N. 94 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 dicembre 2014

Ordinanza  del  17  dicembre  2014  del Tribunale  di  Brindisi   nel
procedimento penale a carico di M.L.O.. 
 
Processo penale - Sospensione del procedimento con messa alla prova -
  Previsione  che  la  richiesta  "puo'  essere  proposta  fino  alla
  dichiarazione   di   apertura   del   dibattimento   nel   giudizio
  direttissimo"   -   Denunciata   introduzione    di    un    limite
  all'applicabilita'  retroattiva  della  nuova  e  piu'   favorevole
  disciplina della  messa  alla  prova  per  gli  imputati  adulti  -
  Violazione del principio di legalita' convenzionale di cui all'art.
  7 della  CEDU,  come  interpretato  dalla  Corte  di  Strasburgo  -
  Inosservanza degli obblighi internazionali. 
- Codice  di  procedura  penale,  art.  464-bis,  comma  2,  aggiunto
  dall'art. 4, comma 1, lett. a), della legge 28 aprile 2014, n. 67. 
- Costituzione, art. 117, primo comma, in relazione all'art. 7  della
  Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
  liberta' fondamentali. 
(GU n.21 del 27-5-2015 )
 
                        TRIBUNALE DI BRINDISI 
                           Sezione Penale 
 
    Ordinanza art. 23 legge cost. 11 marzo 1953 n. 87. 
    Il Tribunale  di  Brindisi,  in  composizione  monocratica  nella
persona del dott. Francesco Cacucci; 
    letti gli atti del procedimento penale in epigrafe  indicato  nei
confronti di M.L.O.  nato  ad  ...  il  ...  ed  ivi  residente  alla
effettivamente dimorante in Contrada «Costa Merlata»  s.n.c.,  difeso
di fiducia dagli Avv.ti Vito Epifani e Semeraro Angelo, imputato  dei
seguenti delitti: 
        «Capo A): artt.  81,  2°  comma,  336  1°  comma,  337  c.p.,
perche', con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno  criminoso,
usava violenza all'Ass.te  della  Polizia  di  Stato  P.V.  (pubblico
ufficiale impegnato nella ricezione delle prime  dichiarazioni  orali
rese da C.A.M. che era stata appena vittima  di  una  rapina  a  mano
armata) per costringerlo ad omettere quell'atto dell'ufficio (che  V.
era impegnato a  compiere  nella  sua  qualita'  di  capo  equipaggio
dell'unita' operativa della  Squadra  Volante  del  Commissariato  di
Pubblica Sicurezza di  Ostuni,  per  prima  giunta  sul  luogo  della
commissione  del  grave  delitto  immediatamente  dopo  la  fuga  del
rapinatore), spingendo ripetutamente e strattonando energicamente  il
V. fino  a  portarlo  all'esterno  del  «Centro  Unico  Prenotazioni»
dell'Ospedale civile di Ostuni, e, poi, spostato il corpo  di  C.A.M.
(frappostasi fra lui, da un lato, e l'Assistente  V.  e  l'Assistente
Capo F.F.,  giunto  in  soccorso  del  primo,  insieme  con  il  pari
qualifica Q.C. dall'altro),  riprendendo  a  spingere  e  strattonare
ripetutamente la persona offesa (in modo da farle perdere piu'  volte
l'equilibrio), contestualmente  cercando  di  colpirlo  al  volto  e,
inoltre, colpendolo con uno schiaffo alla guancia sinistra  -  subito
prima di spingere con decisione anche  l'Assistente  Z.,  (che  aveva
cercato di frapporsi fra lui ed il collega V.) -  e,  poi,  di  nuovo
colpendo in pieno volto il V. rimasto bloccato tra la ringhiera della
«rampa invalidi» e gli altri presenti e,  cercando  di  ulteriormente
colpirlo con  un  pugno,  non  andato  a  segno  in  conseguenza  del
risolutivo   intervento   anche    del    Sovrintendente    D.A.    e
dell''Assistente Capo A.M. i quali riuscivano finalmente a contenerlo
nonostante i violenti strattoni ancora da lui  portati  in  danno  di
tutti, in tal modo usando violenza anche nei  confronti  degli  altri
pubblici ufficiali, per opporsi loro mentre  compivano  gli  atti  di
ufficio  consistenti  nell'andare  in  soccorso  del  collega   primo
aggredito e nel reprimere la commissione dei reati gia' in  corso  di
esecuzione; in Ostuni, il 7 maggio 2012, ore 16.30 circa; 
        Capo B): artt. 81, 2° comma, 582, 1°  e  2°  comma,  585,  1°
comma 1° ipotesi, 576, 1° comma  nn.  1)  e  5-bis,  61  n.  2  c.p.,
perche', con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno  criminoso,
commettendo  il  fatto  contro  un  agente  di  polizia   giudiziaria
nell'atto dell'adempimento delle sue funzioni ed al fine di  eseguire
il delitto di violenza ad un pubblico ufficiale  contestato  sub  A),
spingendo ripetutamente  e  strattonando  energicamente  l'Assistente
della Polizia di  Stato  P.V.  (pubblico  ufficiale  impegnato  nella
ricezione delle prime dichiarazioni orali  rese  da  C.A.M.  che  era
stata appena vittima di una  rapina  a  mano  armata)  e,  dopo  vari
tentativi falliti, colpendolo con uno schiaffo alla guancia  sinistra
ed attingendolo, poi, con un secondo colpo in pieno volto,  cagionava
a V. contusioni multiple e minori dalle quali derivava  una  malattia
nel corpo guaribile in giorni cinque, salvo complicazioni; in Ostuni,
il 7 maggio 2012, ore 16.30 circa». 
 
                          Premesso in fatto 
 
    M.L.O. e' stato tratto in arresto il giorno 7 maggio  2012  nella
flagranza dei delitti in premessa indicati e  presentato  dinanzi  al
Tribunale per la convalida dell'arresto e la contestuale celebrazione
del giudizio direttissimo ai sensi dell'art. 558 c.p.p.; l'arresto e'
stato convalidato all'udienza del  9  maggio  2012,  all'esito  della
quale l'imputato ha richiesto un termine a difesa ex art.  558  comma
7° c.p.p. 
    Alla successiva udienza del 3 ottobre  2012,  e'  intervenuta  la
dichiarazione  di  apertura  del  dibattimento  con  la   conseguente
formulazione delle richieste di prova delle parti. 
    L'istruttoria dibattimentale  e'  stata  espletata  -  attraverso
l'acquisizione delle prove  orali  e  documentali  -nel  corso  delle
udienze dell'8 maggio 2013, del 4 dicembre 2013 e del 7 maggio 2014. 
    Il 17 maggio 2014 e' entrata in vigore nel nostro ordinamento  la
legge 28 aprile 2014 n. 67 (pubblicata nella G.U. n. 100 del 2 maggio
2014) che, nel Capo II, ha introdotto l'istituto  della  «sospensione
del procedimento con messa alla prova per gli imputati maggiorenni». 
    Con le nuove disposizioni  (artt.  168-bis,  168-ter,  168-quater
c.p., da 464-bis a 464-nonies, 657 c.p.p.; 141-bis  e  141-ter  disp.
att. c.p.p.), il legislatore ha previsto la «messa  alla  prova»  sia
quale causa  di  estinzione  del  reato,  sia  come  possibilita'  di
definizione alternativa del procedimento. 
    La disciplina processuale della «messa alla prova»  e'  contenuta
negli artt. 464-bis e ss.gg. c.p.p., che individua diversi termini di
decadenza per la presentazione della richiesta,  tutti  ristretti  al
giudizio di primo grado (le conclusioni  rassegnate  dalle  parti  al
termine dell'udienza  preliminare,  nel  procedimento  ordinario;  la
dichiarazione  di  apertura  del  dibattimento  di  primo  grado  nel
giudizio direttissimo e  nel  procedimento  di  citazione  diretta  a
giudizio; quindici giorni dalla notificazione del decreto di giudizio
immediato all'imputato o dalla comunicazione del relativo  avviso  al
difensore, nei  casi  di  giudizio  immediato;  il  medesimo  termine
previsto dall'art. 461 c.p.p. per l'opposizione, nei procedimenti per
decreto). 
    La legge n. 67/2014 non contiene una disciplina transitoria. 
    All'udienza  dell'11  giugno  2014  (la  prima  utile  successiva
all'entrata in vigore della legge n.  67/2014)  fissata  per  l'esame
dell'imputato  e  la  discussione  di  tutte  le  parti  processuali,
l'imputato M., assistito dal proprio difensore, ha avanzato richiesta
di «sospensione del procedimento con messa alla prova» ai  sensi  del
richiamato art. 464-bis c.p.p.; all'istanza e' stata allegata -  come
previsto dall'art. 464-bis comma 4)  secondo  periodo  c.p.p.  -  una
«richiesta di elaborazione di un programma  di  trattamento  ex  art.
168-bis c.p. e 464-bis c.p.p.»,  indirizzata  all'Ufficio  esecuzione
penale esterna di Brindisi in  data  6  giugno  2014  e  relativa  ad
entrambe le fattispecie delittuose in contestazione. 
    Il  Tribunale,  su  richiesta  della  difesa,  ha   disposto   la
sospensione del dibattimento con rinvio all'udienza del 22  settembre
2014; tanto, anche: 
        a) in ragione dell'avvenuto superamento del termine stabilito
dall'art. 464-bis comma 2° c.p.p. («la richiesta puo' essere proposta
... fino alla dichiarazione di apertura  del  dibattimento  di  primo
grado nel giudizio  direttissimo»)  e  dell'assenza  nella  legge  n.
67/2014 di una disciplina transitoria riguardante i procedimenti  per
i  delitti  previsti  dall'art.  168-bis   c.p.   che,   al   momento
dell'entrata in vigore della normativa sulla «messa alla  prova»  per
gli imputati adulti, avessero gia' superato le fasi processuali entro
le quali puo' essere richiesta la  sospensione  del  procedimento  ex
art. 464 comma 1° c.p.p.; 
        b)  ritenuta  la  necessita'  di  valutare   l'applicabilita'
dell'istituto della «messa alla prova» anche ai processi in corso, in
virtu' del  principio  di  retroattivita'  della  legge  penale  piu'
favorevole al reo contenuto nell'art. 2 comma 2° c.p. e 7 CEDU,  come
interpretato dalla Corte EDU nella sentenza della G.C.  17  settembre
2009 (Scoppola c/ Italia). 
    All'udienza del 22 settembre 2014 l'imputato  ha  depositato  una
proposta di «programma di  trattamento»  elaborato  dall'U.E.P.E.  di
Brindisi ai sensi dell'art. 464-bis comma 4°  c.p.p.,  reiterando  la
richiesta di sospensione del procedimento con messa  alla  prova;  il
Pubblico  Ministero  ha  espresso  parere  sfavorevole   enunciandone
oralmente le ragioni. 
    Il Tribunale  si  e'  riservato  la  decisione  con  rinvio  alla
successiva udienza del 17 dicembre 2014. 
    A  scioglimento  della  riserva,  ritiene  il  Tribunale  doversi
sollevare  d'ufficio  questione  di  legittimita'  costituzionale  in
relazione  all'art.  117,  1°  comma,  Cast.  ed  all'art.  7   della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955 n. 848 (d'ora in avanti «CEDU»), come interpretato  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo, con riferimento all'art. 464-bis comma
2° c.p.p., nella parte in cui prevede che la richiesta di sospensione
del procedimento con messa alla prova «puo' essere proposta fino alla
dichiarazione   di   apertura   del   dibattimento    nel    giudizio
direttissimo». 
    In punto di rilevanza della questione, sussistono  i  presupposti
per l'applicazione dell'istituto previsti dagli artt.  168-bis  c.p.,
464-bis comma 4° e 464-ter comma 4° c.p.p., in quanto: 
        i reati oggetto di contestazione al  capo  A)  della  rubrica
(artt. 336 e 337 c.p.) rientrano tra quelli  elencati  nell'art.  550
comma 2° c.p.p. per i quali il Pubblico Ministero  esercita  l'azione
penale con citazione diretta a giudizio; 
        il delitto di cui all'art. 582 c.p.  (contestato  sub  B)  e'
punito con la pena della reclusione sino a tre anni, ossia  con  pena
inferiore al limite edittale stabilito dall'art. 168-bis c.p.,  comma
1°, per l'accesso all'istituto («reati puniti con  la  pena  edittale
detentiva non superiore,  nel  massimo,  a  quattro  anni»);  invero,
l'esplicito riferimento contenuto nella norma unicamente  alla  «pena
edittale»  porta  a  ritenere  che  ai  fini  della  ricorrenza   del
presupposto formale stabilito dall'art. 168-bis comma 1° c.p. non  si
debba tener conto delle circostanze  aggravanti  contestate  o  delle
circostanze  attenuanti  eventualmente  riconoscibili;  nello  stesso
senso, peraltro, depone il mancato riferimento nella norma - ai  fini
della determinazione  del  limite  di  pena  previsto  per  l'accesso
all'istituto - all'eventuale concorso  di  circostanze  attenuanti  o
aggravanti, diversamente da quanto accade in altre  disposizioni  del
codice di rito (artt. 33-bis comma 2° e 266, comma 1° lett.  A  e  B,
che rimandano all'art. 4 c.p.p.; 278 c.p.p., 379 c.p.p.; 550 comma 1°
c.p.p.)  in  cui  ai  fini  della  determinazione   della   pena   e'
espressamente prevista la necessita' della  valutazione  anche  delle
circostanze aggravanti ad effetto speciale o  di  talune  circostanze
aggravanti e attenuanti comuni; 
        il limite oggettivo stabilito dall'art. 168-bis comma 1° c.p.
non e' determinato  attraverso  il  riferimento  alla  pena  edittale
complessiva (come  accade,  ad  esempio,  nell'art.  444  c.p.p.  per
l'accesso  al  rito  del   patteggiamento),   prevedendo   la   norma
l'indicazione dei «procedimenti per reati puniti» con  la  sola  pena
pecuniaria o con pena edittale non superiore nel  massimo  a  quattro
anni, nonche'  ai  «delitti  indicati  nel  comma  2°  dell'art.  550
c.p.p.»; da tanto deriva la  possibilita'  di  accedere  all'istituto
premiale anche in caso di cumulo, all'interno  del  procedimento,  di
piu' reati rientranti nella previsione normativa ma con pena edittale
complessiva superiore alla soglia indicata; 
        il  contenuto  del  «programma  di   trattamento»   elaborato
d'intesa con l'U.E.P.E. di Brindisi si presenta conforme  al  modello
legale del «contenuto della prova» indicato negli artt. 168-bis  c.p.
e 464-bis, 464-ter e 464-quater c.p.p. e  ne  soddisfa  i  requisiti,
prevedendosi in particolare: 
          a) lo svolgimento di un'attivita'  di  volontariato  presso
l'Associazione sportiva ASD Ostuni 1945;  tale  ente,  peraltro,  con
dichiarazione del 6 giugno 2014 depositata unitamente alla  richiesta
di  sospensione  del  procedimento,  aveva  comunicato  la   «propria
disponibilita'  affinche'  il  M.  ...   possa   svolgere   attivita'
socialmente utile presso la nostra  sede  in  Ostuni»;  nella  stessa
dichiarazione, il rappresentante  di  detta  Associazione  comunicava
l'avvio, con il concerto  dell'Assessorato  ai  Servizi  sociali  del
Comune  di  Ostuni,  di  un  progetto  per  la  «socializzazione   ed
aggregazione per ragazzi di nazionalita' estera (Albania e Marocco)»;
ininfluente, in proposito, appare la circostanza valorizzata dal P.M.
che  il  M.   rivesta   attualmente   la   qualifica   di   dirigente
dell'Associazione  sportiva  indicata,  poiche'  il   «programma   di
trattamento»  prevede  la  propria  partecipazione   -   secondo   un
calendario prestabilito - alle iniziative dell'associazione medesima,
nella prospettiva dell'assunzione di un ruolo attivo e non  meramente
formale; mette conto segnalare, in ogni caso, che in data 9  dicembre
2014 il  M.  ha  depositato  una  «dichiarazione  di  disponibilita'»
dell'U.S. Lightning-Pallavolo di Ostuni a consentire allo  stesso  M.
di espletare attivita' di volontariato presso  la  predetta  societa'
con «mansioni organizzative o di segreteria»; l'U.E.P.E. di  Brindisi
ha aderito alla proposta di modifica del programma di trattamento nel
senso indicato dall'imputato; 
          b) lo svolgimento di lavoro di pubblica utilita' presso  il
Servizio Emergenza Radio  di  Ostuni,  mediante  «lo  svolgimento  di
disbrigo pratiche di segreteria»; in proposito si osserva che  l'art.
168-bis c.p. non esige che gli enti e le organizzazioni  beneficiarie
delle prestazioni dell'imputato da ammettere alla  messa  alla  prova
siano legate da un rapporto di convenzione con l'Amministrazione, ne'
richiama il D.M. 26 marzo 2001 che prevede l'obbligo per  il  giudice
di attingere all'elenco degli enti convenzionati; 
        il M. si e' concretamente attivato per  il  risarcimento  dei
danni arrecati alla persona offesa V.P., ossia il pubblico  ufficiale
che ha riportato le lesioni personali in contestazione  al  capo  B);
l'imputato  ha,  infatti,  prodotto  un  «verbale  di  remissione  di
querela» in data 11 giugno 2014 in cui il V. ha dichiarato «di  voler
rimettere a tutti gli effetti di legge la querela  presentata  presso
il Commissariato di P.S. di Ostuni in data 7 maggio 2012  ...  contro
M.L.O.»,  dichiarando  altresi'  di   essere   stato   «integralmente
risarcito dall'Avv. M.L.O. di ogni danno  subito  in  dipendenza  dei
fatti per cui era querela»; ulteriormente indicativa  della  volonta'
dell'imputato di porre rimedio  alle  conseguenze  dannose  derivanti
dalle proprie condotte  e'  la  circostanza  che  -  nell'ambito  del
procedimento penale n. 61/2014 R.G. che lo vendeva  imputato  per  il
delitto di cui all'art. 341-bis c.p. consumato  sempre  il  giorno  7
maggio 2012 nel medesimo contesto  dei  fatti  oggetto  del  presente
procedimento - egli ha beneficiato  della  causa  di  estinzione  del
reato prevista  dalla  norma  incriminatrice  violata  a  seguito  di
integrale risarcimento del danno nei confronti delle  persone  offese
(tutti gli agenti della Polizia di Stato intervenuti) e dell'ente  di
appartenenza dei medesimi (il Ministero dell'interno  -  Questura  di
Brindisi; cfr. sentenza n. 373 emessa in data  4  febbraio  2014  dal
Tribunale di Brindisi); 
        sulla base dei parametri indicati  dall'art.  133  c.p.  puo'
formularsi un giudizio di  idoneita'  del  programma  di  trattamento
presentato, nonche' una prognosi  favorevole  circa  il  pericolo  di
recidiva  nel  reato  da  parte   dell'imputato;   tanto   anche   in
considerazione del proprio stato di  incensuratezza  e  delle  stesse
modalita'  dei  fatti  contestati,  connotati  da  dolo  d'impeto  e,
percio', da ritenersi del tutto occasionali (C.A.M., ossia la vittima
dalla rapina che gli agenti della Polizia di Stato erano  intenti  ad
ascoltare  per  assumere  le  prime  informazioni  sull'accaduto,  e'
coniuge del M.); 
        non ricorrono le cause ostative  previste  dagli  artt.  102,
103, 104, 105 e 108 c.p., ne' allo stato ricorre l'evidenza manifesta
tale da giustificare la pronuncia di una sentenza ai sensi  dell'art.
129 c.p.p.; 
        l'imputato, per ovvie ragioni, non  ha  gia'  beneficiato  di
tale causa di estinzione del reato. 
    Sulla scorta delle considerazioni che precedono,  il  M.  avrebbe
potuto accedere alla messa alla prova in relazione a tutti i  delitti
oggetto di contestazione se, al momento dell'entrata in vigore  della
legge 28 aprile 2014 n. 67, non  fosse  gia'  stato  oltrepassato  il
termine di decadenza stabilito dall'art. 464-bis comma 2° c.p.p.  con
riferimento al giudizio direttissimo. 
    La norma oggetto di impugnazione (cioe' l'art. 464-bis  comma  2°
c.p.p.) introduce, quindi, un limite  all'applicabilita'  retroattiva
della nuova e piu' favorevole disciplina della «messa alla prova» per
gli  imputati  adulti,  allorche',   al   momento   dell'introduzione
dell'istituto premiale, sia stata superata la fase processuale  entro
la quale la sospensione del procedimento con la messa alla prova puo'
essere richiesta dall'imputato. 
    Osservato,  in  punto  di  non   manifesta   infondatezza   della
questione. 
    In numerose pronunce la Corte costituzionale ha affermato che  il
principio di retroattivita' della disposizione penale piu' favorevole
al reo - previsto a livello di legge ordinaria dall'art. 2, commi 2°,
3° e 4° c.p. - non e' stato costituzionalizzato dall'art. 25 comma 2°
Cost. - che  si  limita  a  sancire  l'irretroattivita'  delle  norme
incriminatrici e, in generale,  delle  norme  penali  piu'  severe  -
bensi' dall'art. 3 Cost. (C. cost. n. 394/2006). 
    In questa prospettiva, il richiamato principio e'  derogabile  ad
opera della legislazione  ordinaria,  allorche'  ricorra  una  valida
ragione giustificativa connessa alla salvaguardia di  controinteressi
di analogo rilievo costituzionale; cosi', ad esempio,  la  deroga  al
principio  di  retroattivita'  della  legge  penale  piu'  favorevole
introdotta  dalla  c.d.  «Legge  ex  Cirielli»  nella  parte  in  cui
escludeva l'operativita' dei  nuovi  e  piu'  favorevoli  termini  di
prescrizione per i procedimenti pendenti in grado  di  appello  o  di
cassazione, e' stata giustificata - e dunque non e'  irragionevole  -
dall'interesse   di   «evitare   la   dispersione   delle   attivita'
processuali» gia' svolte nei precedenti gradi di giudizio,  ossia  di
un interesse di rilievo costituzionale  connesso  «all'efficienza  ed
alla  salvaguardia  dei  diritti  dei  destinatari   della   funzione
giurisdizionale» (C. cost. n. 72/2008). 
    Il  principio  di  retroattivita'   della   legge   penale   piu'
favorevole,  come  e'  noto,  e'  riconosciuto  anche   dal   diritto
internazionale e comunitario,  in  particolare  dall'art.  15,  primo
comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici
- adottato a  New  York  il  16  dicembre  1966,  ratificato  e  reso
esecutivo con la legge 25 ottobre 1977 n. 881 - e dall'art. 49, comma
1°,  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione   europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e successivamente recepita  dal
Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull'Unione europea  e
del Trattato che istituisce la Comunita' europea, entrato  in  vigore
il 1° dicembre 2009, che le ha attribuito lo stesso valore  giuridico
dei trattati. 
    Ancor prima dell'entrata  in  vigore  del  Trattato  di  Lisbona,
peraltro, la Corte di giustizia dell'Unione  europea  aveva  ritenuto
che il principio della retroattivita' della lex mitior facesse  parte
delle tradizioni costituzionali comuni degli  Stati  membri  e,  come
tale,  dovesse  essere  considerato  parte  integrante  dei  principi
generali del diritto comunitario di cui la Corte di giustizia  stessa
garantisce il rispetto e che  il  giudice  nazionale  deve  osservare
quando  applica   il   diritto   nazionale   adottato   per   attuare
l'ordinamento comunitario  (sentenza  3  maggio  2005,  Berlusconi  e
altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02; tale principio  e'
stato successivamente ribadito dalle sentenze 11 marzo  2008,  Jager,
C-420/06, e 28 aprile 2011, El Dridi, C-61/11). 
    La discussione sul fondamento costituzionale del principio  della
retroattivita' della legge penale favorevole e sui margini della  sua
derogabilita' ha subito un significativo  impulso  con  la  pronuncia
della nota sentenza della Grande Camera della Corte EDU 17  settembre
2009 (Scoppola c/ Italia): per la prima volta e' stato affermato  che
l'art. 7 par. 1 della Convenzione  non  sancisce  solo  il  principio
dell'irretroattivita' delle leggi penali piu' severe, ma anche quello
della retroattivita' della  legge  penale  meno  severa  (succedutasi
dalla commissione del fatto e sino al passaggio  in  giudicato  della
sentenza di condanna), traducendosi nella norma secondo la quale,  se
la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le
leggi penali posteriori adottate  prima  della  pronuncia  definitiva
sono diverse, il giudice deve applicare quella  le  cui  disposizioni
sono piu'  favorevoli  all'imputato  (questo  orientamento  e'  stato
confermato nella successiva sentenza  27  aprile  2010,  Morabito  c/
Italia). 
    Il principio in questione, per  quanto  stabilito  dall'art.  15,
par. 2°, CEDU, assume valore  assoluto  ed  inderogabile,  come  tale
insuscettibile di subire limitazioni o  restrizioni  ad  opera  delle
autorita'  statali   dettate   dall'esigenza   di   salvaguardia   di
concorrenti interessi generali. 
    Tanto premesso, la  giurisprudenza  costituzionale  ha,  in  piu'
occasioni, stabilito che le norme della CEDU - nel  significato  loro
attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo,  specificamente
istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art.  32,
paragrafo  1)  -integrano,  quali  norme  interposte,  il   parametro
costituzionale espresso dall'art. 117, comma 1° Cost., nella parte in
cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai  vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali (sentenze n. 113 e n.  1  del
2011, n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010, n. 317 e n. 311 del 2009,  n.
39 del 2008; sulla perdurante validita' di questa ricostruzione  dopo
l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona  del  13  dicembre  2007,
sentenza n. 80 del 2011). 
    La Corte ha, inoltre,  chiarito  che  l'art.  117,  primo  comma,
Cost., ed in particolare l'espressione «obblighi  internazionali»  in
esso contenuta" si riferisce «alle norme internazionali convenzionali
anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt.  10  ed
11 Cost. Cosi'  interpretato,  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.  ha
colmato la lacuna prima esistente rispetto alle norme che  a  livello
costituzionale    garantiscono    l'osservanza     degli     obblighi
internazionali pattizi. La conseguenza e' che  il  contrasto  di  una
norma nazionale con una norma  convenzionale,  in  particolare  della
CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117,  comma  1°,  Cost.»
(sentenza n. 311/2009). 
    Pertanto, il principio di retroattivita' in mitius ha assunto una
propria autonomia e,  attraverso  l'art.  117,  comma  1°  Cost.,  ha
acquistato un nuovo fondamento con l'interposizione dell'art. 7  CEDU
come interpretato dalla Corte di Strasburgo (C. cost. n. 393/2006). 
    Il complesso delle garanzie stabilite dall'art. 7 CEDU si applica
alla norme di diritto penale sostanziale  (cioe'  alle  «disposizioni
che definiscono i reati e le pene che li reprimono»), nel cui  novero
la sentenza Scoppola ha ricondotto l'art. 442 c.p.p., sul rilievo che
«la qualifica nel diritto interno del testo di legge interessato  non
puo' essere determinante. In effetti, se e' vero che gli  artt.  438,
441-443 descrivono il campo di applicazione e le fasi processuali del
giudizio abbreviato,  rimane  comunque  il  fatto  che  il  comma  2°
dell'art. 442 e' interamente dedicato alla severita'  della  pena  da
infliggere... . Alla luce di quanto precede,  la  Corte  ritiene  che
l'art. 442 comma 2° c.p.p. sia una  disposizione  di  diritto  penale
materiale riguardante la severita' della pena da infliggere  in  caso
di condanna secondo il rito  abbreviato.  Essa  ricade,  dunque,  nel
campo di applicazione dell'ultimo  capoverso  dell'art.  7,  par.  1,
della Convenzione». 
    L'esigenza della verifica dell'effettivo carattere  «sostanziale»
della norma penale oggetto di scrutinio e, come tale, suscettibile di
rientrare «nella protezione  offerta  dall'art.  7  CEDU»,  e'  stata
ulteriormente ribadita dalla Corte EDU nella sentenza «Del Rio  Prada
c/ Spagna». 
    Nell'occasione, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilita'  con
l'art. 7 CEDU della c.d. «doctrina Parot» (si trattava di un  diverso
e  successivo   orientamento   espresso   dalla   giurisprudenza   di
legittimita'  spagnola  circa  l'applicazione  di   alcuni   benefici
penitenziari), la Corte di Strasburgo ha confermato che: 
        «per rendere effettiva la protezione offerta dall'articolo 7,
la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare
da sola se una particolare misura equivale in sostanza a  una  "pena"
ai sensi di questa disposizione (si vedano Welch, sopra citata, § 27,
e Jamil, sopra citata, § 30)». 
    L'istituto della «sospensione del procedimento  con  messa  della
prova» per gli imputati adulti  introdotto  dalla  legge  n.  67/2014
cumula sia profili  di  carattere  sostanziale  (trattandosi  di  una
«nuova causa di estinzione  del  reato  inserita  nel  codice  penale
conseguente  all'adempimento  di  un  programma  che  implica  misure
limitative  della  liberta'  del   soggetto»),   che   di   carattere
processuale  («avendo  il  legislatore  previsto  specifici   momenti
processuali per la proposizione della richiesta»). 
    In questo senso si sono espressi sia  alcuni  giudici  di  merito
(Tribunale di Torino, ordinanza del  21  maggio  2014,  Tribunale  di
Genova, ordinanza del 7 ottobre 2014; Corte di  Appello  di  Lecce  -
Sezione distaccata di Taranto del 4 dicembre 2014), sia la  Corte  di
cassazione, Sezione IV che, con  ordinanza  del  9  luglio  2014,  ha
rimesso alle Sezioni Unite la questione  relativa  all'ammissibilita'
nel  giudizio  di  cassazione  della  richiesta  di  sospensione  del
procedimento con messa alla prova. 
    Nella citata pronuncia, la Corte ha, nondimeno,  evidenziato  che
«gli effetti di  carattere  sostanziale  dell'istituto...  potrebbero
deporre per  una  interpretazione  estensiva  della  norma  ai  fatti
pregressi  ed  ai  procedimenti  pendenti,  sia  per   l'applicazione
dell'art. 2, comma 4°,  c.p.  sia  per  coerenza  alla  significativa
evoluzione della giurisprudenza sul principio di retroattivita' della
lex mitior, alla luce delle fonti internazionali e comunitarie e  dei
principi affermati dalla Corte di Strasburgo,  che  hanno  portato  a
mitigare anche il  principio  di  intangibilita'  del  giudicato  (v.
Sezioni Unite, 24 ottobre 2013, 7 maggio 2014, n. 18821, Ercolano)». 
    Il  Giudice  di  legittimita'   ha,   altresi',   richiamato   la
giurisprudenza costituzionale in forza della quale anche il principio
di retroattivita' della lex mitior puo' subire deroghe o  limitazioni
alla   sua   operativita',   quando   siano   sorrette   da    valida
giustificazione (C. cost. n. 236/2011), pur avvertendo che  «ritenere
l'inapplicabilita' della messa alla prova ai processi in corso che si
trovano in una fase processuale successiva a  quelle  indicata  negli
artt. 464-bis e 464-ter c.p.p. rischierebbe di dare ingresso  ad  una
disparita' di trattamento tra gli imputati il  cui  processo  risulta
pendente in primo grado nella fase anteriore  alla  dichiarazione  di
apertura del dibattimento, che  possono  avvalersi  di  questo  nuovo
istituto, e gli imputati il cui processo si trova in  una  fase  piu'
avanzata». 
    «Tale soluzione», continua la Corte, «contrasterebbe  con  l'art.
2, comma 4°, c.p. in tema di retroattivita' della lex mitior che, pur
avendo rango diverso dal principio di  irretroattivita'  della  norma
incriminatrice, di cui all'art. 25, comma 2°, Cost., non e' privo  di
fondamento costituzionale. Questo fondamento e' stato individuato nel
principio di  eguaglianza,  che  impone,  in  linea  di  massima,  di
equiparare  il  trattamento  sanzionatorio  dei  medesimi  fatti,   a
prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi  prima  o
dopo l'entrata in vigore  della  norma  che  ha  disposto  l'abolitio
criminis  o  la  modifica  mitigatrice  (v.  sentenza   della   Corte
costituzionale n. 236/11)». 
    Al  principio  di  eguaglianza  -  come  primario  parametro   di
riferimento per valutare  la  compatibilita'  della  nuova  causa  di
estinzione del reato con l'attuale assetto costituzionale  -  rimanda
in termini espliciti anche la pronuncia n. 25627 del 31 luglio  2014,
con cui la Corte di cassazione ha  affermato  l'inapplicabilita'  nel
giudizio di cassazione della sospensione del procedimento  con  messa
alla prova di cui agli artt. 3 e 4 legge n. 67/2014: 
        «La Corte costituzionale ha prima ricordato che,  secondo  la
propria giurisprudenza, "il principio di eguaglianza costituisce  non
solo il fondamento ma anche il limite dell'applicabilita' retroattiva
della lex mitior». Mentre  il  principio  di  irretroattivita'  della
norma penale sfavorevole, infatti, costituisce un valore assoluto  ed
inderogabile, quella della retroattivita' in mitius  e'  suscettibile
di limitazioni e deroghe  legittime  sul  piano  costituzionale,  ove
sorrette  da  giustificazioni  oggettivamente   ragionevoli   e,   in
particolare,  dalla  necessita'  di  preservare  interessi,  ad  esso
contrapposti, di analogo rilievo». 
    Tali interessi, nel caso in questione,  sono  individuabili  «con
riferimento   ai   valori   costituzionali   dell'efficienza    della
giurisdizione e della ragionevole durata del processo»,  dal  momento
che «i contesti  processuali  del  processo  che  non  sia  giunto  a
sentenza in primo grado e  di  quelli  che  si  trovano  in  fase  di
impugnazione» sono «assolutamente, strutturalmente  e  dal  punto  di
vista sistematico, del tutto differenti e non»  permettono  «di  dare
applicazione  retroattiva  alla  nuova  disciplina,  a  cio'  potendo
giungersi  solo  con  esplicita,  specifica  ed   articolata   scelta
sistematica   del   legislatore,    con    un'eventuale    disciplina
transitoria». 
    Secondo  questa  impostazione,  deve   percio'   ritenersi,   non
presenterebbe profili di «irragionevolezza»  l'eventuale  ampliamento
dell'ambito applicativo dell'istituto a tutti i procedimenti di primo
grado che - pur avendo superato  la  dichiarazione  di  apertura  del
dibattimento - non siano stati ancora definiti con sentenza,  il  che
rimanda alle argomentazioni contenute nella sentenza n. 393/2006  con
cui   la   Corte   costituzionale   ha   dichiarato    la    parziale
incostituzionalita' dell'art.  10,  comma  2°,  legge  n.  251/05  in
relazione alle parole «dei processi gia' pendenti in primo grado  ove
vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento». 
    Tuttavia non puo' mancarsi  di  ribadire  che,  come  evidenziato
dalla dottrina,  a  partire  dalla  sentenza  «Scoppola»  lo  «status
costituzionale»  della  retroattivita'  della   norma   penale   piu'
favorevole     deriva     non     piu'      dal      solo      canone
dell'eguaglianza-ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., ma  anche  e
soprattutto - per  effetto  dell'intermediazione  dell'art.  117,  1°
comma, Cost. - dall'art. 7 CEDU, le cui, disposizioni, come premesso,
rientrano tra quelle non derogabili dagli ordinamenti interni neppure
in situazioni di emergenza (art. 15 CEDU). 
    Alla luce dei principi affermati in «Scoppola», quindi, anche  il
principio della retroattivita' della lex  mitior  gode  del  medesimo
canone di assolutezza previsto per il divieto della  irretroattivita'
in peius, nei limiti riconosciuti dalla Corte europea, ossia riguardo
alla successione di «disposizioni che definiscono i reati e  le  pene
che li reprimono» intervenuta  prima  della  sentenza  definitiva  di
condanna. 
    A tal proposito, con la sentenza n.  393/2006  -  riguardante  la
declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma transitoria
contenuta nella legge c.d. «ex Cirielli» in materia  di  applicazione
della nuova disciplina della prescrizione - la  Corte  costituzionale
aveva  precisato  che  l'ambito  di  operativita'  del  principio  di
retroattivita'  in  mitius  non  deve  essere  limitato   alle   sole
disposizioni concernenti la misura della pena, ma va esteso  a  tutte
le norme sostanziali  che,  pur  riguardando  profili  diversi  dalla
sanzione in  senso  stretto,  incidono  sul  complessivo  trattamento
riservato al reo; infatti, «la norma del codice penale (che  sancisce
la regola generale della retroattivita' della lex mitior) deve essere
interpretata,  ed   e'   stata   costantemente   interpretata   dalla
giurisprudenza di questa Corte (e da  quella  di  legittimita'),  nel
senso che la locuzione  «disposizioni  piu'  favorevoli  al  reo»  si
riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla
disciplina di una fattispecie  criminosa,  ivi  comprese  quelle  che
incidono sulla prescrizione del reato». 
    Ebbene, sulla scorta delle  considerazioni  che  precedono  -  in
particolare delle richiamate sentenze «Scoppola» e  «Del  Rio  Prada»
che hanno considerato irrilevante  la  qualifica  come  «processuale»
attribuita dal diritto interno a norme in realta' idonee ad  incidere
sul  trattamento  sanzionatorio  -  non  puo'  negarsi  la   spiccata
prevalenza della natura «sostanziale» in ambito  convenzionale  delle
nuove norme sulla «messa alla prova» di cui  alla  legge  n.  67/2014
che, introducendo un istituto idoneo a  condurre  all'estinzione  del
reato,  sono  suscettibili   di   incidere   in   termini   oltremodo
significativi sulla punibilita' dell'autore della condotta  illecita,
ed in particolare sull'an della risposta punitiva dell'ordinamento. 
    Il carattere prevalentemente sostanziale dell'istituto si evince,
peraltro, dalle finalita' che hanno accompagnato la sua introduzione,
individuabili non solo in ragioni deflattive ma anche nelle  esigenze
specialpreventive e risocializzatrici come emerge  dalla  centralita'
della previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilita'. 
    Il Tribunale non ignora la posizione della  Corte  costituzionale
sul tema della retroattivita'  in  mitior  della  legge  penale  piu'
favorevole, espressa con la sentenza n. 236/2011 (con tale  pronuncia
e'  stata  dichiarata  non  fondata  la  questione  di   legittimita'
costituzionale relativa all'inapplicabilita' della  disciplina  sulla
prescrizione introdotta dalla legge n. 251/05 ai processi pendenti in
grado di appello o in cassazione). 
    Nell'occasione, la Consulta ha affermato la  «derogabilita'»  del
principio di retroattivita' della norma piu' favorevole  -  anche  al
metro dell'art. 117 comma 1° Cost. e, tramite esso, all'art.  7  CEDU
come interpretato  dalla  Corte  di  Strasburgo  -  «in  presenza  di
particolari ragioni giustificative», nel caso di  specie  ravvisabili
nella tutela di  «interessi  di  rilievo  costituzionale  sottesi  al
processo», come «la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti  dei
destinatari della funzione giurisdizionale,  oltre  al  principio  di
effettivita' del diritto penale». 
    A questa conclusione il giudice  delle  leggi  e'  pervenuto  sul
rilievo, tra gli altri, che nella sentenza «Scoppola» «nulla la Corte
ha detto per far  escludere  la  possibilita'  che,  in  presenza  di
particolari situazioni, il  principio  di  retroattivita'  in  mitius
subisca deroghe o limitazioni»; del resto, si e' fatto osservare,  la
sentenza della Corte europea riconosce essa stessa un limite  -quello
del giudicato - all'operativita' del principio in questione, da tanto
derivando l'implicita affermazione della sua non assolutezza. 
    Tuttavia, nella stessa pronuncia i giudici  costituzionali  hanno
riconosciuto «al principio di retroattivita' in  mitius  una  propria
autonomia», poiche' detto principio «ha ora, attraverso  l'art.  117,
primo   comma,   Cost.,   acquistato   un   nuovo   fondamento    con
l'interposizione dell'art. 7 CEDU, come interpretato dalla  Corte  di
Strasburgo». 
    Ed  allora,  dal  nuovo  rango  convenzionale  e   costituzionale
assegnato al richiamato principio non puo' non  farsi  discendere  la
conseguenza - evidenziata da autorevole e  condivisibile  dottrina  -
che eventuali deroghe a detto principio potrebbero giustificarsi solo
in ragione della tutela di «contro interessi  di  rango  omogeneo  al
diritto  fondamentale  cui  si  intende  eccettuare»;  l'integrazione
attraverso il parametro dell'art. 117,  comma  1°  Cost.  indurrebbe,
cosi', ad escludere che il principio della retroattivita'  della  lex
mitior possa  essere  bilanciato  rispetto  a  contrapposte  esigenze
«connesse  a  fattori  interni  allo   svolgimento   della   funzione
giurisdizionale»  ed  eventualmente  sacrificato  rispetto   a   tali
istanze. 
    D'altra parte, e in senso generale, nella sentenza n. 317/2009 la
Corte costituzionale aveva  chiarito  che,  «con  riferimento  ad  un
diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi  internazionali  non
puo' mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a  quelle
gia' predisposte dall'ordinamento interno, ma puo' e deve, viceversa,
costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa.  Se
si  assume  questo  punto  di  partenza  nella  considerazione  delle
interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, si arriva
facilmente alla  conclusione  che  la  valutazione  finale  circa  la
consistenza effettiva della tutela in singole fattispecie  e'  frutto
di  una  combinazione  virtuosa  tra  l'obbligo   che   incombe   sul
legislatore nazionale di adeguarsi ai principi  posti  dalla  CEDU  -
nella sua interpretazione  giudiziale,  istituzionalmente  attribuita
alla  Corte  europea  ai  sensi  dell'art.  32  della  Convenzione  -
l'obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme
interne una interpretazione  conforme  ai  precetti  convenzionali  e
l'obbligo  che  infine   incombe   sulla   Corte   costituzionale   -
nell'ipotesi di impossibilita' di una interpretazione  adeguatrice  -
di non consentire che continui ad  avere  efficacia  nell'ordinamento
giuridico italiano una norma di cui sia stato accertato il deficit di
tutela riguardo ad un diritto  fondamentale.  Del  resto,  l'art.  53
della  stessa  Convenzione  stabilisce  che  l'interpretazione  delle
disposizioni CEDU non puo' implicare livelli di  tutela  inferiori  a
quelli assicurati dalle fonti nazionali». 
    Da  tale  premessa  i  giudici   costituzionali   avevano   fatto
discendere l'affermazione che non puo' consentirsi «che si determini,
per  il  tramite  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  una  tutela
inferiore a quella gia' esistente in  base  al  diritto  interno,  ma
neppure puo'» ammettersi «che una tutela superiore, che sia possibile
introdurre per la stessa via, rimanga sottratta  ai  titolari  di  un
diritto fondamentale. La conseguenza di questo ragionamento e' che il
confronto  tra  tutela  convenzionale  e  tutela  costituzionale  dei
diritti fondamentali deve  essere  effettuato  mirando  alla  massima
espansione  delle  garanzie,  anche  attraverso  lo  sviluppo   delle
potenzialita' insite nelle norme costituzionali che hanno ad  oggetto
i medesimi diritti». 
    Nel concetto di massima  espansione  delle  tutele  «deve  essere
compreso, come gia' chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349  del  2007,
il necessario bilanciamento con  altri  interessi  costituzionalmente
protetti, cioe' con altre norme  costituzionali,  che  a  loro  volta
garantiscano  diritti  fondamentali  che  potrebbero  essere   incisi
dall'espansione di una singola tutela. Questo bilanciamento trova nel
legislatore il suo riferimento primario, ma  spetta  anche  a  questa
Corte nella sua attivita' interpretativa delle norme costituzionali». 
    Aveva, quindi, concluso la Corte che  «il  risultato  complessivo
dell'integrazione delle  garanzie  dell'ordinamento  deve  essere  di
segno positivo, nel senso che dall'incidenza della singola norma CEDU
sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto
il sistema dei diritti fondamentali». 
    In conclusione, alla luce del nuovo  inquadramento  convenzionale
(art. 7 CEDU)  e  costituzionale  (art.  117,  comma  1°  Cost.),  il
principio della retroattivita' della  legge  penale  piu'  favorevole
gode di una copertura «piu' intensa»  e,  quindi,  potra'  sopportare
deroghe ed eccezioni solo in funzione  della  tutela  di  antagonisti
«diritti  fondamentali»  della   persona   riconosciuti   a   livello
convenzionale. 
    Nel nuovo paradigma del raffronto diretto  con  il  principio  di
legalita' convenzionale  espresso  dalla  norma  interposta  (art.  7
CEDU), ritiene percio' il Tribunale che istanze  quali  «l'efficienza
del processo», «la tutela dei destinatari della  giurisdizione»,  «la
dispersione  delle   attivita'   processuali   gia'   compiute»,   la
«ragionevole  durata  del   processo»,   non   possano   considerarsi
sovraordinate - semmai del tutto recessive - rispetto al fondamentale
diritto  dell'imputato  di  accedere,  in   ogni   momento,   ad   un
sopravvenuto istituto idoneo a determinare l'estinzione del  reato  a
lui ascritto. 
    D'altra parte, in  piu'  occasioni  la  Corte  costituzionale  ha
escluso che «valori costituzionali» coinvolti  nel  processo  possano
essere vanificati rispetto ad  istanze  riferibili  ad  un  utile  ed
efficace svolgimento della funzione giurisdizionale (cfr. ord. n. 204
del 22 giugno 2001; ord. n. 399 dell'11 dicembre 2001;  ord.  n.  458
del 19 novembre 2002, riguardanti in particolare il  principio  della
«ragionevole durata del processo»). 
    A ben vedere, diversamente che per la materia della  prescrizione
- oggetto di scrutinio nella  sentenza  n.  236/11  -  le  richiamate
istanze in ogni caso non risulterebbero significativamente  frustrate
per effetto  dell'applicazione  retroattiva  della  nuova  disciplina
della «sospensione del procedimento con messa alla prova per imputati
maggiorenni»  (attraverso,  cioe',  l'applicazione  dell'istituto  ai
procedimenti che al momento dell'entrata in  vigore  della  legge  n.
67/2014 abbiano superato la fase processuale della «dichiarazione  di
apertura del dibattimento»). 
    In particolare, per quel che in questa sede rileva, il  materiale
probatorio raccolto nel corso del dibattimento (si pensi ad eventuali
ammissioni  di  addebiti,  a  condotte  riparatorie,  a   particolari
circostanze e modalita' del fatto contestato che valgano a connotarlo
in termini di  minore  offensivita')  potrebbe  essere  proficuamente
recuperato in favor rei  ai  fini  del  giudizio  sull'idoneita'  del
programma di trattamento presentato - giudizio che l'art.  464-quater
comma 3° stabilisce debba essere effettuato «sulla base dei parametri
di cui all'art. 133 c.p.» - sulla sua durata e, soprattutto,  per  la
formulazione della prognosi di non recidiva (laddove, per esempio, le
evidenze  processuali  rimandino  al  carattere   occasionale   della
condotta criminosa o valgano concretamente ad apprezzare i «motivi  a
delinquere»); tanto  ove  viepiu'  si  consideri  che  tra  i  limiti
soggettivi per l'accesso all'istituto il legislatore non ha  indicato
il «recidivo». 
    Nello stesso senso, il rischio della «dispersione» dell'attivita'
processuale  svolta  sarebbe  salvaguardato  dalla  possibilita'   di
utilizzare ai fini della decisione le prove gia' acquisite,  in  caso
di revoca o esito negativo della prova:  in  quest'ultima  evenienza,
infatti, gli artt. 464-septies, comma 2°, c.p.p. e 464-octies,  comma
4°, c.p.p. stabiliscono che «il processo riprende il suo  corso»,  in
tal modo sottintendendo -  o  comunque  non  escludendo  -  la  piena
utilizzabilita' dei risultati di tutti gli atti  processuali  fino  a
quel momento  compiuti,  attraverso  l'impiego  di  un  termine  («il
processo») astrattamente riferibile  anche  all'ipotesi  in  cui  sia
stata  gia'  svolta   l'istruttoria   dibattimentale   con   relativa
assunzione di prove. 
    Finalita'  «recuperatorie»,  di  salvaguardia   dell'effettivita'
della giurisdizione e di tutela dei suoi destinatari (in  particolare
le parti offese) sono sottese,  inoltre,  ad  ulteriori  disposizioni
della legge n. 67/2014 che si presentano strutturalmente  compatibili
anche con  l'eventualita'  di  un  accesso  all'istituto  nella  fase
«dibattimentale»; tra queste si segnalano: l'art.  168-ter  comma  1°
c.p., secondo cui «durante il periodo di sospensione del procedimento
con messa alla prova il corso della prescrizione e' sospeso»;  l'art.
464-quater,  comma  8°,  c.p.p.,   che   esclude   la   contemporanea
sospensione del processo civile prevista, in via generale,  dall'art.
75,  comma  3°  c.p.p.;  l'art.  657-bis  c.p.p.,  che  riconosce  la
computabilita' del periodo di prova, eseguito con esito negativo,  ai
fini della determinazione della pena da eseguire. 
    In relazione a tali profili, peraltro, la scelta del  Legislatore
di  individuare  il  momento  della  dichiarazione  di  apertura  del
dibattimento come discrimine temporale per l'accesso alla «messa alla
prova»  nel  giudizio  direttissimo  non  risulterebbe   conforme   a
ragionevolezza, poiche' l'attivita' processuale in  ipotesi  compiuta
non sarebbe del tutto vanificata da un'eventuale accesso all'istituto
premiale. 
    Da ultimo e' il caso di segnalare che l'applicazione della «messa
alla prova» oltre il termine  tassativo  indicato  nell'art.  464-bis
comma 2° c.p.p., risulterebbe conforme  all'obiettivo  di  deflazione
carceraria che -  all'indomani  della  sentenza  della  Corte  EDU  8
gennaio  2013,  Torreggiani  -   ha   accompagnato   e   giustificato
l'introduzione dell'istituto in commento. 
    Sulla scorta di tutte le considerazioni sin  qui  svolte,  l'art.
464-bis comma 2° c.p.p., nella parte in cui prevede che la  richiesta
di sospensione del procedimento con messa  alla  prova  «puo'  essere
proposta fino alla dichiarazione di  apertura  del  dibattimento  nel
giudizio direttissimo»,  non  e'  compatibile  con  il  principio  di
legalita' convenzionale di cui all'art. 7 CEDU,  nell'interpretazione
datane dalla Corte europea. 
    E' noto che le sentenze della Corte EDU non sono  in  alcun  modo
equiparabili a quelle della Corte di Giustizia del Lussemburgo, adita
in via pregiudiziale o nell'ambito di una procedura di infrazione. 
    Il giudice ordinario, quindi, non puo' risolvere il contrasto tra
legge interna  e  norma  convenzionale  evidenziato  dalla  Corte  di
Strasburgo,  provvedendo  egli  stesso  a  disapplicare   la   prima,
presupponendo cio'  il  riconoscimento  di  un  primato  delle  norme
contenute nella Convenzione  e/o  delle  sentenze  della  Corte  EDU,
analogo a quello conferito al diritto  dell'Unione  Europea  ed  alle
sentenze  della  Corte  di  Giustizia,  che   incidono   direttamente
nell'ordinamento  nazionale  e  possono  determinare  addirittura  la
disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti. 
    La giurisprudenza costituzionale, a partire dalle richiamate  nn.
348 e 349 del 2007, e' costante nell'affermare che  «le  norme  della
CEDU - nel  significato  loro  attribuito  dalla  Corte  europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione e applicazione (art.  32,  1,  della  Convenzione)  -
integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro   costituzionale
espresso dall'art. 117, comma 1°, Cost., nella parte in cui impone la
conformazione della legislazione interna ai vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali» (sentenze n. 1 e 113 del 2011; nn. 138,  187
e 196 del 2010; nn. 311 e 317 del 2009; n. 39 del 2008). 
    Il Giudice delle leggi  -  a  fronte  di  un  orientamento  della
giurisdizione  amministrativa  circa  un  asserito  inserimento   nel
diritto dell'Unione europea della CEDU compiuto dall'art. 6, par.  2,
del Trattato sull'Unione europea, cosi' come modificato nel  dicembre
2009 a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del  13
dicembre 2007 (Cons. Stato n. 1220 del 2 marzo 2010;  Tar  Lazio,  n.
11984 del 18 maggio 2010) - ha ritenuto la perdurante validita' della
detta ricostruzione pur dopo l'entrata  in  vigore  del  Trattato  di
Lisbona. 
    Con la sentenza n. 80/2011, infatti, la Corte  costituzionale  ha
sottolineato che  il  riferimento  all'art.  6,  par.  2,  T.U.E.  e'
prematuro, nelle  more  dell'adesione  dell'U.E.  alla  CEDU,  ed  ha
precisato soprattutto che il richiamo alla CEDU operato  dal  diritto
dell'Unione viene in rilievo con esclusivo riguardo ai casi in cui il
giudice italiano deve valutare fattispecie che rientrano  nell'ambito
di applicazione del diritto dell'Unione. 
    La Consulta ha anche chiarito che «l'art. 117 Cost., comma 1°, ed
in  particolare  l'espressione  «obblighi  internazionali»  in   esso
contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche
diverse da quelle comprese nella previsione  degli  artt.  10  ed  11
Cost. Cosi' interpretato, l'art. 117, comma 1° Cost., ha  colmato  la
lacuna  prima  esistente  rispetto   alle   norme   che   a   livello
costituzionale    garantiscono    l'osservanza     degli     obblighi
internazionali pattizi. La conseguenza e' che  il  contrasto  di  una
norma nazionale con una norma  convenzionale,  in  particolare  della
CEDU, si traduce in una violazione  dell'art.  117  comma  1°  Cost.»
(sentenza n. 311/2009, richiamata nella sentenza n. 236/2011). 
    In presenza di un contrasto tra una norma  interna  e  una  norma
della CEDU, pero', «il giudice nazionale comune deve  preventivamente
verificare la  praticabilita'  di  una  interpretazione  della  prima
conforme alla norma  convenzionale,  ricorrendo  a  tutti  i  normali
strumenti  di  ermeneutica  giuridica»  (sentenze  n.  113/2011,   n.
93/2010, nn. 239 e 311 del 2009). 
    L'esito negativo di tale verifica e il contrasto non  componibile
in via interpretativa impongono al giudice ordinario - che  non  puo'
disapplicare la norma interna ne' farne applicazione, per il ritenuto
contrasto con la CEDU e quindi con la Costituzione  -  di  sottoporre
alla  Consulta  la  questione  di  legittimita'   costituzionale   in
riferimento all'art. 117, comma 1°, Cost. (sentenza n. 113 del  2011,
n.  93  del  2010  e  n.  311  del  2009),   attraverso   un   rinvio
pregiudiziale, con la conseguenza che l'eventuale operativita'  della
norma  convenzionale,  cosi'  come  interpretata   dalla   Corte   di
Strasburgo,    deve    passare    attraverso     una     declaratoria
d'incostituzionalita' della normativa interna di  riferimento  o,  se
del caso, l'adozione di una sentenza interpretativa o additiva. 
    Competera', inoltre, al  Giudice  delle  leggi,  ove  accerti  il
denunciato contrasto tra  norma  interna  e  norma  della  CEDU,  non
risolvibile in via interpretativa, verificare se la seconda,  che  si
colloca  pur  sempre  ad  un  livello  sub-costituzionale,  si  ponga
eventualmente in conflitto con altre norme della Carta  fondamentale,
ipotesi questa che portera'  ad  escludere  l'idoneita'  della  norma
convenzionale ad integrare il  parametro  costituzionale  considerato
(sentenze nn. 113 e 303 del 2011; n. 93 del 2010; n.  311  del  2009;
nn. 348 e 349 del 2007). 
    Delineati i rapporti tra CEDU e diritto interno, tornando al tema
oggetto di scrutinio, ritiene il Tribunale che il riscontrato divario
tra l'art. 464-bis comma 2° c.p.p. e l'art. 7 CEDU non sia superabile
in via interpretativa. 
    A questa conclusione si perviene sulla base della  considerazione
che l'istituto della «messa  alla  prova»  per  gli  imputati  adulti
presenta, come gia' ricordato,  anche  una  connotazione  tipicamente
processuale, poiche' «il beneficio  della  possibile  estinzione  del
reato e' strettamente connesso  alla  peculiare  procedura  che  deve
essere seguita, l'uno risultando inscindibilmente legato ad una ratio
deflattiva che  impedisce  ogni  efficacia  del  beneficio  autonoma,
quindi al di fuori del peculiare rito» (cosi' Cass. n. 25627  del  31
luglio 2014). 
    L'effetto sostanziale che l'istituto premiale e' suscettibile  di
produrre risulta rigidamente vincolato a termini processuali espressi
e tassativi, superabili solo attraverso  una  pronuncia  della  Corte
costituzionale  che,  intervenendo  sulla  norma   censurata,   renda
accessibile  la  «messa  alla   prova»   oltre   il   termine   della
«dichiarazione   di   apertura   del   dibattimento   nel    giudizio
direttissimo». 
    Alla  luce   delle   considerazioni   su   esposte   appare   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
in relazione all'art. 117,  1°  comma,  Cost.  ed  all'art.  7  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955 n. 848,  come  interpretato  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, con riferimento all'art. 464-bis comma  2°  c.p.p.,  nella
parte in cui prevede che la richiesta di sospensione del procedimento
con messa alla prova «puo' essere proposta fino alla dichiarazione di
apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo». 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale, in relazione  all'art.  117,  1°  comma,
Cost. ed all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa  esecutiva
con legge 4 agosto 1955 n. 848, come interpretato dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo, con  riferimento  all'art.  464-bis  comma  2°
c.p.p., nella parte in cui prevede che la  richiesta  di  sospensione
del procedimento con messa alla prova «puo' essere proposta fino alla
dichiarazione   di   apertura   del   dibattimento    nel    giudizio
direttissimo». 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale  e  la  sospensione   del   presente   giudizio,   con
sospensione del corso della prescrizione del reato. 
    Dispone  che  la  presente  ordinanza  sia  notificata  al   sig.
Presidente del Consiglio dei ministri,  nonche'  comunicata  al  sig.
presidente  del  Senato  ed  al  sig.  presidente  della  Camera  dei
deputati. 
    Manda alla Cancelleria per gli adempimenti. 
        Brindisi, 17 dicembre 2014 
 
                         Il Giudice: Cacucci