N. 239 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 maggio 2013
Ordinanza del 22 maggio 2013 emessa dal Tribunale di Firenze nel procedimento civile promosso da F.G. contro M.P.. Matrimonio - Divorzio - Assegno divorzile - Presupposti per l'attribuzione e relativa quantificazione - Necessita', secondo l'interpretazione assurta a "diritto vivente", che in presenza di disparita' economica fra i coniugi sia garantito a quello economicamente piu' debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio - Violazione sotto piu' profili del principio di ragionevolezza - Incompatibilita' con la ratio legis - Alterazione della funzione assistenziale dell'assegno - Attribuzione al coniuge divorziato di una tutela maggiore di quella ricevuta in costanza di matrimonio - Esorbitanza dalle esigenze di solidarieta' post-matrimoniale - Contrasto con trend normativi consolidati negli altri Paesi dell'Unione europea - Anacronismo legislativo. - Legge 1° dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, come modificato dall'art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74. - Costituzione, artt. 2, 3 e 29.(GU n.46 del 13-11-2013 )
IL TRIBUNALE DI FIRENZE Ha emesso nella causa civile n. 15701/12 la seguente ordinanza tra G.F. nato a F. il ... ed elettivamente domiciliato in F. via Del Corso, 2 presso lo Studio degli avvocati Daniela Marcucci Pilli e Francesco Fanciullacci che la rappresentano e difendono come da procura a margine del ricorso, ricorrente; Contro P.M. nata a S.G.V. il ... ed elettivamente domiciliata in F. Fra' Domenico Buonvicini, 5 presso lo Studio dell'avv. Carlo Canessa che la rappresenta e difende come da mandato in calce alla comparsa depositata all'udienza presidenziale, resistente; Oggetto: divorzio giudiziale. Svolgimento del processo 1. Con ricorso depositato il 7 novembre 2012 G.F. adiva il Tribunale di Firenze per sentire pronunciare lo scioglimento del matrimonio contratto con P.M. il 2 aprile 2005 a B.V. (C.V.) e trascritto presso lo Stato Civile del Comune di Firenze al n. ... parte ... Serie ... Il ricorrente sosteneva che i coniugi fossero entrambi autosufficienti e che nessuno assegno fosse disposto a favore della moglie. In data 26 febbraio 2010 era intervenuta Sentenza parziale di separazione giudiziale tra i due coniugi e in data 7 novembre 2012 era intervenuta sentenza definitiva di separazione del Tribunale di Firenze con la quale il giudice, nel pronunciare la separazione tra i coniugi, aveva posto a carico di G.F. un assegno di € 750,00 con rivalutazione annuale Istat a favore di P.M. Quest'ultima con comparsa ha chiesto condannarsi il coniuge ad un assegno di mantenimento non inferiore a € 5.000,00 mensili giacche' l'assegno di separazione era da ritenersi insufficiente rispetto al tenore di vita tenuto dai coniugi in costanza di matrimonio, caratterizzato da frequenti viaggi all'estero, regali costosi, e la disponibilita' di numerosi immobili di proprieta' del ricorrente. Con riferimento alla determinazione dell'assegno divorzile, la sig.ra M.P. ha invocato l'applicazione dell'art. 5 comma VI della legge n. 898/1970, come modificato dall'art. 10 della legge n. 74/1987, ai sensi del quale «con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla comunione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non puo' procurarseli per ragioni oggettive». Faceva presente che i due coniugi erano proprietari di due appartamenti a Capo Verde dove ogni anno soggiornano per qualche mese a spese del marito. Il F. viveva della rendita di n. 56 immobili dichiarando per un reddito di € 56.000,00. Con il modesto assegno di € 750,00 disposto con la sentenza di separazione le era impossibile mantenere lo stile di vita che durante il matrimonio la coppia aveva scelto con frequenti soggiorni all'estero nei mesi piu' freddi, auto di lusso, ristoranti eleganti. In sede divorzile con Ordinanza Presidenziale del 25 gennaio 2013 venivano confermate, allo stato, le disposizioni patrimoniali della separazione assegnandosi nel contempo i termini di legge per memorie integrative e repliche. Con memoria del 25 febbraio 2013 il ricorrente contestava in maniera decisa la pretesa della moglie di ricevere un assegno divorzile di € 5.000,00. Il matrimonio era durato solo due anni e mezzo anche se vi era stata una relazione affettiva fra i due sin dal 1992 poi sfociata nel matrimonio nel 2005. Non vi erano stati i figli e i due coniugi uscivano da altre esperienze matrimoniali e la M. aveva gia' due figli. Quest'ultima era entrata come collaboratrice dentista nello Studio medico F. diventandone titolare esclusiva giacche' il dott. F. aveva cessato l'attivita'. La M. svolge un'intensa attivita' professionale come dentista con sette dipendenti e due collaboratrici esterne; e' proprietaria di alcuni immobili in Firenze e in altri luoghi; una fattofia con cavalli e risparmi consistenti. La M. ha pertanto i mezzi piu' che adeguati per mantenere un dignitoso tenore di vita. Il F. in questa sede sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 5 comma 6 legge 98/70 (come modificato dalla legge n. 74/1987) cosi come veniva interpretato dalla generalita' dei giudici e anche dalla Corte di Cassazione tanto da divenire «diritto vivente». Sul punto, il sig. G.F. ha formulato deduzioni in ordine alla asserita incostituzionalita' di tale disposizione cosi' come risultante dalla costante interpretazione datane dalla giurisprudenza, ed ha spiegato istanza affinche' questo Tribunale rimettesse la questione di costituzionalita' prospettata alla Corte costituzionale ex art. 23 legge n. 87/1953. Detto diritto vivente viola ad avviso del ricorrente sotto piu' profili il parametro costituzionale di ragionevolezza e, quindi, per contrasto all'articolo 3 della Costituzione che, anche congiuntamente con l'articolo 29, costituisce il parametro alla stregua del quale doveva essere sottoposto ad esame costituzionale la sopra richiamata disposizione. Con memoria del 27 marzo 2013 la dott.ssa P.M. contestava tutti i rilievi di fatto e di diritto svolti dal dott. G.F. Chiedeva quindi dichiararsi inammissibile la sollevata eccezione di illegittimita' costituzionale giacche' parte ricorrente non indicava quale delle possibilita' interpretative dovesse applicarsi nel giudizio principale prospettando solo dubbi interpretativi della norma. Nel merito eccepiva la totale infondatezza della eccezione prospettata avendo gia' la Corte Costituzionale con Sentenza n. 23/91 deciso che: «la riforma della disciplina del divorzio introdotti in Italia nel 1970 con la Legge del 1987, ha avuto tra i suoi obbiettivi quello di dare una piu' ampia e sistematica tutela al soggetto economicamente piu' debole con l'approntamento di incisivi strumenti giuridici a garanzia di posizioni economicamente pregiudicate dagli effetti della cessazione del matrimonio» ... e che «non puo' infatti dirsi irragionevole una scelta legislativa che miri ad assicurare certezze e rapidita' nella definizione del contenuto del diritto e ad evitare il contenzioso che presumibilmente deriverebbe da diversita' di indirizzi giurisprudenziali». Con successiva memoria del 30 aprile 2013 la M. ribadiva la inammissibilita' e infondatezza dell'eccezione di costituzionalita' giacche' la giurisprudenza (merito e legittimita') non aveva dato alla norma in esame una interpretazione contraria alla costituzione assurta a diritto vivente con la sentenza delle sezioni unite della cassazione n. 11490/90 e della successiva giurisprudenza della Suprema Corte. 2. Su queste premesse rileva il Collegio che la questione proposta ha ad oggetto l'art. 5 comma VI della legge n. 898/1970 nella parte in cui, secondo l'interpretazione giurisprudenziale costante e consolidata degli ultimi venti anni a far data dall'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione a partire dal 1990 (Cass. SS.UU., n. 11490/1990), stabilisce che l'assegno divorzile deve garantire al coniuge economicamente piu' debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Siffatta determinazione dell'importo dell'assegno divorzile prescinde dalle determinazioni relative ai figli. L'interpretazione in parola e' cosi' costante che puo' essere senz'altro considerata, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, come «diritto vivente», cioe' come quel significato della disposizione che si e' affermato in pratiche consolidate della giurisprudenza avallate e confermate da orientamenti della Corte di Cassazione. La questione di costituzionalita' riguarda dunque una l'interpretazione «vivente» dell'art. 5 comma VI della legge a 898/1970. Il suo eventuale accoglimento lascerebbe in vita l'art. 5 comma VI della legge n. 898/1970, permettendo al giudice di stabilire l'importo dell'assegno divorzile alla luce delle circostanze del caso, senza tuttavia dover necessariamente procedere all'automatica applicazione del criterio dell'«analogo tenore di vita» oggi imposto dal diritto vivente. La questione, cosi' precisata, appare al Collegio rilevante e non manifestamente infondata. 3. La questione di legittimita' costituzionale in oggetto e' rilevante perche' il giudizio che impegna questo Tribunale non puo' essere definito senza l'applicazione dell'art. 5 comma sesto della legge n. 898/1970, la cui consolidata interpretazione suscita non manifestamente infondati dubbi di legittimita' costituzionale. 4. La questione e' ammissibile, dal momento che la stessa non si risolve in una questione di mera interpretazione della legge. L'orientamento per cui l'assegno divorzile trova fondamento nella mera disparita' della situazione economica dei coniugi e deve essere calibrato in modo da garantire medesimo tenore di vita al coniuge piu' «debole», costituisce ormai diritto vivente, cioe' un «approdo interpretativo pressoche' incontrastato in giurisprudenza», una «soluzione interpretativa collaudata» (sent. n. 77 del 1997), «consolidata giurisprudenza della Cassazione» (sent. 206 del 1997), «giurisprudenza dominante» (sent. n. 110 del 1995). L'interpretazione consolidata della Cassazione viene assunta come significato obbiettivo della legge, diventando impermeabile al potere interpretativo della Corte costituzionale. Il giudice a quo, posto di fronte al diritto vivente, non e' tenuto, secondo la Corte costituzionale, ad effettuare una interpretazione della norma conforme a Costituzione o adeguatrice a Costituzione (che sarebbe un'interpretazione destinata ad essere smentita dai giudici superiori che seguano il diritto vivente), ma, se ritiene il diritto vivente contrario a Costituzione, deve rimettere la questione alla Corte costituzionale (cfr. ord. 148 del 2008). E' sufficiente che il giudice a quo riconduca alla disposizione «una interpretazione non implausibile [di diritto vivente] della quale egli, ad una valutazione compiuta in una fase meramente iniziale del processo, ritenga di dover fare applicazione nel giudizio principale e sulla quale egli nutra dubbi non arbitrari o non pretestuosi di conformita' a determinate norme costituzionali» (cfr. sent. n. 58 del 1995). L'obbligo di esperire il tentativo di configurare un'interpretazione adeguatrice della disposizione opera secondo la Corte in capo al giudice comune solo «in assenza di diritto vivente» (fra le molte, cfr. sent. 190 del 2000, n. 427 del 1999), e non e' consentito al giudice stesso proporre alla Corte interpretazioni in contrasto col diritto vivente (cfr. sent. n. 177 del 2000). In caso di diritto vivente - cioe' di disposizione interpretata in modo costante e conforme dalla giurisprudenza - «la norma vive ormai nell'ordinamento in modo cosi' radicato che e' difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l'intervento del legislatore [o] di questa Corte» (Corte cost., sent. n. 350 del 1997). Qualora l'interpretazione vivente sia contraria alla costituzione, la Corte e' quindi tenuta a pronunciarsi su di essa dichiarando l'incostituzionalita' della disposizione «ove interpretata» secondo tale indirizzo (Corte cost., sent. n. 78 del 2007). 5. La questione appare non manifestamente infondata. L'obbligo di assegnare al coniuge economicamente piu' debole un assegno volto a garantire il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio viola il principio costituzionale di ragionevolezza (il cui fondamento riposa nell'art. 3 della Costituzione). Esiste infatti una palese contraddizione logica oltre che giuridica - che appare irragionevole, secondo i canoni della giurisprudenza costituzionale - fra l'istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio e dei suoi effetti, e la disciplina in questione, che di fatto proietta oltre l'orizzonte matrimoniale il «tenore di vita» in costanza di matrimonio quale elemento attributivo e quantificativo dell'assegno, prolungando all'infinito i vincoli economici derivanti da un fatto (il matrimonio) che non esiste piu' proprio a seguito del divorzio, senza che vi sia necessariamente una giustificazione adeguata sotto il profilo della tutela di interessi e diritti costituzionali o garantiti dalla Costituzione. Il diritto vivente in questione appare quindi irragionevole perche' conduce ad esiti palesemente irrazionali in quanto incompatibili con la stessa ratio legis. 6. Si puo' aggiungere scopo dell'art. 5 comma VI della legge n. 898/1970, anche alla luce della sua formulazione letterale, era quello garantire all'assegno divorzile una finalita' assistenziale. Individuare il presupposto dell'assegno post-coniugale nello sbilanciamento delle situazioni patrimoniali degli ex coniugi e poi quantificarlo nella cifra congrua a «mantenere il tenore di vita coniugale», tuttavia, non costituisce un «arricchimento» della funzione assistenziale indicata dalla legge, ma una sua alterazione, che travalica il dato normativo e la stessa intenzione del legislatore. L'interpretazione prevalsa nel diritto vivente, infatti, non attribuisce piu' all'assegno divorzile una funzione di' «assistenza» del coniuge piu' debole, bensi' la garanzia, per quest'ultimo, di mantenere per tutta la vita un tenore di vita agiato. Ma l'interesse ad una vita piu' agiata risulta un interesse di carattere meramente economico - di regola non suscettibile di specifica tutela da parte dell'ordinamento giuridico - e non un diritto individuale fondamentale posto a tutela di un preminente interesse della persona. 7. La norma di diritto vivente in oggetto finisce inoltre per attribuire al coniuge divorziato una tutela maggiore rispetto a quella che riceve il coniuge in costanza di matrimonio. Durante il matrimonio, difatti, e' senz'altro consentito e possibile che la coppia decida di' modificare - in senso eventualmente limitativo - il proprio «tenore di vita» pregresso. Nel caso del divorzio, invece, il «tenore di vita» matrimoniale viene artificialmente mantenuto dalla normativa in questione come un dato immutabile a fondamento del diritto e del quantum dell'assegno. A differenza del dovere di mantenimento verso i figli, che cessa al raggiungimento della loro autosufficienza economica, l'obbligo di mantenimento del coniuge divorziato, nella lettura giurisprudenziale di cui qui si tratta, non viene meno neppure in caso di raggiunta autosufficienza del coniuge. Anche sotto i profili sopra indicati, pertanto, la norma in oggetto appare in contrasto con il principio di ragionevolezza. 8. Il fondamento costituzionale del diritto vivente censurato oggetto della presente questione di costituzionalita' e' normalmente individuato nell'art. 2 Cost., nel cui ambito di applicazione da alcuni viene fatta rientrare la tutela del «coniuge debole» o la «solidarieta' post-matrimoniale». Anche inquadrato in quest'ottica, peraltro, il diritto vivente in questione non appare superare comunque il controllo costituzionale di ragionevolezza, quantomeno sotto il profilo dell'errato bilanciamento fra valori. La normativa in questione, infatti, sembra andare ben oltre la necessita' di garantire l'interesse costituzionale a che la cessazione del matrimonio non incida in maniera intollerabile sull'assetto patrimoniale del coniuge «debole». Si tratta infatti di una impostazione che riconosce al coniuge «debole» non semplicemente di avere gli strumenti necessari per superare la difficolta' derivante dalla cessazione del matrimonio, ma - in modo assai piu' ampio - la riproduzione oltre il divorzio delle condizioni economiche godute nel contesto matrimoniale. Il che appare uno strumento eccessivo rispetto a quanto necessario per garantire l'interesse sopra individuato. 9. La norma di diritto vivente di cui si discute rappresenta un unicum nel panorama delle legislazioni nazionali in materia di conseguenze economiche del divorzio. La Commissione europea sul diritto di famiglia, del resto, ha stabilito il principio secondo il quale «dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni» (principio 2.2). Da questo principio deriva che dopo il matrimonio, gli unici legami a rimanere in vita sono quelli che riguardano i figli o, qualora dei rapporti di tipo patrimoniale siano effettivamente mantenuti, essi abbiano quantomeno il carattere della temporaneita' (principio 2.8). Anche sotto questo profilo, dunque, l'irragionevolezza del diritto vivente di cui si tratta appare evidente, ponendosi sostanzialmente in netto contrasto con trend normativi consolidati negli altri paesi dell'Unione europea. 10. Puo' infine osservarsi che il matrimonio ed il divorzio sono istituti storicamente determinati, i cui mutamenti vanno di pari passo con le trasformazioni sociali, sicche' il loro profilo funzionale non e' definibile in astratto, una volta per tutte, ma occorre tener conto del modo in cui, secondo indici storicamente mutevoli, essi vengono intesi e interpretati nell'esperienza giuridica di un dato contesto sociale. Nel periodo storico che va dalla meta' del XIX ai nostri giorni si e' assistito ad un'evoluzione del matrimonio nel mondo occidentale, con la progressiva affermazione dell'idea che la ragione d'essere di questo istituto sia da identificare esclusivamente nell'affetto reciproco degli sposi, con il definitivo superamento della visione tradizionale che privilegiava gli aspetti assistenziali e patrimoniali del medesimo. La concezione tradizionale, che attribuiva al matrimonio - fra l'altro - lo scopo di assicurare una posizione e uno status sociale alla donna, e' stata sostituita dall'idea che il matrimonio sia un fatto privato degli sposi e si fondi sul reciproco consenso, venendo meno il quale si ha la dissoluzione definitiva del vincolo e del rapporto che ad esso e' conseguito. Il diritto vivente oggetto della presente questione di costituzionalita', pero', mantiene fermo il principio che il matrimonio proietti i suoi effetti patrimoniali in perpetuo, con la possibilita' che un coniuge possa beneficiare di una rendita ben superiore ai propri bisogni di natura assistenziale. Tale concezione non tiene dunque conto dei profondi mutamenti dei modelli culturali degli ultimi decenni, esprimendo una concezione «criptoindissolubilista» del matrimonio che appare oggi anacronistica. La giurisprudenza costituzionale ha piu' volte riconosciuto la sopravvenuta illegittimita' di norme divenute «anacronistiche» e per tale motivo irragionevoli. Il giudizio di costituzionalita' e' infatti senz'altro aperto agli «argomenti storici», che consentono di valutare le conseguenze derivanti dai mutamenti intervenuti, per decorso del tempo, nelle situazioni di diritto e nelle situazioni di fatto. L'anacronismo, in particolare, ricorre quando una disciplina positiva perde progressivamente la propria ragion d'essere per effetto del decorso del tempo, finendo per non corrispondere piu' adeguatamente alle esigenze per le quali era stata posta in essere originariamente, ovvero alle situazioni sociali di riferimento: «tale esigenza, pressante per quanto fosse a suo tempo, e' venuta affievolendosi, [...] sconfinando oltre il ragionevole esercizio della discrezionalita' legislativa» (Corte cost. sent n. 4 del 1981); «una concezione non aggiornata [della realta' di riferimento] e l'obsolescenza dei motivi di trattamento con riflessi di ordine propriamente costituzionale in relazione al criterio della corrispondenza a realta' (giustamente accolto ai fini del controllo del rispetto del principio di eguaglianza)», implicano che la norma «anacronistica» debba essere considerata irragionevole (Corte cost. sent. n. 20 del 1978). I casi di anacronismo legislativo sono stati oggetto di numerose pronunce di accoglimento (o interpretative di rigetto) della Corte costituzionale, proprio basate sulla irragionevolezza: cfr. sent. n. 189 del 1987, sent. n. 108 del 1994, sent. n. 254 del 2002, sent. n. 318 del 2002, sent. n. 445 del 2002. In materia di parita' fra i coniugi, la nota sent. n. 126 del 1968 sull'«asimmetria» fra le conseguenze della violazione dell'obbligo di fedelta' matrimoniale muove proprio da argomentazioni riguardanti la modifica delle condizioni sociali e giuridiche, dalle quali trae fondamento la pronuncia di irragionevolezza della normativa vigente in quanto «molto e' mutato nella vita sociale: la donna ha acquistato pienezza di diritti e la sua partecipazione alla vita economica e sociale della famiglia e della intera collettivita' e' diventata molto piu' intensa». Anche nel piu' recente periodo, la Corte costituzionale ha avuto modo di segnalale l'evoluzione del concetto di matrimonio e del contenuto di diritti e doveri che esso comporta (sent. n. 138 del 2010, sent. n. 61 del 2006; Relazione del Presidente della Corte costituzionale prof. Franco Gallo del 12 aprile 2013). Sotto questi profili, dunque, il profondo mutamento dello stesso significato del divorzio, cosi' come piu' in generale quello degli assetti della famiglia e del ruolo dei coniugi e delle donne nella societa', induce a ritenere profondamente irragionevole ed anacronistico un diritto vivente quale quello oggetto della presente questione di costituzionalita'. Appare in conclusione necessaria una revisione critica del dogma del «tenore di vita», un dogma che ormai appartiene ad un'altra epoca, ad un'altra gerarchia di valori non piu' adeguati alla contemporanea legalita' costituzionale. 11. Ritenuta dunque rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita', il presente giudizio viene sospeso. 12. Ogni statuizione in rito, in merito, e in ordine alle spese di causa, resta riservata alla decisione definitiva.
P. Q. M. Visti l'art. 134 della Costituzione, l'art. 1 della legge cost. 1/1948, l'art. 23 della legge 87/1953, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 5 comma VI della legge n. 898/1970, come modificato dall'art. 10 della legge n. 74/1987, nell'interpretazione di diritto vivente per cui in presenza di una disparita' economica tra i coniugi l'assegno divorzile deve necessariamente garantire al coniuge economicamente piu' debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, in relazione agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, per le ragioni indicate nella parte motiva della presente ordinanza. Manda alla Cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' di darne comunicazione al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati ed alle parti del presente giudizio. Dispone la trasmissione alla Corte costituzionale della presente ordinanza. Sospende il giudizio in corso. Si comunichi a cura della cancelleria alle parti della causa. Cosi deciso in Firenze nella Camera di Consiglio in data 15 maggio 2013. Il presidente estensore: Palazzo