N. 42 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 dicembre 2014

Ordinanza  del  1°  dicembre  2014  del  Tribunale  di  Catania   nel
procedimento penale a carico di Navarria Giuseppe ed altri. 
 
Reati  e  pene  -  Reati  elettorali  -  Elezioni  amministrative   -
  Propaganda   elettorale   -   Divieto   a   tutte   le    pubbliche
  amministrazioni di svolgere attivita' di  propaganda  di  qualsiasi
  genere, ancorche' inerente alla loro attivita'  istituzionale,  nei
  trenta giorni antecedenti l'inizio della campagna elettorale e  per
  tutta la durata della stessa - Trattamento sanzionatorio in caso di
  inosservanza  -  Irragionevolezza  -  Disparita'   di   trattamento
  rispetto  a  situazioni   analoghe,   a   fronte   dell'intervenuta
  abrogazione, ad opera dell'art. 5 della  legge  n.  515  del  1993,
  della norma che prevedeva analogo divieto in relazione all'elezione
  alla  Camera  dei  deputati  e  al  Senato   della   Repubblica   -
  Riproposizione di questione dichiarata manifestamente inammissibile
  dalla Corte costituzionale con l'ordinanza n. 260 del 2011. 
- Legge 25 marzo 1993, n. 81, art. 29, commi 5 e 6. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.13 del 1-4-2015 )
 
                        TRIBUNALE DI CATANIA 
 
 
                             Sezione III 
 
 
                         GIUDICE MONOCRATICO 
 
    Il Giudice, nell'ambito del procedimento penale  contro  Navarria
Giuseppe, Navarria  Francesco,  Stancanelli  Raffaele  e  Castiglione
Giuseppe, citati a giudizio per rispondere, in concorso tra loro, del
delitto previsto dall'art. 29, comma 5, in  relazione  al  successivo
comma 6, della legge 25 marzo  1993,  n.  81  (Elezione  diretta  del
sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del
consiglio  provinciale),  oltre  che  del  delitto  (teleologicamente
connesso) di cui agli artt. 61 nn. 2  e  9,  340  c.p.,  come  meglio
specificato nelle imputazioni di cui all'allegato decreto;  ai  sensi
dell'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, ha pronunziato la seguente; 
 
                              Ordinanza 
 
    Il  Tribunale  di  Catania  in  composizione   monocratica,   con
ordinanza depositata il 28 settembre 2010,  sollevava,  su  eccezione
formulata dalla  difesa,  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 29, comma 5, in relazione al comma 6, della legge n. 81 del
1993, per ritenuta violazione dell'art. 3 della Costituzione, ponendo
in evidenza  l'irragionevolezza  di  una  disposizione  che  mantiene
rilevanza penale alla violazione del divieto di propaganda elettorale
da parte delle pubbliche amministrazioni nell'ambito  delle  elezioni
amministrative, laddove la norma contenente la previsione di identico
divieto in relazione all'elezione  alla  Camera  dei  Deputati  e  al
Senato  della  Repubblica,   ha   perso   vigenza   per   intervenuta
abrogazione. 
    La Corte costituzionale, con ordinanza n. 277  del  19  settembre
2011, dichiarava la manifesta  inammissibilita'  della  questione  di
legittimita' costituzionale sollevata, rilevando, per  un  verso,  la
mancata esposizione di dati fattuali concreti, necessari a consentire
alla Corte la verifica della rilevanza della  questione  proposta  in
relazione alla fattispecie concreta e, per altro verso,  l'ambiguita'
del petitum, in  riferimento  al  tipo  di  pronuncia  auspicata  con
l'invocata declaratoria di illegittimita'. 
    Gli atti venivano restituiti, pertanto, al giudice a quo  per  la
prosecuzione  del  giudizio,  nel   corso   del   quale   l'attivita'
istruttoria, via via espletata,  veniva  rinnovata,  in  ragione  dei
mutamenti dell'organo giudicante verificatisi durante la  trattazione
del procedimento. Giunto il  giudizio  innanzi  a  questo  decidente,
nella fase conclusiva, la difesa di Navarria Francesco,  prima  della
discussione,  ha  inteso  riproporre,  come  da  articolata   memoria
depositata in atti, la gia' prospettata eccezione  di  illegittimita'
costituzionale dell'art. 29 comma 5, in relazione all'art.  6,  della
legge n. 81 del 1993, sollecitando, dunque, il Tribunale a  rinnovare
la  rimessione  della   stessa   alla   Corte   costituzionale,   con
sollecitazione a integrare l'ordinanza con la quale,  in  precedenza,
si era censurata  detta  disposizione,  di  modo  da  sopperire  alla
carenze   evidenziate   dalla    Corte    nel    pronunciamento    di
inammissibilita'.  Gli  altri  difensori  si  sono   associati   alla
richiesta. 
    Tanto premesso, ritiene il giudice di  condividere  le  doglianze
formulate dalla difesa e di sollevare la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 29, comma 5, in relazione al comma 6,  della
legge n. 81 del 1993,  per  ritenuta  violazione  dell'art.  3  della
Costituzione, stante la sua rilevanza nel giudizio pendente e la  non
manifesta infondatezza. 
    Avuto riguardo alla sussistenza del nesso di «rilevanza»  tra  la
questione proposta e la fattispecie concreta oggetto di giudizio,  e'
sufficiente osservare che l'imputazione elevata nei  confronti  degli
odierni imputati concerne la violazione  del  divieto  di  propaganda
elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni nell'ambito delle
elezioni amministrative, commessa in  occasione  delle  elezioni  del
Sindaco del Comune Catania, del  Presidente  della  Provincia  e  del
Consiglio comunale, indette per i giorni del 15 e 16 giugno 2008.  In
particolare,  a  Navarria  Giuseppe  si  contesta  di  essersi  fatto
promotore e organizzatore, nella sua qualita' di  Direttore  generale
dell'Azienda (e quindi  organo  rappresentativo  dell'ente),  di  due
incontri, svoltisi il 5 giugno 2008, nei locali del  predetto  plesso
ospedaliero, finalizzati a consentire ai coimputati (a  vario  titolo
candidati alle imminenti elezioni e tutti appartenenti a una medesima
area politica) di esporre agli astanti, opportunamente  invitati,  il
proprio programma elettorale. Il predetto avrebbe,  quindi,  messo  a
disposizione  due  sale  (nella  veste  ufficiale  di  rappresentante
dell'ente), per poi convocare, avvalendosi della propria  visibilita'
e dei propri poteri comunicativi, in orario di lavoro,  il  personale
dipendente della struttura  sanitaria,  affinche'  prendessero  parte
alla conferenza tenuta dai politici candidati. Ai coimputati Navarria
Francesco (figlio del predetto direttore generale Navarria Giuseppe e
candidato al Consiglio Comunale  di  Catania),  Stancanelli  Raffaele
(candidato  alla  carica  di  Sindaco  del  Comune  di   Catania)   e
Castiglione Giuseppe (candidato alla presidenza  della  provincia  di
Catania),  si  contesta  il   concorso   (quali   determinatoci   e/o
istigatori) nella condotta addebitata a Navarria Giuseppe, avendo gli
stessi partecipato attivamente a detti convegni, impegnandosi  ognuno
di  costoro,  in  dette   circostanze,   in   attivita'   palesemente
propagandistica  elettorale,  a  favore  proprio  e  della  lista  di
appartenenza,  nell'ovvio  intento  di   acquisire   consensi   nelle
imminenti elezioni amministrative. 
    Ebbene, lungi dal voler, in questa sede, operare anticipazioni di
giudizio, con riferimento alle responsabilita' dei singoli  imputati,
preme tuttavia osservare che i fatti, come confermati dalle acquisite
emergenze  processuali,   impongono   di   ritenere   sussistenti   i
presupposti oggettivi e soggettivi per la concreta applicabilita'  al
caso in esame della fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 29,
comma 6 della legge 25 marzo 1993 (inserita nel  testo  disciplinante
l'elezione diretta del sindaco, del presidente della  provincia,  del
consiglio comunale e del consiglio  provinciale),  che  prescrive  un
generico divieto, in periodo prossimo alle consultazioni  elettorali,
alle pubbliche amministrazioni (da intendersi in senso  istituzionale
e  ricomprendenti,  oltre  a  quelle  coinvolte  direttamente   dalle
elezioni, anche le  altre  pubbliche  amministrazioni,  nonche',  gli
enti, istituti,  aziende  dipendenti  dagli  enti  territoriali),  di
veicolare messaggi propagandistici di natura politica, con  qualsiasi
mezzo realizzate, utilizzando gli strumenti di  cui  dispongono,  che
possono peraltro avere l'effetto di avvantaggiare una parte politica,
alterando il principio della par condicio. 
    Certo e', infatti, che Navania Giuseppe,  organo  rappresentativo
di una «pubblica amministrazione» (tale essendo l'azienda  sanitaria,
da annoverarsi, a mente dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo
n. 165/2001, tra le  amministrazioni  pubbliche),  avvalendosi  delle
strutture e del personale dell'ente, in periodo  prossimo  alla  data
fissata per le competizioni elettorali (ovvero  appena  dieci  giorni
prima),   organizzava   un'iniziativa   con    valenza    palesemente
propagandistica e di carattere non neutrale, finalizzata a consentire
l'esposizione del programma elettorale a tre  candidati  di  una  ben
determinata area politica (Navarria Francesco, Stancanelli Raffaele e
Castiglione Giuseppe), i quali effettivamente  vi  prendevano  parte,
fornendo,   attraverso   comunicazioni   propagandistiche,    precise
indicazioni di voto ai numerosi elettori presenti alla conferenza dai
suddetti tenuta. 
    Da quanto esposto deriva la  sicura  e  attuale  incidenza  della
questione dedotta al procedimento in esame, atteso che,  nell'ipotesi
di condanna, la sanzione da irrogare  andrebbe  definita  nell'ambito
della cornice edittale di cui alla citata fattispecie  incriminatrice
che prevede la pena della multa da un milione a cinquanta milioni  di
lire.  L'accoglimento  da  patte  della  Consulta   della   questione
prospettata comporterebbe, invece, una pronuncia assolutoria per  non
essere piu' il fatto previsto dalla legge come reato. 
    Tanto  osservato  in  merito  alla  rilevanza   della   questione
sollevata nel giudizio pendente, questo  giudice  ritiene,  altresi',
che non  sia  manifestamente  infondata  la  delineata  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 29, comma 5,  in  relazione  al
comma 6, della legge n. 81 del 1993, in riferimento all'art. 3  della
Costituzione,  sotto  il  profilo  della  irragionevolezza  e   della
disparita' di trattamento di  identiche  situazioni  cui  da'  luogo,
giacche', esaminando il complessivo quadro normativa di  riferimento,
balza all'evidenza, per un verso, che  il  legislatore  ha  riservato
trattamenti differenziati a situazioni  del  tutto  omologhe  e,  per
altro verso, che la  previsione  della  sanzione  penale  in  materia
elettorale di cui alla norma oggetto di censura, nel  panorama  degli
illeciti  in  materia  elettorale,  rappresenta  un'ipotesi   davvero
residuale. 
    Sotto il primo versante, basti  osservare  che  l'art.  29  della
legge 25 marzo 1993 (disciplinante l'elezione  diretta  del  sindaco,
del  presidente  della  provincia,  del  consiglio  comunale  e   del
consiglio provinciale), qui oggetto di censura, prevede al  comma  5,
l'irrogazione della pena della  multa  da  lire  un  milione  a  lire
cinquanta milioni per «chiunque» contravviene al divieto  sancito  al
successivo comma 6, la' dove recita «e'  fatto  divieto  a  tutte  le
pubbliche amministrazioni di  svolgere  attivita'  di  propaganda  di
qualsiasi   genere,   ancorche'   inerente   alla   loro    attivita'
istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l'inizio della  campagna
elettorale e per la durata  della  stessa».  Il  contenuto  di  detta
disposizione era stato dal  legislatore  trasfuso,  con  formulazione
lessicalmente identica (fatta eccezione nella parte in cui  prevedeva
una deroga, sancendo «Non rientrano nel divieto del presente articolo
le  attivita'  di  comunicazione  istituzionale  indispensabili   per
l'efficace assolvimento delle finzioni proprie delle  amministrazioni
pubbliche»), nell'art. 5 della legge 10 dicembre  1993,  n.  515,  la
quale  intervenuta  a  disciplinare  le   campagne   elettorali   per
l'elezioni politiche alla Camera dei Deputati e al  Senato,  operando
un ampio intervento sul  versante  della  decriminalizzazione,  aveva
omesso di estendere la depenalizzazione a detta fattispecie (al comma
18 di detto articolo era testualmente previsto «il comma 5  dell'art.
29 della legge 25 marzo 1993, n. 81», e' sostituito dal seguente: «In
caso di inosservanza  delle  norme  di  cui  al  cornuta  1  e  delle
prescrizioni delle autorita'  di  vigilanza  si  applicano  le  norme
vigenti in materia per le elezioni alla Camera  dei  deputati  ed  al
Senato della Repubblica. Chiunque contravviene alle restanti norme di
cui al presente articolo e' punito con la multa da L. 1.000.000 a  L.
50.000.000»). 
    Senonche', successivamente, la legge 22  febbraio  2000,  n.  28,
dettando una nuova regolamentazione in materia di parita' di  accesso
ai mezzi di informazione nel  periodo  che  precede  le  elezioni  al
Parlamento europeo, le elezioni politiche, regionali e  referendarie,
nel disporre all'art. 13 l'espressa  abrogazione  del  dianzi  citato
art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (senza formulare  analoga
abrogazione in relazione all'art. 29, comma 6 della legge n.  81  del
25  marzo  1993),  ha   introdotto   una   nuova   disciplina   delle
comunicazioni  istituzionali  all'art.  9  (che  testualmente  recita
«Dalla data  di  convocazione  dei  comizi  elettorali  e  fino  alla
chiusura delle operazioni  di  voto  e'  fatto  divieto  a  tutte  le
amministrazioni pubbliche di svolgere attivita' di  comunicazione  ad
eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili
per l'efficace assolvimento delle proprie  funzioni»).  La  norma  in
questione, benche' imponga un  divieto  del  tutto  sovrapponibile  a
quello previsto dal suddetto  art.  5,  differenziandosi  solo  nella
parte relativa all'arco temporale  di  operativita'  del  divieto  in
questione  (non  piu'  fisso  ma  variabile,  in  quanto   rapportato
all'intervallo  intercorrente  tra   la   convocazione   dei   comizi
elettorali e la chiusura delle operazioni di  voto),  rappresenta,  a
ben vedere, un precetto sprovvisto di sanzioni specifiche, in  quanto
il  successivo  art.  10,  rubricato  «provvedimenti   e   sanzioni»,
disciplina,  in  generale,  le  violazioni  alla  legge  n.  28/2000,
indicando la procedura per rilevarle ed i provvedimenti riparatori di
competenza dell'Autorita' per le garanzie nelle comunicazioni,  senza
indicare una specifica sanzione per la violazione delle  disposizioni
contenute nell'art. 9 della medesima legge. 
    E' di immediata evidenza, dunque, la disimmetria di  trattamento,
a fronte di condotte  del  tutto  analoghe,  che  hanno  quale  unico
elemento specializzante lo specifico contesto in cui vengono poste in
essere (a seconda che  siano  consultazioni  a  livello  locale  o  a
livello ragionale e nazionale), a cui non sembra potersi riconnettere
una diversita' di ratio tale da giustificare  la  singolarita'  della
disciplina sanzionatoria prevista nel caso di violazione dell'obbligo
stabilito dal comma 6 dell'art. 29, riferibile alla sola  ipotesi  di
consultazioni amministrative. 
    Tale  sperequazione  di   trattamento   giuridico,   rispetto   a
violazioni  di  precetti  dal  contenuto  assimilabile,  che  risulta
confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, non
pare potersi plausibilmente giustificare facendo leva su un  presunto
diverso grado di offensivita' delle condotte, determinabile a seconda
della  dimensione  dell'ambito  territoriale  in  cui  si  svolge  la
competizione elettorale. D'altra parte, se la ragione giustificatrice
posta  a  fondamento  del  divieto  di  svolgimento  da  parte  dalle
pubbliche amministrazioni  di  propaganda  istituzionale  in  periodo
elettorale (in applicazione concreta del principio  di  imparzialita'
dell'agire amministrativo nel periodo  immediatamente  precedente  la
consultazione elettorale) e' quella volta a scongiurare il rischio di
attivita' propagandistiche ad  opera  di  amministrazioni  pubbliche,
dirette a sostenere liste o candidati  impegnati  nella  competizione
elettorale, che possono avere l'effetto di interferire con le  scelte
elettorali,  e'  incontestabile  che  tale  esigenza  di   preservare
l'imparzialita',  la  genuinita'  del  confronto  elettorale   assume
identica valenza, tanto  con  riferimento  alle  elezioni  politiche,
quanto a quelle locali. 
    La  prospettata  diversita'  per  non  essere  qualificata   come
irragionevole, dovrebbe dunque fondarsi su considerazioni  legate  al
diverso livello di attitudine lesiva di  ognuna  delle  condotte,  in
relazione  alla  pregnanza  del  bene  tutelato.  Ora,   poiche'   la
violazione  della   condotta   descritta   nella   norma   censurata,
strutturata come illecito penale, non si presta ad  un  apprezzamento
di  maggiore  offensivita'  per  l'interesse  protetto  o   di   piu'
accentuato disvalore, rispetto a  quelle  altre  situazioni  poste  a
raffronto (ovvero a quelle previste dall'art.  9  legge  22  febbraio
2000, n. 28, che rappresenta la norma da  assumere  come  termine  di
comparazione, vale a dire  il  cosiddetto  «tertium  comparationis»),
caratterizzate da coincidenza di bene protetto e di condotta, ma  pur
tuttavia   depenalizzate,   ne   discende,   ictu   oculi,   che   la
configurazione della  fattispecie  criminosa  prevista  al  comma  6,
dell'art. 29 della legge n. 81/1993, a  cui  consegue  la  previsione
della sanzione penale, si atteggia, nel sistema normativo  delineato,
come  elemento  di  ingiustificabile  disarmonia   e   irrazionalita'
(suscettibile, peraltro, di possibili effetti distonici e difficolta'
applicative nelle ipotesi di contemporaneo  svolgimento  di  campagne
elettorali afferenti a differenti forme di consultazioni). 
    L'opzione legislativa di disciplinare in modo differenziato,  sul
piano sanzionatorio, analoghe condotte, risulta, quindi, contrastante
con il principio di eguaglianza, sotto il profilo  dell'arbitrarieta'
e della manifesta irragionevolezza e pare, altresi',  contrapporsi  a
quel trend di omogeneita' a cui sembra essersi ispirato, a partire da
un certo momento, il legislatore nel disciplinare  la  materia  della
propaganda elettorale e che e' stato evidenziato dalla  stessa  Corte
costituzionale, la' dove ha affermato che tale materia «e'  stata  da
tempo caratterizzata, a partire dalla  legge  n.  212  del  1956  per
arrivare alla legge 22  febbraio  2000,  n.  28,  da  una  disciplina
sostanzialmente  applicabile  a  qualsiasi   tipo   di   competizione
elettorale, in base ad un criterio di omogeneita', non derogato dalle
modificazioni introdotte dalla legge 24 aprile 1975,  n.  130»  (cfr.
Corte costituzionale, sentenza del 25 luglio 2001,  n.  287,  con  la
quale e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale l'art.  29,
comma 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 nella parte in  cui  puniva
il fatto previsto dal comma 3 con la multa da lire un milione a  lire
cinquanta milioni, anziche' con la sanzione amministrativa pecuniaria
da lire un milione a lire  cinquanta  milioni).  Tanto  piu'  che  il
mantenimento della  configurazione  in  chiave  incriminatrice  della
violazione  del  precetto   relativo   al   divieto   di   propaganda
istituzionale  nelle  elezioni  locali,  si  pone  oramai  come   una
singolare  eccezione,  rimasta  inalterata,  a  fronte  della   larga
depenalizzazione  operata  nei  confronti   delle   misure   punitive
ricollegate all'inosservanza di gran parte dei precetti  in  materia.
Profilo,  quest'ultimo,  anch'esso  messo  in  risalto  dalla  stessa
giurisprudenza costituzionale e sottolineato nella  sentenza  citata,
nella misura in cui si e' rilevato che, nel disciplinare le  campagne
elettorali per le elezioni politiche il legislatore  ha  operato  «un
ampio  intervento  sul  versante  della  decriminalizzazione  che  ha
riguardato figure di reati in materia di propaganda  elettorale  gia'
previste dalla legge n. 212 del 1956». La Corte, a tal proposito,  ha
fatto richiamo alle osservazioni gia' espresse in seno alla  sentenza
n. 52 del 1996, con la quale era  stata  dichiarata  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 15, comma 17, della legge 10 dicembre  1993,
n. 515, nella parte in cui puniva con l'arresto e l'ammenda il  fatto
previsto dall'art. 7 della legge 24 aprile 1975,  n.  130  (Modifiche
alla disciplina della propaganda elettorale  ed  alle  norme  per  la
presentazione delle candidature e delle liste dei  candidati  nonche'
dei contrassegni nelle elezioni politiche, regionali,  provinciali  e
comunali), laddove non aveva mancato di rimarcare che in un  contesto
di complessiva decriminalizzazione, era rimasta in vigore - «per  una
probabile  dimenticanza  del  legislatore»  -  la  previsione   della
sanzione penale per la menzionata fattispecie. 
    In  definitiva,  va  ritenuta  rilevante  e  non   manifestamente
infondata  la  questione   di   legittimita'   costituzionale   della
fattispecie incriminatrice di cui all'art. 29, comma 5, in  relazione
al successivo colma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81  e,  percio',
rimettibile al vaglio di legittimita' costituzionale della  Consulta,
per contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,  invocandosi  una
pronuncia caducatoria della  norma  censurata  (nella  parte  in  cui
prevede l'irrogazione di una sanzione in caso  di  inosservanza),  in
una prospettiva di uniformita' normativa, rispetto a  previsioni  con
carattere omogeneo e depenalizzate, pena  l'arbitrarieta'  di  quelle
che ricevono un trattamento differenziato. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art.  23,  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  ritenuta  la
rilevanza e la  non  manifesta  infondatezza,  solleva  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 29, comma 5,  in  relazione  al
successivo colma 6, della  legge  25  marzo  1993,  n.  81  (Elezione
diretta del sindaco, del presidente della  provincia,  del  consiglio
comunale e del consiglio provinciale),  per  violazione  dell'art.  3
della Costituzione. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale. 
    Sospende il giudizio in corso. 
    Ordina che la presente ordinanza sia  notificata,  a  cura  della
cancelleria, al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata al
Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente  della  Camera
dei Deputati. 
        Catania, 1° dicembre 2014 
 
                 Il Giudice: dott.ssa Dorotea Catena