N. 178 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 febbraio 2013

Ordinanza del 21 febbraio 2013 emessa  dal  Tribunale  amministrativo
regionale per il Lazio sul ricorso proposto da Ibba Giuseppe   contro
il Ministero della giustizia. 
 
Impiego pubblico - Sanzioni disciplinari nei confronti del  personale
  del Corpo di polizia penitenziaria - Procedimento disciplinare  per
  destituzione a seguito di processo penale - Previsione, in caso  di
  proscioglimento dell'imputato per  prescrizione,  della  decorrenza
  del  termine  di  120   giorni   per   l'avvio   del   procedimento
  disciplinare, in assenza di notifica, dalla data  di  pubblicazione
  della sentenza, anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne  ha
  avuto  notizia  -  Violazione  del  principio  di  uguaglianza  per
  l'identico trattamento, ai fini del computo del termine per l'avvio
  o la ripresa del procedimento disciplinare, di fattispecie  diverse
  - Incidenza sui principi di imparzialita' e  buon  andamento  della
  pubblica amministrazione. 
- Decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449, art. 7, comma 6. 
- Costituzione, artt. 3 e 97. 
(GU n.35 del 28-8-2013 )
 
               IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE  
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro  generale  3797  del  2008,  proposto  da:  Ibba   Giuseppe,
rappresentato e  difeso  dall'avv.  Davide  Capitani,  con  domicilio
eletto presso Danilo Siliquini in Roma, via Nicola Ricciotti, 9; 
    Contro Ministero della  Giustizia,  rappresentato  e  difeso  per
legge dall'Avvocatura Dello  Stato,  domiciliata  in  Roma,  via  dei
Portoghesi,   12;   Ministero    Giustizia    -Dipartimento    Amm.ne
Penitenziaria; 
    Per l'annullamento del decreto dap n. 0203748 del 2007,  con  cui
e' stata  inflitta  al  ricorrente  la  sanzione  disciplinare  della
destituzione. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visto l'atto di  costituzione  in  giudizio  di  Ministero  della
Giustizia; 
    Relatore nell'udienza pubblica del  giorno  24  gennaio  2013  il
dott. Marco Bignami e uditi per le parti i difensori come specificato
nel verbale; 
    1. Con ricorso notificato  il  25  marzo  2008  e  depositato  il
successivo 23 aprile il ricorrente  ha  impugnato  il  provvedimento,
notificatogli il 23 gennaio 2008, con cui gli e'  stata  inflitta  la
sanzione  disciplinare  della  destituzione  dal  corpo  di   polizia
penitenziaria, cui apparteneva. Tale atto e' stato adottato a seguito
dell'instaurazione di procedimento penale a  carico  del  ricorrente,
per  avere  egli   truffato   l'amministrazione,   falsificando   due
certificati medici al fine di  porsi  indebitamente  in  malattia  ed
assentarsi dal servizio. 
    In primo grado, il Tribunale di  Roma  ha  pronunciato  condanna,
previa   concessione   delle   attenuanti    generiche    equivalenti
all'aggravante, alla pena di sei mesi e quindici giorni di reclusione
e 250,00 euro di multa, per il delitto di cui all'art. 640, comma  2,
n. 1) cod. pen. 
    Successivamente, il ricorrente e' stato prosciolto  con  sentenza
della Corte di appello di Roma n. 8588 del 2005, che ha stabilito  di
non doversi procedere a causa di estinzione del reato per intervenuta
prescrizione. 
    Quest'ultima sentenza e' stata  deposita  in  cancelleria  il  13
dicembre 2005 ed e' divenuta irrevocabile il 28 gennaio 2006. 
    L'amministrazione penitenziaria ne e' stata portata a  conoscenza
dall'ufficio giudiziario solo il 14 luglio 2006,  ed  ha  avviato  di
conseguenza il procedimento disciplinare il successivo 28 luglio. Con
un preliminare ed assorbente  motivo  di  ricorso,  l'atto  impugnato
viene denunciato per violazione del  termine  indicato  dall'art.  7,
comma 6, del d.lgs. 30 ottobre 1992,  n.  449  (Determinazione  delle
sanzioni  disciplinari  per  il  personale  del  Corpo   di   polizia
penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti,  a
norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990,  n.  395),
secondo il quale «quando da un procedimento penale comunque  definito
emergono fatti e circostanze che rendano l'appartenente al  Corpo  di
polizia penitenziaria passibile di sanzioni disciplinari, questi deve
essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120
giorni dalla data di pubblicazione della sentenza,  oppure  entro  40
giorni  dalla   data   di   notificazione   della   sentenza   stessa
all'Amministrazione». 
    E'  pacifico  che  si   tratti   della   disposizione   normativa
applicabile  in  causa,  in  quanto   diretta,   con   carattere   di
specialita',  a  definire  il  rapporto  tra   sentenza   penale   di
proscioglimento  e  giudizio  disciplinare,   nei   confronti   degli
appartenenti al corpo di polizia penitenziaria (privo di  rilievo  in
causa, e ai fini della questione che viene proposta con  la  presente
ordinanza, e' invece se tale norma si applichi anche alle sentenze di
condanna per cause diverse da quelle indicate dall'art. 6,  comma  3,
del d.lgs. n. 449  del  1992,  ovvero  se,  esclusivamente  per  tali
ipotesi, trovi invece spazio  la  disciplina  generale  recata  dalla
legge 27 marzo 2001, n. 97: per l'analogo caso concernente la polizia
di Stato, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. , n. 10 del 2006; Cons.  Stato,
sez. VI, n. 2112 del 2009). 
    Ove il termine per avviare l'azione disciplinare  decorresse  dal
13 dicembre 2005, data di deposito della sentenza di  proscioglimento
(ma la medesima conclusione, aggiunge il ricorrente, andrebbe  tratta
facendo  riferimento  alla   data   di   passaggio   in   giudicato),
l'amministrazione sarebbe incorsa in violazione di  legge,  giacche',
come viene enunciato nello stesso  atto  impugnato,  il  procedimento
disciplinare ha avuto inizio  oltre  il  termine  perentorio  di  120
giorni da tale data, ovvero, come si e' visto, solo a partire dal  28
luglio 2006  (non  risulta  che  la  sentenza  sia  stata  notificata
antecedentemente all'amministrazione, sicche' non ha rilievo in causa
il termine breve di 40 giorni previsto in tal caso dalla legge). 
    In fase cautelare, questo Tribunale ha sospeso  l'atto  impugnato
per tale vizio, con ordinanza, tuttavia, riformata in sede di appello
dal Consiglio di Stato. 
    La causa e' stata trattenuta in decisione all'esito  dell'udienza
pubblica del 24 gennaio 2013. 
    2. Il Tribunale, ritenuta la propria giurisdizione  e  competenza
(ex art. 133, comma 1, lett. i, del d.lgs. 2  luglio  2010,  n.  104,
atteso che  gli  appartenenti  al  corpo  di  polizia  penitenziaria,
equiparati alle forze di polizia di Stato, costituiscono personale in
regime di diritto pubblico, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 30  marzo
2001,  n.  165),   stima,   anzitutto,   infondata   l'eccezione   di
irricevibilita'    della    domanda    per    tardivita',    avanzata
dall'Avvocatura  dello  Stato:  il  sessantesimo  giorno  utile   per
proporre ricorso cadeva domenica 23 marzo  2008,  giorno  di  Pasqua,
sicche', essendo festivo anche il seguente 24 marzo, la  notifica  e'
tempestivamente stata eseguita martedi' 25 marzo,  primo  giorno  non
festivo. 
    In secondo luogo,  appaiono  prive  di  fondamento  giuridico  le
censure svolte in ricorso, per profili diversi dalla  violazione  del
termine concesso per iniziare il procedimento disciplinare. 
    Dirimente ai fini della decisione e' percio' la doglianza,  sopra
esposta, relativa alla violazione dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. n.
449 del 1992. Con riferimento a quest'ultima disposizione  normativa,
il Tribunale dubita della legittimita'  costituzionale  della  norma,
nella parte in cui essa, limitatamente al caso in cui l'imputato  sia
stato prosciolto a seguito di estinzione del reato per  prescrizione,
fa decorrere il termine di 120 giorni per  l'avvio  del  procedimento
disciplinare dalla  data  di  pubblicazione  della  sentenza  penale,
anziche' dalla data in cui l'amministrazione ne abbia avuto notizia. 
    La  questione  e'  rilevante:  ove   essa   fosse   accolta,   il
procedimento disciplinare  avrebbe  avuto  inizio  nel  rispetto  del
termine stabilito, poiche', come si e'  anticipato,  e'  pacifico  in
causa che l'amministrazione abbia  avuto  conoscenza  della  sentenza
della Corte di appello di Roma il 14 luglio 2006, e si  sia  attivata
il successivo 28 luglio. Ne segue che il ricorso di cui  al  processo
principale dovrebbe essere rigettato. 
    Viceversa, esso andrebbe accolto, qualora la Corte ritenesse  non
fondata la questione di legittimita' costituzionale. 
    Sotto tale  profilo,  infatti,  il  Tribunale  esclude  di  poter
addivenire ad un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della
norma oggetto.  Diversamente  che  nell'ipotesi  di  sentenza  penale
irrevocabile di condanna per taluni reati, regolata dall'art.  6  del
d.lgs. n. 449 del 1992, il dies a quo del termine di 120  giorni  per
avviare il procedimento disciplinare, ove  quello  penale  sia  stato
definito altrimenti (e, quindi, anche per il caso di  estinzione  del
reato), viene fatto espressamente decorrere  dall'art.  7;  comma  6,
impugnato  non  dalla  data  in  cui  l'amministrazione  abbia  avuto
conoscenza della pronuncia penale, ma dalla data di pubblicazione  di
essa. 
    Il  Tribunale  da'  atto  che  parte  della  giurisprudenza   del
Consiglio di Stato (sez. VI, n. 6521 del 2008; id n. 4495 del  2006),
formatasi sulla norma, del tutto analoga, espressa per  le  forze  di
polizia dall'art. 9, comma 6, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n.  737  ha
concluso nel senso che il termine per iniziare l'azione  disciplinare
decorre, anche al di fuori dei casi di sentenza  di  condanna,  dalla
conoscenza che l'amministrazione abbia avuto della pronuncia penale. 
    Tuttavia,  ai  fini  della  motivazione  sulla  rilevanza   della
presente questione di  legittimita'  costituzionale,  e'  sufficiente
osservare, anzitutto, che  un  simile  orientamento  non  costituisce
diritto vivente (in senso contrario, ad esempio,  Cons.  Stato,  sez.
VI, n. 1894 del 2011; id. n. 3426 del 2006). 
    In secondo luogo, che esso appare sbarrato dal chiaro ed  univoco
senso letterale della disposizione impugnata, a fronte del quale cede
il potere  del  giudice  comune  di  adeguare  il  tessuto  normativo
primario  alla  Costituzione,  e  vi   subentra   l'esercizio   della
giurisdizione costituzionale (Corte cost., sentenza n. 219 del  2008;
id. n. 1 del 2013, punto 8.1 del Considerato in diritto). 
    Del resto, che l'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992  non
possa  che  venire  interpretato  nel  senso  qui  denunciato   viene
confermato dal fatto che esso si inserisce in una tendenza  normativa
piu' ampia. Ed essa, in particolare, e' intesa a distinguere il  dies
a quo per la decorrenza del  termine  utile  ai  fini  dell'esercizio
dell'azione disciplinare, a seguito di pronuncia del giudice  penale,
a   seconda   che   quest'ultima   sia   di   condanna,   ovvero   di
proscioglimento. 
    Con riguardo alla sentenza di condanna, infatti, l'art. 9,  comma
2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19  ebbe  cura  di  precisare  che
detta decorrenza coincide con la data  in  cui  l'amministrazione  ha
avuto notizia della pronuncia, per i casi in cui in sede disciplinare
si infligga la destituzione. 
    In seguito, l'art. 5, comma 4, della legge 27 marzo 2001,  n.  97
formulo'  analoga  previsione,   con   riferimento   alla   data   di
comunicazione  della  sentenza   di   condanna   all'amministrazione.
Diversamente, l'art. 97, comma  3,  del  d.P.R.  n.  3  del  1957  ha
enunciato la regola opposta, e ribadita  dalla  norma  impugnata,  in
presenza di una sentenza definitiva di proscioglimento. 
    Decisivo, in tale prospettiva, e' infine che  simile  regola  non
solo non  sia  stata  adeguata  in  via  interpretativa  dalla  Corte
costituzionale, ma che essa sia stata invece giudicata conforme  agli
artt. 3 e 97 Cost. con la  sentenza  n.  264  del  1990,  ove  si  e'
ritenuto non irragionevole che il  legislatore,  per  le  ipotesi  di
proscioglimento  penale  del  pubblico  dipendente,  subordinasse  la
correlata azione disciplinare ad un termine dalla  decorrenza  certa,
costituito dalla data di irrevocabilita' della sentenza penale, e non
dalla data di conoscenza di essa da parte dell'amministrazione. 
    La opposta conclusione cui la Corte costituzionale e' giunta  con
la sentenza n. 184 del 2004 (di cui meglio si dira' in  seguito)  non
si estende direttamente, ed in assenza di un nuovo  intervento  della
Corte, al caso di specie, poiche'  concerne  l'ipotesi,  disciplinata
per una fase transitoria dall'art. 10, comma 3, della legge n. 97 del
2001, in cui il pubblico dipendente  sia  stato  condannato  in  sede
penale: essa, semmai, vale a ribadire che il legislatore  continua  a
distinguere, per il  profilo  che  qui  rileva,  pronunce  penali  di
condanna da un lato, e di proscioglimento dall'altro. 
    3. La questione e' non manifestamente infondata,  in  riferimento
agli articoli 3 e 97 della Costituzione. 
    Come e' appena emerso, il giudice delle leggi e' gia' intervenuto
su previsione normativa analoga alla norma impugnata, affermando che,
in caso di pronuncia  di  proscioglimento  e  nel  bilanciamento  tra
l'interesse dell'amministrazione ad esercitare l'azione  disciplinare
e quello del pubblico dipendente a «vedere definita la sua posizione,
non  puo'  ritenersi   irragionevole   che   il   legislatore   abbia
privilegiato il secondo» (sentenza n. 264 del 1990). 
    Tale  decisione  si  inserisce  in  una   linea   propria   della
giurisprudenza costituzionale, volta a valorizzare, anche a  garanzia
del principio  di  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione,
l'interesse del pubblico dipendente a  non  essere  sottoposto  senza
certi.e definiti limiti temporali all'azione  disciplinare  (sentenza
n. 1128 del 1988), fino a postulare un corrispondente  «diritto  alla
decisione» (sentenza n. 104 del 1991; in seguito, sentenza n. 375 del
2000). 
    Il  Tribunale  non  ritiene  di  proporre  argomenti   in   senso
contrario, ma si limita a rilevare che, fino ad oggi, la Corte non ha
avuto modo di pronunciarsi sull'esito del bilanciamento  operato  dal
legislatore nel peculiare caso di specie,  indotto  da  una  sentenza
penale  che  accerta  l'estinzione   del   reato,   a   causa   della
prescrizione. 
    In altri termini: la sentenza n. 264 del 1990, che e' l'obbligato
punto di riferimento per apprezzare  la  non  manifesta  infondatezza
dell'odierna  questione,  non  pote'  che  valutare  la  legittimita'
costituzionale dell'art. 97, comma 3, del D.P.R. n. 3  del  1957  con
riguardo all'ampio genus delle sentenze di  proscioglimento,  poiche'
in  tali  termini  la  questione  era  stata  proposta  dal   giudice
rimettente  (benche'  anche  in  quel  caso  il  dubbio  fosse  stato
originato da una pronuncia di non doversi  procedere  per  estinzione
del reato dovuta a prescrizione, la  norma  venne  infatti  impugnata
nella   sua   interezza).   La   risposta   della   Corte,    dunque,
inevitabilmente fu calibrata in accordo  con  la  generale  questione
proposta, senza che si potesse introdurre alcun distinguo, a  seconda
della natura particolare che il  proscioglimento  puo'  assumere  nel
nostro ordinamento. 
    Come e' noto, infatti, nell'ambito di tale  categoria  coesistono
(artt. 529; 530; 531 cod. proc.  pen.  )  pronunce  di  natura  assai
diversa, tra le quali una posizione  del  tutto  peculiare  rivestono
quelle conseguenti a prescrizione. 
    I profili su cui il Tribunale ritiene di  doversi  soffermare,  a
tale proposito, sono due. 
    Anzitutto, e'  ben  possibile  che  l'estinzione  del  reato  sia
dichiarata a seguito della concessione all'imputato di un attenuante,
per effetto della quale il termine prescrizionale  viene  a  ridursi.
Con riguardo a tale evenienza, la giurisprudenza di  legittimita'  ha
affermato che «nell'ipotesi (...) che alla declaratoria di estinzione
del reato per prescrizione si giunga  attraverso  la  concessione  di
circostanze attenuanti (e il relativo giudizio  di  prevalenza  sulle
eventuali circostanze aggravanti),  la  sentenza  di  proscioglimento
dovra' contenere, in motivazione,  l'accertamento  incidentale  della
responsabilita'  penale,  quale  passaggio  logico  pregiudiziale  al
riconoscimento delle attenuanti medesime» (Cass. pen. , sez.  VI,  n.
12048 del 5 ottobre 2000). 
    Vi e', percio', un'ipotesi in cui al formale  proscioglimento  e'
sotteso un  pieno  accertamento  della  penale  responsabilita',  con
riguardo a fatti  che  sono  poi  suscettibili  di  assumere  rilievo
nell'ambito del procedimento disciplinare. 
    In secondo luogo, e' altresi' possibile che  l'azione  civile  di
danno sia stata esperita nel giudizio penale, e che, dopo la condanna
di primo grado, sopraggiunga la prescrizione:  anche  in  tale  caso,
l'art.  578  cod.  proc.  pen.  esige  che  il  giudice  penale,  nel
dichiarare la prescrizione, ugualmente decida sul capo  civile  della
sentenza di primo grado. Anche per tale  ipotesi,  la  pronuncia  del
giudice penale richiede un accertamento  sulla  responsabilita',  che
non puo' prescindere perlomeno dalla sussistenza del  fatto  e  dalla
attribuzione di esso all'imputato, sia pure secondo criteri di natura
civilistica (Cass. pen. , sez. V, n. 42135 del 2011). 
    Si  aggiunga  che  tutte  le  sentenze  penali  che  rilevano  la
prescrizione hanno  dovuto  escludere  l'evidenza  di  una  causa  di
assoluzione dell'imputato (art. 129, comma 2, cod. proc.  pen.  ),  e
che esse,  come  nel  caso  di  specie,  ben  possono  sopraggiungere
all'esito di una pronuncia di condanna di  primo  grado,  recante  un
compiuto  accertamento  della  penale  responsabilita'  del  pubblico
dipendente. 
    Anche senza arrivare a  quanto  affermato  dall'Ad.  Plen.  Cons.
Stato, n. 10 del 2006, in ordine  alla  «agevole  assimilazione»  tra
sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato  dovuta  a
prescrizione e sentenza cd. di patteggiamento (in  termini,  punto  2
del diritto analogamente, Cons. Stato, sez. IV,  a  5672  del  2012),
ugualmente ve  ne  e'  per  dubitare  che  il  legislatore,  ai  fini
dell'avvio del procedimento disciplinare sui  medesimi  fatti,  possa
accomunare  sotto  la  stessa  regola  la  pronuncia  conseguente   a
prescrizione con la pronuncia di assoluzione, essendo invece la legge
tenuta ad assimilare cio' che e' uguale e  a  separare  cio'  che  e'
diseguale. 
    Non  si  discute  che  entrambe   tali   pronunce   appartengano,
nell'ambito dell'ordinamento  penale,  al  genus  delle  sentenze  di
proscioglimento; ma, ai fini della risoluzione dell'attuale dubbio di
legittimita' costituzionale, cio' che assume rilievo prioritario  non
e' quest'ultimo punto di vista, ma, piuttosto, il rapporto  che  puo'
legare  il  contenuto  di  accertamento  della  sentenza  penale   al
conseguente procedimento disciplinare. 
    Benche', ai sensi dell'art. 653 cod. proc. pen. , l'efficacia  di
giudicato  nel  giudizio  disciplinare  competa  alle  sole  sentenze
irrevocabili  di  assoluzione  e  di  condanna,  ugualmente  non   e'
dubitabile che i fatti comunque accertati dal giudice penale con  una
sentenza di  proscioglimento  possano  e  debbano  venire  rivalutati
dall'amministrazione  anche  tenendo  conto   dell'esito   di   detto
accertamento, nell'ambito del procedimento disciplinare. 
    Del resto,  in  contrasto  con  una  linea  di  tendenza  altrove
manifestatasi (art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001; art. 7,  comma
2, lett. b della legge delega 4 marzo 2009, n. 15),  il  legislatore,
«con riguardo al pubblico dipendente in regime di diritto pubblico in
linea generale (art. 117 del d.P.R. n. 3 del 1957), e nello specifico
con riferimento agli appartenenti al corpo di  polizia  penitenziaria
(art. 9 del d.lgs. n. 449 del 1992), continua a  subordinare  l'avvio
dell'azione disciplinare alla  definizione  del  procedimento  penale
iniziatosi sui medesimi fatti. In tal modo, in altri  termini,  viene
esplicitato il nesso che avviluppa, anche per l'ipotesi  di  sentenza
penale di proscioglimento per prescrizione,  l'accertamento  compiuto
dal  giudice  penale  con  la  valutazione  demandata   all'autorita'
amministrativa. 
    Ne segue che, sul piano costituzionale,  entra  in  fibrillazione
con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.)  e  di  ragionevolezza
(art. 3 Cost.) e con il principio di buon  andamento  della  pubblica
amministrazione (art. 97 Cost.) il punto di  bilanciamento  raggiunto
dal legislatore con l'art. 7, comma 6, del d.lgs. n.  449  del  1992,
nei soli casi in cui, per effetto di  esso,  l'interesse  pubblico  a
sanzionare il  dipendente  in  via  disciplinare  venga  sacrificato,
nonostante la pronuncia penale possa recare in se'  un  accertamento,
implicante responsabilita', in ordine al fatto. 
    Pare da ritenere, infatti, che, in questa peculiare  ipotesi,  si
rafforzi l'interesse della amministrazione a tener  fermi  gli  esiti
dell'accertamento, ed a  valutare  se  da  essi  possa  scaturire  la
responsabilita' disciplinare del dipendente,  anzitutto  rispetto  ai
casi in cui l'assoluzione, accertando che il fatto non sussiste o che
il  dipendente  non  lo  ha  commesso,  di  per  se'  segna   l'esito
dell'eventuale  procedimento  disciplinare  avente  ad   oggetto   il
medesimo episodio della vita. 
    La disposizione impugnata, viceversa,  somministra  una  identica
regola,  quanto  al  termine  di  avvio  o  di  ripresa   dell'azione
disciplinare  nel  frattempo  sospesa,   per   fattispecie   che   si
differenziano obiettivamente sotto un profilo  determinante  ai  fini
del bilanciamento degli  interessi  contrapposti:  per  tale  via  si
alimenta anzitutto il dubbio di violazione degli artt. 3 e 97 Cost. 
    Inoltre, il Tribunale dubita  della  legittimita'  costituzionale
della  scelta  legislativa  di   equiparare,   ai   fini   dell'avvio
dell'azione disciplinare, la sentenza penale di non doversi procedere
per estinzione del reato dovuta a prescrizione alla  sentenza  penale
di assoluzione di cui all'art. 530 cod. proc. pen. , anche quando con
quest'ultima si accerta che il fatto non costituisce reato, o non  e'
previsto dalla legge come reato, o e' stato commesso da  persona  non
imputabile o non punibile. 
    In  queste  ultime  ipotesi,  infatti,  l'estraneita'  del  fatto
rispetto all'area della rilevanza penale attenua di regola l'esigenza
di  assumerlo  in  considerazione  a  fini  disciplinari,  atteso  il
carattere di  particolare  gravita'  che  l'illecito  penale  riveste
nell'ordinamento. 
    E' vero che, in concreto, puo' darsi l'ipotesi in  cui  un  fatto
penalmente rilevante appaia a fini  disciplinari  meno  grave  di  un
fatto privo di tale requisito. 
    Tuttavia,  la  disposizione  impugnata  finisce  per  assumere  a
proprio fondamento tale conclusione in termini generali ed  astratti,
poiche' si giustifica solo se si prende per buona in siffatta  misura
l'idea che l'interesse  dell'amministrazione  ad  attivarsi  in  sede
disciplinare sia del tutto  indifferente  alla  natura  penale  della
condotta. 
    Ma, in via di principio, la gravita' usualmente connessa a  fatti
attratti  nell'orbita  del   diritto   penale   inficia   la   natura
incondizionata di un assunto di tal genere, irragionevolmente posto a
base   della   opzione   legislativa   gravata    dal    dubbio    di
costituzionalita'. 
    Quest'ultimo profilo acquisisce ulteriore  forza,  nel  raffronto
con lo sviluppo impresso dal  legislatore  alla  normativa  che  lega
azione penale e azione disciplinare, come  interpretata  dalla  Corte
costituzionale. 
    Il caso della pronuncia legata  a  prescrizione,  infatti,  nulla
dicendo sul carattere penale del fatto nella minore delle ipotesi, ed
anzi potendo affermare la responsabilita' penale in  via  incidentale
nella maggiore, sotto tale angolo prospettico  pare  valutabile  alla
luce del principio enunciato dalla sentenza n.  186  del  2004  della
Corte  costituzionale.  Quest'ultima,  come  si  e'  anticipato,   ha
ritenuto lesiva degli articoli 3 e  97  Cost.  l'opzione  legislativa
che, con riguardo a pronunce di condanna, faceva decorrere il termine
per  iniziare  il  giudizio  disciplinare   dalla   conclusione   del
procedimento penale, anziche' dalla comunicazione della sentenza. 
    La Corte ha,  in  tale  occasione,  fatto  valere  l'esigenza  di
assicurare «non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale  ed
esito del procedimento amministrativo, ma soprattutto  una  linea  di
maggiore rigore per garantire  il  corretto  svolgimento  dell'azione
amministrativa». 
    Diversamente  che  nell'ipotesi  di  sentenza   di   assoluzione,
quest'ultima  necessita'  costituzionale  puo'  essere  sottesa  alla
pronuncia penale conseguente a prescrizione,  per  le  ragioni  sopra
esposte. In questa evenienza, in particolare, si profila  anche,  ove
l'esercizio dell'azione  disciplinare  sia  gravato  da  insuperabile
ostacolo, quel pregiudizio connesso  «alla  perdita  di  acquisizioni
processuali», che il legislatore ha  inteso  in  linea  di  principio
fugare «sul versante dei rapporti tra giurisdizioni», secondo  quanto
posto in rilievo dalla stessa Corte costituzionale con riferimento al
rapporto tra azione penale ed azione disciplinare  (sentenza  n.  336
del 2009). Pertanto, anche  per  il  caso  di  prescrizione  in  sede
penale, rilevante nel giudizio principale, e'  prospettabile  che  il
legislatore abbia «adottato una soluzione sbilanciata a vantaggio del
dipendente pubblico, nel senso che gioca a favore di quest'ultimo  lo
scorrere del tempo necessario per venire in possesso di  una  notizia
(...)  che  invece   dovrebbe   -   venire   comunicata   ab   initio
all'amministrazione» (sentenza n. 186 del 2004), in violazione  degli
artt. 3 e 97 Cost. 
    Del  resto,  gli  sviluppi  della  giurisprudenza  costituzionale
successiva alla sentenza n. 264 del 1990, pur  collocandosi  in  modo
armonico rispetto a tale pronuncia, hanno ugualmente posto in rilievo
che  non  sempre  l'interesse  del  pubblico  dipendente  alla   piu'
sollecita definizione del giudizio  disciplinare  puo'  prevalere  su
quelli  intestati   all'amministrazione,   nei   casi   in   cui   le
«difficolta'»  ad  essa   frapposte   si   rivelino,   in   concreto,
manifestamente irragionevoli (sentenza n. 374 del 1995). 
    Un nuovo giudizio sul bilanciamento raggiunto dal legislatore con
l'art. 97, comma 3,  del  D.P.R.  n.  3  del  1957  e  con  l'analoga
disposizione impugnata e' dunque sempre possibile, ove si pongano  in
luce i tratti che connotano la fattispecie particolare rispetto  alla
regola generale. 
    Peraltro, una volta  inficiata  l'equipollenza,  per  quanto  qui
interessa, tra sentenza penale di assoluzione e  sentenza  penale  di
proscioglimento conseguente a prescrizione (e dunque  attenuatesi  le
ragioni proprie della regola - di favore approntata dal legislatore a
vantaggio del pubblico dipendente assolto) viene  corroborato  invece
l'argomento per cui, in linea di principio, un termine  di  decadenza
non puo' operare, fino a quando chi vi abbia interesse non sia  stato
posto nelle condizioni di esercitare la relativa potesta'. 
    Nel caso di specie, e' in atti  la  prova  che  l'amministrazione
penitenziaria  ha  reiteratamente  sollecitato  i  competenti  uffici
giudiziari a comunicarle in  modo  tempestivo  l'esito  del  processo
penale,  e  che  cio'  non  e'  accaduto  se  non  con   un   ritardo
determinante:  si  profila  dunque  manifestamente  irragionevole  la
scelta del legislatore, per il caso di sentenza penale conseguente  a
prescrizione, di configurare una potesta' amministrativa disciplinare
(sospendendone  l'esercizio  a  seguito   dell'azione   penale),   di
assegnarla  all'amministrazione  cui  appartiene  l'imputato,  e  nel
contempo di assoggettarla ad un termine perentorio di decadenza,  che
inizia a decorrere  nonostante  tale  amministrazione  nulla  sappia,
incolpevolmente, dell'esito del giudizio penale, recante accertamenti
potenzialmente utili nell'ambito disciplinare. 
    Un piu' equilibrato bilanciamento  degli  interessi  contrapposti
dovrebbe, invece, considerare che il  pubblico  dipendente  ben  puo'
sottrarsi     all'incertezza,      provvedendo      a      notificare
all'amministrazione la sentenza  di  proscioglimento,  affinche'  con
cio'  decorra  il  termine  breve  di  40  giorni  per   avviare   il
procedimento disciplinare. E' vero che  analogo  argomento  e'  stato
svalutato dalla Corte costituzionale con la citata  sentenza  n.  264
del 1990. Ma, anche in tal caso,  pare  al  Tribunale  differente  la
posizione di chi, assolto, ben puo' fidare su un giudizio  che  abbia
gia' escluso il rilievo penale del fatto da quella di chi, prosciolto
per prescrizione, non sia forte di una simile pronuncia e  non  possa
dunque aver maturato alcun affidamento derivante dalla pronuncia  del
giudice penale. 
    4. Per tali  ragioni,  il  Tribunale  dichiara  rilevante  e  non
manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e  97  della
Costituzione, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
7, comma 6, del d.lgs. n. 449 del  1992,  nella  parte  in  cui  tale
disposizione, limitatamente al  caso  in  cui  l'imputato  sia  stato
prosciolto a seguito di estinzione del  reato  per  prescrizione,  fa
decorrere, in assenza di notifica della pronuncia del giudice penale,
il termine di 120 giorni per l'avvio  del  procedimento  disciplinare
dalla data di pubblicazione della sentenza, anziche'  dalla  data  in
cui l'amministrazione ne abbia avuto notizia. 
 
                               P. Q. M. 
 
    Non  definitivamente  pronunciando  sul   ricorso   indicato   in
epigrafe, 
    Visto l'art. 23  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  dichiara
rilevante  e  non  manifestamente  infondata,  in  riferimento   agli
articoli 3 e 97 della  Costituzione,  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. 30 ottobre  1992,  n.
449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale  del
Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi
procedimenti, a norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15  dicembre
1990, n. 395), nella parte in cui tale disposizione, limitatamente al
caso in cui l'imputato sia stato prosciolto a seguito  di  estinzione
del reato per prescrizione, fa decorrere, in assenza di notifica,  il
termine di 120 giorni per l'avvio del procedimento disciplinare dalla
data di pubblicazione della sentenza,  anziche'  dalla  data  in  cui
l'amministrazione ne abbia avuto notizia; 
    dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Cotte
costituzionale; 
    ordina alla segreteria di notificare la presente  ordinanza  alle
parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri; 
    ordina alla segreteria di comunicare  la  presente  ordinanza  al
Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente  della  Camera
dei deputati; 
    sospende il giudizio. 
    Cosi deciso in Roma nella  camera  di  consiglio  del  giorno  24
gennaio 2013. 
 
                       Il presidente: Orciuolo 
 
 
                                                 L'Estensore: Bignami