N. 286 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 maggio 2013

Ordinanza emessa dal Giudice di pace  di  Recanati  nel  procedimento
civile promosso da Pace Massimo e Stacchiotti Agnese contro Matassini
Francesca e Societa' Cattolica di assicurazioni coop. a r.l.. 
 
Responsabilita' civile - Risarcimento del danno derivante da sinistro
  stradale - Danno biologico  per  lesioni  di  lieve  entita'  (c.d.
  micropermanenti) - Liquidazione in base  ai  valori  fissati  dalle
  tabelle ministeriali, con possibilita' di aumento non  maggiore  di
  un quinto in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato -
  Conseguente riconoscimento di un ammontare risarcitorio inferiore a
  quello commisurato ai valori delle tabelle del Tribunale di Milano,
  ritenuti "equi" dalla giurisprudenza di legittimita'  -  Denunciata
  lesione di posizioni giuridiche soggettive garantite dalla Carta di
  Nizza (dignita' umana e diritto  all'integrita'  della  persona)  e
  dalla CEDU (diritto alla vita, come  interpretato  dalla  Corte  di
  Strasburgo) - Contrasto con il "principio non solo di integrale, ma
  anche di equa riparazione del danno" - Violazione del diritto ad un
  processo equo riconosciuto dalla CEDU - Violazione  del  "principio
  comunitario di effettivita' della  tutela  (sub  specie  di  tutela
  risarcitoria), riconosciuta a livello  nazionale"  -  Irragionevole
  diversita' di trattamento tra lesioni "micropermanenti"  a  seconda
  della  loro  genesi,  nonche'  tra  lesioni   "micropermanenti"   e
  "macropermanenti"  -  Inidoneita'  ad   assicurare   un'uniformita'
  pecuniaria di base e  un'adeguata  personalizzazione  della  misura
  risarcitoria - Esorbitanza dalla legge delega e  contrasto  con  la
  ratio di essa. 
- Decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, art. 139, commi 1,  3
  e 6. 
- Costituzione, artt. 2, 3 (primo comma), 24, 32,  76  e  117,  primo
  comma; T.U.E., quale modificato dal Trattato di  Lisbona,  art.  6;
  Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, artt.  1  e  3;
  Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
  liberta' fondamentali [resa esecutiva con legge 4 agosto  1955,  n.
  848], artt. 2 e 6; legge 29 luglio 2003, n. 229, art. 4. 
(GU n.4 del 22-1-2014 )
 
                         IL GIUDICE DI PACE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile  iscritta
al n. 315/C/2006 R.G. promossa da Pace Massimo e  Stacchiotti  Agnese
residenti a Recanati (MC) ed elettivamente domiciliati presso  l'avv.
Piergiorgio Moretti in Recanati p.zza Leopardi, 4, attori; 
    Contro: 
        Matassini  Francesca  residente  a  Porto  Recanati,   difesa
dall'avv. Sichetti Aldo-Rino  domiciliata  nel  suo  studio  a  Porto
Recanati via Pergolesi, 33; 
        Societa' Cattolica di Assicurazione coop. a.r.l. con  sede  a
Verona rappresentata e  difesa  dall'Avv.  Giancarlo  Nascimbeni  ivi
domiciliata in Civitanova Marche via della Nave, 46, convenuti; 
    Visto gli atti del procedimento iscritto al n. 315/C/06 nel Ruolo
Generale dell'anno 2006 di questo ufficio e premesso in fatto che: 
        con atto introduttivo gli attori quali esercenti la  potesta'
parentale sul figlio minore Pace Alessio, chiedevano in  risarcimento
del danno biologico riportato dal  predetto  a  seguito  di  sinistro
stradale; 
        i convenuti contestavano la domanda, particolarmente l'Ass.ne
con  le  difese  sosteneva  che  nessun   risarcimento   era   dovuto
trattandosi  di  micro  permanenti   rientranti   nella   fattispecie
descritta dall'art. 32 D.L. n. 01/2012; 
        la difesa attorea poneva l'accento sulla questione  chiedendo
sollevarsi questione di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.139
D.Lgs n. 209/2005 con riferimento agli  artt.  2,  3,  24,  32  della
Costituzione. 
 
                         Osserva in diritto 
 
    Il  decreto-legge  24.1.2012,  n.  1,  come  convertito  con   L.
24.3.2012, n. 27 ha introdotto modifiche all'art.  139-ter  e  quater
del CdA ponendo problematiche che si ritengono  d'interesse  come  di
seguito motivato: 
        L'avere stabilito una soglia invalicabile al risarcimento del
danno biologico conseguente ad  un  sinistro  stradale,  sostiene  la
difesa attorea, comprime il diritto  costituzionale  garantito  dalla
Carta  in  materia  di  salute  ed  irragionevolmente  discrimina  il
danneggiato da r.c. auto per lesioni di  lieve  entita'  rispetto  al
danneggiato con le medesime lesioni causate da  un  illecito  diverso
dai sinistri stradali. A sostegno richiamava  pronuncia  del  GdP  di
Torino, sez.V,  del  21.10.2011  e  del  Tribunale  di  Brindisi  del
3.4.2012; 
        Effettivamente il rilievo appare degno di pregio posto che la
norma  introdotta   sembra   tutelare   il   contraente   forte   (le
Assicurazioni) a discapito del contraente debole (il danneggiato) con
contraddizioni giuridiche d'interesse secondo i principi invocati. 
    La posizione delle parti (assicurazione-danneggiato)  sembra  non
integrare il rispetto di cui all'art. 3 della Cost., venendo meno  la
dignita'  sociale  e  l'eguaglianza  davanti  alla  legge   e   nella
fattispecie non  si  e'  rimosso  l'ostacolo  di  ordine  sociale  ed
economico,  al  contrario   e'   stata   posto   un   ostacolo   alla
rivendicazione risarcitoria da parte di chi subisce un danno  seppure
di lieve entita'. 
    Le argomentazioni poste dal GdP  di  Torino  all'Ecc.ma  Consulta
investita del problema, con ordinanza  del  26-30  novembre  2009  ha
visto pronuncia con ordinanza n. 157/2011 da parte di codesta  Ecc.ma
Corte. 
    La quaestio sembra ancora aperta a seguito  della  pronuncia  del
Tribunale di Brindisi del 3.4.2012 dove si enuclea che l'art. 139  c.
assicur. prevede una soglia invalicabile al risarcimento  del  danno,
livellata verso il basso in virtu'  del  limite  di  1/5  e  altresi'
valori tabellari non equi, in  quanto  difformi  da  quelli  previsti
dalle tabelle milanesi, assunte dalla giurisprudenza di  legittimita'
a parametro equitativo: si pone di conseguenza la q.l.c. della  norma
per violazione degli artt. 2, 3, 24, 32, 76, 117 della Costituzione. 
    Nel caso in esame la CTU ha valutato un danno permanente  del  2%
ed una inabilita' temporanea totale di giorni 20 ed una  parziale  di
giorni 8. Cui andrebbe valutato il  danno  morale  in  considerazione
dell'eta'  del  minore  (15  anni)   all'epoca   dell'incidente.   Si
evidenzia, nell'elaborato  peritale,  che  le  situazioni  emozionali
forti, specie in giovane eta', condizionino  in  modo  importante  il
quadro emotivo di un individuo il cui stress emotivo dovrebbe  essere
causa di risarcimento morale. 
    Le modifiche introdotte avanti richiamate porrebbero limiti  alla
valutazione del giudicante ed alla sua discrezionalita' nel  rispetto
del principio del libero  convincimento.  Le  motivazioni  poste  dal
Giudice a quo (Tribunale di  Brindisi)  al  Giudice  ad  quem  (Corte
costituzionale) appaiono allo scrivente oltremodo condivisibili vista
l'analogia del caso in esame e che si riportano,  ribadita  la  piena
condivisione delle questioni argomentate, di seguito: 
 
                            «Motivazione. 
 
    Questo Giudice ritiene sussistenti i  presupposti  per  sollevare
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 139, comma 1,  del
decreto legislativo 7 settembre 2005, n.  209,  nella  parte  in  cui
stabilisce che: 
        «Il risarcimento del danno biologico  per  lesioni  di  lieve
entita', derivanti da  sinistri  conseguenti  alla  circolazione  dei
veicoli a motore e dei natanti, e' effettuato secondo i criteri e  le
misure seguenti: 
          a) a titolo di danno biologico permanente, e' liquidato per
i postumi da lesioni pari o inferiori al nove per  cento  un  importo
crescente in misura piu' che proporzionale in relazione ad ogni punto
percentuale  di  invalidita';  tale  importo  e'  calcolato  in  base
all'applicazione a  ciascun  punto  percentuale  di  invalidita'  del
relativo coefficiente secondo la correlazione esposta  nel  comma  6.
L'importo cosi' determinato si riduce con il crescere  dell'eta'  del
soggetto in ragione dello zero virgola cinque per cento per ogni anno
di eta' a partire dall'undicesimo anno di eta'. Il valore  del  primo
punto e' pari ad euro seicentosettantaquattro virgola settantotto; 
          b) a titolo di danno biologico temporaneo, e' liquidato  un
importo di euro trentanove virgola trentasette (attualmente,  elevato
a euro 44,28) per ogni giorno di  inabilita'  assoluta;  in  caso  di
inabilita' temporanea inferiore al cento per cento,  la  liquidazione
avviene in  misura  corrispondente  alla  percentuale  di  inabilita'
riconosciuta per ciascun giorno.»; 
        nonche' del comma 3 dello stesso articolo, nella parte in cui
prevede che: 
          «l'ammontare  del  danno  biologico  liquidato  [...]  puo'
essere aumentato dal giudice in misura non superiore  ad  un  quinto,
con equo e motivato apprezzamento  delle  condizioni  soggettive  del
danneggiato.»; 
        nonche', in ultimo, del comma 6, secondo  cui  «Ai  fini  del
calcolo dell'importo di cui al comma 1,  lettera  a),  per  un  punto
percentuale di invalidita'  pari  a  1  si  applica  un  coefficiente
moltiplicatore pari a 1,0, per un punto  percentuale  di  invalidita'
pari a 2 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,1, per un
punto percentuale di invalidita' pari a 3 si applica un  coefficiente
moltiplicatore pari a 1,2, per un punto  percentuale  di  invalidita'
pari a 4 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,3, per un
punto percentuale di invalidita' pari a 5 si applica un  coefficiente
moltiplicatore pari a 1,5, per un punto  percentuale  di  invalidita'
pari a 6 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,7, per un
punto percentuale di invalidita' pari a 7 si applica un  coefficiente
moltiplicatore pari a 1,9, per un punto  percentuale  di  invalidita'
pari a 8 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 2,1, per un
punto percentuale di invalidita' pari a 9 si applica un  coefficiente
moltiplicatore pari a 2,3». 
    In applicazione dell'art. 139 e' stata adottata  la  tabella  del
danno biologico di lieve entita' (sotto  i  9  punti  di  invalidita'
permanente) i cui valori sono  stati  aggiornati  periodicamente,  da
ultimo, dal decreto del Ministero dello  Sviluppo  economico  del  27
giugno 2011, che ha stabilito in: 
        euro 759,04 l'importo relativo al valore del primo  punto  di
invalidita'; 
        euro 44,28 l'importo relativo ad ogni  giorno  di  inabilita'
assoluta. 
1. Premesse di carattere concettuale e sistematico. 
1.1. Il quadro interpretativo previgente alle Sezioni Unite del 2008. 
    Le Sezioni Unite dell'11.11.2008, fornendo una  sistemazione  del
danno non patrimoniale coerente con le sentenze  gemelle  n.  8828  e
8829 del 2003 (che ha trovato  l'autorevole  avallo  della  Consulta,
nella sentenza n. 233 del 2003) hanno precisato come  non  esista  un
danno  esistenziale  quale  categoria  concettuale  specifica  a  se'
stante. 
    Infatti, prima della suddetta pronuncia, molteplici  erano  stati
gli  approdi  giurisprudenziali  che  avevano  richiamato  la  dubbia
categoria del danno c.d. esistenziale, «inteso come  pregiudizio  non
patrimoniale, distinto dal danno biologico ... in assenza di  lesione
dell'integrita' psico-fisica,  e  dal  cd.  danno  morale  soggettivo
(unico danno non patrimoniale  risarcibile,  in  presenza  di  reato,
secondo la tradizionale lettura restrittiva dell'art.  2059  c.c.  in
collegamento all'art. 185 c.p.), in quanto non attinente  alla  sfera
interiore del sentire, ma alla sfera  del  fare  non  reddituale  del
soggetto.». 
    Tale figura «nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela
risarcitoria per i pregiudizi di natura  non  patrimoniale  incidenti
sulla persona, svincolandola dai  limiti  dell'art.  2059  c.  c.,  e
seguendo la via, gia' percorsa per il  danno  biologico,  di  operare
nell'ambito dell'art. 2043 c.c. inteso  come  norma  regolatrice  del
risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello  non
patrimoniale concernente la persona.». 
    Si affermava che, «nel caso in cui il fatto  illecito  limita  le
attivita' realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare
nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati,
si realizza  un  nuovo  tipo  di  danno  (rispetto  al  danno  morale
soggettivo ed al danno biologico)», definito esistenziale. 
    Questo il quadro interpretativo prima delle Sezioni Unite. 
1.2. La reductio ad unum del danno non patrimoniale: le Sezioni Unite
dell'11.11.2008. 
1.2.1. La negazione dell'autonomia  concettuale  e  risarcitoria  del
danno c.d. esistenziale. 
    La pronuncia del 2008 nega l'autonoma dignita'  risarcitoria  del
danno c.d. esistenziale e ritiene, per contro, che  esista  un  danno
non patrimoniale, come categoria unitaria  omnicomprensiva,  rispetto
al quale quelle che si e' soliti considerare come singole e  autonome
poste risarcitorie (danno estetico, danno  alla  vita  di  relazione,
danno biologico,  danno  alla  propria  sfera  sessuale,  danno  c.d.
esistenziale) assumono, invece, la valenza di  mere  esemplificazioni
descrittive. 
    Ed,  in  particolare,   nell'ambito   di   tale   classificazione
concettuale unitaria, il  danno  estetico,  il  danno  alla  vita  di
relazione, il danno alla propria sfera sessuale costituirebbero tutte
sottovoci della  piu'  generale  figura  descrittiva  del  danno  non
patrimoniale di tipo biologico. 
    Quest'ultimo, in coerenza con la  lata  accezione  fatta  propria
dall'art. 139 Codice delle Assicurazioni, assume, quindi, una portata
onnicomprensiva,   ponendosi   quale   macro-voce   del   danno   non
patrimoniale accanto al danno  morale  e  al  danno  derivante  dalla
lesione di un diritto della persona costituzionalmente rilevante. 
    Tale danno (c.d. non patrimoniale), che si contrappone  a  quello
c.d. patrimoniale - per essere quest'ultimo connotato da una  diretta
incidenza sulla sfera patrimoniale economica del  danneggiato  -,  e'
stato ricondotto dalle Sezioni Unite del 2008, e prima  ancora  dalle
sentenze gemelle del 2003, non piu' all'art. 2043 c.c. (nel cui alveo
aveva  trovato,  ab  origine,  collocazione  lo  stesso   pregiudizio
biologico), ma, in virtu'  di  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata di questa disposizione, all'art. 2059 c.c. 
    La norma codicistica, pero', diversamente  da  come  abitualmente
interpretata dalla giurisprudenza prima del 2003, e' letta in maniera
difforme; cioe' come idonea a ricomprendere non solo il danno  morale
ma  anche   la   lesione   di   qualunque   diritto   della   Persona
costituzionalmente garantito. 
    Gia' nel 2003 si affermava che l'art. 2059 c.c., nella  parte  in
cui stabilisce che il danno non patrimoniale e' risarcibile nei  soli
casi previsti dalla Legge, doveva essere interpretato anche alla luce
della Costituzione, pervenendosi  ad  un'interpretazione  compatibile
coi dettami costituzionali. 
    Poiche' la Costituzione  e'  norma  sovraordinata,  idonea,  come
tale, a porsi al massimo livello nella  gerarchia  delle  fonti,  ben
puo' imporre all'interprete  l'obbligo  di  tutelare  un  determinato
diritto  di  rilevanza  costituzionale  mediante  il  riconoscimento,
nell'ipotesi  di  sua  lesione,  del  risarcimento  del   danno   non
patrimoniale. E cio' anche  se  la  condotta  illecita  e  dotata  di
efficienza lesiva non configuri reato, alla cui necessaria ricorrenza
nella fattispecie concreta veniva condizionata la risarcibilita'  del
danno non patrimoniale. 
    D'altro canto, seguendo un distinto approccio  ricostruttivo,  la
Costituzione e' essa stessa una legge e,  come  tale,  e'  idonea  ad
integrare la previsione legislativa di cui  all'art.  2059  c.c.  che
enuncia  il  principio  per  cui  il  risarcimento  del   danno   non
patrimoniale e' ammesso nei soli casi previsti dalle legge. 
1.2.2. Il principio della tipicita' del danno  non  patrimoniale:  la
necessita' di un'ingiustizia  costituzionalmente  qualificata  o,  in
alternativa, di una previsione di risarcibilita' ex lege. 
    Le Sezioni Unite del 2008 affermano, inoltre, il principio  della
tipicita'  del  danno  non  patrimoniale.   Ne   costituisce   logica
conseguenza che il risarcimento si avrebbe  solo  in  presenza  della
lesione di un diritto costituzionalmente garantito (e, cioe', di  una
ingiustizia costituzionalmente  qualificata)  oppure  (a  prescindere
dalla suddetta condizione) quando ricorra un'espressa  previsione  di
legge. 
    Inoltre, le  SS.UU.  precisano  che  la  tutela  dei  diritti  di
rilevanza costituzionale non sarebbe, comunque, ristretta ai casi  di
diritti inviolabili della persona  espressamente  riconosciuti  dalla
Costituzione nel presente momento storico. 
    In  virtu'  dell'apertura  dell'art.  2  Cost.  ad  un   processo
evolutivo, si riconosce all'interprete il  potere  di  rinvenire  nel
complessivo sistema costituzionale indici idonei a valutare se  nuovi
interessi  emersi  nella  realta'  sociale  siano  non  genericamente
rilevanti per l'ordinamento, ma di  rango  costituzionale  in  quanto
attinenti a posizioni inviolabili della persona umana. 
    Secondo le Sezioni Unite del 2008, una delle ipotesi  in  cui  il
danno non patrimoniale e' considerato risarcibile, al  di  la'  della
lesione di un diritto costituzionalmente garantito, e' proprio quella
del danno morale da reato (quali sono le lesioni  colpose,  derivanti
da un sinistro S.le). In tale circostanza  e'  risarcibile  qualunque
pregiudizio areddituale (e, quindi,  anche  la  sofferenza  derivante
eziologicamente dal non poter piu' fare), anche  se  derivante  dalla
lesione di un interesse  privo  di  rilievo  costituzionale,  purche'
suscettibile di superare il generale vaglio di meritevolezza ex  art.
2043 c.c. 
    Infatti, la tipicita', in questo caso - come affermano le Sezioni
Unite  -  non  e'  determinata  soltanto  dal  rango   dell'interesse
protetto, ma dalla  stessa  scelta  del  legislatore  di  considerare
risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta  che,
comunque, implica la considerazione  della  rilevanza  dell'interesse
leso,  desumibile  dalla   predisposizione   della   tutela   penale.
Nell'ipotesi di reato assume dignita'  risarcitoria  l'impossibilita'
(totale  o  parziale)  di  svolgere  una  qualunque  delle  attivita'
realizzatrici della persona, quand'anche  non  ne  sia  possibile  un
ancoramento costituzionale (attivita' ludiche, sportive,  ricreative,
...). 
1.2.3.  La   ricostruzione   del   danno   non   patrimoniale   quale
danno-conseguenza  e  la  contestuale  valorizzazione   della   prova
presuntiva. 
    Le  Sezioni  Unite  catalogano  concettualmente  il   danno   non
patrimoniale quale danno-conseguenza, inteso come danno  in  concreto
riconducibile   eziologicamente   alla   lesione   di   un    diritto
costituzionalmente garantito. 
    Al contempo, esse censurano sia la tesi del danno-evento, secondo
cui in  presenza  della  lesione  di  un  diritto  costituzionalmente
garantito si potrebbe dire esistente un danno non  patrimoniale,  sia
la tesi del danno in re ipsa  che  porta  a  conseguenze  applicative
omogenee. Pertanto, poiche' vi e' stata  la  lesione  di  un  diritto
costituzionalmente  garantito,  deve  ritenersi  insita   nel   fatto
illecito l'esistenza di un danno da risarcire. 
    Se,  da  una  parte,  la  pronuncia  dell'11.11.2008  afferma  il
principio per cui il danno deve  essere  necessariamente  conseguenza
della  violazione  di  un   diritto   costituzionalmente   garantito,
dall'altra, sotto il profilo degli strumenti processuali  volti  alla
prova del danno non  patrimoniale,  svilisce  la  consulenza  medica,
affermando che, anche in materia di danno biologico -  sottocategoria
del danno non patrimoniale - si potrebbe prescindere da  essa.  Cio',
in quanto, se il Giudice come peritus peritorum puo' disattendere  la
consulenza, cosi', allo stesso  modo,  puo'  anche  decidere  di  non
espletare la consulenza, quando ritiene che, sulla  base  del  quadro
probatorio, e' stata raggiunta la prova del danno non patrimoniale. 
    Secondo  la  Suprema  Corte,  le  suddette   considerazioni   non
sarebbero estendibili al danno morale, in quanto quest'ultimo,  sulla
base della specificita' del caso concreto e in applicazione di quelle
regole di comune esperienza che il Giudice puo'  porre  a  fondamento
del suo convincimento, potrebbe essere anche presunto. 
    Proprio a questo proposito, le Sezioni Unite ricordano  come,  in
materia di danno non patrimoniale, si possa ricorrere, oltre che alla
prova documentale, come prova diretta, anche alla prova presuntiva  o
a quella testimoniale. 
    In particolare, si afferma che il ricorso alla  prova  presuntiva
e' destinato ad assumere particolare  rilievo,  e  potra'  costituire
anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del  giudice,
non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri  (v.,
tra le tante, sent. n. 9834/2002). 
    Il danneggiato dovra' tuttavia allegare tutti gli  elementi  che,
nella  concreta  fattispecie,  siano  idonei  a  fornire   la   serie
concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto. 
1.3.  Le  tabelle  di  Milano  e  la  loro  elevazione  a   parametro
paralegislativo nonche' ad «uso normativo». 
    Poco dopo la pronuncia del 2008 vengono approvate le  tabelle  di
Milano, strutturate e concepite in funzione del  nuovo  inquadramento
concettuale del danno non patrimoniale (quale categoria unitaria) cui
sono approdate le stesse Sezioni Unite. 
    Orbene, le  nuove  Tabelle  -  approvate  il  28  aprile  2009  e
aggiornate nel 2011 - presentano profili  di  innovativita'  rispetto
alle precedenti tabelle quanto alla liquidazione del danno permanente
da lesione all'integrita' psico-fisica. 
    Infatti, esse  individuano  il  nuovo  valore  del  c.d.  "punto"
muovendo dal valore del "punto" delle  Tabelle  precedenti  (connesso
alla sola componente di  danno  non  patrimoniale  anatomofunzionale,
c.d.  danno   biologico   permanente),   aumentato   in   riferimento
all'inserimento  nel  valore  di  liquidazione  «medio»  anche  della
componente  di  danno  non  patrimoniale  relativa  alla  «sofferenza
soggettiva» di una percentuale ponderata (dall'1 al 9% di invalidita'
l'aumento e' del 25% fisso, dal 10 al 34% di invalidita' l'aumento e'
progressivo per punto dal 26% al 50%, dal 35 al 100%  di  invalidita'
l'aumento torna ad essere  fisso  al  50%),  e  prevedendo,  inoltre,
percentuali  massime  di  aumento  da  utilizzarsi  in  via  di  c.d.
personalizzazione. 
    Come affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza del 2011,  n.
12408,  alle  Tabelle  milanesi  deve  riconoscersi  «una  sorta   di
vocazione nazionale», anche perche', coi valori  da  esse  tabellati,
esprimono «il valore da ritenersi «equo», e cioe' quello in grado  di
garantire la parita' di trattamento e da applicare in tutti i casi in
cui la  fattispecie  concreta  non  presenti  circostanze  idonee  ad
aumentarne  o  ridurne  l'entita'.».  Cio',  al  punto  che  la  loro
applicazione sarebbe oggetto di un vero e proprio uso  normativo  che
s'impone in ogni ipotesi in  cui  non  ricorra  una  diversa  tabella
prescritta ex lege (cfr. Cassazione citata). 
    Dunque,   le   stesse   troverebbero   applicazione   sia    alle
«macropermanenti» (ovvero ai postumi permanenti superiori  al  9  per
cento) sia alle c.d. micropermanenti che non derivino eziologicamente
dalla circolazione S.le, perche' in tale ultima ipotesi  troverebbero
i criteri di cui all'art. 139 Cod. Assicurazioni. 
    In  particolare,  le  tabelle  milanesi   costituiscono,   stando
all'attuale quadro rimediale, l'unico strumento operativo  idoneo  ad
assicurare  -  mediante  l'applicazione  del  punto  del  «danno  non
patrimoniale» - il valore dell'uniformita' pecuniaria di base,  quale
presupposto  per  ogni   specifico   procedimento   liquidatorio   di
personalizzazione. 
    Peraltro, la Suprema Corte, nella stessa pronuncia (n. 12408  del
2011), nell'ambito del percorso  argomentativo  che  l'ha  indotta  a
optare  per  le  Tabelle  di  Milano,  quale  strumento  risarcitorio
elettivo, fa espressamente «salva la valutazione di conformita' della
disposizione citata (ovvero l'art. 138 Cod. Ass.) alla  Costituzione,
nella parte in cui pone un tetto alla personalizzazione del  danno  e
rende   potenzialmente   inadeguata   la    somma    complessivamente
riconoscibile a titolo di risarcimento.». 
    Cosi'  facendo,  seppur  implicitamente,  avalla  la  valutazione
d'incostituzionalita' della norma de qua. 
2. La rilevanza della questione nel caso di specie. 
    In primis, sotto il profilo della rilevanza della norma, ai  fini
del thema decidendum, non vi  e'  dubbio  che  l'art.  139,  volto  a
disciplinare - cosi' come espressamente previsto dal  comma  1  dello
stesso - le micropermanenti  (rinvenienti  la  propria  genesi  nella
circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), trovi  applicazione
nel caso di specie. 
    Cosi',  ovviamente,  anche  la  tabella  delle   micro-permanenti
adottata in attuazione dello stesso. 
    Infatti, a fronte  di  un  sinistro  S.le,  l'odierna  appellante
riportava lesioni agli arti inferiori. 
    Orbene, la  CTU,  espletata  nel  giudizio  di  primo  grado,  ha
accertato che le lesioni subite  dalla  sig.ra  S.  risultano  oramai
stabilizzate e hanno comportato  una  menomazione  funzionale  in  30
giorni di inabilita'  temporanea  totale,  30  giorni  di  inabilita'
temporanea parziale al 50% ed un danno biologico permanente  pari  al
2%, ovvero nei limiti previsti per l'applicazione dell'art. 139. 
    Le  conclusioni  del  medico  legale  sul  danno  biologico  sono
condivise da questo Giudice, in quanto basate su  un  completo  esame
anamnestico e su un obiettivo e coerente studio della  documentazione
medica prodotta, valutata con criteri medico-legali immuni da  errori
e vizi logici. 
    Risulta, inoltre, provata, nel caso di specie, anche  l'ulteriore
figura descrittiva del  danno  non  patrimoniale,  individuata  dalle
Sezioni Unite del 2008 nel danno morale e,  dalla  stessa  pronuncia,
disancorato dal  dato  temporale,  con  conseguente  abbandono  dello
schematismo  concettuale  per  cui  il  danno  morale   deve   essere
necessariamente transeunte. 
    Del resto, risponde ad una  regola  di  esperienza  di  difficile
smentita e, quindi, all'id quod plerunque accidit, che un  fatto  del
tipo di quello accertato, nella fattispecie  concreta  sia  idoneo  a
determinare una sofferenza di carattere  morale.  Cio',  sia  per  la
capacita'   inabilitante   e   parzialmente   compromissoria    della
funzionalita' degli arti delle lesioni subite  dall'attrice,  sia  in
considerazione della  sua  giovane  eta'  (18  anni)  che  deve  fare
presumere che la S., al momento del sinistro, da poco  conseguita  la
maggiore eta',  si  trovasse  in  una  fase  contraddistinta  da  una
particolare intensita' relazionale. 
    Le  indicazioni,  fornite  dal  CTU,  ed,  in   particolare,   la
quantificazione dei postumi permanenti (2%) dovrebbero  portare  alla
determinazione del complessivo danno non patrimoniale,  patito  dalla
S., in virtu' della Tabella del danno biologico di lieve entita',  ex
art. 139 del Codice delle Assicurazioni, aggiornata al D.M.  Sviluppo
Economico del 17.6.2011. 
    Dunque, a titolo di danno non patrimoniale,  di  tipo  biologico,
all'appellata dovrebbero essere liquidati euro 1.603,09, a titolo  di
danno non patrimoniale di tipo biologico e permanente. 
    Quanto, invece, al  danno  da  inabilita'  temporanea,  esso,  in
applicazione dei suddetti  valori  tabellari  e  considerato  che  il
risarcimento  per  ogni  giorno  di  invalidita'  assoluta  e'  stato
quantificato  in  euro  44,28,  dovrebbe  essere  liquidato  in  euro
1.328,40 l'ITT, giorni 30; euro 664,20, l'ITP al 50% giorni  30,  per
complessivi euro 1.992,60. Dunque, a titolo di danno non patrimoniale
di tipo biologico, all'attrice dovrebbero accordarsi euro 3.595,69. 
    Quanto al danno non patrimoniale di tipo morale - pure  accertato
nel caso di specie -, aderendo alla  tesi,  «c.d.  costituzionalmente
orientata»,  dell'inapplicabilita'  dell'art.  139   a   quest'ultimo
pregiudizio (cfr. Tribunale di Varese, sez.  I,  sentenza  8  aprile,
sulla quale ci si soffermera' nel prosequio), ne discenderebbe la non
operativita'  del  meccanismo  dell'aumento,  della  suddetta  misura
risarcitoria, nei limiti  di  un  quinto  e  il  potere,  per  questo
Giudicante, di applicare un'ulteriore  entita'  monetaria,  a  titolo
risarcitorio, che,  in  considerazione  delle  predette  circostanze,
potrebbe essere equo liquidata in euro 1.400,00, per complessivi euro
4.995,69. 
    Se,   invece,   si   ritiene   non   praticabile   la    suddetta
interpretazione restrittiva  della  norma  (da  considerarsi,  cioe',
inapplicabile al pregiudizio morale), dovrebbe concludersi  che,  per
il risarcimento del danno  morale,  sarebbe  al  piu'  possibile  una
maggiorazione di un quinto di quanto liquidato a titolo di danno  non
patrimoniale,  di  tipo  biologico  (ovvero   euro   3.595,69),   per
complessivi euro 719,38. 
    A voler applicare le tabelle di Milano approvate nel  2009,  poco
dopo la sentenza dell' 11 novembre 2008, e aggiornate nel 2011  -  la
cui operativita', stando  all'attuale  quadro  legislativo,  dovrebbe
essere esclusa in virtu' della speciale previsione  di  cui  all'art,
139 - per la  medesima  situazione  avremmo  un  esito  liquidatorio,
complessivo, apprezzabilmente diverso. 
    In  primo  luogo,  l'applicazione  del  punto   del   danno   non
patrimoniale consentirebbe di riconoscere  l'automatico  risarcimento
ai pregiudizi morali che, secondo l'id  quod  plerunque  accidit,  si
accompagnano  alla  lesione   dell'integrita'   fisica   medicalmente
accertata, ovvero pari al 2%. 
    Cio', anche perche', nel caso di specie, non constano circostanze
di fatto che debbano portare ad escludere, in capo all'attrice,  tale
«dose presunta» di sofferenza morale. 
    Come  noto,  il  punto  su  cui  e'  incentrato  il   danno   non
patrimoniale, previsto dalle Tabelle milanesi, e' un punto di per se'
ricomprensivo sia del  pregiudizio  all'integrita'  fisica,  sia  del
pregiudizio morale, quali voci  descrittive  dell'unitaria  categoria
del danno morale. 
    Dunque, mutuando i concetti  espressi  dalle  Sezioni  Unite  del
2008, secondo cui non esiste un danno  esistenziale  quale  categoria
concettuale a se'  stante,  per  contro,  costituendo  il  danno  non
patrimoniale, una categoria  unitaria  omnicomprensiva  (rispetto  al
quale quelle che si e' soliti considerare  come  singole  e  autonome
poste risarcitorie - danno estetico, danno alla  vita  di  relazione,
danno  biologico  ...  -,  assumono,  invece,  la  valenza  di   mere
esemplificazioni  descrittive)  le  tabelle  Milanesi  propongono  un
concetto di punto accorpato, omnicomprensivo. 
    Poi,  le  stesse  tabelle  prevedono  la  possibilita'   di   una
personalizzazione del danno, ma cio' non tanto al fine di  consentire
all'interprete di riconoscere rilievo, in sede  di  liquidazione,  al
danno morale abitualmente riconnesso ad ogni tipo di  lesione  fisica
permanente tabellata, in quanto gia' incorporato nel punto del  danno
non patrimoniale (comprensivo del pregiudizio all'integrita' fisica e
del pregiudizio alla sfera morale), quanto in considerazione di altri
e ulteriori  pregiudizi  di  carattere  non  patrimoniale  che  siano
ravvisabili nel caso di specie. 
    Quindi, la personalizzazione  interviene  per  dare  rilievo  non
tanto al pregiudizio morale, che gia' di per se' e'  incorporato  nel
punto del danno non patrimoniale, ma ad altri profili risarcitoti, in
considerazione della  lesione  di  altri  diritti  costituzionalmente
garantiti, oppure, in alternativa, ai fini di assicurare  il  ristoro
di una sofferenza morale maggiore a quella presuntivamente  liquidata
con il punto di danno non patrimoniale (a  sua  volta,  correlata  ad
eta' ed entita' dei postumi permanenti). 
    Cio' premesso, in  applicazione  delle  suddette  tabelle,  «oggi
applicabil(i), in guisa di uso normativo, alla stregua  della  citata
sentenza  12408/2011,  che  ne  ha  consapevolmente  e  motivatamente
espunto un criterio paralegislativo di valutazione cui il giudice  di
merito dovra' attenersi nella liquidazione del danno non patrimoniale
alla persona» (Cassazione  civile,  sez.  VI,  2.11.2011,  n.  22709,
nonche' Cass. Sez. III, 12 Settembre 2011 n.  18641),  il  danno  non
patrimoniale, di tipo biologico,  da  invalidita'  permanente  subito
dall'attrice dovrebbe  essere  quantificato  in  euro  2.673,00,  per
postumi permanenti nella misura  del  2%  (anni  18  al  momento  del
sinistro). 
    Quanto, invece, al calcolo del danno da inabilita' temporanea, in
applicazione dei suddetti  valori  tabellari  e  considerato  che  il
risarcimento per ogni giorno di invalidita' assoluta e' pari ad  euro
91,00, si dovrebbe liquidare in euro 2.730,00, l'ITT (giorni 30) e in
euro 1.365,00,  l'ITP  al  50%  (giorni  30),  per  complessivi  euro
4.095,00. 
    In totale, per i danni  su  indicati,  alla  attrice,  andrebbero
liquidati complessivi euro 6.768,00. 
    Orbene, questo  Giudice  ritiene  che  solo  tal  ultima  opzione
risarcitoria sia idonea ad assicurare un  risarcimento  equo,  ovvero
idoneo - come si avra' modo di esplicitare - a garantire  la  duplice
esigenza di una uniformita'  pecuniaria  di  base  e  di  una  idonea
personalizzazione del danno. 
    Pertanto, questo Giudice, dovendo, per contro,  applicare  l'art.
139  Cod.  Ass.,  non  puo'   prescindere   dal   soffermarsi   sulla
costituzionalita' della norma stessa. 
3. Non manifesta infondatezza della questione. 
    L'art. 139 del decreto legislativo  7  settembre  2005,  n.  209,
secondo  questo  giudice,  e'  affetto  da  molteplici   profili   di
incostituzionalita'. Incostituzionalita' che, come si avra'  modo  di
spiegare - almeno per quanto concerne la compatibilita' con le  norme
sovranazionali e coi correlati dettami costituzionali  -  puo'  dirsi
sopravvenuta,  perche'  conseguente  all'evoluzione  dell'ordinamento
interno ed,  in  particolare,  del  c.d.  livello  sovranazionale  di
tutela. 
3.1. Violazione dell'art. 117, primo comma,  della  Costituzione,  in
relazione all'art. 6 T.U.E. quale modificato dal Trattato di  Lisbona
nonche' agli artt. 1 e 3 della Carta di Nizza. 
    Come  noto,  al  Trattato  di  Lisbona   deve   riconoscersi   un
apprezzabile impatto ordinamentale, avendo avuto l'effetto di porre i
diritti inalienabili della  persona  a  fondamento  dell'Unione,  con
ovvie implicazioni anche per l'ordinamento interno etero-integrato da
quello comunitario. 
    La nuova formulazione dell'art.  6  TUE,  proprio  ad  opera  del
suddetto trattato, secondo cui  «L'Unione  riconosce  i  diritti,  le
liberta' e i principi sanciti nella Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007
a Strasburgo, che  ha  lo  stesso  valore  giuridico  dei  trattati»,
consente di riconoscere alla Carta di Nizza  dei  diritti  lo  stesso
valore  cogente  dei  Trattati   fondamentali   dell'Unione   Europea
(adottata il 7 dicembre  2000)  e,  quindi,  la  portata  di  diritto
primario,  destinato  a  prevalere  su  qualunque  norma   con   esso
confliggente, determinandone l'inapplicabilita'. 
    Peraltro, quale norma di chiusura del sistema  -  preordinata  ad
evitare che  la  prassi  applicativa  dei  vari  stati  membri  possa
svuotare la tutela dei beni di rango comunitario  -  si  prevede,  al
comma 2, che «I diritti, le liberta' e i principi  della  Carta  sono
interpretati in conformita' delle disposizioni  generali  del  titolo
VII  della  Carta  che  disciplinano   la   sua   interpretazione   e
applicazione e tenendo in debito  conto  le  spiegazioni  cui  si  fa
riferimento  nella   Carta,   che   indicano   le   fonti   di   tali
disposizioni.». 
    Orbene, il preambolo della Carta di Nizza, nel definire la  fonte
genetica dei diritti cui vuole offrire tutela, contiene  un  espresso
riferimento  «(a)lle  tradizioni  costituzionali  e  (a)gli  obblighi
internazionali comuni agli  stati  membri,  al  Trattato  sull'Unione
europea e (a)i Trattati Comunitari, (a)lla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
(a)lle  Carte  sociali  adottate  dalla  comunita'  e  dal  consiglio
d'europa, nonche'  (a)i  diritti  riconosciuti  dalla  giurisprudenza
della Corte di giustizia delle Comunita' Europee e  da  quella  della
Corte Europea dei diritti dell'Uomo». 
    Puo', dunque, dirsi perfezionata  la  «comunitarizzazione»  della
Carta di Nizza,  o  meglio  dei  diritti  in  essa  sanciti,  con  la
conseguenza che la loro violazione puo' considerarsi presidiata dalla
piu'  incisiva  tutela  apprestata  dal  diritto   comunitario   alle
posizioni giuridiche soggettive di rilevanza  sovranazionale  ed,  in
particolare, dalla c.d. primazia delle norme comunitarie. 
    Inoltre, come agevolmente desumibile dal preambolo della Carta di
Nizza, la comunitarizzazione dei suddetti diritti puo' dirsi avvenuta
nella portata e nell'ampiezza che agli stessi deve riconoscersi  alla
luce, peraltro, delle pronunce  delle  Corti  sovranazionali  nonche'
della stessa Cedu che ne costituiscono, in un  certo  qual  modo,  il
parametro di «concreta commisurazione». 
    Tornando  agli  effetti  di  tale  scelta,  e'   noto   come   il
problematico  rapporto  fra  ordinamento  comunitario  e  ordinamento
interno, dopo un tortuoso percorso interpretativo, e'  stato  risolto
con l'elaborazione del principio del primato (c.d.  primaute')  delle
norme comunitarie  sul  diritto  interno,  con  il  solo  limite  dei
principi supremi del nostro ordinamento. Principio, il cui fondamento
costituzionale e' stato individuato nell'art. 11 Cost. 
    In virtu' di tale articolo, l'ordinamento italiano, ricorrendo le
condizioni  individuate  dalla  stessa  Assemblea  Costituente,  puo'
limitare la propria sovranita'. Quindi  l'art.  11  Cost.,  e'  stato
letto  come  fonte  idonea  ad  attribuire   determinate   competenze
normative all'Unione; competenze che  possono  esplicarsi  con  norme
direttamente operative nel nostro ordinamento, siano esse quelle  dei
trattati,  siano  esse  quelle  dei  regolamenti  e  delle  direttive
self-executing. 
    Peraltro, a tal ultima norma, a seguito della riforma del  titolo
V della Costituzione di cui alla Legge Costituzionale 18.10.2011,  n.
3, si e' aggiunta l'introduzione espressa, di cui all'art. 117, primo
comma,  Cost.,   dell'obbligo   di   rispettare   i   vincoli   posti
dall'ordinamento comunitario. 
    Orbene, deve ritenersi  che  il  sistema  risarcitorio  delineato
dall'art.  139  con  il  duplice  limite  dei  valori  tabellari,  da
applicarsi   in   relazione   alle   diverse   ipotesi   di   lesione
dell'integrita' psico-fisica, nonche'  dell'aumento  nei  limiti  del
quinto,  sia  incompatibile  con  la  tutela  effettiva  delle  nuove
posizioni giuridiche di diritto comunitario ed, in  particolare,  del
«Diritto all'integrita' della persona», di cui all'articolo  3  della
Carta di Nizza, intesa - come desumibile dal primo comma, secondo cui
«Ogni individuo ha diritto alla propria integrita' fisica e psichica»
- nella duplice valenza di salute  fisica  e  psichica,  cosi'  della
«Dignita' umana» di cui all'articolo  1,  definita,  peraltro,  quale
bene-valore inviolabile. 
    Cio' tanto piu' che la stessa Suprema  Corte  (cfr.  sentenza  n.
12408 del 2011) ne ha, ad altri  fini,  evidenziato  la  non  equita'
perche' inidonee, diversamente dalle Tabelle milanesi, a garantire la
duplice esigenza di una uniformita'  pecuniaria  di  base  e  di  una
idonea personalizzazione del danno. 
3.2. Violazione dell'art. 117, primo comma,  della  Costituzione,  in
relazione  all'art.  6  T.U.E.,  quale  modificato  dal  Trattato  di
Lisbona, nonche' in relazione all'art. 2 Cedu. 
3.2.1. Il controverso ruolo nel nostro ordinamento della Cedu. 
    Controverso e', invece, se a seguito della modifica  dell'art.  6
Tue, per effetto del Trattato  di  Lisbona,  le  norme  Cedu  abbiano
acquisito diretta rilevanza in ambito comunitario e,  per  l'effetto,
anche nel nostro ordinamento. 
    Infatti, ai successivi paragrafi 2 e 3, lo stesso art. 6  prevede
che «l'Unione  europea  aderisce  alla  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali»;  e
che «i diritti  fondamentali»,  garantiti  da  detta  Convenzione  «e
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati  membri,
fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali.». 
    Alla luce di tali  previsioni,  indipendentemente  dalla  formale
adesione  alla  Cedu  da  parte  dell'Unione  europea  -  non  ancora
avvenuta, ma  comunque  preannunciata  -  i  diritti  elencati  dalla
Convenzione  sarebbero  stati  ricondotti  all'interno  delle   fonti
dell'Unione sotto un duplice profilo.  Da  un  lato,  cioe',  in  via
mediata, tramite la loro elevazione a «principi generali del  diritto
dell'Unione»; dall'altro lato, in  via  immediata,  come  conseguenza
della «trattatizzazione» della Carta di Nizza. 
    L'art.  52  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea - contenuto nel titolo VII, cui lo stesso art. 6 del Trattato
fa espresso rinvio - prevede, infatti, che, ove  la  Carta  «contenga
diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali  a
quelli conferiti dalla suddetta Convenzione»; fermo restando che tale
disposizione «non preclude che il  diritto  dell'Unione  conceda  una
protezione piu' estesa.». 
    Di conseguenza, tutti i diritti previsti dalla Cedu  che  trovino
un «corrispondente»  all'interno  della  Carta  di  Nizza  dovrebbero
ritenersi «tutelati (anche) a livello comunitario (rectius,  europeo,
stante l'abolizione della divisione  in  "pilastri"),  quali  diritti
sanciti [...] dal Trattato dell'Unione.» 
    Coerentemente  con  tali  premesse   concettuali,   un   cospicuo
orientamento di pensiero -  in  cio'  avallato  dalla  giurisprudenza
amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sezione IV, 2 marzo 2010, n.
1220 e TAR Lazio, sezione II-bis, 18 maggio 2010, n. 11984) - ritiene
che le norme Cedu beneficerebbero del medesimo  statuto  di  garanzia
delle  norme  comunitarie.  Esse,  pertanto,   non   sarebbero   piu'
considerate quali norme internazionali e  parametro  «interposto»  di
legittimita' costituzionale di norme domestiche ex  art.  117  Cost.,
bensi' quali norme comunitarie (in quanto  «comunitarizzate»  con  il
Trattato di Lisbona). Quindi, in virtu' della «primaute'» del diritto
comunitario, sarebbe doverosa la non applicazione  di  norme  interne
con esse contrastanti. 
    Da cio', la legittimita' del ricorso, per l'interprete, non  piu'
al solo strumento della rimessione  alla  Corte  costituzionale,  per
violazione dell'art. 117 Cost., primo comma, della norma interna  che
non  consenta  una  tutela  (idonea)  -  e  compatibile  coi  dettami
comunitari - di un diritto fondamentale di rilevanza comunitaria,  ma
al piu' incisivo meccanismo della disapplicazione, quale mezzo idoneo
a consentire un controllo diffuso di compatibilita' comunitaria. 
    Invero, la ricostruzione de qua e' stata oggetto  di  critica  da
parte di un'autorevole dottrina per cui se e' vero che  «il  Trattato
Unione Europea, per come modificato dal Trattato di Lisbona, consente
l'adesione dell'Unione alla Cedu», e' vero anche che «non  solo  tale
adesione deve ancora avvenire, secondo le procedure del protocollo n.
8 annesso al Trattato, ma soprattutto non comportera' l'equiparazione
della Cedu al diritto comunitario, bensi' - semplicemente - una  loro
utilizzabilita' quali principi generali del  diritto  dell'Unione  al
pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri». 
    Quindi, «il Trattato di Lisbona nulla avrebbe modificato circa la
(non) diretta applicabilita' nell'ordinamento italiano della Cedu che
resta, per l'Italia, solamente un obbligo internazionale,  con  tutte
le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza
mediante questione di  legittimita'  costituzionale,  secondo  quanto
gia' riconosciuto dalla Corte costituzionale». 
    Ne' il suddetto art. 6 potrebbe avere, di per se', la valenza  di
un «assenso» dell'Italia (o  di  un  altro  stato  membro)  a  quella
limitazione di sovranita' che,  in  conformita'  all'art.  11  Cost.,
avrebbe consentito (come gia' verificatosi in occasione dell'adesione
dell'Italia al Trattato istitutivo della CE) la diretta  operativita'
della norma internazionale sul piano interno, della  regolamentazione
dei rapporti giuridici fra i singoli consociati. Infatti,  gli  stati
membri non avrebbero espresso alcuna volonta' di autolimitazione e di
rinuncia al proprio  potere  di  normazione  dei  rapporti  giuridici
creati all'interno di ciascuno di essi. 
    Ne' l'assenso alle limitazioni di sovranita'  ex  art.  11  Cost.
sarebbe da considerarsi  definitivamente  «delegato»  al  legislatore
comunitario per effetto  dell'iniziale  sottoscrizione  del  Trattato
Istitutivo della CEE, ora Unione Europea. 
    Dunque, quest'ultima, se puo' aderire alla  Cedu  quale  soggetto
internazionale e, in virtu' della personalita' giuridica  di  diritto
internazionale che gli viene riconosciuta  dall'art.  47,  non  puo',
pero', «disporre», quale soggetto  internazionale,  della  sovranita'
dei rispettivi stati membri. 
    Accedendo a tale seconda ricostruzione, per effetto  dell'art.  6
la  sola  UE  si  sarebbe  autovincolata  ad  aderire  alla  Cedu  in
rappresentanza di se stessa e quale soggetto internazionale  distinto
dagli stati membri. 
    Ne discende che le norme Cedu sarebbero idonee  a  dare  luogo  a
vincoli internazionali nei confronti della UE, cosi' come degli Stati
membri, ma non sarebbero «garantite» dallo statuto tipico del diritto
comunitario  e,   quindi,   dal   meccanismo   della   loro   diretta
applicabilita'. 
    A diverse conclusioni,  si  sarebbe  potuto  pervenire,  in  sede
interpretativa, se fosse stata prevista espressamente,  nel  Trattato
di  Lisbona,  l'equiparazione  del  valore  giuridico  tra  le  norme
comunitarie e quelle della Cedu, cosi' come, appunto, previsto per le
disposizioni della Carta di Nizza. 
    Invero, la Consulta  con  la  sentenza  n.  80  del  2011  sembra
accedere a tale seconda opzione ricostruttiva dei rapporti fra  norme
Cedu e ordinamento interno. Infatti, ricostruendo  la  portata  delle
sue stesse decisioni, evidenzia «come, a partire  dalle  sentenze  n.
348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale sia  costante
nel  ritenere  che  le  norme  della  Cedu  -  nel  significato  loro
attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo,  specificamente
istituita per dare a esse interpretazione e  applicazione  (art.  32,
paragrafo  1,  della   Convenzione)   -   integrino,   quali   «norme
interposte», il  parametro  costituzionale  espresso  dall'art.  117,
primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione  della
legislazione   interna   ai   vincoli   derivanti   dagli   «obblighi
internazionali» (sentenze n. 317  e  n.  311  del  2009,  n.  39  del
2008).». 
    Ne consegue che «ove si profili un eventuale  contrasto  fra  una
norma interna  e  una  norma  della  Cedu,  il  giudice  comune  deve
verificare anzitutto la praticabilita' di una  interpretazione  della
prima  in  senso  conforme  alla  Convenzione,  avvalendosi  di  ogni
strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove  tale  verifica  dia
esito negativo - non potendo a cio' rimediare tramite la semplice non
applicazione della norma interna contrastante - egli deve  denunciare
la rilevata incompatibilita', proponendo  questione  di  legittimita'
costituzionale in riferimento all'indicato parametro. A sua volta, la
Corte costituzionale, investita  dello  scrutinio,  pur  non  potendo
sindacare l'interpretazione della  Cedu  data  dalla  Corte  europea,
resta legittimata a verificare se, cosi' interpretata, la norma della
Convenzione  -  la  quale  si  colloca  pur  sempre  a   un   livello
sub-costituzionale - si ponga eventualmente in  conflitto  con  altre
norme della Costituzione; «ipotesi  eccezionale  nella  quale  dovra'
essere esclusa la idoneita' della norma convenzionale a integrare  il
parametro considerato.». 
    Al  di  la'  della  questione  relativa  alla   rilevanza   della
Convenzione Europea nell'ordinamento  comunitario,  e  cioe',  se  la
stessa sia «diretta» (perche' da considerarsi quale parte  integrante
dello stesso), o mediata (perche' rilevante quale fonte  di  principi
generali, al piu' alto livello delle fonti - il Trattato  sull'Unione
Europea), deve considerarsi consacrato il principio per cui i diritti
sanciti dalla C.e.d.u. sono tutelabili, quali principi  generali  del
diritto comunitario, di fronte agli  organi  comunitari  e  a  quelli
degli stati membri. 
    In tal senso depone l'univoco dato testuale dell'art. 6 che, come
gia' affermato, prevede che «i diritti fondamentali», garantiti dalla
Cedu «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli  Stati
membri, fanno  parte  del  diritto  dell'Unione  in  quanto  principi
generali.». 
    E, ovviamente - come precisato dal preambolo della Carta di Nizza
- lo sono nei limiti individuati dalla giurisprudenza della Corte  di
Giustizia e della Corte Europea cui compete il ruolo istituzionale di
"delineare" le fattispecie di diritti della persona  suscettibili  di
tutela, nonche' di modularne i limiti operativi. 
    Cio', in virtu'  della  portata  etero-integratrice  dei  diritti
fondamentali -  e,  in  generale,  dei  Trattati  e  della  normativa
comunitaria  suscettibile  di  diretta  applicazione   -   che   deve
riconoscersi alle pronunce dei suddetti organi giurisdizionali cui e'
riconosciuto  il  potere  di  variamente  modulare  e  graduare   gli
strumenti di tutela. 
3.2.2. Il caso di specie. 
    Non  e'  revocabile  in  dubbio  che  il   bene   dell'integrita'
psico-fisica,  cosi'  come  la  sfera  morale  dell'individuo,  siano
tutelati dalla Cedu ed, in particolare, dall'art. 2 Cedu, in  materia
di "diritto alla vita", secondo cui (comma 1), «Il diritto alla  vita
di ogni persona  e'  protetto  dalla  legge».  Norma,  dalla  portata
volutamente generica e ricomprensiva,  pertanto,  di  ogni  possibile
declinazione  del  bene-vita,  incluse  le  condizioni  materiali   e
giuridiche perche' la stessa possa svolgersi in modo dignitoso, cosi'
come gli strumenti processuali per ottenere la riparazione del danno. 
    D'altronde, le potenzialita' applicative della norma de qua  sono
agevolmente evincibili dall'ampiezza delle decisioni della Corte che,
in relazione alla  responsabilita'  dello  Stato  da  emotrasfusioni,
richiamando l'art. 2, ha affermato il principio secondo cui quando il
pregiudizio alla vita o all'integrita' fisica non sia volontario,  e'
sufficiente che il sistema giudiziario offra agli  interessati  degli
strumenti di tutela giurisdizionale, da azionare anche  davanti  alla
giurisdizione civile, per accertare l'eventuale  responsabilita'  dei
medici ed ottenere ristoro per i danni subiti. 
    Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che sebbene  il  sistema
giudiziario italiano abbia offerto ai ricorrenti strumenti di  tutela
giurisdizionale che, sul piano  teorico,  rispondevano  ai  requisiti
prescritti dall'art. 2, sul piano pratico essi si sono  rivelati  del
tutto  inidonei  ed   inefficaci,   in   quanto   i   giudizi   volti
all'accertamento  delle  responsabilita'  non  avevano   dato   esiti
tempestivi  e  soddisfacenti,  avendo  il  processo  maturato  enormi
ritardi tali da superare i termini della ragionevole durata (Sentenza
della Corte Europea dei  Diritti  dell'Uomo  del  1°dicembre  2009  -
Ricorso n. 43134/95 - G.N. c. Italia). 
    Orbene, in relazione alla tutela  della  proprieta'  privata,  da
parte  della  Corte  europea  deve  ritenersi  oramai  acquisito   il
principio  per  cui  il  risarcimento  del  danno,  in   applicazione
dell'art. 41 Cedu, deve essere, se non integrale, almeno equo. 
    Dunque, deve ritenersi che sia  coerente  con  lo  spirito  della
Convenzione europea e, quindi, della stessa Carta di Nizza (che  alla
prima rinvia, elevandone il contenuto a parte integrante dei principi
generali del diritto comunitario) l'affermazione  per  cui  l'equita'
del risarcimento e' indefettibile  anche  per  quanto  concerne  ogni
altro diritto fondamentale. 
    E tale deve ritenersi il diritto all'integrita'  psico-fisica  di
cui all'art. 2 Cedu. 
    Giovino, inoltre, le seguenti considerazioni. 
    Come gia' evidenziato, nella  controversia  Carbonara  e  Ventura
contro Italia, la Corte  dei  diritti  dell'uomo,  per  l'ipotesi  di
occupazione acquisitiva concretante (come in quella  usurpativa)  una
violazione  dei  diritti  dell'uomo,  ha  individuato  la  tutela  da
concedere, in via principale, nella integrale restitutio in integrum,
in quanto misura idonea  ad  elidere  gli  effetti  della  perpetrata
violazione del diritto umano di proprieta'. 
    Cio', salvo la possibilita' degli Stati contraenti  di  scegliere
di sostituirla con un risarcimento equivalente al valore attuale  del
bene trattenuto. 
    Orbene,  se,  in   materia   espropriativa   o   di   occupazione
illegittima, laddove esiste  un  interesse  pubblico  da  soddisfare,
come, nell'ipotesi di «obiettivi legittimi di utilita' pubblica, come
quelli perseguiti da misure  di  riforma  economica  o  di  giustizia
sociale» sarebbe, comunque, giustificabile un indennizzo inferiore al
valore di mercato effettivo (ma,  comunque,  equo);  per  contro,  in
materia di risarcimento del  danno  da  circolazione  dei  veicoli  -
ambito nel quale, gli interessi da soddisfare sono di natura  privata
(quello al contenimento degli esborsi per il danneggiante  e  quello,
di rilevanza costituzionale, del danneggiato alla  riparazione  della
sua sfera giuridica) - il risarcimento dovrebbe essere integrale. 
    Cio',  se  si  vuole  evitare  di   postulare   un'irrazionalita'
intrinseca del sistema di tutela garantito dalla Cedu, specie  se  si
considera  la  preminenza  valoriale   dell'integrita'   psico-fisica
rispetto al mero dominium. 
    Per contro, e' agevolmente intuibile che  la  previsione  di  una
soglia  invalicabile  al  risarcimento  del  danno,  per   di   piu',
«livellata» verso il basso (ovvero nei  limiti  di  1/5),  unitamente
alle previsioni di valori tabellari non «equi», perche'  difformi  da
quelli  previsti  dalle  tabelle  Milanesi  (assunte   dalla   stessa
giurisprudenza di legittimita' a parametro equitativo), si  ponga  in
contrasto con il principio, non solo di integrale ma  anche  di  equa
riparazione del danno, quale principio immanente al sistema di tutela
cosi' delineato. 
    Da cio', a parere del giudice remittente, la violazione dell'art.
2 Cedu e, dunque, dell'art. 6 TUE  e,  mediatamente,  dell'art.  117,
comma l . 
    Cio', tanto piu' che, come spesso precisato dalla stessa  Suprema
Corte, il risarcimento del danno costituisce, di per se',  la  tutela
minima   concedibile   a   fronte   della    lesione    di    diritti
costituzionalmente garantiti e qualunque restrizione  quantitativa  o
qualitativa (non ragionevole e giustificata  dal  contemperamento  di
interessi preminenti) si traduce nella negazione della tutela stessa. 
3.3. Violazione dell'art. 117, primo comma,  della  Costituzione,  in
relazione all'art. 6 Cedu che riconosce il «Diritto  ad  un  processo
equo». 
    Sotto altro profilo, l'art. 6 Cedu, nel riconoscere  il  «Diritto
ad un processo equo», specifica che «1. Ogni persona ha diritto a che
la sua causa sia  esaminata  equamente,  pubblicamente  ed  entro  un
termine  ragionevole  da  un  tribunale  indipendente  e  imparziale,
costituito per legge, il quale decidera' sia delle  controversie  sui
suoi diritti e doveri di carattere civile, sia  della  fondatezza  di
ogni accusa penale che le venga rivolta.». 
    E' ovvio che l'avverbio «equamente», quale parametro conformativo
dell'agire del c.d. «giudice comune», chiamato  a  dare  applicazione
alla convenzione,  non  allude  alla  mera  indipendenza  dell'organo
giudiziario,   ma,   in   quanto   valore   testualmente   preso   in
considerazione  dalla  stessa  norma,  e  riferito  dalla  stessa  al
tribunale davanti al quale sia radicato il giudizio. 
    Di contro, presupporre questa  coincidenza  concettuale  vorrebbe
dire ammettere una superfetazione normativa che e' in  contrasto  con
la stessa effettivita' del diritto sovranazionale. 
    Cio' premesso, la  qualificazione  in  termini  di  equita'  deve
essere riferita non soltanto alle regole  processuali,  ma  anche  al
risultato dell'esito del giudizio e, quindi, alle regole  di  diritto
sostanziale, sottese alla valutazione giudiziale e  coincidenti,  nel
caso di specie, con le regole  che  presiedono  al  risarcimento  del
danno da micropermanenti da circolazione S.le. 
    D'altronde, predicare l'equita'  delle  sole  regole  processuali
avrebbe l'effetto di consentire, in astratto, un esito (in termini di
tutela  accordata),  processualmente  equo,  ma  quantitativamente  o
qualitativamente non equo  perche'  conseguente  all'applicazione  di
regole di diritto sostanziale, non «eque», come quelle in materia  di
prescrizione dell'azione, di decadenza o, come nel  caso  di  specie,
relative alla concreta commisurazione del danno risarcibile. 
    Dunque, e' innegabile che un microsistema risarcitorio,  qual  e'
quello  delineato  dall'art.  139  Cod.  Ass.,   nel   porre   valori
risarcitori  (quelli  relativi  al  singolo  giorno   di   inabilita'
temporanea totale o parziale), cosi' come  limiti  quantitativi  alla
personalizzazione non equi (e considerati tali dalla stessa Corte  di
Cassazione) si pone in contrasto «mediato»  con  l'art.  6  Cedu  che
riconosce il «Diritto ad un processo equo» e «diretto» con l'art. 117
Cost., primo comma. 
3.4. Violazione dell'art. 117, primo  comma,  della  Costituzione  in
relazione al principio  comunitario  dell'effettivita'  della  tutela
(sub  specie  di  tutela  risarcitoria),   riconosciuta   a   livello
nazionale. 
    Sotto  altro  profilo,  e   proprio   in   considerazione   della
comunitarizzazione dei diritti  sanciti  dalla  Carta  di  Nizza  (e,
cioe', «dignita' morale» e «integrita' psico-fisica»), deve ritenersi
che operino, anche con riguardo alla  tutela  dei  suddetti  beni,  i
principi    generali    dell'ordinamento    comunitario,    peraltro,
espressamente indicati, nel preambolo della  Carta  di  Nizza,  quali
criteri di «commisurazione»  della  tutela  comunitaria  dei  diritti
fondamentali, sanciti dalla stessa Carta di Nizza. 
    In primis, viene in rilievo il principio di «leale  cooperazione»
solitamente declinato nel  senso  che  gli  organi  nazionali  devono
«facilitare le istituzioni  comunitarie  nell'assolvimento  dei  loro
compiti» (ad esempio dando  tempestiva  e  puntuale  attuazione  alle
direttive, cosi'  come  agevolando  l'attivita'  di  controllo  della
Commissione tenendo un comportamento «collaborativo»). 
    Piu' in generale, pero', gli Stati membri, nei loro rapporti  con
la  Comunita',  devono   avere   comportamenti   atti   a   garantire
l'effettivita' dell'ordinamento giuridico comunitario, nel  quale  si
iscrivono, appunto, i diritti della Carta di Nizza. 
    Invero, il principio di effettivita' puo' considerarsi l'esito di
un  graduale  percorso  interpretativo,  non  essendo   espressamente
codificato da alcuna norma del trattato. 
    Una delle norme che ha funto da fondamento normativo  e',  pero',
individuabile  nell'art.  10  del  T.C.E.  Detto  articolo,  sancisce
l'obbligo per gli stati membri  di  adottare  tutti  i  provvedimenti
idonei al  fine  di  rendere  effettiva  l'applicazione  del  diritto
comunitario, al contempo, dovendosi astenere da condotte che  possano
esserne di ostacolo. L'art. 2 T.U.E., ad esempio, dopo aver  elencato
gli  obiettivi  dell'U.E.,  afferma  che  la  stessa  si  impegna   a
raggiungere  tali   obiettivi   nel   rispetto   del   principio   di
sussidiarieta', vale a dire quel principio secondo  cui  l'intervento
dell'U.E. e' subordinato all'impossibilita'  degli  stati  membri  di
intervenire, per mezzo dei loro strumenti nazionali. 
    Il principio de quo - abitualmente inteso come  divieto  per  gli
stati membri di rendere, attraverso  le  scelte  dei  propri  organi,
impossibile  o  difficoltoso  l'esercizio   dei   diritti   conferiti
dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettivita') -,
in  una  necessaria  proiezione  sotto   il   profilo   del   diritto
sostanziale, deve considerarsi in grado di imporre il  piu'  generale
principio  dell'integralita'   del   risarcimento   della   posizione
giuridica di  rilevanza  comunitaria  lesa  o,  comunque,  della  sua
commisurazione secondo criteri equitativi. 
    Orbene, la Cassazione con sentenza n. 12408 del 2011 ha ricordato
la duplice valenza dell'equita' cui sarebbe consustanziale  non  solo
l'idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione,  divenendo  in
tale  seconda  accezione,  strumento  attuativo   del   precetto   di
eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. 
    Infatti, la stessa consentirebbe di trattare i casi dissimili  in
modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in  quanto  tutti
ricadenti sotto la disciplina della medesima  norma  o  dello  stesso
principio. 
    Percio', se equo, come affermato dalla suddetta pronuncia, e'  il
solo trattamento previsto dalle tabelle Milanesi (perche'  idonee  ad
assicurare una misura risarcitoria adeguata rispetto alle esigenze di
tutela),  il  principio  di   effettivita',   sub   specie   di   una
determinazione equa della misura  risarcitoria,  risulta  violato  da
tale microsistema normativo (art. 139 Cod, Ass). L'art. 139, infatti,
prevede  valori  tabellari  riconosciuti  non  "equi"  dalla   stessa
giurisprudenza di legittimita' che, al contempo, pone  alla  concreta
personalizzazione del danno, un limite che non  si  concilia  con  il
principio di una modulazione caso per caso della misura risarcitoria. 
    Per mera completezza espositiva si ritiene di dover  fare  propri
anche i profili di illegittimita' evidenziati dal Giudice di pace  di
Torino, sez. V civile, con l'ordinanza 21.10.2011, perche' pienamente
condivisi da questo Giudice. 
3.5. Violazione dell'articolo 3, comma 1, della Costituzione sotto il
duplice  profilo  della  differenza  di  trattamento  accordato  alle
micropermanenti a secondo della loro genesi  e  della  diversita'  di
regime fra micropermanti e macropermanenti. 
    L'articolo  139  del  Cod.Ass.,  introducendo   un   microsistema
risarcitorio differenziato rispetto a quello individuato come equo e,
quindi, doverosamente applicabile, in relazione non solo a  tutte  le
micropermanenti  che  rinvengano  la  propria  genesi  in  un  ambito
differente   dalla   circolazione   S.le,   ma   anche   alle    c.d.
macropermanenti, non e' compatibile con l'art. 3 Cost. 
    Poiche' la salute, cosi'  come  la  dignita'  morale,  sono  beni
«neutri» dell'individuo che devono essere tutelati, in egual  misura,
in relazione a tutti gli  individui,  appare  irragionevole  che  una
stessa lesione debba essere risarcita in modo diverso a seconda  che,
come nel caso de quo, derivi da  un  sinistro  S.le  con  conseguente
applicazione dell'art. 139) o abbia altra genesi. 
    Parimenti, irragionevole e' che la lesione al medesimo bene debba
essere risarcita sulla base di  parametri  apprezzabilmente  diversi,
sotto il profilo qualitativo e quantitativo, a secondo che  venga  in
rilievo una lesione permanente inferiore o superiore al 9 per cento. 
    E il vulnus con la norma costituzionale e'  tanto  piu'  evidente
ove si consideri che, come  ribadito  dalla  Suprema  Corte  (con  la
pronuncia n. 12408 del 2011), le Tabelle milanesi,  stante  l'attuale
quadro interpretativo, costituiscono,  per  come  concepite,  l'unico
strumento di attuazione del principio equitativo. 
    Tali non possono  considerarsi  i  valori  tabellari  attualmente
applicabili alle micropermanenti da circolazione S.le. 
    A tal  riguardo,  occorre  premettere  talune  considerazioni  di
carattere concettuale. 
    Come noto, l'equita', a sua volta, ha la funzione di «regola  del
caso   concreto»,   e   di   assicurare,   mediante    la    garanzia
dell'uniformita' pecuniaria di base (conseguente all'applicazione del
punto del danno non patrimoniale), la «parita' di trattamento». 
    Come evidenzia la Suprema Corte, «se  in  casi  uguali»  come  le
micropermanenti «non e' realizzata la parita' di trattamento, neppure
puo' dirsi correttamente attuata l'equita', essendo la disuguaglianza
chiaro sintomo della inappropriatezza della regola applicata.». 
    Tale  affermazione  si  coglie  in   tutta   la   sua   pregnanza
nell'ipotesi, qual e' quella  del  danno  non  patrimoniale,  in  cui
ontologicamente difetti, per la diversita' tra l'interesse  leso  (ad
esempio, la salute o l'integrita' morale) e lo strumento compensativo
(il denaro), la  possibilita'  di  una  sicura  commisurazione  della
liquidazione al pregiudizio areddituale subito dal danneggiato. 
    Tuttavia, i diritti lesi (ovvero  dignita'  morale  e  integrita'
psico-fisica)  si  presentano  uguali  per   tutti,   «sicche'   solo
un'uniformita' pecuniaria di  base  puo'  valere  ad  assicurare  una
tendenziale  uguaglianza  di  trattamento,  ad  un  tempo  sintomo  e
garanzia  dell'adeguatezza  della  regola  equitativa  applicata  nel
singolo caso, salva la flessibilita' imposta dalla considerazione del
particulare.». 
    D'altra parte, la regola  della  parita'  di  trattamento,  quale
declinazione del principio equitativo, e'  gia'  stata  affermata  in
numerose occasioni sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte  di
Cassazione,  con  riferimento  alla  liquidazione   del   danno   non
patrimoniale di tipo biologico. 
    In particolare, con la  sentenza  14  luglio  1986,  n.  184,  la
Consulta ha chiarito che, nella liquidazione del danno  alla  salute,
il giudice deve combinare due elementi: da un lato  una  «uniformita'
pecuniaria di base», la quale assicuri che lo stesso tipo di  lesione
non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto;
dall'altro   «elasticita'   e   flessibilita'»,   per   adeguare   la
liquidazione  all'effettiva   incidenza   della   menomazione   sulle
attivita' della vita quotidiana. 
    Il criterio della contestuale garanzia dei valori di  uniformita'
e flessibilita' del trattamento risarcitorio e' stato condiviso dalla
Suprema  Corte,  la  quale  ha  ripetutamente  affermato  che  «nella
liquidazione  del  danno  biologico  il  giudice  del   merito   deve
innanzitutto individuare un 1) parametro uniforme per tutti, e 2) poi
adattare quantitativamente o  qualitativamente  tale  parametro  alle
circostanze del caso concreto.». 
    In definitiva, la liquidazione equitativa dei danni alla  persona
deve evitare due estremi: 
        da un lato, che i criteri di liquidazione  siano  rigidamente
fissati in astratto  e  sia  sottratta  al  giudice  qualsiasi  seria
possibilita' di adattare i criteri legali alle circostanze  del  caso
concreto (in questo modo l'ordinamento garantirebbe  si'  la  massima
uguaglianza,  oltre  che  la  prevedibilita'  delle   decisioni,   ma
impedirebbe nello  stesso  tempo  un'adeguata  personalizzazione  del
risarcimento); 
        dall'altro, che il  giudizio  di  equita'  sia  completamente
affidato alla intuizione soggettiva  del  giudice,  al  di  fuori  di
qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a  parita'
di  lesioni  (sarebbe,  infatti,   bensi'   teoricamente   assicurata
un'adeguata personalizzazione del risarcimento, ma verrebbe  meno  la
parita' di trattamento e, con essa, la prevedibilita' dell'esito  del
giudizio, costituente uno dei piu' efficaci  disincentivi  alle  liti
giudiziarie). 
    Quindi, condivisibilmente, la sentenza n. 12408 dei 2011  afferma
che «Il conseguimento di una ragionevole equita'  nella  liquidazione
del danno deve  percio'  ubbidire  a  due  principi»  tendenzialmente
contrapposti:  «la  fissazione  di  criteri  generali   e   la   loro
adattabilita' al caso concreto.». 
    Dunque, l'equita' richiede sistemi di liquidazione  che  associno
all'1) uniformita' pecuniaria  di  base  del  risarcimento,  2)  ampi
poteri equitativi del giudice, 3) eventualmente entro limiti minimi e
massimi, necessari al fine di adattare  la  misura  del  risarcimento
alle circostanze del caso concreto. 
    Le tabelle di Milano consentono, accanto alla liquidazione di una
misura risarcitoria  equa,  un'idonea  personalizzazione  del  danno,
laddove il microsistema di cui all'art. 139 conduce  all'applicazione
di valori risarcitori, di per se', non equi, nella duplice  accezione
gia'  illustrata,  per  di  piu'  prevedendo  una   personalizzazione
incongrua perche' ammissibile, al piu', nei limiti di un quinto. 
    Come evidenziato dal Giudice di Pace di Torino,  con  l'ordinanza
21.10.2011, «le differenze (tra valori di cui alle Tabelle di  Milano
e  Tabella  delle  micropermanenti)  in  termini  monetari  risultano
notevoli se si pensa che nel primo caso in forza del punto  base  del
decreto ministeriale ad un soggetto di dieci anni che abbia riportato
un 1% di invalidita' da circolazione, viene corrisposto  euro  759,04
(con i valori di cui al D.M. 17/6/2011) mentre allo  stesso  soggetto
che abbia riportato sempre un'invalidita' dell'1% cadendo in una buca
puo' venir corrisposto (con  le  attuali  tabelle  del  Tribunale  di
Milano) l'importo di euro 1.313,00 e con l'aumentare dell'invalidita'
le differenze risultano ancora maggiori se si pensa che un 9%  in  un
soggetto di 24 anni con la tabella ministeriale viene  risarcito  con
euro 14.612,28 e con euro 19.160,00 con la tabella di  Milano,  salvo
l'incremento  equitativo  in  relazione  alle  condizioni  soggettive
dell'infortunato».  Pertanto,  «La  differenza  di   trattamento   in
presenza di  identiche  situazioni,  che  consegue  a  quanto  appena
rilevato,  risulta  allora  evidente   con   conseguente   violazione
dell'articolo 3, comma 1 della Costituzione.». 
    Invero, non consta che questa  differenziazione  del  trattamento
risarcitorio, in materia di circolazione  S.le,  possa  rinvenire  la
propria  ragion  di  essere  nel  contemperamento  del  principio  di
eguaglianza con altri e prevalenti interessi di rango costituzionale. 
    Spesso si invoca l'impatto che, a livello macroeconomico, riveste
il  risarcimento  delle   micropermanenti   da   circolazione   S.le.
Elevatissimi, si evidenzia, sono i costi complessivi  sopportati  dal
sistema  assicurativo,  anche   in   conseguenza   di   atteggiamenti
fraudolenti  dei   danneggiati,   volti   a   mistificare   l'origine
"casalinga" dei postumi di cui si chiede il risarcimento, cosi'  come
di prassi giudiziarie "generose", nella valutazione della  ricorrenza
di menomazioni permanenti di non lieve entita'. 
    Orbene, se anche si  volesse  riconoscere  la  veridicita'  delle
suddette affermazioni, rimarrebbe il ragionevole dubbio -  di  cui e'
evidente la valenza ideologica - relativo alla  possibilita'  che  un
fenomeno di malcostume sociale e culturale possa giustificare  scelte
legislative, consistenti in compressioni qualitative  e  quantitative
alla tutela  risarcitoria  di  diritti  fondamentali  dell'individuo,
quali sono la salute, cosi' come  la  stessa  dignita'  morale  della
persona. 
    Questo  Giudice  ritiene  che,  in  un  sistema   ordinarnentale,
conformato dal principio personalistico,  la  «ragione  assicurativa»
non   possa   considerarsi   prevalente   rispetto    al    principio
dell'effettiva ed equa riparazione del danno. Cio', tanto piu' che  a
tale scelta, sottesa all'art. 139  de  quo,  osta  la  necessita'  di
preservare la coerenza del sistema ordinamentale, quale  interpretato
dalla stessa Suprema Corte, in cio' avallata dal Giudice delle leggi. 
    Costituisce,  infatti,  principio  immanente  e  coessenziale  al
sistema di tutela quello per  cui  «il  risarcimento  del  danno  non
patrimoniale  ...  nel  caso  di  lesione  di  interessi   di   rango
costituzionale, ... costituisce la forma minima  di  tutela,  ed  una
tutela minima non e' assoggettabile a limiti specifici, poiche'  cio'
si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi.». 
3.6. Violazione dell'articolo 32, 2, 24 della Costituzione  sotto  il
profilo della necessita' di  assicurare  (accanto  ad  un'uniformita'
pecuniaria  di  base)  un'adeguata  personalizzazione  della   misura
risarcitoria. 
    Si e' gia' detto come  costituisca  principio  consolidato  della
giurisprudenza della  Corte  costituzionale  quello  per  cui,  nella
liquidazione del danno non patrimoniale,  deve  essere  assicurata  -
accanto  ad  una  «uniformita'  pecuniaria  di   base»,   strumentale
all'attuazione   del   principio   di   eguaglianza   -   un'adeguata
personalizzazione della misura risarcitoria, cosi' da assicurarne  la
conformita' all'effettiva incidenza del pregiudizio sul bene leso. 
    Dunque, cosi' puo' stato conformato dal Giudice delle  leggi,  in
tale ambito materiale, il diritto sostanziale del  danneggiato  e  il
correlato ius di agire in giudizio di cui all'art. 24 Cost. 
    Il principio, enucleato espressamente con riguardo al pregiudizio
di tipo biologico ex art. 32 Cost., puo' dirsi valevole - a  pena  di
un'irrazionalita' intrinseca al sistema costituzionale  di  tutela  -
per ogni diritto costituzionalmente garantito, e, quindi, per  quella
personalita'  morale  dell'individuo  di  cui,  al   di   la'   delle
summenzionate norme sovranazionali (art. 1 della Carta di Nizza),  e'
possibile rinvenire un fondamento nella clausola generale dell'art. 2
Cost. 
    Non v'e' dubbio che l'art. 139, cosi' come congeniato, prevedendo
un contenuto margine di aumento della misura risarcitoria (1/5),  non
sia idoneo ad assicurare  non  solo  la  parita'  di  trattamento  di
fattispecie   di    offesa    omogenee,    ma    anche    un'adeguata
personalizzazione  del  danno,  con  conseguente   violazione   delle
disposizioni costituzionali soprammenzionate. 
3.7. Violazione dell'articolo 76 della Costituzione per la previsione
di un limite non previsto dalla legge delega 23/7/2003, n. 229. 
    La l. n. 229/2003 all'art. 4 disponeva testualmente: «Il  Governo
e' delegato ad adottare, entro un  anno  dalla  data  di  entrata  in
vigore della presente legge, uno o piu' decreti  legislativi  per  il
riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni,  ai
sensi e secondo i principi e criteri direttivi di cui all'articolo 20
della legge 15/3/1997 n. 59, come sostituito  dall'articolo  l  della
presente legge, e  nel  rispetto  dei  seguenti  principi  e  criteri
direttivi:  a)  adeguamento   della   normativa   alle   disposizioni
comunitarie e agli accordi internazionali; b) tutela dei  consumatori
e, in generale, dei contraenti piu' deboli, sotto  il  profilo  della
trasparenza delle condizioni contrattuali,  nonche'  dell'informativa
preliminare, contestuale e successiva alla conclusione del contratto,
avendo riguardo anche alla correttezza dei  messaggi  pubblicitari  e
del processo di  liquidazione  dei  sinistri,  compresi  gli  aspetti
strutturali di tale servizio ... ». 
    Secondo questa disposizione, il legislatore delegato -  chiamato,
per contro, ad  attuare  scelte  normative,  idonee  a  riequilibrare
l'intrinseca  disparita'  di  forza  contrattuale  ed  economica  fra
l'esercente l'attivita' assicurativa,  da  un  lato,  e  il  cliente,
dall'altra - non poteva porre alcun limite. 
    Il fine era quello di assicurare una maggiore armonia e  coerenza
dell'ordinamento italiano con  quello  comunitario.  A  quest'ultimo,
infatti, deve riconoscersi il merito di un generale innalzamento  del
livello  di  tutela,  apportato  in  materia  consumieristica,  cosi'
giustificando l'affermazione per cui il favor per il consumatore  (in
un sistema ordinamentale integrato dalla disciplina comunitaria e  in
cui il giudice nazionale e', al contempo, giudice  investito  di  una
funzione di garanzia  della  tenuta  complessiva  del  sistema)  deve
intendersi, al contempo, ratio ispirativa delle singole norme,  cosi'
come parametro idoneo a conformarne l'interpretazione. 
    Orbene, e' innegabile  che  la  previsione  di  valori  tabellari
apprezzabilmente  inferiori  a  quelli  ritenuti  equi  dallo  stesso
giudice di legittimita', depositario della funzione di  nomofilachia,
cosi'  come  di  un  potere-dovere  di  una  contenuta   e   limitata
personalizzazione, sia in contrasto con la ratio ed i principi  della
legge delega. 
    Ne  consegue  non  solo  l'«esorbitanza»  della  norma   delegata
rispetto alla legge delega, ma anche il contrasto con la ratio  della
stessa. 
4. Possibilita'  di  un'interpretazione  costituzionalmente  conforme
almeno per quanto concerne la liquidazione del danno non patrimoniale
di tipo morale: le possibili letture alternative dell'art. 139 Codice
delle Assicurazioni. 
4.1. La tesi dell'inapplicabilita' dell'aumento  del  quinto  di  cui
all'art. 139 al danno morale e, quindi,  dell'irrisarcibilita'  dello
stesso in caso di micropermanenti da circolazione dei veicoli. 
    Il contrasto  con  la  normativa  comunitaria  e  sovranazionale,
nonche' coi suddetti parametri costituzionali,  e'  evidente  ove  si
acceda alla tesi secondo cui il danno non  patrimoniale,  sub  specie
del pregiudizio morale, in  tale  specifica  sede  materiale  (ovvero
quella delle micropermanenti da circolazione dei veicoli) non sarebbe
risarcibile. 
    Infatti, profittando di una non  corretta  interpretazione  della
pronuncia  delle  Sezioni  Unite  dell'11.11.2008   -   intesa   come
«abolitiva» del danno  non  patrimoniale  di  tipo  morale  -  si  e'
affermato che il legislatore speciale, con una  scelta  tranchant,  e
per ragioni di contenimento degli oneri risarcitori,  gravanti  sulle
compagnie assicurative, avrebbe deciso di escludere qualunque rilievo
risarcitorio alla sofferenza morale. 
    Secondo questa tesi ricostruttiva, il previsto aumento nei limiti
del  quinto  di  quanto  liquidato  a  titolo  di   danno   biologico
assolverebbe alla piu' limitata funzione di assicurare una  -  seppur
marginale - personalizzazione dello stesso pregiudizio all'integrita'
psico-fisica e quindi del  solo  danno  (non  patrimoniale  di  tipo)
biologico nell'accezione lata accolta dallo stesso  Cod.  Ass.,  come
ricomprensivo sia del pregiudizio  all'integrita'  psico-fisica,  sia
dell'impossibilita'  di  svolgere   attivita'   realizzatrici   della
persona. 
    Dunque, nel caso  di  specie,  all'attrice  non  dovrebbe  essere
liquidato alcunche' a titolo di danno morale. 
    Orbene, deve ritenersi  in  contrasto  coi  richiamati  parametri
costituzionali l'esclusione ope legis di una  voce  risarcitoria  (il
danno non patrimoniale di tipo morale) che,  peraltro,  in  relazione
alla  singola  vicenda  di  tutela,  puo'  anche  assurgere  ad   una
componente  essenziale  e  prevalente  del  complessivo   pregiudizio
areddituale. 
    Si pensi ad una limitazione fisica contenuta percentualmente (es.
parziale perdita della funzionalita' di una delle  dita  della  mano)
che sia idonea a frustrare le aspirazioni di un laureando in medicina
che voglia dedicarsi alla chirurgia,  oppure  al  pregiudizio  morale
inferto dalla stessa menomazione a chi abbia conseguito nel  medesimo
campo un elevato grado di affermazione professionale e non possa piu'
svolgere la propria attivita' professionale con  la  stessa  abilita'
manuale. 
    Nella comparazione complessiva delle  componenti  del  danno,  la
sofferenza morale puo', cioe', in particolari circostanze, acquistare
un peso decisivo. 
    Peraltro,  anche  il  verosimile  supporto  ideologico  di   tale
approccio interpretativo - e, quindi,  l'espunzione  dall'ordinamento
della figura della voce del danno  morale,  ad  opera  delle  Sezioni
Unite dell'11.11.2008 - e' del tutto destituito di fondamento. 
    Infatti,  le  Sezioni  Unite  non  solo  non  hanno  escluso   la
risarcibilita'  di   tale   voce   di   danno,   ma   lo   descrivono
specificatamente, sancendone le condizioni di risarcibilita'. 
    Volendo  ricostruire  esattamente  il  pensiero  della   suddetta
pronuncia, in primis, essa ha cura  di  disancorare  tale  figura  di
danno dal dato temporale, ovvero dall'entita' del suo  protrarsi  nel
tempo, con conseguente abbandono dello  schematismo  concettuale  per
cui il danno morale deve necessariamente essere transeunte. 
    D'altronde, si evidenzia come la suddetta ricostruzione non  solo
non trovi un fondamento normativo nell'art. 2059  ne'  nell'art.  186
del codice di procedura penale, che si esprime in  termini  di  danno
non patrimoniale conseguente a reato,  ma  non  risponde  neanche  ad
esigenze obiettive di tutela. Infatti,  il  pregiudizio  -  che,  non
limitato ad un ristretto lasso temporale, si protragga  nel  tempo  -
continua ad essere tale, conservando la sua natura e genesi. 
    Se, da un lato, dunque, viene allargata la  categoria  del  danno
morale, dall'altro, invece, questa categoria viene ristretta. 
    Infatti, le Sezioni Unite arrivano ad  affermare  che  quando  il
disagio morale, cioe' quando il pati non si limiti ad una  sofferenza
temporanea, ma si traduca in una degenerazione patologica,  assumendo
la valenza di una patologia medica, allora,  in  quel  caso,  sarebbe
risarcibile soltanto il danno biologico. 
    Condivisibilmente,   la    giurisprudenza    della    Cassazione,
successivamente alle  Sezioni  Unite  del  2008,  ha  avuto  modo  di
pronunciarsi, unitamente alla Giurisprudenza di merito, sottolineando
come, in effetti, non si possa  negare  che  il  danno  morale  debba
essere risarcito anche quando ci siano delle conseguenze  patologiche
per il soggetto 
    Infatti, danno morale e danno biologico tutelano  beni  giuridici
autonomi  e  conservano  tale  autonomia  anche   quando   all'evento
traumatico - e, di per se' fonte di sofferenza morale - consegua, per
il danneggiato, una patologia invalidante  (cfr,  Cassazione  civile,
sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29191 secondo cui il danno  morale  e'
dotato di propria autonomia rispetto alla lesione  del  diritto  alla
salute; Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2009, n. 479 per  cui
"merita accoglimento il motivo  di  ricorso,  in  cui  si  deduce  la
violazione di legge (art. 2059) per la mancata liquidazione del danno
morale contestuale alle lesioni gravi", ancora Cass. civ.  sez.  III.
sentenza 20 maggio 2009, n. 11701). 
    Anche sotto il profilo empirico e' di agevole intuizione che  una
cosa e' la sofferenza morale, altra e' la patologia  medica  cui  dia
luogo la medesima sofferenza. Ne' il degenerare, dopo un certo  lasso
di tempo, della prima nella seconda, e' idonea  a  far  venire  meno,
anche sotto il profilo storico-fattuale, l'autonoma  esistenza  della
seconda. 
    E l'autonomia delle due categorie  si  deduce  non  soltanto  dal
nostro sistema di diritto positivo, ovvero dall'ordinamento  interno,
in particolare dagli artt. 138 e 139 del Codice  delle  Assicurazioni
(che riconoscono autonoma dignita'  concettuale  alla  categoria  del
danno  morale),  ma  anche  dalla  summenzionata  Carta   di   Nizza,
incorporata nel trattato di Lisbona, quindi, da parte, di norme, come
gia' detto, sovraordinate rispetto alla normativa interna. 
    D'altra  parte,  a  livello  di  diritto   positivo,   anche   la
legislazione piu' recente, quella in materia di tutela delle  vittime
del terrorismo e delle stragi  terroristiche,  cosi'  come  anche  la
disciplina volta a assicurare l'indennita' ai  militari  che  abbiano
riportato patologie mediche, perche' in servizio in territori esteri,
quindi impegnati  in  conflitti  militari,  dimostra  come  il  danno
morale, per il legislatore, abbia un'autonoma valenza concettuale. 
    Infatti, questa categoria di  danno  non  soltanto  e'  descritta
dalla  legislazione  speciale,  ma,  ai  fini  dell'applicazione   di
quest'ultima, ne sono disciplinati i criteri  di  liquidazione  (cfr.
d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 recante il regolamento per  la  disciplina
dei termini  e  delle  modalita'  di  riconoscimento  di  particolari
infermita' da cause di servizio  per  il  personale  impiegato  nelle
missioni militari all'estero, nei conflitti  e  nelle  basi  militari
nazionali, a norma dell'articolo 2, commi 78 e  79,  della  legge  24
dicembre 2007, n. 244'' il cui art. 5, introduce criteri  legali  per
la   determinazione    dell'invalidita'    permanente,    prevedendo,
espressamente, che debbano essere risarciti, in via cumulativa  danno
biologico e danno morale). 
4.2. La tesi per  cui  l'aumento  del  quinto  di  cui  all'art.  139
ricomprenderebbe qualunque pregiudizio areddituale, anche se morale. 
    Afferma espressamente la Corte, nella summenzionata  sentenza  n.
12408 del 2011, che  «quante  volte,  ...  la  lesione  derivi  dalla
circolazione  di  veicoli  a  motore  e  di  natanti,  il  danno  non
patrimoniale da micro permanente non potra' che essere liquidato, per
tutti i  pregiudizi  areddittuali  che  derivino  dalla  lesione  del
diritto alla salute entro i limiti stabiliti dalla legge mediante  il
rinvio al decreto annualmente emanato dal  Ministro  delle  Attivita'
Produttive (ex art. 139, comma  5),  salvo  l'aumento  da  parte  del
giudice, «in misura non superiore ad un quinto con  equo  e  motivato
apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato» (art. 139,
comma 3).». 
    In primis, la stessa previsione di un incremento percentualistico
e' in contrasto con l'autonomia  concettuale  che  -  alla  luce  del
quadro  interpretativo  delineatosi  successivamente  alla   sentenza
«manifesto» dell'11.11.2008 - deve riconoscersi al danno morale (cfr.
Cassazione civile sez. III, 1º giugno 2010, n. 13431 che esclude  che
«il turbamento dell'animo o dolore intimo  sofferti  senza  lamentare
degenerazioni patologiche (tradizionalmente identificato  come  danno
morale soggettivo) possa essere  liquidato  in  una  percentuale  del
danno biologico»). 
    Con la sentenza a Sezioni Unite (n. 26972/2008), la Suprema Corte
ha  avuto  modo  di  chiarire  che,   nell'ambito   del   danno   non
patrimoniale, il riferimento a determinati  tipi  di  pregiudizi,  in
vario modo  denominati  (danno  morale,  danno  biologico,  danno  da
perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma
non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. 
    Secondo il Supremo Consesso,  e',  dunque,  compito  del  giudice
accertare  l'effettiva  consistenza  del  pregiudizio   allegato,   a
prescindere dal nome attribuitogli,  e  provvedere  alla  riparazione
integrale di tutte le ripercussioni  negative  subite  dalla  persona
complessivamente identificata. 
    Per  questo,  il  giudice,  anziche'  procedere   alla   separata
liquidazione del danno morale in termini di una percentuale del danno
biologico (procedimento che determina una duplicazione delle voci  di
danno da risarcire in favore della vittima), dovrebbe  provvedere  ad
un'adeguata  personalizzazione  della  liquidazione  del  danno   non
patrimoniale,  valutando  nella   loro   effettiva   consistenza   le
sofferenze fisiche e psichiche patite dal  soggetto  leso,  cosi'  da
pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. 
    Per contro, un meccanismo, come quello di specie, che preveda  la
liquidazione del danno morale su  basi  percentualistiche  presuppone
concettualmente che  lo  stesso  debba  considerarsi  un  quid  minus
rispetto al danno non patrimoniale  di  tipo  biologico,  meritevole,
pertanto, della liquidazione di un'entita' economica, necessariamente
inferiore rispetto a quella riconosciuta a fronte del pregiudizio non
patrimoniale di tipo biologico. 
    In secondo luogo, il previsto incremento percentualistico del 20%
- da applicarsi, secondo tale opzione  esegetica,  a  tutte  le  voci
areddituali  -  appare  inidoneo  a   consentire   idonea   copertura
risarcitoria ai molteplici profili  in  cui  si  puo'  articolare  il
pregiudizio non patrimoniale, con chiaro  vulnus  delle  disposizioni
summenzionate  ed,  in  particolare,  del  principio  comunitario  di
effettivita' della tutela, nonche' dello stesso art. 1 della Carta di
Nizza posto a presidio della  "Dignita'  umana"  che  viene  definita
quale  bene-valore  inviolabile  e  alla   quale   e'   riconducibile
1"'integrita' morale" di ciascun individuo. 
    Peraltro, si rende opportuno ricordare  come  le  stesse  Sezioni
Unite di San Martino abbiano precisato che una delle ipotesi  in  cui
il danno non patrimoniale e' considerato risarcibile, al di la' della
lesione di un diritto costituzionalmente garantito,  e,  quindi,  con
maggiore latitudine operativa, e' proprio quella del danno morale  da
reato. 
    Nella   suddetta   fattispecie   -    assimilabile    a    quella
giuslavoristica di cui all'art. 2087  c.c.  -  non  sono  risarcibili
solamente le lesioni  di  diritti  costituzionalmente  garantiti  che
trovino nel fatto di reato la loro causa,  ma  tutte  le  lesioni  di
diritti della persona anche non presidiati costituzionalmente. 
    La  tutela  risarcitoria  e',  cioe',  riconosciuta  a  qualunque
pregiudizio areddituale che  sia  conseguenza  della  lesione  di  un
interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo.
Cio', secondo lo schema di tutela  che  e'  a  fondamento  del  danno
ingiusto di cui all'art. 2043 c.c. 
    Con particolare riguardo all'impossibilita'  di  svolgere  una  o
piu' attivita'  realizzatrici  delle  persona  in  conseguenza  delle
lesioni riportate per effetto  del  reato,  le  Sezioni  Unite  hanno
affermato testualmente che, «In presenza di  reato»,  qual  e'  senza
dubbio quello di lesioni colpose ex art.  590  c.p.p.,  «superato  il
tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo  danno
morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte,  ed
affermata la risarcibilita' del danno non patrimoniale nella sua piu'
ampia accezione, anche il pregiudizio  non  patrimoniale  consistente
nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella  sofferenza  morale
determinata dal non poter fare) e' risarcibile.». 
    Ovviamente, sia la tesi sub 4.1) sia quella sub  4.2)  ineriscono
al solo danno non patrimoniale di tipo morale, per  cui  rimarrebbero
irrisolti gli evidenziati profili  di  compatibilita'  costituzionale
con riguardo alla risarcibilita' del pregiudizio di tipo biologico. 
4.3.  La  tesi,  c.d.  costituzionalmente  orientata,   dell'autonoma
risarcibilita' del danno non patrimoniale di tipo morale. 
    Il  contrasto  con   le   disposizioni   summenzionate   ed,   in
particolare,  con  il  principio   dell'effettivita'   della   tutela
risarcitoria  del  danno  (inteso  come  tutela  se  non   integrale,
comunque, equa), conseguente  ad  una  violazione  di  una  posizione
giuridica  soggettiva   di   rilievo   anche   sovranazionale   (come
l'integrita' psico-fisica o la dignita' morale), permane anche quando
si aderisca alla tesi, c.d. costituzionalmente orientata, secondo cui
tale microsistema normativo non  sarebbe  applicabile  al  danno  non
patrimoniale di tipo morale. 
    Condivisibilmente, si evidenzia come il secondo  comma  dell'art.
139 del Codice  delle  Assicurazioni  descrive  e  menziona  la  sola
categoria descrittiva del «danno biologico» da  intendersi  come  «la
lesione temporanea o  permanente  all'integrita'  psico-fisica  della
persona  suscettibile  di  accertamento  medico-legale  che   esplica
un'incidenza negativa sulle  attivita'  quotidiane  e  sugli  aspetti
dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da
eventuali ripercussioni sulla sua capacita' di produrre reddito.». 
    Precisa, poi, il successivo  terzo  comma  che  «l'ammontare  del
danno biologico liquidato [...] puo' essere aumentato dal giudice  in
misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato  apprezzamento
delle condizioni soggettive del danneggiato.». 
    Per contro, nessun riferimento e' compiuto dal combinato disposto
delle suddette norme al danno  morale  quale  sofferenza  morale  non
necessariamente transeunte, al turbamento  dello  stato  d'animo  del
danneggiato che pure deve presumersi,  secondo  l'id  quid  plerunque
accidit, in relazione ad un evento «traumatico» che abbia compromesso
l'integrita'  fisica,  seppur  con  varie   graduazioni   a   secondo
dell'intensita' di quest'ultimo. 
    Il legislatore speciale si sarebbe limitato  a  valutare  i  soli
aspetti  relazionali  e  anatomofunzionali  della  lesione  sofferta,
omettendo ogni stima in relazione  ai  residui  profili  riconosciuti
giurisprudenzialmente quali componenti dell'omnicomprensivo danno non
patrimoniale. 
    Ne' a tale  limite  strutturale  della  norma  potrebbe  ovviarsi
ricorrendo alla limitata personalizzazione prevista dal  terzo  comma
dell'art. 139 del Codice delle Assicurazioni. L'aumento (massimo) del
quinto,  infatti,   sarebbe   inidoneo   a   consentire   un'adeguata
monetizzazione non solo delle componenti specifiche  (relazionali  ed
estetiche) del danno biologico, in relazione  al  caso  concreto,  ma
anche di eventuali pregiudizi apatrimoniali diversi e ulteriori dalla
voce, pur latamente, intesa del danno biologico. 
    Poiche',  pero',  il  danno  non  patrimoniale  di  tipo   morale
identifica una componente indefettibile del procedimento risarcitorio
indicato dalle Sezioni Unite, il Giudice cui compete di  interpretare
la norma di legge in conformita' ai principi espressi  dalle  Sezioni
Unite, dovrebbe procedere ad una  un'adeguata  personalizzazione  del
danno  non  patrimoniale;  personalizzazione  diversa   e   ulteriore
rispetto a quella prevista dalla disciplina  speciale  e  consistente
nel riconoscimento di una misura risarcitoria, idonea ad incrementare
l'importo  complessivamente  liquidato,  a  titolo   di   danno   non
patrimoniale. 
    Anche a propendere per tal ultima tesi, sottraendo il pregiudizio
morale alla "mannaia"  dell'art.  139  permane  l'incostituzionalita'
della norma - sotto i plurimi profili evidenziati - perche'  inidonea
ad assicurare un adeguato ristoro del danno non patrimoniale di  tipo
biologico. 
    Infatti, se e' vero che, in virtu' della  ricostruzione  unitaria
del danno non patrimoniale, operata dalle Sezioni Unite del 2008,  la
voce del danno biologico  deve  considerarsi  comprensiva  anche  del
pregiudizio estetico, cosi' come dei profili relazionali,  integranti
il c.d. danno alla vita di relazione, ne discende che  -  proprio  in
virtu' dell'interpretazione  costituzionalmente  orientata  dell'art.
2058 c.c., nonche' del quadro interpretativo delineato dalle  Sezioni
Unite del 2008 -  lo  strumento  del  contenuto  aumento  percentuale
dovrebbe ovviare alla risarcibilita' di tali e molteplici profili  di
danno biologico cosi' da risultare ex se insufficiente  a  consentire
la liquidazione di un'effettiva ed equa misura risarcitoria. 
    Non  solo,  ma  i  valori  tabellati,  per  il  danno   biologico
permanente, cosi' come per l'inabilita' temporanea  totale,  appaiono
inidonei ad assicurare, anche con riguardo, al  caso  di  specie,  la
garanzia  del  suddetto  principio  di   effettivita'   inteso   come
liquidazione sufficientemente congrua e, quindi, equa  quale  sarebbe
quella assicurata dall'applicazione delle Tabelle di Milano. 
    A tale ordine di considerazioni si potrebbe obiettare che rientra
nella  discrezionalita'   legislativa   la   fissazione   di   limiti
risarcitori,  anche  mediante  la  predeterminazione  dell'incremento
percentuale massimo accordabile. 
    Orbene, la Corte costituzionale  ha  gia'  avuto  l'occasione  di
precisare  che  l'individuazione  legislativa  di  un   limite   alla
responsabilita',   non   basta    ad    integrare    l'illegittimita'
costituzionale della norma, sebbene importi una deroga  al  principio
del  risarcimento  integrale  del   danno   (cfr.   sentenza,   Corte
costituzionale  n.  132,  1985,  in  materia  di  responsabilita'  da
trasporto aereo). 
    Si  renderebbe,  per  contro,   necessario   verificare   se   la
limitazione de qua sia controbilanciata nel sistema di  tutela  dalla
previsione  di  meccanismi  idonei  a  compensare,  nella  logica  di
un'astratta comparazione  dei  valori  in  gioco,  la  riduzione  del
quantum risarcibile. 
    Nel caso di specie, deve ritenersi che non ricorrano  i  suddetti
«meccanismi di compensazione», quale, ad esempio, l'opzione  per  una
configurazione in termini oggettivi dell'obbligo  indennitario  delle
compagnie assicurative, con conseguente esonero del danneggiato dalla
prova della violazione di una  regola  di  condotta  specifica  (cfr.
ordinanza di rimessione a codesta Corte del giudice di Pace di Torino
dell'ottobre 2011) . 
    Cio' premesso, e'  fuor  di  dubbio  che  tale  limitazione  deve
essere,  comunque,  vagliata  alla  stregua,  non  solo  delle  norme
costituzionali, ma  anche  dei  parametri  comunitari  che  impongono
l'effettivita'  della  tutela  come  diritto  ad   una   tutela   sia
sostanziale che processuale che porti ad un  risultato  equo  per  il
soggetto danneggiato. 
    Per quanto la disapplicazione della norma  de  qua,  per  la  sua
anticomunitarieta', sia  sempre  possibile,  si  ritiene  che  questo
Giudice non possa esimersi, comunque, dal sollevare la  questione  di
costituzionalita' nei termini su espressi. 
    Infatti, se la disapplicazione  consente  un  controllo  diffuso,
idoneo a soddisfare l'aspettativa di tutela del singolo  danneggiato,
e' pur vero che solo un'eventuale pronuncia d'incostituzionalita'  di
codesta Corte sarebbe idonea ad  espungere,  in  via  definitiva,  la
norma  de  qua  dall'ordinamento  con  conseguente  ripristino  della
legalita' costituzionale e comunitaria. 
    Tanto precisato la questione di legittimita' costituzionale  come
sopra enunciata appare a questo Giudice seria  e  non  manifestamente
infondata e rilevante nel processo de quo; 
 
                               P.Q.M. 
 
    Il Tribunale  di  Brindisi,  sezione  distaccata  di  Ostuni,  in
persona del giudice Antonio Ivan Natali, 
    Visti gli artt. 134 Cost. e 23 l. 11.3.53, n. 87; 
    Ritenuta  non  manifestamente  infondata  e  rilevante,  per   la
decisione  del  presente  giudizio,  la  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 139, comma 1,  3,  6  per  violazione  degli
artt. 2, 3, 24, 32, 76, 117 della Costituzione nei termini e  per  le
ragioni di cui in motivazione; 
    Dispone la sospensione del procedimento in corso; 
    Ordina la notificazione della presente ordinanza  ai  procuratori
delle  parti  e  al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e  la
comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati  e
del Senato; 
    Ordina la trasmissione dell'ordinanza alla  Corte  costituzionale
insieme con gli atti del giudizio e con la prova delle  notificazioni
e delle comunicazioni prescritte. 
 
                     Il giudice unico: Natali»; 
 
    In considerazione di quanto precede, condiviso e ritenuto, 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli artt. 134 Cost. e 23 L. 11.3.1953, n. 87; 
    Ritenuta  non  manifestamente  infondata  e  rilevante,  per   la
decisione  del  presente  giudizio,  la  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 139, comma 1,  3,  6  per  violazione  degli
artt. 2, 3, 24, 32, 76, 117 della Costituzione nei termini e  per  le
ragioni di cui in motivazione; 
    Rimette in istruttoria; 
    Dispone la sospensione del procedimento in corso; 
    Ordina la notificazione della presente ordinanza  ai  procuratori
delle  parti  e  al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e  la
comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati  e
del Senato; 
    Ordina la trasmissione dell'ordinanza alla  Corte  costituzionale
insieme con gli atti del giudizio e con la prova delle  notificazioni
e delle comunicazioni prescritte. 
      Recanati, 3 maggio 2013 
 
                Il giudice di pace: di Renzo Mannino