N. 78 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 dicembre 2013
Ordinanza del 23 dicembre 2013 emessa dal G.I.P. del Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di M.F.. Processo penale - Misure cautelari - Criteri di scelta delle misure - Obbligatorieta' della custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in relazione al delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen. (nella specie: concorso esterno in associazione di tipo mafioso), salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - Mancata previsione della salvezza dell'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure - Ingiustificata parificazione della posizione del partecipe alla associazione mafiosa con quella del concorrente esterno - Irragionevole assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati - Contrasto con i principi di inviolabilita' della liberta' personale e di non colpevolezza sino alla sentenza di condanna definitiva. - Codice di procedura penale, art. 275, comma 3, come modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2009, n. 38. - Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, e 27, comma secondo.(GU n.22 del 21-5-2014 )
IL TRIBUNALE DI LECCE Il Giudice per le indagini preliminari, dott. Giovanni Gallo, letti gli atti del procedimento a carico di M.F., nato a Taranto il 24 aprile 1971; Indagato Capo A.c. del delitto di cui agli articoli 81 cpv e 416-bis c.p., perche', pur non essendo inserito organicamente nel sodalizio denominato «clan Taurino» e, tuttavia, agendo nella consapevolezza della rilevanza causale dell'apporto da egli reso e della finalizzazione della propria attivita', agli scopi dell'associazione medesima, in tempi diversi, metteva a disposizione del clan le proprie cognizioni tecniche ed i propri apparati, idonei all'individuazione, per la successiva rimozione, di eventuali microspie, apparati di localizzazione satellitare (GPS) e telecamere posizionate dalla P.G. nell'ambito del presente procedimento penale, allo scopo di captare le conversazioni tra presenti nei luoghi ove i sodali erano soliti incontrarsi e discutere delle strategie organizzative della consorteria mafiosa, con la consapevolezza di cosi' contribuire alla salvaguardia del sodalizio da azioni giudiziarie e, conseguentemente, cosi' consentendo alla predetta associazione di mantenersi in vita, onde poter conseguire i propri scopi. In Taranto nei mesi di settembre e ottobre 2011, decidendo sulla istanza con la quale il difensore di M.F. ha chiesto la sostituzione della misura in atto della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari; O s s e r v a Ritiene questo Giudice di sollevare, in riferimento agli articoli 3, 13 e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, del codice di procedura penale nella parte in cui prescrivendo che «quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis c.p. e' applicata la misura cautelare della custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, e cio' in particolar modo in relazione alla figura del concorso esterno in associazione di tipo mafioso. In primis va rilevato che la proposta questione di legittimita' costituzionale e' rilevante nel presente procedimento, tenuto conto che il M.F. e' sottoposto alla misura carceraria da circa sei mesi e, sebbene si debba ritenere che sussistono ancora le esigenze cautelari in considerazione della attuale operativita' dell'associazione di riferimento nel centro storico di Taranto e dei legami che l'indagato ha dimostrato avere con i membri del clan, la peculiarita' del ruolo di concorrente esterno nell'associazione mafiosa rivestita dallo stesso impone di ritenere attualmente adeguata a salvaguardare le esigenze cautelari da tutelare la misura gradata degli arresti domiciliari. Sul punto va sottolineato che il M.F., soggetto incensurato e non appartenente al gruppo malavitoso contestato al capo A.a della rubrica, risulta dagli atti aver messo a disposizione di tale gruppo le proprie cognizioni tecniche ed i propri apparati, idonei all'individuazione, per la successiva rimozione, di eventuali microspie, apparati di localizzazione satellitare e telecamere posizionate dalla P.G. nel centro storico di Taranto. Anche se soggetto esterno alla associazione, il M.F. ha, comunque, dimostrato di avere dei contatti con i vertici del clan, in favore dei quali ha posto in essere le condotte contestate, circostanza che impone di ritenere ancora attuali le esigenze cautelari che hanno giustificato l'applicazione della misura in atto; proprio il ruolo di soggetto «esterno» alla associazione criminale rivestita dal M.F. invero, deve far ritenere attualmente la misura cautelare degli arresti domiciliari adeguata a prevenire il pericolo di reiterazione di fatti di reato del tipo di quali si procede, dovendosi escludere che una volta ristretto nella propria abitazione il M.F. possa mettere nuovamente a disposizione le proprie capacita' tecniche in favore del gruppo criminale di riferimento. Tuttavia, partendo dalla sussistenza attuale delle esigenze cautelari, l'applicazione al caso concreto dell'art. 275, comma 3 del codice di procedura penale, che prescrive che «quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis c.p. e' applicata la misura cautelare della custodia in carcere», impone il mantenimento della misura cautelare in atto a carico di M.F. Va affermato, in secondo luogo, che il presente procedimento non puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione della prospettata questione di legittimita' costituzionale. Sul punto preliminarmente, va ribadito che, cosi' come affermato dalla Corte costituzionale, deve escludersi la praticabilita', nel caso in esame, di un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma sospettata di illegittimita' costituzionale. Infatti, la Corte ha piu' volte affermato che «l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale» (sentenza n. 78 del 2012) e, a proposito della presunzione assoluta dettata dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ha gia' ritenuto che «le parziali declaratorie di illegittimita' costituzionale della norma impugnata, relative esclusivamente ai reati oggetto delle varie pronunce, non si possono estendere alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate (sentenza n. 110 del 2012). Fatta questa premessa va detto che la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 450 del 1995 ha statuito la piena compatibilita' della richiamata presunzione con i principi costituzionali, rilevando che la scelta del tipo di misura non implica necessariamente l'attribuzione al giudice di un potere di apprezzamento in concreto, perche' ben puo' essere oggetto di una valutazione in termini generali del legislatore, «nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti»; il Giudice delle leggi ha sostenuto che ricade nell'ambito della discrezionalita' legislativa l'individuazione dei punti di equilibrio tra diverse esigenze, e in particolare tra quella della minore possibile restrizione della liberta' personale e quella della tutela degli interessi costituzionali presidiati attraverso la previsione degli strumenti cautelari. Muovendo da tali premesse, si e' ritenuto che la predeterminazione in linea generale dell'area dei delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso, per l'operativita' della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare carceraria, rendesse-manifesta la non irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalita' legislativa, atteso il coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato: non puo', infatti, dirsi che sia soluzione costituzionalmente obbligata l'affidamento sempre e comunque al giudice della fissazione del punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della liberta' personale e gli opposti interessi collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale. La deroga, costituita dalle presunzioni di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura carceraria per i delitti di mafia in senso stretto, ha in seguito superato anche il vaglio della Corte Europea dei diritti dell'uomo, la quale ha ritenuto che la disciplina derogatoria in esame appariva giustificabile alla luce «della natura specifica del fenomeno della criminalita' organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso», e segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle persone accusate del delitto in questione «tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia). Ebbene, le conclusioni alle quali e' giunta la Corte costituzionale con l'ordinanza n. 450 del 1995, che statuiva la piena compatibilita' della presunzione in argomento con i principi costituzionali in relazione all'art. 416-bis, a parere di questo Giudice meritano una rimeditazione alla luce della pluralita' di interventi attraverso i quali la stessa Corte costituzionale ha recentemente ridisegnato i confini delle presunzioni in materia cautelare (il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben oltre il settore della criminalita' mafiosa, dall'intervento normativo sulla sicurezza pubblica, vale a dire dal decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modifiche, con legge n. 38 del 2009). In particolare la Corte costituzionale con sentenza n. 231 del 2011 ha dichiarato la illegittimita' dell'art. 275, comma 3, del codice di rito, nella parte concernente il riferimento ai procedimenti per il delitto di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990. La Corte ha ritenuto che per tale delitto la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria e' stata considerata non rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla struttura stessa e alle connotazioni criminologiche della figura criminosa, pur se essa presuppone uno stabile vincolo di appartenenza a un sodalizio criminoso. Con tale sentenza e' stato precisato che il delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope si concretizza in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine, che non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, essendo sufficiente una qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attivita' personali e di mezzi economici, benche' semplici ed elementari. Detta figura criminosa, ha osservato ancora la Corte costituzionale, si presta, pertanto, a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i piu' diversi ed eterogenei, si' che non e' possibile enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le connotazioni criminologiche del fenomeno, secondo cui la custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 110 del 2012, e' intervenuta con una ulteriore (parziale) declaratoria di incostituzionalita' dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., con specifico riferimento alla fattispecie di cui all'art. 416 cod. pen. realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 dello stesso codice, facendo cosi' venir meno la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere per tale reato associativo. Nel riprendere le argomentazioni delle precedenti pronunce, la Corte ha significativamente precisato che anche per la fattispecie presa in esame puo' dirsi che mancano quelle connotazioni normative (forza intimidatrice del vincolo associativo e condizione di assoggettamento ed omerta') proprie dell'associazione di tipo mafioso e in grado di fornire una congrua base statistica alla presunzione assoluta di adeguatezza. Con tale decisione, la stessa Corte ha definito «particolarmente significativa» la propria sentenza n. 231 del 2011, con la quale e' stata dichiarata illegittima la presunzione in argomento in riferimento ad una fattispecie associativa (art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990), ed ha evidenziato che nell'occasione e' stato in particolare sottolineato che il delitto di associazione di tipo mafioso e' «normativamente connotato - di riflesso ad un dato empirico-sociologico - come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omerta', che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale e' proprio tale specificita' del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed e' suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall'altro, una diffusivita' dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua «base statistica» alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalita' dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria. Come si vede la Suprema Corte ha valorizzato nei casi appena descritti la circostanza che oggetto delle pronunce erano delle associazioni a delinquere in relazione alle quali il vincolo di appartenenza alla organizzazione malavitosa non poteva ritenersi di per se' solo idoneo a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della piu' affittiva misura cautelare, in assenza delle altre connotazioni specifiche del legame che caratterizza gli appartenenti ad un'associazione di tipo mafioso. Per quel che riguarda il caso in oggetto, appare assolutamente rilevante, inoltre, la motivazione della sentenza n. 57 del 2013 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato «l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Nella motivazione della sentenza si legge che «la congrua "base statistica" della presunzione in questione e' collegata all'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso» (sentenza n. 265 del 2010) e, pertanto, «una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta "appartenenza" non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido»; la Corte ha, quindi, affermato che «... la finalizzazione della condotta criminosa all'agevolazione di un'associazione mafiosa non costituisce una condotta equiparabile necessariamente, ai fini della presunzione in questione, alla partecipazione all'associazione, ed e' a questa partecipazione che e' collegato il dato empirico, ripetutamente constatato, della inidoneita' del processo, e delle stesse misure cautelari, a recidere il vincolo associativo e a far venir meno la connessa attivita' collaborativa, sicche', una volta riconosciuta la perdurante pericolosita' dell'indagato o dell'imputato del delitto previsto dall'art. 416-bis cod. pen., e' legittimo presumere che solo la custodia in carcere sia idonea a contrastarla efficacemente». Ne consegue che la presunzione assoluta sulla quale fa leva il regime cautelare speciale «non risponda, con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 916-bis cod. pen. o al fine di agevolare le attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati, essendo "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa. Infatti, la possibile estraneita' dell'autore di tali delitti a un'associazione di tipo mafioso fa escludere che si sia sempre in presenza di un "reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosita' - per radicamento nel territorio, intensita' dei collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo che solo la misura piu' severa risulterebbe, nella generalita' dei casi, in grado di interrompere» (sentenza n. 164 del 2011). Se, come si e' visto, la congrua "base statistica" della presunzione in questione e' collegata all'«appartenenza ad associazioni di tipo mafioso» (sentenza n. 265 del 2010), una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta "appartenenza" non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido»... Fatte queste premesse va approfondita la figura del concorrente esterno nel delitto di cui all'art. 416-bis c.p. Senza riportare la complessa evoluzione giurisprudenziale che ha condotto al riconoscimento della figura del concorso esterno nell'associazione mafiosa, appare rilevante in questa sede la pacifica affermazione secondo la quale ricorre la «partecipazione» nella associazione quando un soggetto chiede di entrare a far parte di un'organizzazione criminale condividendone le finalita' e viene accettato come socio della stessa, mentre si avrebbe «concorso esterno in reato associativo» quando, non essendosi verificato ingresso riconosciuto nell'associazione, taluno apporti consapevolmente un contributo apprezzabile se non al prolungamento, quantomeno al consolidamento o al mantenimento del sodalizio stesso. Piu' precisamente, la Corte di Cassazione ha affermato la configurabilita' della figura del concorso esterno «in capo alla persona che, priva dell'affectio societatis e non inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisce un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, purche' detto contributo abbia un'effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione e l'agente se ne rappresenti, nella forma del dolo diretto, l'utilita' per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso... Partecipe e concorrente esterno recano entrambi un contributo eziologicamente apprezzabile alla vita associativa ed in questo accostabile finalismo delle condotte consiste il dato che accomuna le figure le quali, invece, tornano a distinguersi perche' il primo e' stabilmente incardinato nella struttura associativa con determinati, continui compiti anche per settore di competenza, mentre il secondo difetta di questo inserimento strutturale. (vedi Cass. C s.u. 30 ottobre 2002, Carnevale). Va rimarcata in questa sede la sostanziale differenza tra il soggetto che riveste il ruolo di partecipe nella associazione mafiosa e colui che e' concorrente esterno, il quale ultimo non e' inserito nella struttura organizzativa del sodalizio ma «si limita» a fornire un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione criminale. Del resto, tornando al caso concreto, appare evidente che il ruolo rivestito da M.F. deve essere considerato del tutto distinto da quello dei partecipi all'associazione criminale; il M.F. certamente non e' inserito nel gruppo associato e non ha commesso reati-fine nell'interesse dell'associazione, in quanto lo stesso si e' «limitato» a disposizione del clan le proprie cognizioni tecniche ed i propri apparati con il fine di rimuovere eventuali microspie, apparati di localizzazione satellitare (GPS) e telecamere posizionate dalla P.G. nel centro storico di Taranto. L'insieme di tali considerazioni impone di rivedere le conclusioni alle quali e' giunta la Corte costituzionale con la citata ordinanza n. 450 del 1995, che ha statuito la piena compatibilita' della presunzione in argomento con i principi costituzionali in relazione all'art. 416-bis c.p., alla luce anche della evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione mafiosa. A parere di questo Giudice, utilizzando le parole della Corte costituzionale (sentenza n. 231 del 2011 che ha dichiarato la illegittimita' dell'art. 275, comma 3, del codice di rito, nella parte concernente il riferimento ai procedimenti per il delitto di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), anche nell'alveo dell'art. 416-bis c.p. e' possibile «qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i piu' diversi ed eterogenei, si' che non e' possibile enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le connotazioni criminologiche del fenomeno, secondo cui la custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari». Del resto, la posizione del concorrente esterno (e in particolare quella del M.F.) appare essere con evidenza sovrapponibile per tanti motivi a quella di colui che pone in essere un reato qualificato dall'aggravante di cui all'art. 7 D.L. n. 152/91, con la finalita' di agevolare l'associazione mafiosa: in entrambi i casi vi e' un soggetto che, senza appartenere al gruppo mafioso, pone in essere una condotta che ha quale finalita' quella di agevolare l'associazione mafiosa. E, allora, proprio rispetto alla figura del concorrente esterno puo' ripetersi quanto affermato dalla Corte costituzionale proprio in tema di art. 7 D.L. n. 152/91, nella motivazione della sopra citata sentenza n. 57 del 2013: se e' vero che la «la congrua "base statistica" della presunzione in questione e' collegata all'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso (sentenza n. 265 del 2010), una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta "appartenenza"; non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido»; e, ancora, si puo' affermare che «la possibile estraneita' dell'autore di tali delitti a un'associazione di tipo mafioso fa escludere che si sia sempre in presenza di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosita' - per radicamento nel territorio, intensita' dei collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo che solo la misura piu' severa risulterebbe, nella generalita' dei casi, in grado di interrompere». Le affermazioni della Corte costituzionale sopra riportate possono riferirsi senz'altro anche alla figura del concorrente esterno in associazione mafiosa, soggetto che, si ripete, non «appartiene» all'associazione e, pertanto, non e' legato da un vincolo permanente con il gruppo criminale tale da giustificare quel giudizio di pericolosita' («per radicamento nel territorio, intensita' dei collegamenti personali e forza intimidatrice») che impone, secondo il ragionamento della Corte, l'applicazione necessaria della misura carceraria. In ultimo, va segnalato che recentemente la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito che «diversa e' la valutazione che deve essere compiuta nell'ambito operativo della presunzione di cui al citato art. 275 comma 3 c.p.p. in riferimento alla posizione del concorrente esterno nel reato associativo, nel senso che gli elementi che si richiedono per superare la presunzione iuris tantum non possono coincidere con quelli del partecipe. In quest'ultimo caso vi e' un affectio societatis da rescindere, che non caratterizza il rapporto che lega il semplice concorrente all'associazione, per il quale la dissociazione non puo' essere considerata un elemento in grado di superare la presunzione stessa. Infatti, quale che sia il tipo di relazione che lega il concorrente esterno al sodalizio, sia esso una relazione che si manifesta con condotte occasionali ovvero con contributi sintomatici di una piu' stretta vicinanza al gruppo, deve comunque riconoscersi che l'indagato resta estraneo all'organizzazione, per cui diversi devono essere gli elementi idonei a superare la presunzione di pericolosita'. In particolare, si trattera' di elementi diretti a sostenere l'impossibilita' o l'elevata improbabilita' che il concorrente esterno possa ancora fornire un contributo alla cosca, ovvero volti ad evidenziare il venir meno degli interessi comuni con l'associazione o, ancora, la perdita di quegli strumenti che assicuravano di poter contribuire alla sopravvivenza del gruppo criminale». Partendo da tale presupposto, i giudici di legittimita' hanno concluso nel senso che «per il concorrente esterno i parametri per superare la presunzione non coincidono con la rescissione definitiva del vincolo associativo, ma comportano una prognosi in ordine alla ripetibilita' o meno della situazione che ha dato luogo al contributo dell'extraneus alla vita della consorteria» (vedi Cass. Sez. 6, Sentenza n. 32412 del 2013). Quanto da ultimo riportato offre una ulteriore conferma della necessita' di distinguere, anche ai fini della valutazione del profilo cautelare, la posizione del partecipe alla associazione criminosa rispetto a quella del concorrente esterno; anche sotto questo profilo, infatti, la posizione del concorrente esterno si rivela non equiparabile a quella dell'associato alla organizzazione criminale, in relazione al quale la presunzione delineata dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. risponde, come si e' detto, a dati di esperienza generalizzati. Le affermazioni sopra riportate, proprio laddove sottolineano la diversita' dei parametri necessari per superare la presunzione di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p., offrono lo spunto per far ritenere che anche nell'alveo dell'applicazione dell'art. 416-bis c.p. deve escludersi che vi sia, per tutte le fattispecie concrete verificabili, una congrua "base statistica" alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalita' dei casi; le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria. Diversamente, si finirebbe con il parificare sotto il profilo del disvalore sociale e giuridico manifestazioni delittuose da considerarsi, per le ragioni sopra descritte, in maniera differente sia con riferimento alla loro portata criminale sia con riferimento alla pericolosita' dell'agente, circostanza che attiene alla violazione dell'art. 3 Cost.; verrebbe, in altri termini, sottratto al giudice il potere di adeguare la misura al caso concreto, sicche', in violazione del principio di uguaglianza, la norma si risolverebbe nel parificare con una uguale risposta cautelare situazioni che, sotto il profilo oggettivo e soggettivo devono essere considerate diversamente. Inoltre, dalla lettura combinata degli artt. 13 e 27 Cost. emerge l'esigenza di circoscrivere allo strettamente necessario le misure limitative della liberta' personale, attribuendo alla custodia in carcere il connotato del rimedio estremo, laddove la norma censurata stabilirebbe un automatismo applicativo tale da rendere inoperanti i criteri di proporzionalita' e di adeguatezza. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve conclusivamente dichiararsi rilevante la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis del codice penale (reato contestato nella concreta fattispecie), e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Va precisato che la norma appare essere, per i profili enunciati, viziata da illegittimita' costituzionale in relazione ai seguenti articoli della Costituzione: art. 3, per l'ingiustificata parificazione della posizione del partecipe alla associazione mafiosa con quella del concorrente esterno nonche' per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; art. 13, primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della liberta' personale; art. 27, secondo comma, con riferimento all'attribuzione alla coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena. A norma dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve dichiararsi la sospensione del procedimento e deve disporsi l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ferma restando la misura cautelare in atto. La Cancelleria provvedera' alla notifica di copia della presente ordinanza alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei ministri ed alla comunicazione della stessa ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
P. Q. M. Letto l'art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87, solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost. Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Lecce, addi' 23 dicembre 2013 Il Giudice per le indagini preliminari: Galbo