N. 252 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 aprile 2013

Ordinanza del 26 aprile 2013 emessa dal giudice designato della Corte
d'appello di Reggio Calabria  nel  procedimento  civile  promosso  da
Martella Giuseppe contro il Ministero della giustizia.. 
 
Procedimento  civile  -  Equa  riparazione   per   violazione   della
  ragionevole  durata  del  processo  -  Misura   dell'indennizzo   -
  Limitazione al "valore del diritto accertato [dal  giudice]"  senza
  alcuna   ulteriore   specificazione   o   limite   -    Conseguente
  impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
  favore della parte che, nel  processo  presupposto,  sia  risultata
  interamente soccombente -  Contrasto  con  la  Convenzione  per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), come interpretata  dalla
  giurisprudenza della Corte europea dei diritti  dell'uomo,  secondo
  cui la soccombenza nel procedimento  presupposto  non  preclude  il
  diritto alla "equa soddisfazione" per la sua irragionevole durata -
  Inosservanza di vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. 
- Legge 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis, comma 3, inserito dall'art.
  55, comma 1, lett. b), del decreto-legge 22  giugno  2012,  n.  83,
  convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134. 
- Costituzione, art. 117, primo comma, in relazione all'art. 6  della
  Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
  liberta' fondamentali. 
(GU n.48 del 27-11-2013 )
 
                         LA CORTE D'APPELLO 
 
    Ha emesso il seguente decreto nel  procedimento  iscritto  al  n.
71/2013 V.G. 
    Letto il ricorso proposto ai  sensi  della  legge  n.  89/2001  e
modif. succ. in data 29 marzo 2013 da:  Martella  Giuseppe;  nato  in
data 9 giugno 1956 a Messina ed ivi residente  in  via  Garibaldi  n.
308; codice fiscale MRT GPP 56H09 F158D; parte rappresentata e difesa
per procura ai margini del predetto atto  dall'avv.  Marino  Domenico
del foro di Messina ed elettivamente domiciliata in Reggio  Calabria,
presso lo studio dell'avv. Federico Francesco (via  S.  Francesco  da
Paola n. 14/A); pec: avv.domenicomarino@pec.giuffre.it; 
    Vista la documentazione allegata (trasmessa a  questo  magistrato
in data 18 aprile 2013); 
    Premesso in punto di fatto che la decisione che  ha  concluso  il
procedimento presupposto (emessa in  data  9  luglio  2012-5  ottobre
2012) e' irrevocabile e che il ricorso odierno e' stato depositato in
data 29 marzo 2013; 
    Dato atto che la domanda e' stata introdotta entro il termine  di
proponibilita' di rito (fermo il disposto dell'art. 4 della legge  n.
89 del 2001 nel testo vigente, secondo cui la domanda di  riparazione
puo' essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi  dal  momento
in cui  la  decisione,  che  conclude  il  procedimento  e'  divenuta
definitiva), donde la sua ammissibilita'; 
    Considerato in diritto che: 
        la soccombenza nel giudizio presupposto di colui che promuova
un ricorso per equo indennizzo (ai sensi della legge n. 89 del 2001 e
modif. succ.) e' stata espressamente prevista quale causa di  rigetto
della domanda - a termini dell'art. 2, comma 2-quinquies della  legge
citata, nel testo  in  atto  vigente  -  soltanto  nel  caso  in  cui
concorrano con essa i requisiti ulteriori: 
    della condanna del soccombente  per  responsabilita'  processuale
aggravata ex art. 96 del codice di procedura civile; 
    della condanna del medesimo ex  art.  91,  primo  comma,  secondo
periodo del codice di procedura civile; 
        ovvero, ancora: 
        dell'aver detta parte posto in  essere  un  abuso  di  poteri
processuali che abbia  determinato  un'ingiustificata  dilazione  dei
termini del procedimento; 
        sicche' puo' darsi atto che persiste (pur dopo la novella  di
cui alla legge n. 134 del 2012)  il  riconoscimento  normativo  d'una
piena legittimazione in capo alla parte, anche  se  gia'  soccombente
nel giudizio presupposto,  a  far  valutare  l'eventuale  sussistenza
d'una lesione del suo diritto a conseguire in  un  tempo  ragionevole
una pronuncia risolutiva della questione controversa; 
        la previsione contenuta nel comma 3 del «nuovo»  art.  2-bis,
secondo cui «... la misura dell'indennizzo, anche in deroga al  comma
1, non puo' in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se
inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice  ...»,  che  ha
introdotto un tetto massimo (o valore «soglia») per la determinazione
in concreto del quantum liquidabile prima non previsto, in quanto non
coordinata  con  il  superiore  principio  fa  tuttavia  sorgere  due
distinti problemi interpretativi, che esigono  coerenti  e  correlate
soluzioni (data la loro reciproca interdipendenza): 
    1) cosa debba intendersi per «... valore  del  diritto  accertato
dal giudice ...»; 
    2)  se   l'introduzione   d'un   tetto   massimo   all'indennizzo
liquidabile cosi' avvenuta valga per tutti i possibili  epiloghi  del
giudizio  presupposto  e  per  tutte  le   parti   d'esso   (qualora,
ovviamente, promuovano un ricorso ex lege Pinto); 
rilevato, in proposito: 
        sub 1): 
    che (nella scelta materiale con cui il legislatore ha  provveduto
a calmierare gli effetti per l'Erario  delle  decisioni  emanande  in
subiecta materia) il «valore del diritto accertato» e' parametro  che
(sebbene suppletivo) prevale  rispetto  a  quello  del  valore  della
causa, qualora in concreto gli sia inferiore; 
    che per l'identificazione del parametro  primario  suddetto  (che
comunque  va  determinato,  ai  fini  perequativi   suddetti)   unico
possibile richiamo si  da'  con  riferimento  alla  disciplina  della
determinazione del valore della controversia (rilevante sia  in  tema
d'individuazione del Giudice competente sia per la liquidazione delle
spese giudiziali) dettata dagli articoli 7 e seguenti, fino a 17  del
codice di procedura civile; 
    che   mentre   per   le   cause   di   valore   «determinato»   o
«determinabile», il «valore soglia» in questione - se ad esso dovesse
essere correlato -sarebbe agevolmente individuabile, per le cause cd.
di valore indeterminabile e' dubbio se debba applicarsi  il  criterio
per cui la causa avra' valore entro il tetto  massimo  di  competenza
del giudice adito (soluzione che potrebbe operare  peraltro  soltanto
per le cause di competenza del giudice  di  pace)  o  quello  aliunde
determinato ai sensi degli articoli  10  e  seguenti,  ovvero  se  la
predetta disposizione non trovi applicazione  e  quindi  l'indennizzo
liquidabile ex lege n. 89  del  2001  non  debba,  in  tali  ipotesi,
incontrare alcun tetto massimo (come sembrerebbe potersi arguire, tra
l'altro, in materia  di  accertamento  su  diritti  di  personalita',
diritti indisponibili o status e posizioni giuridicamente  tutelabili
analoghe); 
    che,   comunque,   l'epilogo   del   procedimento    presupposto,
nell'ipotesi di soccombenza in esso di chi promuova ricorso ai  sensi
della legge  n.  89  del  2001,  rileva  alla  luce  delle  superiori
constatazioni anche quale elemento per la determinazione della soglia
(o «tetto massimo») della concreta liquidabilita'  dell'indennizzo  e
va pertanto assunto nel novero degli elementi  funzionali  al  merito
della decisione emananda; 
    che in subiecta materia notoriamente e' ammesso che  sussiste  un
pregiudizio  in  re  ipsa,  suscettibile  dunque  di  quantificazione
equitativa, sicche' non puo' affermarsi: 
ne' che sia onere del ricorrente dedurre e  provare  (quale  elemento
indefettibile per il vaglio della domanda) se sussista e quale sia il
valore «soglia» di cui al comma 3 dell'art. 2-bis della legge citata; 
ne' che, in difetto d'allegazione o  deduzione  d'elementi  idonei  a
consentirne l'identificazione e la quantificazione  (sempre  ai  soli
fini  della  legge  n.  89  del   2001),   tanto   ne   comporterebbe
l'inammissibilita': 
    non si dimentichi, infatti, che si  versa  in  tema  di  giudizio
monitorio cui si applicano i primi due commi dell'art. 640 del codice
di  procedura  civile  (secondo  cui  «...  Il  giudice,  se  ritiene
insufficientemente  giustificata   la   domanda,   dispone   che   il
cancelliere ne dia notizia al ricorrente,  invitandolo  a  provvedere
alla prova ...»,  con  l'esito  sanzionatorio  per  cui  «...  se  il
ricorrente non risponde all'invito o non ritira il ricorso oppure  se
la domanda non e' accoglibile, il  giudice  la  rigetta  con  decreto
motivato ...») e che  il  giudicante  non  puo'  pertanto  rigettare,
ovvero  dichiarare  inammissibile,  la  domanda  per   la   superiore
circostanza; 
    che,  pero',  mentre  per  il  regime  della  competenza  si   fa
riferimento al valore quale determinato o determinabile in  relazione
alpetitum (o ai petita), per  il  regime  della  legge  Pinto  si  fa
riferimento al valore ritenuto in decisione, e pertanto  va  chiarito
quale sia l'effettivo contenuto prescrittivo della disposizione; 
        sub 2), che  va  verificato  se  detta  disposizione  integri
un'ulteriore causa d'eventuale esclusione d'indennizzo (ancorche' non
espressamente tipizzata come tale), nel senso che nulla possa  essere
riconosciuto all'istante nel caso in  cui  il  diritto  dallo  stesso
asseritamente vantato sia fatto  valere  in  giudizio  ma  sia  stato
affermato insussistente (in tutto o in parte), ovvero se  qualora  il
ricorrente sia stato soccombente (in tutto o in parte)  nel  giudizio
presupposto e detto giudizio abbia  avuto  durata  irragionevole,  la
negazione del diritto preteso non valga anche ad escludere il diritto
ad equo indennizzo; 
        ed in proposito almeno tre sono le opzioni  praticabili,  nel
senso che: 
    2.1. 
    una prima opzione suggerisce  che  la  prima  eventualita'  possa
ammettersi nel sistema (e sarebbe probabilmente quella piu'  coerente
con l'esigenza calmieratrice di cui s'e' detto); 
    cio' (sebbene in apparente contrasto con l'indirizzo  consolidato
della CEDU in proposito, per cui anche il totalmente  soccombente  ha
diritto ad equo  indennizzo  in  caso  di  durata  irragionevole  del
processo di cui sia stato parte) in via ermeneutica deriva dal  fatto
che una siffatta interpretazione  della  norma  (che  apparirebbe  in
sintonia,  peraltro,  con  alcuni  spunti  offerti  dalla   relazione
introduttiva del testo  del  disegno  di  legge  poi  definitivamente
approvato dal Parlamento e, tra questi, segnatamente con  il  rilievo
della  necessita'  d'arginare  la  presunzione  di  dannosita'  della
prolungata durata di un processo in modo che non divenga assoluta, ma
rimanga iuris tantum, con  conseguente  ammissibilita'  -  nonostante
eventuali diversi dicta della Corte CEDU - d'ipotesi d'esclusione del
diritto ad un indennizzo anche in caso di  irragionevole  durata  del
giudizio stesso la' dove cio' comunque ripugni a  principi  superiori
dell'ordinamento interno) sarebbe coerente altresi' con la  ratio  di
non poche altre disposizioni della novella normativa  in  esame,  tra
cui: 
    le richiamate previsioni d'esclusione del diritto  all'indennizzo
di cui all'art. 2, comma 2-quinquies; 
    la disposizione che indica l'esito del processo tra  i  parametri
cui commisurare l'indennizzo; 
    la  prevista   improponibilita'   della   domanda   prima   della
definizione del procedimento con provvedimento irrevocabile  (che  e'
funzionale a consentire proprio il vaglio dell'esito di tale giudizio
ai fini liquidatori suddetti); 
    2.2 
    una seconda opzione proporrebbe, invece, di ritenere non soltanto
che il diritto ad equo indennizzo spetti comunque (ove non  si  versi
nelle cause d'esclusione espressamente tipizzate) anche al ricorrente
totalmente soccombente nel giudizio presupposto,  ma  pure  che  esso
debba essere commisurato entro il range  normativamente  stabilito  -
tra i 500 ed i 1500 euro per anno (o frazione) - e  comunque  con  le
limitazioni  di  soglia  o  di  tetto   massimo   dettate   dall'art.
2-quinquies, comma 3 (come a dire che  non  solo  il  vittorioso  nel
giudizio presupposto ma anche il soccombente  incontrera'  un  limite
quantitativo alla pretesa riconoscibile); 
    2.3 
    una terza  opzione,  infine,  parrebbe  ammettere  che  in  detta
liquidazione a pro del totale soccombente il valore  soglia  suddetto
non dovrebbe operare (perche' non v'e' a  suo  favore  riconoscimento
d'alcun diritto al cui valore parametrare tale tetto massimo); 
    ma e' palese che  tanto  implicherebbe  una  diversificazione  di
trattamento (con esito premiale per il soccombente e penalizzante per
il vittorioso parziale)  difficilmente  compatibile  con  i  principi
costituzionali d'uguaglianza e ragionevolezza; 
    Constatato che la seconda delle tre opzioni enunciate  e'  invece
quella (nel contesto di sistema vigente in proposito)  piu'  coerente
con l'indirizzo costante CEDU retro richiamato e con la littera legis
della novella  del  2012  e,  per  tal  ragione,  va  tendenzialmente
preferita, poiche' se il legislatore  avesse  voluto  anche  in  tale
ipotesi derogarvi (in ossequio a  principi  superiori  d'ordinamento,
quali quelli d'uguaglianza e  di  ragionevolezza)  avrebbe  potuto  e
dovuto prevederlo; 
    Rilevato che, tuttavia, occorre chiarire ugualmente -  nei  sensi
retro richiamati sub 1) -  cosa  debba  intendersi  per  «valore  del
diritto accertato»; 
    Ritenuto, in proposito, che: 
    assumere che il valore di soglia massima sia applicabile  per  il
solo caso in cui il ricorrente ex lege  n.  89  del  2011  sia  stato
sostanzialmente  vittorioso  (in  tutto  o  in  parte)  nel  giudizio
presupposto non risulta, in difetto d'espresse  clausole  limitative,
ammissibile; 
    la disposizione, d'altronde, va coordinata con la previsione  del
comma  2  del  medesimo  articolo  (secondo  cui:  «L'indennizzo   e'
determinato a norma dell'art. 2056 del codice civile, tenendo  conto:
a) dell'esito del processo [corsivo dell'estensore] nel quale  si  e'
verificata la violazione di cui  al  comma  1  dell'art.  2;  b)  del
comportamento del giudice  e  delle  parti;  c)  della  natura  degli
interessi coinvolti; d) del valore e  della  rilevanza  della  causa,
valutati anche in relazione alle  condizioni  personali  della  parte
...»), che a tanto non fa alcun riferimento; 
    ancora, e' da considerare che l'accertamento della violazione del
diritto alla ragionevole durata del processo (che e' l'oggetto  della
cognizione del procedimento in questione) non verte  soltanto  quanto
accade «nel» processo, come parrebbe prima facie dedursi dall'incipit
dell'art. 2, comma 2 («... Nell'accertare la  violazione  il  giudice
valuta la complessita'  del  caso,  l'oggetto  del  procedimento,  il
comportamento delle parti e  del  giudice  durante  il  procedimento,
nonche' quello di ogni altro soggetto  chiamato  a  concorrervi  o  a
contribuire alla sua definizione»), ma anche il suo concreto  epilogo
(perche' occorre verificare che si sia al di fuori delle  ipotesi  di
prevista esclusione del diritto ad indennizzo, e dunque non  si  puo'
prescindere dal suo rilievo ai superiori fini); 
    opinare che la superiore lettera possa interpretarsi nel senso di
aver fatto riferimento alla vittoriosita' o alla soccombenza in senso
processuale e non  sostanziale  (equiparando  cosi'  l'una  all'altra
delle due parti del  giudizio  presupposto)  non  sembra  discutibile
tanto sotto il profilo  dell'equita'  sostanziale,  quanto  sotto  il
profilo del rigore formale dell'interpretazione che vuole adottarsi; 
    non appare infatti concettualmente scorretto legittimare, in tali
eventualita',  l'impiego  quale   valore   di   soglia   massima   di
liquidazione - in via suppletiva rispetto a  quello  del  valore  del
diritto riconosciuto (che non c'e', perche' la sentenza  «rigetta»  o
dichiara inammissibile o improponibile o improcedibile la domanda)  -
quello del valore «positivo» che il giudizio  abbia  comunque  recato
alla parte processualmente vittoriosa: 
    avendo infatti il diritto  negato  all'uno  un  rilievo  concreto
economicamente correlabile alla sfera giuridica dell'altro (nel senso
che  il  convenuto  nel  giudizio   presupposto   che   non   formuli
riconvenzionali ma si limiti ad  una  mera  difesa  comunque  «lucra»
dalla sconfitta della pretesa altrui  la  stabilizzazione  della  sua
situazione quo antea, ossia il non dover corrispondere o il non dover
adempiere ad un facere altrimenti per lui oneroso  nella  misura  del
petitum preteso e poi disatteso),  l'interessato  potrebbe  venire  a
conseguire un indennizzo  da  irragionevole  durata  pur  non  avendo
azionato alcuna pretesa ex adverso, ed addirittura in misura massima,
mentre  quella   consentita   al   sostanzialmente   vittorioso   (ma
processualmente  di   gran   lunga   soccombente)   potrebbe   essere
decisamente inferiore alla prima; 
    e  cio'  non  risulterebbe  irragionevole  (o   comunque   lesivo
dell'uguaglianza sostanziale tra le parti di lite),  per  la  diversa
incidenza concreta sulla situazione di  vita  dell'uno  e  dell'altro
della pendenza in se d'un processo potenzialmente foriero d'apportare
vantaggio o svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti;  in  tale
ipotesi si dovrebbe pero' prescindere dal  principio  della  domanda,
che sembra invece recepito dal dictum espresso della disposizione  in
esame («... valore del diritto accertato ...»); 
    di dubbia legittima appare, invece, una  liquidazione  equitativa
che -adottando,  in  via  suppletiva,  un  criterio  di  perequazione
correttivo di potenziali distorsioni - riconoscesse che  l'ammontare;
o del valore del diritto riconosciuto in concreto alla controparte; o
del valore del giudizio (in base  al  variabile  grado  di  rilevanza
della soccombenza, se parziale o totale)  possano  costituire  soglie
non superabili per entrambi i gia' contendenti; 
    e cio' nel senso che, qualora il valore del diritto accertato  in
capo all'attore (o ricorrente) del giudizio  presupposto  fosse  0  o
inferiore a quello del valore del giudizio in  senso  processuale,  o
comunque accertato ex post, della controparte,  questa  non  potrebbe
vedersi  comunque  riconosciuto  un  indennizzo  superiore  a  quello
dell'attore sostanzialmente soccombente; 
    e cio' poiche' tanto risulta incompatibile con l'indole oggettiva
del valore «soglia» in questione e non  e'  consentito  dal  tipo  di
discrezionalita' ammessa  per  il  giudicante  in  subiecta  materia,
poiche'  detta  discrezionalita'  e'   pur   sempre   «vincolata»   -
trattandosi  d'un  procedimento  liquidatorio   che   conferisce   al
decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove si  riconosca
che e' comunque prevista una soglia minima  inderogabile  (riferibile
all'indole non meramente simbolica dell'indennizzo da riconoscere)  -
e  la  sua  sindacabilita'  in  sede  d'opposizione  garantisce   che
l'eventuale ricorso appunto a  parametri  d'equita'  non  vulneri  il
fondamento  che  la  predetta  discrezionalita'  ripete  dalla  legge
vigente; 
    provando   allora   ad   individuare   i    casi    astrattamente
prospettabili, e cioe': 
    a) quello in cui il ricorrente sia stato parzialmente soccombente
-  vuoi  quale  attore  (o  ricorrente),  vuoi  quale  convenuto   (o
resistente) - nel giudizio presupposto; 
    b) quello in cui il ricorrente sia stato  totalmente  soccombente
quale convenuto (o resistente) nel giudizio presupposto; 
    c) quello in cui il ricorrente sia stato  totalmente  soccombente
quale attore (o ricorrente) nel giudizio presupposto; 
        puo'  pertanto   assumersi,   alla   luce   delle   superiori
arguizioni, che: 
    nell'ipotesi sub a), il valore «soglia» comunque  non  superabile
nella liquidazione dell'indennizzo (imposto dall'art. 2-bis, comma  3
della legge citata) debba essere identificato nel valore del  diritto
effettivamente riconosciuto alla parte sostanzialmente vittoriosa; 
    nell'ipotesi sub b), il valore «soglia» comunque  non  superabile
sara' pur sempre individuato nel valore del diritto riconosciuto alla
parte   sostanzialmente   vittoriosa,   ed   ovviamente,   salva   la
specificita' della vicenda processuale (che potra'  giustificare,  in
situazioni peculiari, anche l'equiparazione  tra  le  parti),  potra'
essere diversificata la  misura  dell'indennizzo  -  entro  il  range
assentito   -   con   tendenziale   liquidazione   di   quella    del
sostanzialmente   soccombente   in   misura   inferiore   a    quella
riconoscibile al sostanzialmente vittorioso ma  con  possibilita'  di
sua equiparazione ad essa; 
    nell'ipotesi sub c), infine, e' da osservare che: 
    l'accertamento negativo della sussistenza di un diritto  equivale
all'accertamento che il diritto fatto valere in  giudizio  ha  valore
(per chi asseriva di esserne titolare e di poterne fruire e disporre)
giuridicamente ed economicamente pari a 0; 
    e' vero poi che, ove non siano formulate riconvenzionali, ma mere
difese (o eccezioni idonee a paralizzare la pretesa altrui), non v'e'
ex adverso alcuna domanda e pertanto non puo' agevolmente  affermarsi
che la pronuncia abbia implicitamente  accertato  contra  un  qualche
diritto del convenuto o del resistente (cui riferire l'individuazione
del predetto valore soglia). 
    A questo ultimo riguardo va pero' chiarito: 
    in primo luogo, che  puo'  assumersi,  se  il  soccombente  e  la
controparte permangono nella situazione quo antea, che dal  punto  di
vista della controparte vi sia una sostanziale vittoriosita', poiche'
essa pur godra' del risultato utile costituito dalla  continuita'  di
detta situazione  di  fatto  rispetto  alle  pretese  dell'attore  (o
ricorrente) su cui sia intervenuto il giudicato ed entro i limiti del
suo valore (quale  emerso  in  decisione)  potra'  invocare  per  se'
indennizzo (come riconosciuto sub b); 
    in secondo luogo, che cio' non equivale ad alcuna stabilizzazione
o qualificabilita' della  stessa  alla  stregua  d'un  diritto  o  di
situazione di fatto giuridicamente tutelabile ne'  verso  costui  ne'
verso chicchessia ed implichera' soltanto  che  il  bene  della  vita
controverso   (che   ha   pur   sempre   un   valore   economicamente
quantificabile) risultera' «intatto» rispetto all'iniziativa attorea,
ma solo interinalmente; 
    in terzo luogo, che a pro' dell'attore o ricorrente - che subisca
(nel  giudizio  presupposto)  la  predetta  soccombenza  processuale,
eventualmente con condanna soltanto  per  la  rifusione  delle  spese
processuali, ai fini della quantificazione del correlato  diritto  ad
equo indennizzo in caso di durata irragionevole di detto procedimento
potra' utilizzarsi quale valore «soglia» non  superabile  quello  del
valore economico dei diritto antea goduto dal convenuto o  resistente
vittorioso, o, qualora non ve  ne  fosse  alcuno,  il  valore  soglia
costituito dal valore  economico  del  bene  della  vita  dedotto  in
controversia quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi,  se
esso non sia suscettibile di rilievo patrimoniale,  non  v'e'  a  ben
vedere un parametro che consenta di provvedere; 
    Dato atto che, nella vicenda che ne occupa: 
    a) la parte ricorrente e' risultata integralmente soccombente nel
giudizio presupposto; 
    b) il procedimento presupposto ha avuto una durata: 
    di anni quattro, mesi dieci e giorni quattordici per il  giudizio
di primo grado (dalla notifica dell'atto  introduttivo,  avvenuta  in
data 15 ottobre 1999 al deposito della sentenza di merito in data  30
agosto 2004); 
    di anni tre, mesi sei e giorni otto per il  giudizio  di  secondo
grado (dalla notifica dell'atto d'impugnazione  in  data  4  novembre
2004 al deposito della sentenza di merito in data 13 maggio 2008); 
    di anni tre, mesi due e giorni  ventisette  per  il  giudizio  di
legittimita' (dal deposito del ricorso introduttivo in data 7  luglio
2009 ai deposito della sentenza in data 5 ottobre 2012); 
        c) esso eccede pertanto di anni cinque, mesi sette  e  giorni
diciotto rispetto ai termini di cui  all'art.  2-bis  e  2-ter  della
legge n. 89/2001; 
    Valutati la complessita' del caso, l'oggetto del procedimento, il
comportamento delle parti  e  del  giudice  durante  il  procedimento
nonche' degli altri soggetti chiamati a concorrere  o  a  contribuire
alla sua definizione e  la  circostanza  dell'avvenuta  compensazione
integrale tra le parti delle spese di lite per i primi due gradi  del
giudizio; 
    Dato atto che presso  questa  Corte  d'appello  i  precedenti  di
merito disponibili ad oggi (per casi identici a quello  che  oggi  ne
occupa) appaiono tra loro discordanti al riguardo della soluzione  da
individuare per la questione esaminata, poiche': 
    in precedente occasione (nel procedimento iscritto al n. 566/2012
VG) essa e' stata risolta da questo magistrato delegato nei senso  di
riconoscere comunque l'operativita' della norma di  riferimento,  pur
senza  che  sia  ritraibile  nel  sistema  certezza  rassicurante  in
proposito; 
    in data 8  aprile  2013  e'  stata  invece  da  altro  magistrato
delegato gia' posta questione di costituzionalita' (nel  procedimento
iscritto al n. 58/2013 VG) nei sensi che di seguito di riproducono: 
    «...  3.  -  Il  parametro  costituzionale  di  riferimento.   La
rilevanza  e  la  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
legittimita' costituzionale. 
    Il dubbio di costituzionalita' della norma suindicata  nasce  dal
contrasto della stessa con l'art. 6, § 1, della  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre  1950,  come  interpretata
dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, nella
misura in cui tale norma, nella detta interpretazione,  puo'  e  deve
intendersi assurta  a  parametro  di  costituzionalita'  della  legge
interna per effetto del richiamo operato dall'art. 117 Cost. 
    3.1. - Al riguardo e' opportuno anzitutto brevemente tratteggiare
le coordinate giuridiche entro  le  quali  questo  decidente  ritiene
doversi muovere nel districarsi tra i rapporti tra  norme  interne  e
norme CEDU: 
    i) prima regola deve considerarsi quella (costantemente affermata
dalla Corte di cassazione a  partire  dalle  pronunce  delle  Sezioni
unite del 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339, n.  1340  e  n.  1341  e
quindi avallata anche dalla Corte costituzionale a partire dalle note
sentenze gemelle del 2007, nn. 348 e 349, e con  numerose  successive
pronunce, sino, da ultimo,  all'ordinanza  7  giugno  2012,  n.  150)
secondo cui il giudice comune ha il dovere di «applicare  il  diritto
nazionale conformemente alla Convenzione» e  di  «interpretare  detta
legge  in  modo  conforme  alla  CEDU  per  come  essa   vive   nella
giurisprudenza della Corte europea»; a tal fine secondo  la  costante
giurisprudenza  costituzionale,  il  giudice  comune  deve  anzitutto
individuare la norma della Convenzione applicabile  alla  fattispecie
sottoposta al suo esame e, nel verificare se essa sia vulnerata dalla
disposizione interna, cio' deve fare avendo riguardo alla norma  CEDU
quale risulta dall'interpretazione  della  Corte  di  Strasburgo  (v.
Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236, contenente una completa  rassegna
delle pronunce che, a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007, n.  348
e n. 349 del 2007, hanno affermato detto principio).  Egli  non  puo'
«sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di
Strasburgo», che  deve  applicare  nel  significato  attribuitole  da
quest'ultima, avendo  tuttavia  riguardo  alla  «sostanza  di  quella
giurisprudenza»,  e  dunque  potendo  in  tal  senso  giovarsi  degli
specifici margini di apprezzamento  riservati  al  giudice  nazionale
(Corte cost. 26 novembre 2009, n. 311; 22 luglio 2011, n. 236, cit.); 
    ii) tale dovere opera «"per quanto possibile", e quindi solo  nei
limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa  possibile  dal
testo della stessa legge», che il giudice non puo'  violare,  essendo
ad essa «pur sempre soggetto», con la conseguenza che qualora  rilevi
un contrasto della norma interna con la norma convenzionale, al quale
non possa  porre  rimedio  mediante  l'interpretazione  conforme,  e'
tenuto a sollevare questione  di  legittimita'  costituzionale  della
prima, in riferimento all'art. 117, primo comma,  Cost.,  poiche'  e'
privo del potere di non applicare la disposizione interna (v. in  tal
senso, proprio in materia di equa riparazione, Cass. 11  marzo  2009,
n. 5894). 
    Siffatti principi, dopo  l'entrata  in  vigore  del  Trattato  di
Lisbona, sono stati dapprima implicitamente confermati da  una  serie
di sentenze del 2010 e dell'inizio del 2011 (sentenze 5 gennaio 2011,
n. 1; 4 giugno 2010, n. 196; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile  2010,
n. 138; 12 marzo 2010, n. 93) quindi,  sono  stati  ribaditi,  quanto
all'inesistenza del potere del  giudice  comune  di  disapplicare  la
norma interna in contrasto con la norma convenzionale, dalla sentenza
11 marzo 2011, n.  80,  i  cui  principi  sono  stati  confermati  da
successive pronunce (sentenze 11 novembre 2011,  n.  303;  22  luglio
2011, n. 236; 8 giugno 2011, n. 175; 7 aprile 2011, n. 113; ordinanze
8 giugno 2011, n. 180; 15 aprile 2011, n. 138) e, di  recente,  hanno
ricevuto il conforto della Corte di  giustizia  (sentenza  24  aprile
2012, n. C-571/10, Kamberaj, secondo  la  quale  «il  rinvio  operato
dall'art. 6,  paragrafo  3,  TUE  alla  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone al  giudice  nazionale,
in caso di conflitto fra una  norma  di  diritto  nazionale  e  detta
Convenzione,   di   applicare   direttamente   le   disposizioni   di
quest'ultima,  disapplicando  la  norma  di  diritto   nazionale   in
contrasto con essa»), 
    3.2. - Orbene, le esposte coordinate non  possono  che  condurre,
con riferimento alla questione descritta, ad investire  della  stessa
la Corte costituzionale, sussistendo entrambi i presupposti richiesti
dall'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87,  ossia  la  rilevanza  della
questione ai fini della decisione sulla proposta  domanda  e  la  non
manifesta infondatezza della stessa. 
    Quanto alla rilevanza e' appena il caso di ribadire che la  norma
additata a sospetto ha una diretta incidenza  nella  decisione  sulla
proposta  domanda  di  equa  riparazione:  se  ne   fosse,   infatti,
confermata  la  legittimita'  costituzionale  in  applicazione  della
stessa la domanda (come in altri casi analoghi e'  stato  deciso  nei
precedenti  citati)  andrebbe  rigettata;  in  caso  contrarlo   essa
andrebbe accolta, salvo solo una  commisurazione  tendenzialmente  al
minimo dell'indennizzo spettante, all'interno del range  fissato  nel
primo comma dell'art. 2-bis e salvo sempre  il  limite  rappresentato
dal valore della causa. 
    Quanto alla sua  non  manifesta  infondatezza  la  stessa  appare
altresi' piu' che fondatamene predicabile, atteso che,  da  un  lato,
non puo' dubitarsi dell'irriducibile contrasto  della  norma  interna
(ripetesi, art. 2-bis, comma 3, ultimo inciso, legge n. 89/2001)  con
la giurisprudenza della Corte europea sul tema, dall'altro,  si  deve
anche escludere  la  possibilita'  di  una  diversa  interpretazione,
costituzionalmente orientata, della norma interna. 
    3.2.1. - Sotto il primo profilo (contrasto  della  norma  con  la
giurisprudenza europea) e' noto che la Corte di Strasburgo ha  sempre
sottolineato l'irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in se' e
per  se'  considerata,  ai  fini  del  diritto   alla   «satisfaction
equitable» dell'art. 41 della Convenzione, in ragione del rilievo che
la parte,  indipendentemente  dall'esito  della  causa,  ha  comunque
subito una diminuzione della qualita' della vita in  conseguenza  dei
patemi d'animo sopportati durante il  lungo  arco  temporale  che  ha
preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale (v.
ex  aliis  Corte  europea  diritti  dell'uomo,  19   febbraio   1992,
Paulsen-Medalen c. Svezia, in Recuell 1998, I, p.  132,  che,  in  un
caso in cui una madre protestava contro alcune restrizioni al diritto
di visitare i propri figli, dati in affidamento, ha riconosciuto alla
ricorrente la somma di 10,000 corone titolo di  «equa  soddisfazione»
ai sensi dell'art. 41 della convenzione, anche se le  restrizioni  in
questione erano state confermate nei vari gradi di giudizio). 
    Un siffatto principio e'  da  sempre  stato  ribadito,  sotto  il
vigore  della  previgente  disciplina,  dalla  Corte  di   cassazione
essendosi da sempre affermato - come gia' visto - che  il  danno  non
patrimoniale non e' escluso dall'esito negativo del processo,  ovvero
dall'elevata possibilita'  del  rigetto  della  domanda  e  che,  per
ritenere  infondata  la  domanda,  occorre,  come  pure  sopra   gia'
accennato, che la parte si sia resa responsabile di lite temeraria, o
comunque di un vero e proprio abuso del processo (da ultimo Cass.  12
aprile 2010, n. 8632; Cass. 9 aprile 2010, n. 8541), del  quale  deve
dare prova la parte che la eccepisce (tra le molte, Cass. 19  gennaio
2010, n. 819). Secondo la Corte di Cassazione, per negare l'esistenza
del danno, puo' bensi' assumere  rilievo  la  «chiara,  originaria  e
perdurante certezza sulla inconsistenza» del diritto fatto valere nel
giudizio, con l'avvertenza che  non  «equivale  a  siffatta  certezza
originaria  la  mera  consapevolezza  della  scarsa  probabilita'  di
successo della azione» (Cass.  2  aprile  2010,  n.  8165;  2008,  n.
24269). 
    Il    descritto    quadro     internazionale,     normativo     e
giurisprudenziale,   di    riferimento    non    puo'    considerarsi
rilevantemente  mutato,  per  il  profilo   in   esame,   a   seguito
dell'entrata in vigore, il 1° giugno 2010, del nuovo art.  35,  comma
3, lettera b) della Convenzione  EDU,  che  consente  al  giudice  di
Strasburgo di dichiarare irricevibile il ricorso individuale ex  art.
34 per il quale il ricorrente  non  abbia  subito  alcun  pregiudizio
rilevante, salve  le  ipotesi  (c.d.  clausole  di  salvaguardia)  di
mancato esame del caso da parte  del  giudice  nazionale,  oppure  di
compressione di diritti umani convenzionali. 
    Occorre al  riguardo  osservare  che  i  contorni  e  i  riflessi
operativi  di  una  tale  condizione  di  ricevibilita'  (comunemente
definita de minimis non curat praetor  e  finalizzata  a  ridurre  il
contenzioso su violazioni di minima  entita')  non  risultano  ancora
chiari e consolidati. 
    A quanto consta, le uniche applicazioni sono state fatte: a)  per
escludere il diritto all'equa riparazione in relazione  alla  equita'
di un procedimento penale conclusosi con  la  condanna  a  multa  per
€ 150,00 oltre ad € 22,00 per spese e al ritiro  di  un  punto  dalla
patente di guida (sent. 19 ottobre 2010, Rinck c.  Francia);  b)  per
escludere l'equa riparazione reclamata dall'imputato  per  la  durata
irragionevole di un  processo  penale  conclusosi  pero',  proprio  a
ragione  della  sua  durata,  con  il  proscioglimento  dell'imputato
medesimo per prescrizione del reato, che la Corte ha ritenuto  idonea
ad integrare una compensatio lucri cum damno a favore del  ricorrente
(Corte EDU 6 marzo 2012, Gagliano c. Italia: in tale caso tuttavia la
Corte ha poi comunque condannato lo Stato italiano  al  pagamento  di
una somma di euro 500, forfettariamente determinata, oltre spese, per
il danno morale subito dal  ricorrente  per  l'eccessiva  durata  del
procedimento ex lege Pinto). 
    In altra sentenza infine,  la  Corte  di  Strasburgo,  dopo  aver
rilevato che  «la  giurisprudenza,  ancora  limitata,  fornisce  solo
parzialmente i criteri che pennellano di verificare se la  violazione
del diritto abbia  raggiunto  "la  soglia  minima"  di  gravita'  per
giustificare un esame da parte di un giudice internazionale»; che «la
valutazione di questa soglia e', per sua natura, relativa  e  dipende
dalle circostanze del caso di specie» (§ 33);  che  occorre  comunque
«tener conto dei seguenti elementi: la  natura  del  diritto  che  si
presume violato, la gravita' dell'incidenza della violazione allegata
nell'esercizio di  un  diritto  do  le  eventuali  conseguenze  della
violazione sulla situazione personale del ricorrente» (§ 34) (ma - si
aggiunge  nella  sentenza  Gagliano,  cit.,  §  55  -  anche   «della
percezione soggettiva del ricorrente e della posta in gioco oggettiva
della controversia»), ha poi affermato il principio  secondo  cui,  a
fronte di una grave violazione del principio  di  durata  ragionevole
del processo, «l'entita' della causa  innanzi  ai  giudici  nazionali
puo' essere determinante soltanto nell'ipotesi in cui il  valore  sia
modico o irrisorio» (sentenza 18 ottobre 2010, Giusti  c.  Italia,  §
35). 
    A ben vedere nulla autorizza a ritenere che  una  tale  clausola,
essendo rapportata a parametri ulteriori e  diversi  dal  mero  esito
della causa e legati piuttosto alla  considerazione  delle  variabili
circostanze del caso  concreto,  possa  di  per  se'  comportare  una
revisione  dei  descritti  parametri  talmente  radicale  da  potersi
prevedere che, in forza della stessa, possa  escludersi  tout  court,
sempre e in ogni caso, la riconoscibilita' dell'equo indennizzo  alla
parte soccombente. 
    3.2.2.  -  Sotto  il  secondo  profilo   (possibilita'   di   una
interpretazione costituzionalmente orientata della norma intensa tale
da renderla compatibile con il parametro pattizio  come  interpretato
dalla giurisprudenza europea), non puo' non ribadirsi  che  ogni  pur
dovuto tentativo in tale direzione  e'  destinato  a  scontrarsi  con
l'insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di  liquidare
un indennizzo in misura superiore al «valore del diritto accertato». 
    La lettera di tale ultima disposizione non sembra in  particolare
consentirne una interpretazione restrittiva e correttiva nel senso di
ritenere - come pure e' stato sostenuto in uno dei primi  commenti  -
che «il riferimento al diritto accertato dal giudice  costituisca  un
limite nella determinazione del valore della causa cosi' come avviene
per individuare lo scaglione di valore  della  causa  ai  fini  della
liquidazione delle spese legali»:  l'analisi  logica  della  frase  e
l'uso  della  disgiuntiva  «o»,   rafforzato   peraltro   dall'inciso
condizionale «se inferiore»,  evidenziano  inconfutabilmente  che  il
valore del diritto accettato viene indicato, in alternativa a  quello
del valore della causa, come limite alla «misura  dell'indennizzo»  e
non come criterio di determinazione del «valore della causa». 
    Una diversa  lettura  finirebbe,  dunque,  col  tradursi  in  una
interpretazione contra legem, come detto non consentita nemmeno se si
tratta di armonizzare la norma interna  al  parametro  costituzionale
rappresentato dalla CEDU, in forza del richiamo ai «vincoli derivanti
... dagli obblighi internazionali»  contenuto  nell'art.  117  Cost.,
dovendo, in tal caso,  una  siffatta  opera  di  raccordo  tra  fonte
interna e fonte internazionale in  conflitto  essere  necessariamente
rimessa alla Corte delle leggi nei termini, e con  le  consequenziali
statuizioni, di cui al dispositivo ...»; 
    Constatato che quanto sinora esposto  legittima  ulteriormente  a
ritenere sussistenti i presupposti per promuovere  dunque,  in  piena
adesione  al  secondo  precedente  retro  richiamato,  incidente   di
costituzionalita' della disposizione  in  premessa  richiamata  anche
nell'odierno  procedimento  onde  far  seguire   ad   esso   la   sua
definizione; 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli articoli 134 e 137 Cost., 1 della legge  costituzionale
9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    1)  dichiara  non  manifestamente  infondata,  e  rilevante   nel
presente  giudizio,  la  questione  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 2-bis, comma 3, legge 24  marzo  2001,  n.  89  (introdotto
dall'art. 55, comma 1, lettera b) decreto-legge 22  giugno  2012,  n.
83, convertito con legge 7 agosto 2012, n. 134),  per  contrasto  con
l'art. 117 della Costituzione, nella parte in cui  limita  la  misura
dell'indennizzo (liquidabile in favore della parte che  abbia  subito
un danno per la durata irragionevole  del  processo  presupposto)  al
«valore del diritto accertato» senza alcuna ulteriore  specificazione
o limite, comportando in tal modo l'impossibilita'  di  liquidare  in
alcuna misura un'equa riparazione in  favore  della  parte  che,  nel
processo presupposto, sia risultata interamente soccombente; 
    2)  dispone  l'immediata  trasmissione  degli  atti  alla   Corte
costituzionale  e  la  sospensione  del  presente  procedimento  fino
all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale; 
    3) ordina che, a cura della cancelleria,  la  presente  ordinanza
sia notificata al ricorrente e al Ministero  della  giustizia  presso
l'Avvocatura distrettuale dello Stato e, con urgenza,  ai  Presidente
del Consiglio dei ministri, e che la stessa venga altresi' comunicata
ai presidenti delle due Camere del Parlamento. 
          Cosi' deciso in Reggio Calabria, addi' 22 aprile 2013 
 
                  Il consigliere delegato: Sabatini