piu' sollecita definizione del giudizio disciplinare puo' prevalere su quelli intestati all'amministrazione, nei casi in cui le «difficolta'» ad essa frapposte si rivelino, in concreto, manifestamente irragionevoli (sentenza n. 374 del 1995). Un nuovo giudizio sul bilanciamento raggiunto dal legislatore con l'art. 97, comma 3, del D.P.R. n. 3 del 1957 e con l'analoga disposizione impugnata e' dunque sempre possibile, ove si pongano in luce i tratti che connotano la fattispecie particolare rispetto alla regola generale. Peraltro, una volta inficiata l'equipollenza, per quanto qui interessa, tra sentenza penale di assoluzione e sentenza penale di proscioglimento conseguente a prescrizione (e dunque attenuatesi le ragioni proprie della regola - di favore approntata dal legislatore a vantaggio del pubblico dipendente assolto) viene corroborato invece l'argomento per cui, in linea di principio, un termine di decadenza non puo' operare, fino a quando chi vi abbia interesse non sia stato posto nelle condizioni di esercitare la relativa potesta'. Nel caso di specie, e' in atti la prova che l'amministrazione penitenziaria ha reiteratamente sollecitato i competenti uffici giudiziari a comunicarle in modo tempestivo l'esito del processo penale, e che cio' non e' accaduto se non con un ritardo determinante: si profila dunque manifestamente irragionevole la scelta del legislatore, per il caso di sentenza penale conseguente a prescrizione, di configurare una potesta' amministrativa disciplinare (sospendendone l'esercizio a seguito dell'azione penale), di assegnarla all'amministrazione cui appartiene l'imputato, e nel contempo di assoggettarla ad un termine perentorio di decadenza, che inizia a decorrere nonostante tale amministrazione nulla sappia, incolpevolmente, dell'esito del giudizio penale, recante accertamenti potenzialmente utili nell'ambito disciplinare. Un piu' equilibrato bilanciamento degli interessi contrapposti dovrebbe, invece, considerare che il pubblico dipendente ben puo' sottrarsi all'incertezza, provvedendo a notificare all'amministrazione la sentenza di proscioglimento, affinche' con cio' decorra il termine breve di 40 giorni per avviare il procedimento disciplinare. E' vero che analogo argomento e' stato svalutato dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 264 del 1990. Ma, anche in tal caso, pare al Tribunale differente la posizione di chi, assolto, ben puo' fidare su un giudizio che abbia gia' escluso il rilievo penale del fatto da quella di chi, prosciolto per prescrizione, non sia forte di una simile pronuncia e non possa dunque aver maturato alcun affidamento derivante dalla pronuncia del giudice penale. 4. Per tali ragioni, il Tribunale dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992, nella parte in cui tale disposizione, limitatamente al caso in cui l'imputato sia stato prosciolto a seguito di estinzione del reato per prescrizione, fa decorrere, in assenza di notifica della pronuncia del giudice penale, il termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento disciplinare dalla data di pubblicazione della sentenza, anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne abbia avuto notizia.
P. Q. M. Non definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. 30 ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395), nella parte in cui tale disposizione, limitatamente al caso in cui l'imputato sia stato prosciolto a seguito di estinzione del reato per prescrizione, fa decorrere, in assenza di notifica, il termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento disciplinare dalla data di pubblicazione della sentenza, anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne abbia avuto notizia; dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Cotte costituzionale; ordina alla segreteria di notificare la presente ordinanza alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri; ordina alla segreteria di comunicare la presente ordinanza al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati; sospende il giudizio. Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 gennaio 2013. Il presidente: Orciuolo L'Estensore: Bignami