N. 226 SENTENZA 15 - 25 luglio 2014

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Lavoro e occupazione - Illegittima  apposizione  del  termine  ad  un
  contratto  di  lavoro  -  Liquidazione  giudiziale  in  favore  del
  lavoratore di un'indennita' compresa tra un minimo  di  2,5  ed  un
  massimo di 12 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto. 
- Legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al  Governo  in  materia  di
  lavori  usuranti,  di  riorganizzazione  di   enti,   di   congedi,
  aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di  servizi  per
  l'impiego,  di  incentivi  all'occupazione,  di  apprendistato,  di
  occupazione femminile, nonche' misure contro il lavoro  sommerso  e
  disposizioni in tema  di  lavoro  pubblico  e  di  controversie  di
  lavoro),  art.  32,  comma  5,  come  interpretato   autenticamente
  dall'art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92. 
(GU n.32 del 30-7-2014 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Sabino CASSESE; 
Giudici :Giuseppe TESAURO, Paolo Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe  FRIGO,
  Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,
  Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo
  CORAGGIO, Giuliano AMATO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  32,  comma
5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia
di  lavori  usuranti,  di  riorganizzazione  di  enti,  di   congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per
l'impiego,  di  incentivi  all'occupazione,  di   apprendistato,   di
occupazione femminile, nonche' misure contro  il  lavoro  sommerso  e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro),
come interpretato autenticamente dall'art. 1, comma 13,  della  legge
28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato
del lavoro in una prospettiva di crescita),  promosso  dal  Tribunale
ordinario di Velletri nel procedimento civile vertente tra B.L. e  la
ASP - Azienda servizi pubblici spa con ordinanza del 21 dicembre 2012
iscritta al n. 130 del registro ordinanze  2013  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  24,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2013. 
    Visti gli atti di costituzione  di  B.L.,  della  ASP  -  Azienda
servizi pubblici spa nonche' l'atto di intervento del Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  dell'8  luglio  2014  il   Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano; 
    uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Stefano Muggia per  B.L.,
Nicola  Petracca  per  la  ASP  -  Azienda  servizi  pubblici  spa  e
l'avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del  Consiglio
dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Velletri, in  funzione  di  giudice
del lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 21 dicembre 2012 iscritta
al n. 130 del registro  ordinanze  2013,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n.
183  (Deleghe  al  Governo  in  materia  di   lavori   usuranti,   di
riorganizzazione di enti, di  congedi,  aspettative  e  permessi,  di
ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per  l'impiego,  di  incentivi
all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro
pubblico  e   di   controversie   di   lavoro),   come   interpretato
autenticamente dall'art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012,  n.
92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in  una
prospettiva di crescita). 
    Il rimettente denuncia la violazione degli artt. 11 e  117  della
Costituzione, in relazione alla clausola 8.3 dell'accordo quadro  sul
lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28  giugno  1999,
n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio  relativa  all'accordo  quadro
CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) sostenendo  che  la
disposizione censurata determinerebbe  un  arretramento  del  livello
generale di tutela previsto per i lavoratori nel caso  di  successive
stipulazioni di contratti a tempo determinato. 
    Il Tribunale premette, in punto di fatto, di  essere  chiamato  a
decidere  sul  ricorso  presentato  da  B.L.  con   cui   si   chiede
l'accertamento dell'illegittimita' del termine di durata  apposto  al
contratto di lavoro stipulato  con  decorrenza  dal  7  aprile  2008,
nonche' della successiva proroga, l'accertamento  della  «sussistenza
di un rapporto di lavoro subordinato  a  tempo  indeterminato  ed  il
pagamento   del   trattamento   retributivo   dovuto,   a   decorrere
dall'estromissione dal rapporto sino alla riammissione in servizio». 
    Nelle more del giudizio - osserva il rimettente - e'  intervenuta
la legge n. 183 del 2010, che, all'art.  32,  comma  5,  ha  limitato
l'ammontare  del  risarcimento  del  danno  dovuto  a  seguito  della
illegittima apposizione  del  termine  ad  un  contratto  di  lavoro,
fissando «un'indennita' onnicomprensiva nella misura compresa tra  un
minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita' dell'ultima retribuzione
globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo  8
della legge 15 luglio 1966, n. 604». 
    Tale   disposizione   e'   stata   successivamente   oggetto   di
interpretazione autentica ad opera dell'art. 1, comma 13, della legge
n. 92 del 2012 il quale stabilisce che «La  disposizione  di  cui  al
comma 5 dell'articolo 32 della legge 4  novembre  2010,  n.  183,  si
interpreta nel senso che l'indennita' ivi prevista ristora per intero
il  pregiudizio  subito  dal  lavoratore,  comprese  le   conseguenze
retributive e  contributive  relative  al  periodo  compreso  fra  la
scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il
giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro». 
    Poiche' tali  disposizioni  troverebbero  applicazione  anche  ai
procedimenti in corso, il rimettente ritiene rilevante  la  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 32 della legge  n.  183  del
2010 eccepita dalla parte ricorrente. Tale disposizione  inciderebbe,
infatti, sulla determinazione dell'ammontare del danno  spettante  al
lavoratore, tenuto conto del  fatto  che  dall'attivita'  istruttoria
svolta nel giudizio a quo  non  sarebbero  emerse  ragioni  idonee  a
giustificare la clausola negoziale di apposizione del termine  e  che
la stipulazione della proroga, formalizzata solo dopo la scadenza del
termine precedentemente pattuito, e  la  prosecuzione  di  fatto  del
rapporto, darebbe luogo ad una successione di contratti a termine. 
    In punto di non manifesta infondatezza, il  Tribunale  rimettente
afferma che la normativa concernente il contratto a tempo determinato
e' di derivazione europea  in  quanto  emanata  in  attuazione  della
direttiva 28 giugno 1999,  n.  1999/70/CE  (Direttiva  del  Consiglio
relativa all'accordo quadro CES, UNICE e  CEEP  sul  lavoro  a  tempo
determinato) che a sua volta ha  recepito  l'accordo  quadro  tra  le
organizzazioni intercategoriali a carattere  generale  del  18  marzo
1999. 
    Gli obiettivi cui mirava tale accordo erano  due:  migliorare  la
qualita' del lavoro a tempo determinato garantendo  il  principio  di
non discriminazione rispetto al lavoro a tempo indeterminato;  creare
un quadro  normativo  di  prevenzione  degli  abusi  derivanti  dalla
successione  di  contratti  o  rapporti  a  tempo  determinato.   Con
specifico riferimento a  questo  secondo  aspetto,  l'accordo  quadro
stabiliva l'introduzione negli Stati membri di misure di  prevenzione
di detti abusi  e  vietava  che  l'applicazione  dell'accordo  stesso
potesse costituire motivo per ridurre il livello generale  di  tutela
che era offerto ai lavoratori nell'ambito da esso  coperto  (clausola
8.3). 
    Sostiene il giudice a quo  che  nell'ordinamento  interno,  prima
della legge n. 183 del 2010, era del tutto pacifico in giurisprudenza
che il dipendente, dopo  la  scadenza  del  termine  illegittimamente
apposto al contratto, avesse diritto a percepire la retribuzione  dal
momento in cui provvedeva ad offrire le sue  prestazioni  lavorative,
determinando una situazione di mora accipiendi del datore di  lavoro.
Cio'  in  quanto   il   diritto   alla   retribuzione   si   riteneva
sinallagmaticamente   correlato   all'effettivo   svolgimento   della
prestazione lavorativa. Come corollario, si affermava che nel caso in
cui non vi fosse  stata  offerta  della  prestazione  lavorativa,  le
retribuzioni perdute non potevano essere riconosciute  al  lavoratore
neppure a titolo di risarcimento del danno, in quanto  l'interruzione
di fatto del rapporto di lavoro non conseguiva ad  un'iniziativa  del
datore di lavoro. 
    L'unico   punto   controverso   era   costituito    dal    titolo
dell'attribuzione   patrimoniale,   discutendosi   se   gli   importi
corrisposti dal datore di lavoro avessero  natura  retributiva,  come
riteneva parte  della  giurisprudenza,  ovvero  natura  risarcitoria,
secondo altro orientamento giurisprudenziale. 
    Sostiene il Tribunale rimettente che per  effetto  dell'art.  32,
comma  5,  della  legge  n.   183   del   2010,   come   interpretato
autenticamente dall'art. 1, comma 13, della legge  n.  92  del  2012,
tali consolidati principi non potrebbero piu' trovare applicazione. 
    Cio', a suo avviso, determinerebbe un  arretramento  del  livello
generale di tutela previsto  per  i  lavoratori,  come  tale  vietato
dall'accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE. La  citata
clausola 8.3 dell'accordo stabilisce infatti che «L'applicazione  del
presente accordo non costituisce un  motivo  valido  per  ridurre  il
livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito  coperto
dall'accordo stesso» (cosiddetta clausola di non regresso). 
    Il rimettente richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia
dell'Unione europea la quale, nel chiarire il significato di  «ambito
coperto dall'accordo», ha affermato che la verifica  della  esistenza
di una  reformatio  in  peius  deve  essere  effettuata  in  rapporto
all'insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro
relative  alla  tutela  dei  lavoratori  e  pertanto   con   riguardo
all'intera  disciplina  del  contratto  a  termine  (sono  citate  la
sentenza 23 aprile 2009, Angelidaki ed altri, nelle cause riunite  da
C-378/07 a C-380/07, e la sentenza 24 giugno 2010, Sorge, C-98/09). 
    Con  riferimento  al  concetto  di  «applicazione  del   presente
accordo»,   contenuto   nella   clausola   8.3,   la   giurisprudenza
comunitaria, ad avviso del  rimettente,  avrebbe  chiarito  che  esso
coinvolge non solo l'iniziale trasposizione della disciplina europea,
ma anche ogni altra successiva modifica o integrazione. 
    Il Tribunale, inoltre, dopo  aver  richiamato  la  giurisprudenza
della Corte di giustizia,  nonche'  della  Corte  di  cassazione  (e'
citata la sentenza n. 1931 del  27  gennaio  2011)  con  riguardo  al
concetto di «arretramento della tutela», afferma che l'art. 32, comma
5, della legge n. 183  del  2010,  come  interpretato  autenticamente
dall'art. 1, comma 13, della  legge  n.  92  del  2012,  nel  ridurre
«l'ammontare degli importi spettanti al  lavoratore  illegittimamente
assunto a termine per il periodo successivo alla costituzione in mora
della parte datoriale, tanto piu'  con  l'accessoria  privazione  del
trattamento  previdenziale»,  rientrerebbe  nell'ambito  del  divieto
sancito dall'accordo quadro. 
    La disposizione censurata, in sostanza, sarebbe diretta  in  modo
univoco a modificare la  regolamentazione  del  profilo  patrimoniale
connesso all'abuso della stipulazione di un contratto  a  termine  e,
adottando un criterio sostitutivo, si tradurrebbe in un  arretramento
di tutela, tale da coinvolgere tutti i  lavoratori  assunti  a  tempo
determinato. D'altra  parte,  l'ampiezza  della  portata  applicativa
della disposizione sarebbe stata evidenziata,  secondo  il  Tribunale
rimettente, da questa Corte nella sentenza n. 303  del  2011  secondo
cui la disciplina in questione e' di carattere  generale  e  concerne
tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine. 
    Pertanto,  la  predetta  disciplina,  eliminando  le  conseguenze
patrimoniali gravanti sul datore di lavoro secondo il diritto  comune
e stabilendo effetti economici  entro  margini  prefissati  «di  gran
lunga inferiori al trattamento  economico  che  sarebbe  spettato  in
forza del regime previgente - anche per la correlata  privazione  del
trattamento  previdenziale»,   e   addossando   sul   lavoratore   le
conseguenze negative della durata del processo,  ridurrebbe  in  modo
consistente il livello di tutela dei lavoratori. 
    Tale arretramento di tutela non sarebbe compensato in alcun modo,
ed anzi il legislatore avrebbe introdotto quale ulteriore  limite  la
previsione  di   un   termine   di   decadenza   per   l'impugnazione
dell'illegittima stipulazione del contratto a tempo determinato. 
    Il rimettente sostiene,  inoltre,  che  «l'adeguatezza  astratta»
della disciplina introdotta dal legislatore, e,  in  particolare,  la
circostanza che la previsione di un indennizzo fino alla sentenza che
statuisce la conversione del rapporto a tempo determinato in rapporto
a tempo indeterminato sia  stata  ritenuta  da  questa  Corte,  nella
citata sentenza  n.  303  del  2011,  tutela  adeguata  a  sanzionare
l'abuso, sarebbe irrilevante a fronte del fatto che  la  disposizione
censurata determinerebbe un effettivo e sostanziale  arretramento  di
tutela  rispetto  alla  normativa  previgente,  vietato  dall'accordo
quadro. 
    Quanto agli  effetti  della  violazione  della  clausola  di  non
regresso, il giudice a quo, dopo aver dato atto che la  clausola  8.3
dell'accordo   non   e'   direttamente    produttiva    di    effetti
nell'ordinamento interno, secondo  quanto  chiarito  dalla  Corte  di
giustizia,  sostiene  che  la  norma  di   interpreazione   autentica
contenuta  nell'art.  1,  comma  13,  della  legge  n.  92  del  2012
precluderebbe qualsiasi tipo di  interpretazione  conforme  «giacche'
avalla in modo ineludibile una opzione ermeneutica  che  direttamente
si pone in contrasto con la clausola di  non  regresso  contenuta  al
punto 8.3 dell'accordo quadro,  nell'accezione  alla  stessa  fornita
dalla Corte di Lussemburgo».  Pertanto,  attesa  l'impossibilita'  di
disapplicare la norma interna, il giudice  a  quo  ritiene  di  dover
sollevare questione di  legittimita'  costituzionale  per  violazione
degli artt. 11 e 117 Cost. 
    2.- E' intervenuta in giudizio la ASP - Azienda servizi  pubblici
spa chiedendo che la questione sia  dichiarata  inammissibile  ovvero
infondata. 
    Sostiene la parte privata che il Tribunale avrebbe  sollevato  la
questione partendo dall'erroneo presupposto  interpretativo  per  cui
nel  giudizio  a  quo  ricorrerebbe  un'ipotesi  di  successione   di
contratti a termine. In realta' cosi' non sarebbe dal momento che tra
la ASP e il B.L. sarebbe stato stipulato un unico contratto a termine
successivamente prorogato. E' ben vero che tale proroga sarebbe stata
formalizzata dopo la scadenza del termine; tuttavia il lavoratore non
avrebbe mai  interrotto  la  sua  attivita'  lavorativa,  ed  avrebbe
continuato  a  percepire   la   retribuzione   senza   soluzione   di
continuita'. 
    Conseguentemente, la questione sollevata  sarebbe  irrilevante  e
comunque  ipotetica  non   dovendo   la   norma   censurata   trovare
applicazione. 
    Ulteriore profilo di inammissibilita' discenderebbe  dal  mancato
tentativo  da  parte  del  rimettente  di  dare  della   disposizione
censurata un'interpretazione conforme a Costituzione. 
    In  particolare,  il  giudice  a  quo   avrebbe   trascurato   di
considerare gli aspetti vantaggiosi che l'art. 32, comma 5, legge  n.
183 del 2010 avrebbe introdotto per il lavoratore  evidenziati  anche
dalla sentenza n. 303 del 2011 di questa Corte costituzionale, ed  in
particolare l'irrilevanza della costituzione in mora  del  creditore,
l'irrilevanza dell'aliunde perceptum e del percipiendum  sull'entita'
del risarcimento, la conversione a tempo indeterminato del  contratto
a termine. 
    Secondo l'ASP, la questione nel merito sarebbe  non  fondata.  In
particolare, l'art.  32,  comma  5,  della  legge  n.  183  del  2010
esulerebbe   dall'ambito   di   applicazione   della   direttiva    e
dell'accordo. La clausola 8.3,  che  sancisce  il  principio  di  non
regresso, sarebbe infatti volta ad  impedire  che  gli  Stati  membri
approfittino della attuazione della direttiva per ridurre il  livello
di tutela gia' offerto ai lavoratori. Essi tuttavia sarebbero  liberi
di introdurre riforme che riducano  le  tutele  preesistenti  laddove
giustificate da esigenze oggettive diverse  dalla  mera  applicazione
della normativa comunitaria. La stessa  Corte  di  giustizia  avrebbe
escluso che la clausola in parola imponga una cristallizzazione delle
tutele (e' richiamata la sentenza della Corte di giustizia Ue,  terza
sezione, 23 aprile  2009  -  cause  riunite  da  C-378/07  a  380/07,
Angelidaki ed altri). 
    La legge n. 183 del 2010 non  potrebbe  considerarsi  finalizzata
alla attuazione della direttiva  ne'  dell'accordo,  non  costituendo
essa una  trasposizione,  diretta  o  indiretta,  di  tali  atti  ne'
emergendo alcun collegamento con essi. 
    In subordine la difesa della ASP  sostiene  che  la  disposizione
censurata,  anche  laddove  rientrasse  nell'ambito  di  applicazione
dell'accordo, sarebbe comunque conforme alla disciplina  comunitaria.
Si osserva, al riguardo, che tanto questa Corte  (nella  sentenza  n.
303 del 2011) quanto la Corte di giustizia (nella sentenza 24  giugno
2010, causa C-98/09, Sorge) hanno affermato che la  verifica  di  una
reformatio in peius deve essere effettuata con  riguardo  all'insieme
delle   norme   e   delle    tutele    apprestate    complessivamente
dall'ordinamento.  Sulla  base  di  tale  premessa  questa  Corte  ha
ritenuto che la disciplina dettata dall'art. 32, comma  5,  legge  n.
183 del 2010, confrontata con quella previgente,  risulta  certamente
piu' favorevole al lavoratore. Essa infatti,  oltre  a  prevedere  la
conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto  a
tempo indeterminato, prevedrebbe la corresponsione automatica di  una
somma  di  denaro  a  titolo  risarcitorio  sulla   base   del   solo
accertamento della illegittimita' del termine apposto  al  contratto,
affrancando  il  lavoratore  da   qualsiasi   onere   probatorio,   a
prescindere dall'esistenza di un danno effettivo e  senza  che  abbia
rilevanza la messa in mora del datore di lavoro. L'indennita' fissata
dal legislatore, dunque, garantirebbe maggior certezza. 
    Quanto poi al termine di decadenza introdotto dall'art. 32, comma
3, della legge n. 183 del 2010 esso costituisce misura che si allinea
a tutte le altre modifiche che hanno accelerato e/o  semplificato  il
rito lavoristico e risponde ad esigenze di certezza e  celerita'.  In
tal modo il legislatore avrebbe voluto assicurare che il risarcimento
del danno liquidato in giudizio sia  il  piu'  possibile  conforme  a
quello effettivamente subito dal lavoratore. 
    Sostiene  infine  la  difesa  della   ASP   che   la   norma   di
interpretazione autentica contenuta  nell'art.  1,  comma  13,  della
legge n. 92 del 2012 non avrebbe alterato tale situazione dal momento
che essa non avrebbe efficacia innovativa, ma si sarebbe  limitata  a
codificare gli approdi della dottrina  e  della  giurisprudenza,  nel
senso che l'indennita'  ivi  prevista  e'  destinata  a  rifondere  i
pregiudizi sofferti  dal  lavoratore  nel  periodo  compreso  tra  la
scadenza del termine apposto al contratto di lavoro e la sentenza che
ne accerta  la  nullita'.  Solo  dopo  tale  sentenza  il  lavoratore
maturera' il diritto alla corresponsione delle retribuzioni dovute. 
    3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato la  quale
ha chiesto, innanzitutto, che la questione prospettata sia dichiarata
inammissibile dal momento che il giudice che ritenga una disposizione
interna  in  contrasto  con   la   normativa   comunitaria   dovrebbe
disapplicare la disposizione nazionale ovvero,  qualora  nutra  dubbi
sulla portata  della  disposizione  comunitaria,  dovrebbe  sollevare
questione pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia. 
    Nel  merito  l'Avvocatura  sostiene  che  la  questione   sarebbe
manifestamente infondata. 
    La rimodulazione dei criteri in base ai  quali  corrispondere  il
risarcimento al lavoratore, operata dal  legislatore  nazionale,  non
sarebbe avvenuta in base all'accordo quadro che non  contiene  alcuna
disposizione al riguardo, bensi' per fronteggiare, in base a  criteri
di    equita'    sostanziale,    l'orientamento     giurisprudenziale
eccessivamente oneroso per il datore di lavoro che si era formato  al
riguardo. Le norme censurate, inoltre, fornirebbero adeguata e  piena
tutela al lavoratore  assicurando  la  conversione  del  rapporto  di
lavoro in rapporto a tempo indeterminato. 
    Le disposizioni censurate, inoltre,  sarebbero  «giustificate  da
superiori  ragioni  di  rispetto  dei  parametri  della  contabilita'
pubblica» e dall'esigenza di riequilibrio dei conti pubblici. 
    Non sussisterebbe, dunque, l'asserito arretramento di tutela  dal
momento che le disposizioni in  questione  sarebbero  rispettose  dei
principi di diritto comunitario in quanto - come chiarito  da  questa
Corte con la sentenza n. 303 del 2011 - sarebbero volte a  introdurre
un criterio di liquidazione del  danno  di  piu'  agevole,  certa  ed
omogenea  applicazione.  Inoltre,  la  limitazione  dell'entita'  del
risarcimento rientrerebbe nell'esigenza di riequilibrare  le  opposte
posizioni del datore di lavoro e del lavoratore. 
    Neppure  rilevante  sarebbe  la  apposizione  di  un  termine  di
decadenza ai fini della impugnazione della  illegittima  stipulazione
del contratto a tempo determinato, in quanto sarebbe misura  volta  a
dare certezza alla regolamentazione dei rapporti sociali. 
    Ad  avviso  dell'Avvocatura  la   questione   sollevata   sarebbe
infondata anche sotto altro profilo. 
    La  giurisprudenza  europea  avrebbe  infatti  chiarito  che   la
riduzione della tutela offerta ai lavoratori a tempo determinato  non
sarebbe preclusa in quanto tale  dall'accordo  quadro,  ma  che  essa
sarebbe vietata solo laddove fosse collegata all'applicazione di tale
accordo ed avesse, inoltre, ad oggetto il livello generale di  tutela
dei lavoratori a tempo determinato.  Pertanto  non  rientrerebbe  nel
divieto  una  normativa  diretta  a  promuovere  un  altro  obiettivo
rispetto a quello della applicazione dell'accordo. 
    L'introduzione dell'art. 32, comma 5,  della  legge  n.  183  del
2010, avvenuta a distanza di circa dieci anni dal decreto legislativo
6 settembre 2001,  n.  368  (Attuazione  della  direttiva  1999/70/CE
relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo  determinato  concluso
dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), che ha dato applicazione all'accordo
quadro, non sarebbe in alcun modo collegata  con  l'attuazione  della
normativa  comunitaria,  ma  sarebbe  ispirata  dalla  volonta'   del
legislatore  di  rimodulare  la  tutela  del   lavoratore   a   tempo
determinato, peraltro  entro  limiti  compatibili  con  l'ordinamento
sovranazionale. 
    Questa Corte, nella richiamata sentenza n. 303 del 2011,  avrebbe
chiarito come la disciplina in questione sarebbe  stata  adottata  al
fine di promuovere la certezza del diritto in punto di determinazione
delle conseguenze patrimoniali sanzionatorie a carico del  datore  di
lavoro. 
    4.- E' intervenuto in giudizio anche B.L. il quale ha chiesto che
sia accolta la questione di costituzionalita' sollevata dal Tribunale
ordinario di Velletri. 
    5.- In prossimita' dell'udienza  la  medesima  parte  privata  ha
depositato  una  memoria  nella   quale   ha   chiesto   il   rigetto
dell'eccezione di inammissibilita' prospettata dalla  ASP  sostenendo
che la questione sarebbe rilevante. Infatti, l'istruttoria svolta nel
giudizio a quo avrebbe consentito di accertare che il termine apposto
al contratto di lavoro sarebbe privo di ragioni e  dunque  nullo,  ed
inoltre che la proroga sarebbe stata stipulata dopo la  scadenza  del
contratto,  integrando  dunque  una  nuova  pattuizione   e   percio'
un'ipotesi di successione di contratti. 
    Infondata sarebbe altresi' l'eccezione  di  inammissibilita'  per
omesso tentativo di interpretazione  conforme  avendo  il  rimettente
illustrato le ragioni per  cui  ha  ritenuto  che  cio'  non  sarebbe
possibile. 
    Nel merito, la questione sollevata  dal  Tribunale  ordinario  di
Velletri sarebbe diversa da quelle esaminate da  questa  Corte  nella
sentenza n. 303 del 2011 dal momento che,  nel  caso  di  specie,  il
Giudice delle leggi sarebbe chiamato a  verificare  il  rispetto  del
divieto di reformatio in peius sancito dall'accordo quadro. 
    Le disposizioni censurate, oltre ad avere portata  generale  tale
da  incidere  sul  livello  complessivo  di  tutela  dei  lavoratori,
introdurrebbero  un  regime  peggiorativo  rispetto  alla  precedente
disciplina. Infatti, a  fronte  di  «importanti  elementi  negativi»,
quali la probabile minore entita' del risarcimento e la negazione  di
qualsiasi ulteriore voce di danno, tra cui quello contributivo, pochi
sarebbero gli  elementi  positivi  (automaticita'  del  diritto,  non
necessita' della mora e non deducibilita' dell'aliunde perceptum). 
    Le  innovazioni  introdotte,  tuttavia,  si  porrebbero  comunque
nell'ambito  di  attuazione  della  direttiva  europea,  non  essendo
ravvisabili obiettivi di politica sociale o del lavoro, e dunque  non
potrebbero superare il principio di non regresso. 
    Infine,   la   difesa   della   parte   privata   sostiene    che
l'interpretazione costituzionalmente orientata accolta  nella  citata
sentenza n. 303 del 2011 faceva leva, oltre al  fatto  che  il  danno
forfettizzato copriva solo il periodo «intermedio»  tra  la  scadenza
del termine apposto al contratto e la sentenza che  ne  accertava  la
nullita' e dichiarava la conversione  del  rapporto,  altresi'  sulla
possibilita' del rimedio cautelare inteso ad evitare che il protrarsi
del pregiudizio andasse  a  scapito  delle  ragioni  del  lavoratore.
Sennonche' i giudici comuni sarebbero restii ad accordare  la  tutela
cautelare, di tal  che  le  conseguenze  della  durata  del  processo
graverebbero  esclusivamente  sul  lavoratore,  infrangendosi   cosi'
quell'equilibrio tra la posizione di costui e quella  del  datore  di
lavoro sottolineato dalla sentenza n. 303 del 2011. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Velletri, in  funzione  di  giudice
del lavoro, ha sollevato, con ordinanza del 21 dicembre 2012 iscritta
al n. 130 del registro  ordinanze  2013,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n.
183  (Deleghe  al  Governo  in  materia  di   lavori   usuranti,   di
riorganizzazione di enti, di  congedi,  aspettative  e  permessi,  di
ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per  l'impiego,  di  incentivi
all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro
pubblico  e   di   controversie   di   lavoro),   come   interpretato
autenticamente dall'art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012,  n.
92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in  una
prospettiva  di  crescita),   il   quale   limita   l'ammontare   del
risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione
del termine  ad  un  contratto  di  lavoro  fissandolo  nella  misura
compresa tra un  minimo  di  2,5  ed  un  massimo  di  12  mensilita'
dell'ultima retribuzione globale  di  fatto  e  disponendo  che  esso
ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese  le
conseguenze retributive e contributive relative al  periodo  compreso
fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento  con  il
quale il giudice abbia ordinato la  ricostituzione  del  rapporto  di
lavoro. 
    Ad avviso del rimettente, sarebbero violati gli artt.  11  e  117
della   Costituzione   in   quanto   le   disposizioni    individuate
determinerebbero un  arretramento  del  livello  generale  di  tutela
previsto per i lavoratori a fronte di successive stipulazioni  di  un
contratto a tempo determinato in contrasto con il «principio  di  non
regresso» sancito dalla clausola 8.3 dell'accordo quadro sul lavoro a
tempo  determinato  allegato  alla  direttiva  28  giugno  1999,   n.
1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all'accordo quadro  CES,
UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato). 
    2.- La societa' ASP - Azienda servizi pubblici  spa,  intervenuta
in giudizio, ha eccepito l'inammissibilita' della questione sollevata
dal Tribunale ordinario di  Velletri  per  difetto  di  rilevanza  in
quanto  il  rimettente   avrebbe   erroneamente   ritenuto   che   la
controversia oggetto del giudizio principale attenga ad un'ipotesi di
successione di contratti a termine, mentre, in realta',  ricorrerebbe
un caso di proroga legittima del contratto di tal  che  la  normativa
censurata non dovrebbe trovare applicazione. 
    2.1.- Tale eccezione e' priva di fondamento. 
    Il giudice del lavoro  di  Velletri  ha,  infatti,  spiegato  che
dall'istruttoria svolta non sarebbe emersa l'esistenza delle  ragioni
dedotte dal datore di  lavoro  per  giustificare  la  stipula  di  un
contratto a tempo determinato e che la proroga di tale contratto  era
stata  formalizzata  dopo   la   scadenza   del   termine   pattuito.
Conseguentemente,  ha  ritenuto   che   la   fattispecie   rientrasse
nell'ipotesi di successione di contratti a termine. In tal  modo,  il
rimettente ha illustrato in modo esauriente  e  non  implausibile  le
ragioni per cui ritiene di dover fare  applicazione  della  normativa
censurata per risolvere la controversia al suo esame. 
    2.2.-  La   stessa   parte   privata   ha,   altresi',   eccepito
l'inammissibilita' della  questione  in  ragione  del  fatto  che  il
giudice  avrebbe  omesso  di  esperire  il  doveroso   tentativo   di
interpretazione  costituzionalmente  orientata   delle   disposizioni
censurate,  non  tenendo  conto  degli  aspetti  vantaggiosi  per  il
lavoratore contenuti nella disciplina in questione ed evidenziati  da
questa Corte nella sentenza n. 303 del 2011. 
    2.3.- Anche tale eccezione non merita accoglimento. 
    A  differenza  di  quanto  sostenuto  dalla  ASP,  il   Tribunale
ordinario di Velletri ha espressamente verificato la possibilita'  di
sperimentare un'interpretazione conforme a Costituzione dell'art. 32,
comma 5, della legge n.  183  del  2010,  ma  ha  ritenuto  che  tale
operazione gli fosse preclusa proprio dall'art. 1,  comma  13,  della
legge n. 92 del 2012 il quale - a suo avviso - espressamente accoglie
un'interpretazione che si porrebbe in contrasto con la  clausola  8.3
dell'accordo quadro e, dunque, con gli artt. 11 e 117 Cost. 
    3.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  dello  Stato,  e'  intervenuto  in  giudizio
eccependo l'inammissibilita' della questione  in  considerazione  del
fatto che il  rimettente,  a  fronte  dell'asserito  contrasto  delle
disposizioni censurate con la normativa comunitaria,  avrebbe  dovuto
disapplicare tali disposizioni,  ovvero,  ove  avesse  nutrito  dubbi
sull'interpretazione  della   norma   comunitaria,   avrebbe   dovuto
sollevare la questione pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia. 
    3.1.- Anche tale eccezione e' priva di fondamento. 
    Questa Corte ha piu' volte chiarito che  «qualora  si  tratti  di
disposizione del diritto dell'Unione europea  direttamente  efficace,
spetta  al  giudice  nazionale  comune  valutare  la   compatibilita'
comunitaria della normativa interna censurata, utilizzando -  se  del
caso  -  il  rinvio  pregiudiziale  alla  Corte   di   giustizia,   e
nell'ipotesi di contrasto  provvedere  egli  stesso  all'applicazione
della norma comunitaria in luogo della norma  nazionale;  mentre,  in
caso di contrasto  con  una  norma  comunitaria  priva  di  efficacia
diretta - contrasto accertato  eventualmente  mediante  ricorso  alla
Corte di giustizia - e nell'impossibilita' di risolvere il  contrasto
in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare la  questione
di legittimita' costituzionale, spettando poi a questa Corte valutare
l'esistenza di un  contrasto  insanabile  in  via  interpretativa  e,
eventualmente,  annullare  la  legge  incompatibile  con  il  diritto
comunitario» (ordinanza n. 207 del 2013; nello stesso senso si vedano
le sentenze n. 75 del 2012, n. 28 e n. 227 del  2010  e  n.  284  del
2007). 
    Ebbene,  nel  caso  in  esame,  il  Tribunale,   richiamando   la
giurisprudenza della Corte di giustizia  (sentenza  24  giugno  2010,
C-98/09,  Sorge,  punto  50;  sentenza  23  aprile  2009,   C-378/07,
Angelidaki ed altri, punti 209-211), ha ritenuto che la clausola  8.3
dell'accordo  quadro  non  sia  direttamente  produttiva  di  effetti
nell'ordinamento interno. Ha precisato di essere ben consapevole  che
in tal caso grava sul giudice nazionale l'onere  di  interpretare  il
diritto interno, per quanto possibile, in senso conforme  alle  norme
europee e tuttavia ha ritenuto che proprio l'art. 1, comma 13,  della
legge n. 92 del 2012 gli precluderebbe una tale opzione  ermeneutica.
Pertanto, correttamente il giudice a quo ha  sollevato  questione  di
legittimita' costituzionale in relazione agli artt. 11 e 117 Cost. 
    4.- Nel merito, la questione non e' fondata. 
    L'art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 dispone che  «Nei
casi di conversione del contratto a  tempo  determinato,  il  giudice
condanna  il  datore  di  lavoro  al  risarcimento   del   lavoratore
stabilendo un'indennita' onnicomprensiva nella misura compresa tra un
minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita' dell'ultima retribuzione
globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo  8
della legge 15 luglio 1966, n. 604». 
    L'art. 1, comma 13, della legge n. 92 del  2012  stabilisce:  «La
disposizione di cui  al  comma  5  dell'articolo  32  della  legge  4
novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che  l'indennita'  ivi
prevista ristora per intero il  pregiudizio  subito  dal  lavoratore,
comprese  le  conseguenze  retributive  e  contributive  relative  al
periodo compreso fra la scadenza  del  termine  e  la  pronuncia  del
provvedimento  con  il   quale   il   giudice   abbia   ordinato   la
ricostituzione del rapporto di lavoro». 
    La questione prospettata  dal  Tribunale  ordinario  di  Velletri
differisce da quelle che sono gia' state scrutinate da  questa  Corte
nella sentenza n. 303 del 2011.  Mentre  in  quell'occasione  oggetto
delle censure era soltanto l'art. 32, comma 5, della legge n. 183 del
2010, ed i parametri evocati erano individuati  negli  artt.  3,  24,
101, 102 e 111 Cost., nonche' negli artt.  11  e  117,  primo  comma,
Cost., in relazione all'art.  6  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con
legge 5 agosto 1955, n.  848  (CEDU),  l'odierno  rimettente  censura
l'art. 32, comma 5 della legge n.  183  del  2010  come  interpretato
dall'art. 1, comma 13, della legge n.  92  del  2012  per  violazione
degli  artt.  11  e  117  Cost.  in  relazione  alla   clausola   8.3
dell'accordo quadro  europeo  sul  lavoro  a  tempo  determinato.  Il
Tribunale lamenta che  tali  disposizioni,  limitando  l'entita'  del
risarcimento del  danno  spettante  al  lavoratore  per  il  caso  di
illegittima  apposizione  del  termine  al   contratto   di   lavoro,
ridurrebbero la tutela gia' riconosciuta nel  regime  previgente,  in
violazione del divieto di reformatio in peius sancito dalla normativa
comunitaria. 
    4.1.- La disamina della questione di  costituzionalita'  richiede
in via preliminare di verificare quale sia l'ambito  di  applicazione
della clausola di non  regresso  al  fine  di  stabilire  se  -  come
affermato dal rimettente - le disposizioni censurate rientrino o meno
nell'ambito di applicazione della suddetta clausola. 
    L'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, cui la direttiva
n. 1999/70/CE e' volta a dare attuazione, enuncia i principi generali
e  i  requisiti  minimi  relativi  al  lavoro  a  tempo   determinato
stabilendo, in particolare, due obiettivi,  quello  di  garantire  la
parita'  di  trattamento   ai   lavoratori   a   tempo   determinato,
proteggendoli dalle discriminazioni, e quello di prevenire gli  abusi
derivanti dall'utilizzo di una successione di rapporti  di  lavoro  a
tempo determinato. L'accordo,  peraltro,  lascia  agli  Stati  membri
l'individuazione delle modalita' dettagliate di applicazione di detti
principi e prescrizioni, al fine  di  tener  conto  delle  specifiche
realta' nazionali. 
    La clausola 8.3 precisa tuttavia che «l'applicazione del presente
accordo non costituisce un  motivo  valido  per  ridurre  il  livello
generale  di  tutela  offerto  ai  lavoratori   nell'ambito   coperto
dall'accordo stesso». 
    La Corte di giustizia dell'Unione europea ha  chiarito  che  tale
clausola non preclude ogni riduzione di  tutela  dei  lavoratori  nel
settore dei contratti a tempo determinato, ma che per  rientrare  nel
divieto di cui alla clausola in esame, tale riduzione  «da  un  lato,
dev'essere collegata con la  "applicazione"  dell'accordo  quadro  e,
dall'altro, deve avere ad oggetto il "livello generale di tutela" dei
lavoratori a tempo determinato» (Corte  di  giustizia,  ordinanza  11
novembre 2010, C-20/10, Vino,  punti  31-  32;  sentenza  Angelidaki,
punto 126; sentenza 22 novembre 2005, C-144/04,  Mangold,  punto  52;
ordinanza 24 aprile 2009, C-519-08, Koukou, punto 114). 
    Una  normativa  interna   puo'   ritenersi   collegata   con   la
«applicazione»   dell'accordo   quadro,   non   soltanto   nel   caso
dell'iniziale recepimento della direttiva n.  1999/70/CE  e  del  suo
allegato contenente l'accordo quadro, ma  anche  nel  caso  di  «ogni
misura  nazionale  intesa  a  garantire  che  l'obiettivo  da  questa
perseguito  possa  essere  raggiunto,   comprese   le   misure   che,
successivamente  al  recepimento  propriamente  detto,  completino  o
modifichino le norme nazionali gia' adottate» (ordinanza Vino,  punto
36; sentenza Mangold,  punto  51;  sentenza  Angelidaki,  punto  131;
ordinanza Koukou, punto 115). 
    Tuttavia, una «normativa nazionale non  puo'  essere  considerata
contraria a detta clausola nel caso in cui la reformatio in peius che
essa comporta non sia in  alcun  modo  collegata  con  l'applicazione
dell'accordo quadro. Cio' potrebbe avvenire qualora detta  reformatio
in peius fosse giustificata non gia' dalla  necessita'  di  applicare
l'accordo quadro, bensi' da quella di promuovere un altro  obiettivo,
distinto da detta applicazione» (ordinanza Vino, punto 37). 
    Al fine di valutare se una norma interna rientri o meno nel campo
di applicazione dell'accordo quadro, in ogni caso, «e' irrilevante il
fatto  che  lo  scopo  perseguito»  dalla  nuova  disposizione   «sia
eventualmente meno degno di tutela di quello perseguito  dall'accordo
quadro,  ossia  la  protezione  dei  lavoratori   assunti   a   tempo
determinato» (ordinanza Vino, punto 44). 
    In definitiva,  dunque,  la  clausola  8.3  dell'accordo  quadro,
nell'interpretazione fornita dal giudice europeo, non preclude in via
generale modifiche  che  possano  essere  ritenute  peggiorative  del
trattamento dei lavoratori a tempo determinato  allorche'  attraverso
di esse il legislatore nazionale  persegua  obiettivi  diversi  dalla
attuazione dell'accordo quadro. 
    4.2.- Cosi' ricostruito l'ambito di applicazione  della  clausola
di non regresso, ritiene questa Corte che le  disposizioni  censurate
esulino  da  tale  ambito  non  essendo  collegate  alla   attuazione
dell'accordo quadro, ma perseguendo scopi distinti. 
    Nella sentenza n. 303 del 2011 questa  Corte  ha  individuato  la
ratio dell'art. 32, comma 5,  della  legge  n.  183  del  2010  nella
volonta' di «introdurre un criterio di liquidazione del danno di piu'
agevole, certa ed omogenea applicazione» a  fronte  delle  «obiettive
incertezze verificatesi nell'esperienza applicativa  dei  criteri  di
commisurazione del danno  secondo  la  legislazione  previgente,  con
l'esito di risarcimenti ingiustificatamente differenziati  in  misura
eccessiva». In essa e' stato, inoltre, chiarito che l'art. 32,  comma
5, citato «non si limita a forfettizzare il  risarcimento  del  danno
dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine»,  ma  va  ad
integrare la garanzia della conversione del  contratto  di  lavoro  a
termine  in  un  contratto  di  lavoro  a  tempo  indeterminato   che
costituisce la «protezione piu' intensa che possa essere riconosciuta
ad un lavoratore precario». 
    La scelta di prevedere  un'indennita'  forfettaria  proporzionata
risponde all'esigenza di «tutela economica  dei  lavoratori  a  tempo
determinato  piu'  adeguata  al  bisogno  di  certezza  dei  rapporti
giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi  anche
al fine di superare le inevitabili divergenze applicative  cui  aveva
dato luogo il sistema previgente». 
    La finalita' perseguita con l'art. 32, comma 5,  della  legge  n.
183 del 2010, dunque, non era quella di recepire ed attuare l'accordo
quadro in materia di contratto a tempo determinato, bensi' quella  di
assicurare  la  certezza  dei  rapporti   giuridici,   imponendo   un
meccanismo semplificato e di piu' rapida definizione di  liquidazione
del danno  (evitando  accertamenti  probatori  in  ordine  alla  mora
accipiendi, all'aliunde perceptum, al percipiendum,  ecc.)  a  fronte
della illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro. 
    Analogo obiettivo e' alla base  della  norma  di  interpretazione
autentica contenuta nell'art. 1, comma 13,  della  legge  n.  92  del
2012. 
    Tale disposizione, emanata all'indomani della sentenza n. 303 del
2011, sostanzialmente recepisce l'interpretazione  costituzionalmente
orientata dell'art. 32, comma 5, della legge  n.  183  del  2010  che
quella pronuncia conteneva. Questa Corte ha infatti affermato che  il
danno forfettizzato  dall'indennita'  in  esame  «copre  soltanto  il
periodo cosiddetto  "intermedio",  quello,  cioe',  che  corre  dalla
scadenza del termine fino alla sentenza che accerta  la  nullita'  di
esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza
con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del  termine,
converte il contratto di lavoro che  prevedeva  una  scadenza  in  un
contratto di lavoro a tempo indeterminato,  e'  da  ritenere  che  il
datore di lavoro sia indefettibilmente  obbligato  a  riammettere  in
servizio  il  lavoratore  e  a  corrispondergli,  in  ogni  caso,  le
retribuzioni  dovute,  anche  in  ipotesi  di  mancata   riammissione
effettiva». 
    A fronte  delle  divergenze  interpretative  che  pur  dopo  tale
pronuncia erano emerse nella giurisprudenza di merito, il legislatore
e' intervenuto accogliendo e  rendendo  vincolante  l'interpretazione
data da questa Corte all'art. 32, comma 5, della  legge  n.  183  del
2010, allo scopo di «scoraggiare  ulteriore  contenzioso»  (cosi'  la
relazione al disegno di legge 3249 presentato al Senato il  5  aprile
2012). 
    Questi elementi consentono di  ravvisare  l'obiettivo  perseguito
dal legislatore, ancora  una  volta,  nella  esigenza  di  assicurare
certezza nella quantificazione del risarcimento del  danno  spettante
al lavoratore in caso  di  illegittima  apposizione  del  termine  al
contratto,  rendendo  cogente  la  soluzione,  gia'   prevista,   che
bilanciava le opposte pretese del lavoratore e del datore di  lavoro,
nonche' nello scoraggiare ulteriore contenzioso. 
    Se, dunque, l'intento perseguito da entrambe le  disposizioni  e'
quello  di  stabilire  un  criterio   uniforme   e   certo   per   la
quantificazione del danno allo scopo di semplificare il  contenzioso,
allora ne  consegue  che  esse  si  collocano  fuori  dall'ambito  di
applicazione della clausola 8.3 dell'accordo quadro  e  che  pertanto
non sussiste alcuna violazione di detta clausola e, conseguentemente,
degli evocati parametri costituzionali. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n.  183  (Deleghe
al Governo in materia di  lavori  usuranti,  di  riorganizzazione  di
enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori  sociali,
di  servizi  per  l'impiego,   di   incentivi   all'occupazione,   di
apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'  misure  contro  il
lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro  pubblico  e  di
controversie di lavoro), come interpretato  autenticamente  dall'art.
1, comma 13, della legge 28  giugno  2012,  n.  92  (Disposizioni  in
materia di riforma del mercato  del  lavoro  in  una  prospettiva  di
crescita), sollevata, in  riferimento  agli  artt.  11  e  117  della
Costituzione, dal Tribunale ordinario di  Velletri,  in  funzione  di
giudice del lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2014. 
 
                                F.to: 
                     Sabino CASSESE, Presidente 
                  Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2014. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI