N. 45 SENTENZA 10 - 13 marzo 2014

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale - Misure cautelari  -  Soggetto  tossicodipendente  o
  alcooldipendente  sottoposto  a  procedimento  per  il  delitto  di
  associazione  finalizzata  al   traffico   illecito   di   sostanze
  stupefacenti o psicotrope. 
- Decreto del Presidente della Repubblica  9  ottobre  1990,  n.  309
  (Testo  unico  delle  leggi  in   materia   di   disciplina   degli
  stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,   cura   e
  riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),  art.  89,
  comma 4. 
-   
(GU n.13 del 19-3-2014 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Gaetano SILVESTRI; 
Giudici :Luigi MAZZELLA,  Sabino  CASSESE,  Giuseppe  TESAURO,  Paolo
  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe  FRIGO,  Alessandro  CRISCUOLO,  Paolo
  GROSSI, Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Sergio
  MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  89,  comma
4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi stati  di  tossicodipendenza),  promosso  dal  Tribunale  di
Catanzaro, sezione del riesame, nel procedimento penale a  carico  di
D.L.A. con ordinanza del 6 novembre  2012,  iscritta  al  n.  40  del
registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2013. 
    Udito nella camera di consiglio del 15 gennaio  2014  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con ordinanza depositata il 6  novembre  2012,  il  Tribunale  di
Catanzaro ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma,
27, secondo comma, e 32 della Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 89, comma  4,  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle  leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza), nella parte in cui prevede che le disposizioni di
cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo non si applicano  quando  si
procede per il delitto  di  cui  all'art.  74  del  medesimo  decreto
(associazione  finalizzata   al   traffico   illecito   di   sostanze
stupefacenti o psicotrope). 
    Il giudice a quo riferisce, in punto di fatto, che con  ordinanza
del 14 dicembre 2009 il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del
Tribunale di Catanzaro  aveva  sottoposto  a  custodia  cautelare  in
carcere una persona gravemente indiziata, tra  l'altro,  del  delitto
previsto dal citato art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990. 
    Dichiarato colpevole  di  tale  reato  dal  Giudice  dell'udienza
preliminare  del  medesimo  Tribunale,  l'imputato  aveva  chiesto  a
quest'ultimo che la misura cautelare in corso  fosse  sostituita,  ai
sensi dell'art. 89, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990,  con  quella
degli  arresti  domiciliari  presso  una  comunita'  terapeutica  per
tossicodipendenti. 
    Pronunciando sull'appello  proposto  dall'interessato  contro  il
provvedimento di rigetto dell'istanza,  il  Tribunale  di  Catanzaro,
sezione  per  il  riesame,  l'aveva  dichiarato   inammissibile   con
ordinanza del 1° settembre 2011, rilevando che, in forza del comma  4
dell'art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990, le disposizioni  di  cui  ai
commi 1 e 2 del medesimo articolo non si applicano quando si  procede
per uno dei delitti previsti dall'art. 4-bis della  legge  26  luglio
1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sull'esecuzione
delle misure privative e limitative della liberta'), tra i  quali  e'
compreso  quello  di  associazione   finalizzata   al   traffico   di
stupefacenti:  con  la  conseguenza  che,   nel   caso   di   specie,
l'operativita' della  disciplina  invocata  dall'appellante  rimaneva
«preclusa a priori». 
    A seguito di ricorso dell'interessato,  la  Corte  di  cassazione
aveva annullato con rinvio la decisione, disponendo  la  trasmissione
degli atti al Tribunale di Catanzaro per un nuovo esame  dell'appello
alla luce dell'intervenuta sentenza della Corte costituzionale n. 231
del 2011. 
    Tutto cio' premesso, il Tribunale rimettente  -  reinvestito  del
procedimento quale giudice del rinvio - ritiene  di  dover  sollevare
d'ufficio questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  89,
comma 4, del d.P.R. n.  309  del  1990,  nella  parte  in  cui  rende
inapplicabile la speciale disciplina dettata dai commi 1  e  2  dello
stesso articolo, in tema di «provvedimenti restrittivi nei  confronti
delle persone tossicodipendenti o  alcooldipendenti  che  abbiano  in
corso programmi terapeutici», allorche' si  proceda  per  il  delitto
dianzi indicato. 
    Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a  quo  osserva
che il ricorrente  ha  documentato  la  sussistenza  dei  presupposti
richiesti dal comma 2 del citato art. 89  per  la  concessione  degli
arresti   domiciliari   presso   una   comunita'   terapeutica    per
tossicodipendenti. Non ricorrendo esigenze cautelari  di  eccezionale
rilevanza, la relativa istanza andrebbe dunque accolta, se a cio' non
ostasse la preclusione censurata. 
    La decisione che il Tribunale rimettente e' chiamato ad adottare,
concernendo un  appello  de  libertate,  rimarrebbe,  d'altro  canto,
soggetta al principio «tantum  devolutum  quantum  appellatum».  Tale
circostanza impedirebbe al giudice a  quo  di  sostituire  la  misura
carceraria con gli arresti domiciliari ai sensi dell'art. 299,  comma
2, cod. proc. pen., sulla base della  valutazione  di  una  eventuale
attenuazione delle esigenze cautelari,  trattandosi  di  profilo  non
investito dai motivi di impugnazione. 
    Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione,  il
giudice  a  quo  rileva  come  nel  sistema  delle  misure  cautelari
personali siano  rinvenibili  plurimi  «correttivi»  alla  disciplina
generale circa la scelta della  misura  da  applicare,  allorche'  la
persona interessata versi in  particolari  condizioni.  A  norma  dei
commi 4 e seguenti dell'art. 275 cod. proc. pen.,  sarebbero  infatti
richieste esigenze cautelari di «eccezionale rilevanza» per  disporre
la custodia in carcere nei confronti  di  una  donna  incinta  o  che
allatta la propria prole, di un soggetto ultrasettantenne  o  di  una
persona che versa in condizioni di salute particolarmente  gravi,  le
quali non consentano le cure necessarie in stato  di  detenzione  (il
rimettente evoca, peraltro, con cio', una versione non  piu'  vigente
dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen.  e,  in  particolare,  quella
anteriore alla sostituzione disposta dalla legge 8  agosto  1995,  n.
332, recante «Modifiche al codice di  procedura  penale  in  tema  di
semplificazione di procedimenti, di misure cautelari e di diritto  di
difesa»).  L'art.  286  del  medesimo  codice  prevede,  inoltre,  la
custodia in un luogo di cura, anziche' in  carcere,  nell'ipotesi  di
infermita' totale o parziale di mente; mentre il successivo art. 299,
comma 4-ter,  «"chiude"  questo  assetto  sul  piano  delle  indagini
medico-legali finalizzate alla verifica della compatibilita'  tra  le
condizioni della persona e la detenzione carceraria». 
    La comune ragion d'essere  di  siffatte  previsioni  risiederebbe
nella  tutela  del  diritto  alla  salute  dell'imputato  rispetto  a
pregiudizi  -  potenziali  o  in  atto  -  derivanti  dalla  custodia
carceraria, la cui finalita' cautelare risulta pertanto  cedevole  di
fronte a situazioni soggettive peculiari,  reputate  dal  legislatore
prevalenti, a prescindere dal titolo del reato per cui si procede. 
    Raffrontata  con  tale  disciplina,   la   norma   censurata   si
rivelerebbe lesiva dell'art. 32  Cost.,  in  quanto  accorderebbe  al
diritto alla salute dei tossicodipendenti (e degli  alcooldipendenti)
una protezione  irragionevolmente  piu'  ridotta  rispetto  a  quella
prefigurata per i casi dianzi ricordati. 
    Essa violerebbe, altresi', l'art. 3 Cost., sotto il profilo della
ingiustificata discriminazione tra i tossicodipendenti  imputati  del
delitto  di  cui  all'art.  74  del  d.P.R.  n.  309  del  1990  e  i
tossicodipendenti imputati di reati diversi, per i quali trova  piena
applicazione il regime delineato dai commi 1 e 2 del citato  art.  89
ed e', dunque, privilegiata la misura cautelare non carceraria, salvo
che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. 
    Un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale della norma
denunciata, in riferimento agli artt. 3 e 27, secondo  comma,  Cost.,
emergerebbe dal raffronto con  le  disposizioni  che,  regolando  gli
aspetti esecutivi della pena inflitta al tossicodipendente, accordano
al medesimo  piu'  ampie  possibilita'  di  accesso  a  programmi  di
recupero, prevedendo in  particolare,  a  tal  fine,  la  sospensione
dell'esecuzione e l'affidamento in prova al servizio  sociale  (artt.
90 e 94 del d.P.R. n. 309 del 1990):  possibilita'  delle  quali  non
fruisce, per  converso,  il  tossicodipendente  sottoposto  a  misura
cautelare per il delitto di associazione finalizzata al  traffico  di
stupefacenti. 
    Il rimettente rileva, per altro verso, come il delitto in  parola
rappresenti  una  figura  speciale  del  reato  di  associazione  per
delinquere, dal quale si differenzia solo  per  la  specificita'  del
programma criminoso, costituito dalla commissione di piu' delitti tra
quelli previsti dall'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.  Si  tratta,
percio', di una «fattispecie aperta», idonea ad abbracciare  fenomeni
criminali fortemente eterogenei tra loro,  che  spaziano  dal  grande
sodalizio  internazionale  con  struttura  imprenditoriale  fino   al
piccolo gruppo attivo in ambito puramente locale e con organizzazione
del tutto rudimentale. 
    Risulterebbero,   di   conseguenza,   evidenti   le    differenze
strutturali tra il delitto in esame e i «reati di mafia», in rapporto
ai quali - secondo il giudice a quo - la Corte costituzionale avrebbe
dichiarato manifestamente infondata, con ordinanza n. 339  del  1995,
una precedente questione di legittimita' costituzionale dello  stesso
art. 89, comma 4, del d.P.R. n. 309 del 1990. 
    Il delitto di associazione finalizzata al  traffico  illecito  di
stupefacenti, infatti, non e' necessariamente connotato da  un  forte
radicamento nel territorio dell'associazione, da  fitti  collegamenti
personali e da una particolare forza intimidatrice:  caratteristiche,
queste, che rendono possibile enucleare,  in  rapporto  ai  reati  di
mafia, una regola di  esperienza  in  base  alla  quale  soltanto  la
custodia carceraria e' idonea a  preservare  le  condizioni  di  base
della convivenza e della sicurezza collettiva,  messe  a  rischio  da
simili reati. 
    La norma censurata  non  potrebbe  trovare  giustificazione,  con
riferimento al  delitto  che  interessa,  neanche  nella  natura  dei
reati-scopo dell'associazione e nella tutela particolarmente rigorosa
accordata dal legislatore al bene della salute pubblica nei confronti
del  fenomeno  del  traffico  illecito  di  stupefacenti.  Come  gia'
rimarcato, infatti, da plurime pronunce della Corte costituzionale  -
tra cui le sentenze n. 231 del 2011 e n. 265 del 2010 -  la  gravita'
astratta del reato, desunta dalla misura della pena  o  dalla  natura
dell'interesse tutelato, non puo' legittimare  una  preclusione  alla
verifica  giudiziale   del   grado   delle   esigenze   cautelari   e
all'individuazione  della  misura  piu'   idonea   a   fronteggiarle,
rilevando solo ai fini della commisurazione della pena. 
    Alla luce di tali rilievi, la norma denunciata violerebbe  quindi
l'art. 3 Cost., oltre che per  le  ragioni  in  precedenza  indicate,
anche perche' sottoporrebbe ad un eguale  trattamento  le  differenti
ipotesi riconducibili al paradigma criminoso considerato,  senza  che
sussistano   ragionevoli    motivi    «per    impedire    la    piena
individualizzazione  della  coercizione  cautelare».  In  un   numero
tutt'altro che marginale di  casi,  infatti,  le  esigenze  cautelari
prospettabili in rapporto ai soggetti indiziati del  delitto  di  cui
all'art. 74 del d.P.R. n. 309  del  1990  potrebbero  trovare  idonea
risposta anche in misure diverse da quella carceraria, e segnatamente
nel collocamento  presso  una  comunita'  terapeutica,  che  valga  a
neutralizzare il «fattore  scatenante»  l'attivita'  criminosa  o  ad
impedirne la riproposizione. 
    La disposizione sottoposta a scrutinio si porrebbe, altresi',  in
contrasto  con  il  principio  di   inviolabilita'   della   liberta'
personale, sancito dall'art. 13, primo comma,  Cost.,  imponendo  «il
massimo sacrificio di tale bene primario all'esito di un giudizio  di
bilanciamento non corretto, in quanto non rispettoso del principio di
ragionevolezza». 
    Essa violerebbe, infine,  la  presunzione  di  non  colpevolezza,
prevista dall'art. 27,  secondo  comma,  Cost.  affidando  al  regime
cautelare funzioni proprie della pena, la cui applicazione presuppone
un giudizio definitivo di responsabilita'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale  di  Catanzaro   dubita   della   legittimita'
costituzionale dell'art. 89, comma  4,  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle  leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza), nella parte in cui prevede che le disposizioni di
cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo non si applicano  quando  si
procede per  il  delitto  di  associazione  finalizzata  al  traffico
illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di  cui  all'art.  74
del medesimo decreto. 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata  si  porrebbe  in
contrasto con l'art. 32 della  Costituzione,  accordando  al  diritto
alla salute del tossicodipendente una tutela ingiustificatamente piu'
ridotta di quella prefigurata dagli artt. 275, commi 4 e seguenti,  e
286 del codice di procedura penale in rapporto ad  altre  situazioni,
nelle quali verrebbe parimenti in rilievo l'esigenza di proteggere il
diritto alla salute dell'imputato  da  pregiudizi,  potenziali  o  in
atto, derivanti dalla custodia cautelare in carcere. 
    Sarebbe violato, inoltre, l'art. 3 Cost., sotto il profilo  della
ingiustificata discriminazione tra i tossicodipendenti  imputati  del
delitto  di  cui  all'art.  74  del  d.P.R.  n.  309  del  1990  e  i
tossicodipendenti imputati di altri reati, rispetto  ai  quali  trova
piena applicazione il sistema delineato dai commi 1 e  2  del  citato
art. 89 ed e', dunque, privilegiata l'applicazione della misura degli
arresti domiciliari finalizzata alla sottoposizione  a  un  programma
terapeutico di recupero, salvo che ricorrano  esigenze  cautelari  di
eccezionale rilevanza. 
    La disposizione denunciata violerebbe, ancora, gli artt. 3 e  27,
secondo comma, Cost., tenuto conto delle piu' ampie  possibilita'  di
accesso a programmi di recupero accordate ai tossicodipendenti  dagli
artt. 90 e 94 del d.P.R. n. 309 del 1990 in sede di esecuzione  della
pena:  possibilita'  delle  quali  non  fruisce,  per  converso,   il
tossicodipendente sottoposto a  misura  cautelare  per  il  reato  in
questione. 
    L'art. 3 Cost. risulterebbe violato anche sotto il profilo  della
irragionevole  equiparazione  delle  diverse   fattispecie   concrete
integrative del delitto di associazione finalizzata  al  traffico  di
stupefacenti, le quali,  in  un  numero  non  trascurabile  di  casi,
proporrebbero esigenze  cautelari  fronteggiabili  anche  con  misure
diverse da quella carceraria, e segnatamente con quella degli arresti
domiciliari presso una struttura di recupero per i tossicodipendenti. 
    La norma sottoposta a  scrutinio  contrasterebbe,  altresi',  con
l'art.  13,  primo  comma,   Cost.,   imponendo   senza   sufficiente
giustificazione il  «massimo  sacrificio»  del  bene  primario  della
liberta' personale, e, da  ultimo,  con  l'art.  27,  secondo  comma,
Cost., attribuendo al regime cautelare funzioni proprie  della  pena,
la  cui   applicazione   presuppone   un   giudizio   definitivo   di
responsabilita'. 
    2.- La questione non e' fondata. 
    L'art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990 reca una speciale disciplina
di  favore  per  le  persone  tossicodipendenti  e   alcooldipendenti
gravemente  indiziate  di  reato,  derogatoria  rispetto  ai  criteri
generali di scelta delle misure  cautelari  personali  delineati  dal
codice di procedura penale. Si tratta di una  disciplina  piu'  volte
modificata dal legislatore, nel corso degli anni, in una  prospettiva
di  ricerca  del  miglior  contemperamento  tra  le   due   esigenze,
potenzialmente in conflitto, che nel frangente vengono in rilievo: da
un lato, quella di difesa  sociale,  sottesa  in  via  generale  alle
misure  cautelari  e  acuita  dagli  elevati  rischi   di   recidiva;
dall'altro, quella di disintossicazione e riabilitazione dei soggetti
in  questione  attraverso  opportuni   programmi   terapeutici,   che
richiedono, di regola, un trattamento "extramurario". 
    Il dato costante alle varie versioni della norma,  sul  quale  fa
perno la protezione "privilegiata" del secondo polo, e' rappresentato
dall'innalzamento ai livelli piu'  elevati  («esigenze  cautelari  di
eccezionale rilevanza») del grado di periculum libertatis  necessario
affinche' possa essere disposta o mantenuta la  custodia  in  carcere
nei confronti del tossicodipendente o dell'alcooldipendente che abbia
in corso,  o  intenda  intraprendere,  un  programma  terapeutico  di
recupero presso idonee strutture. 
    La  disposizione  vigente  prevede,  in  particolare,   che   ove
ricorrano tutti i presupposti "ordinari" della custodia cautelare  in
carcere, il giudice debba disporre, in sua vece - salvo l'evidenziato
limite delle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - la  misura
extracarceraria  immediatamente  meno  gravosa  (ossia  gli   arresti
domiciliari),  quando  l'indiziato  si  identifichi  in  una  persona
tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un  programma
terapeutico di recupero presso i servizi  pubblici  o  una  struttura
privata autorizzata e l'interruzione del programma possa pregiudicare
il recupero dell'interessato (comma 1 dell'art. 89).  Parallelamente,
e' stabilito che, ove il tossicodipendente  o  l'alcooldipendente  si
trovi sottoposto a custodia in carcere e intenda avviare un programma
di recupero, la  misura  in  atto  deve  essere  sostituita,  su  sua
istanza, con gli arresti  domiciliari,  salvo  sempre  che  ricorrano
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza (comma 2). 
    Altra costante della disciplina in questione - almeno  a  partire
dalla versione introdotta dall'art. 5  del  decreto-legge  14  maggio
1993, n. 139 (Disposizioni urgenti relative al trattamento di persone
detenute affette da HIV  e  di  tossicodipendenti),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222 - e' quella che da'
adito all'odierno incidente di legittimita'  costituzionale:  vale  a
dire, la previsione di una condizione negativa di operativita' legata
al titolo di reato per cui si procede. Nella evidenziata  prospettiva
del  contemperamento  tra  i  valori  in  potenziale  conflitto,   il
legislatore ha ritenuto, infatti, di dover escludere l'applicabilita'
del regime cautelare di favore allorche' si proceda  per  determinati
delitti, di particolare gravita' e allarme sociale:  delitti  che  il
censurato comma 4 dell'art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990  identifica
attualmente  (salva  una  limitata  eccezione)  in  quelli   elencati
dall'art.  4-bis  della  legge  26  luglio  1975,   n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e   sull'esecuzione   delle   misure
privative e limitative della liberta'). 
    Rientra, in tal modo, tra le figure criminose  ostative  -  cosi'
come vi rientrava in base alle precedenti versioni della norma  -  il
delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di  sostanze
stupefacenti o psicotrope, di cui all'art. 74 del d.P.R. n.  309  del
1990, contestato nel giudizio a quo  e  al  quale  e'  specificamente
riferita l'odierna questione. 
    3.- Nell'assetto anteriore alla novella legislativa del  2009  di
cui poco oltre si dira', la soluzione  normativa  ora  ricordata  non
implicava,   peraltro,   alcun   tipo   di   "automatismo   cautelare
carcerario".   Il   tossicodipendente   gravemente    indiziato    di
associazione  finalizzata  al  narcotraffico  non   si   vedeva,   in
particolare, affatto preclusa in assoluto la possibilita'  di  fruire
degli arresti domiciliari o di altra misura ancora meno gravosa,  che
gli consentisse di  sottoporsi  a  un  programma  di  recupero  o  di
proseguirlo, se gia' in corso. Come  reiteratamente  affermato  dalla
Corte di  cassazione,  infatti,  l'inapplicabilita'  del  regime  "di
favore" comportava semplicemente che il giudice  dovesse  individuare
la misura cautelare  adeguata  al  caso  concreto  sulla  base  degli
ordinari criteri stabiliti dal codice di rito (criteri  ispirati  pur
sempre al principio del "minor sacrificio  necessario"  e  nella  cui
applicazione  il  giudice  non  puo'  evidentemente   trascurare   le
condizioni di salute dell'interessato), senza  incorrere  nel  limite
preclusivo della custodia carceraria legato all'assenza  di  esigenze
cautelari di eccezionale rilevanza. 
    La situazione e' mutata a  seguito  dell'entrata  in  vigore  del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, il cui art. 2 - modificando l'art. 275,  comma
3, cod. proc. pen. - ha notevolmente ampliato il catalogo dei delitti
ai quali e' collegata, in via generale, una presunzione  assoluta  di
adeguatezza della sola custodia cautelare  in  carcere  (catalogo  in
precedenza circoscritto ai delitti  di  tipo  mafioso),  includendovi
anche il reato associativo che qui interessa. 
    Per effetto di tale intervento  normativo,  il  tossicodipendente
gravemente indiziato  del  delitto  di  associazione  finalizzata  al
traffico di stupefacenti,  escluso  dal  regime  di  favore  previsto
dall'art. 89, commi 1 e  2,  del  d.P.R.  n.  309  del  1990,  veniva
automaticamente  a   ricadere   nell'opposto   regime   "di   rigore"
prefigurato dal novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen.:  regime
che, in presenza delle ordinarie esigenze cautelari (oggetto peraltro
di presunzione relativa, in base alla disposizione da ultimo citata),
lo  rendeva  assoggettabile  a  custodia  in  carcere  senza   alcuna
possibile alternativa. 
    4.- Il vulnus ai principi costituzionali insito in  tale  assetto
normativo e' stato, tuttavia, rimosso dalla sentenza n. 231 del  2011
di questa Corte. 
    Con detta sentenza, infatti, si e' dichiarato  costituzionalmente
illegittimo, per contrasto con gli artt. 3, 13, primo  comma,  e  27,
secondo comma, Cost., il novellato art.  275,  comma  3,  cod.  proc.
pen., nella parte in cui non consentiva di applicare misure cautelari
diverse da quella carceraria alla persona  gravemente  indiziata  del
delitto di associazione finalizzata al traffico di  stupefacenti,  in
presenza di elementi concreti per ritenere che le esigenze  cautelari
possano essere soddisfatte con misure meno afflittive. 
    In  conseguenza  di  cio'  -  come   riconosciuto   anche   dalla
giurisprudenza di legittimita' - il  tossicodipendente  imputato  del
delitto in questione e'  tornato  a  poter  fruire,  alla  condizione
dianzi  indicata  e,  dunque,   sulla   base   di   una   valutazione
"individualizzata"  della  singola  vicenda,  (anche)  degli  arresti
domiciliari finalizzati allo svolgimento di un programma di recupero. 
    5.- Nel formulare buona parte delle sue  censure,  il  rimettente
trascura, peraltro, il particolare ora evidenziato:  circostanza  che
rende le censure  stesse  infondate  per  erronea  ricostruzione  del
quadro normativo. 
    La notazione vale,  anzitutto,  per  la  denuncia  di  violazione
dell'art. 3  Cost.,  sotto  il  profilo  dell'asserita  irragionevole
equiparazione delle  diverse  fattispecie  concrete  integrative  del
delitto di associazione  finalizzata  al  traffico  di  stupefacenti:
fattispecie che - osserva il rimettente, sulla  scorta  della  stessa
sentenza n. 231  del  2011  -  stante  il  carattere  "aperto"  della
predetta figura  delittuosa,  suscettibile  di  abbracciare  fenomeni
criminosi notevolmente eterogenei fra loro, potrebbero  proporre,  in
una   significativa   percentuale   di   casi,   esigenze   cautelari
adeguatamente fronteggiabili con misure diverse da quella carceraria,
e particolarmente con quella degli  arresti  domiciliari  presso  una
comunita' per il recupero dei tossicodipendenti. 
    La supposta omologazione, sul  livello  di  maggior  rigore,  del
trattamento  cautelare  delle  fattispecie  considerate  non  e',  in
realta',   affatto   riscontrabile.   A   seguito   della   ricordata
declaratoria di illegittimita' costituzionale,  infatti,  il  giudice
puo' di nuovo valorizzare le  caratteristiche  del  singolo  episodio
criminoso al fine di diversificare  la  risposta  cautelare.  Non  vi
sara' una sorta di  "semi-automatismo  in  favor"  nella  concessione
degli arresti domiciliari, quale quello delineato dai primi due commi
dell'art. 89 del d.P.R.  n.  309  del  1990,  ma  il  giudice  potra'
comunque disporre, sulla base degli ordinari  criteri  di  selezione,
misure meno gravose della custodia in  carcere  e  che  agevolino  la
riabilitazione dell'interessato, compresa anche, e  prima  di  tutto,
quella avuta di mira dal giudice a quo. 
    6.- Nel medesimo  vizio  di  prospettiva  il  rimettente  incorre
allorche' denuncia la  violazione  del  principio  di  inviolabilita'
della liberta' personale  (art.  13,  primo  comma,  Cost.)  e  della
presunzione di non colpevolezza  (art.  27,  secondo  comma,  Cost.),
sempre sulla base  del  presupposto  che,  per  effetto  della  norma
censurata, il tossicodipendente gravemente indiziato del  delitto  in
questione si trovi indefettibilmente esposto al «massimo  sacrificio»
del bene primario  della  liberta'  personale  (ossia  alla  custodia
carceraria): presupposto, per quanto detto, erroneo. 
    7.- Per il  resto,  il  giudice  a  quo  ripropone  censure  gia'
disattese da questa Corte con l'ordinanza n. 339 del 1995:  pronuncia
che - contrariamente a  quanto  asserito  dal  rimettente  -  non  si
riferisce ai  soli  «reati  di  mafia»,  ma  alla  generalita'  delle
esclusioni oggettive dal regime di favore di cui  si  discute,  anche
all'epoca comprensive del  delitto  di  associazione  finalizzata  al
traffico di stupefacenti. 
    Le considerazioni svolte nella citata ordinanza n. 339 del 1995 -
alle quali il giudice a quo non offre,  peraltro,  alcuna  replica  -
restano,  nella  sostanza,   valide   anche   nell'attuale   panorama
normativo, con le precisazioni che seguono. 
    Insussistente  si  palesa,  cosi',   la   denunciata   violazione
dell'art. 32 Cost., conseguente, in assunto, al fatto  che  la  norma
censurata accorderebbe al diritto alla salute  del  tossicodipendente
(e  dell'alcooldipendente)  una   tutela   ingiustificatamente   meno
energica di quella apprestata dal codice di rito - sempre  in  deroga
all'ordinario regime delle misure  cautelari  -  a  favore  di  altre
categorie di soggetti, quali la donna incinta o  madre  di  prole  in
tenera eta',  l'ultrasettantenne,  la  persona  affetta  da  malattia
particolarmente grave, l'infermo e il seminfermo di mente (artt. 275,
commi 4 e seguenti, e 286 cod. proc. pen.): ipotesi,  queste  ultime,
nelle quali la disciplina  derogatoria  opera  indipendentemente  dal
titolo del reato per cui si procede. 
    Tralasciando la circostanza che, nel formulare la  doglianza,  il
rimettente fa riferimento ad un testo dell'art. 275,  comma  4,  cod.
proc.  pen.  non  piu'   in   vigore,   e   prescindendo,   altresi',
dall'opinabilita'  dell'assunto  per  cui  alla  base  delle  evocate
discipline speciali vi sarebbero sempre e soltanto esigenze di tutela
della salute, e' dirimente la considerazione che  il  giudice  a  quo
pone a raffronto situazioni palesemente eterogenee e tali, quindi, da
rendere del tutto legittimo un trattamento differenziato  (i  singoli
regimi    derogatori    richiamati    sono,    del    resto,    anche
significativamente diversi tra loro). 
    Il  nucleo   incomprimibile   del   diritto   alla   salute   del
tossicodipendente resta  in  ogni  caso  salvaguardato  dalla  stessa
regola di cui all'art. 275, comma 4-bis, cod. proc.  pen.  -  inclusa
dal rimettente fra i tertia comparationis, ma certamente  applicabile
anche al soggetto in questione - in forza della quale la custodia  in
carcere non puo' essere disposta o mantenuta quando le condizioni  di
salute   dell'interessato,   per   la   loro   gravita',    risultino
incompatibili con lo stato di  detenzione  e  comunque  tali  da  non
consentire adeguate cure in ambito carcerario. 
    8.-  Parimenti  non  ravvisabile   e'   l'ipotizzata   violazione
dell'art.  3   Cost.,   sotto   il   profilo   della   ingiustificata
discriminazione tra  i  tossicodipendenti  gravemente  indiziati  del
delitto di cui all'art. 74 del  d.P.R.  n.  309  del  1990  e  quelli
indiziati di altro delitto, che possono invece fruire della  speciale
disciplina di cui discute. 
    Anche in questo caso, infatti, il  rimettente  pone  a  confronto
fattispecie disomogenee. 
    Come affermato da questa Corte nelle  molteplici  decisioni  rese
sul nuovo  testo  dell'art.  275,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  -  a
cominciare dalla sentenza n. 265 del 2010 e per comprendere anche  la
sentenza n. 231 del  2011,  con  specifico  riferimento  alla  figura
criminosa che qui interessa - il legislatore non puo', senza  violare
gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma,  Cost.,  collegare
al titolo di reato per cui si  procede,  facendo  leva  semplicemente
sulla sua gravita' astratta e sull'allarme sociale da  esso  destato,
una presunzione assoluta  di  adeguatezza  esclusiva  della  custodia
cautelare in carcere. Puo'  legittimamente  collegarvi,  invece,  una
presunzione  relativa  -  basata  sull'apprezzamento   dell'ordinaria
configurabilita' di esigenze cautelari  particolarmente  intense,  ma
comunque superabile da elementi probatori di  segno  contrario  -  la
quale lascia sufficiente spazio  all'apprezzamento  giudiziale  delle
singole fattispecie  e  all'applicazione  del  principio  del  "minor
sacrificio necessario". 
    Allo stesso modo,  e  a  maggior  ragione,  il  legislatore  puo'
dunque,  nella  sua  discrezionalita'  e  salvo   il   limite   della
ragionevolezza, escludere da un regime  cautelare  di  favore,  quale
quello in esame, i  soggetti  indagati  o  imputati  per  determinati
reati,  avuto  riguardo  alla  loro  gravita'  e  alla  pericolosita'
soggettiva da essi solitamente desumibile, a condizione che cio'  non
comporti  l'assoggettamento  dell'interessato  ad  un  indiscriminato
"automatismo sfavorevole",  che  precluda  ogni  apprezzamento  delle
singole vicende concrete. Situazione, questa, non piu' riscontrabile,
per quanto detto, nell'ipotesi in esame, dopo la sentenza n. 231  del
2011 di questa Corte. 
    9.- Priva di fondamento si rivela, da ultimo, anche la censura di
violazione degli artt. 3  e  27  Cost.,  avuto  riguardo  alle  ampie
possibilita' di accesso accordate, in sede di esecuzione  della  pena
detentiva, ai tossicodipendenti condannati in via definitiva, tramite
gli istituti della sospensione dell'esecuzione e dell'affidamento  in
prova al servizio sociale (artt. 90 e 94 del d.P.R. n. 309 del 1990). 
    A  prescindere  da  ogni  altra  possibile  obiezione  -  e,   in
particolare, dal rilievo che i suddetti istituti sono, a loro  volta,
soggetti  ad  un  distinto  insieme  di  condizioni   e   limiti   di
operativita',  privo  di  corrispondenza  in  rapporto  alle   misure
cautelari  -  e'  assorbente  la  considerazione  che  il  rimettente
prospetta, di nuovo, un raffronto tra situazioni eterogenee  e,  come
tali, non utilmente comparabili, «essendo manifestamente  diversa  la
condizione personale implicata (di imputato in un caso, di condannato
nell'altro)  e  la   funzione   (cautelare,   ovvero   emendativa   e
retributiva, rispettivamente) dei  corrispondenti  istituti  evocati»
(ordinanza n. 339 del 1995). 
    Tutto  il  sistema  dei  benefici  penitenziari  e  delle  misure
alternative alla detenzione si applica, del resto, al solo condannato
in via definitiva, e non anche all'imputato. 
    10.- La questione deve essere dichiarata, pertanto,  non  fondata
in rapporto a tutti i parametri invocati. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 89, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica  9
ottobre  1990,  n.  309  (Testo  unico  delle  leggi  in  materia  di
disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,
cura e  riabilitazione  dei  relativi  stati  di  tossicodipendenza),
sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 27,  secondo
comma, e 32  della  Costituzione,  dal  Tribunale  di  Catanzaro  con
l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2014. 
 
                                F.to: 
                    Gaetano SILVESTRI, Presidente 
                      Giuseppe FRIGO, Redattore 
                   Massimiliano BONI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2014. 
 
                           Il Cancelliere 
                       F.to: Massimiliano BONI