N. 94 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 dicembre 2014
Ordinanza del 17 dicembre 2014 del Tribunale di Brindisi nel procedimento penale a carico di M.L.O.. Processo penale - Sospensione del procedimento con messa alla prova - Previsione che la richiesta "puo' essere proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo" - Denunciata introduzione di un limite all'applicabilita' retroattiva della nuova e piu' favorevole disciplina della messa alla prova per gli imputati adulti - Violazione del principio di legalita' convenzionale di cui all'art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo - Inosservanza degli obblighi internazionali. - Codice di procedura penale, art. 464-bis, comma 2, aggiunto dall'art. 4, comma 1, lett. a), della legge 28 aprile 2014, n. 67. - Costituzione, art. 117, primo comma, in relazione all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.21 del 27-5-2015 )
TRIBUNALE DI BRINDISI Sezione Penale Ordinanza art. 23 legge cost. 11 marzo 1953 n. 87. Il Tribunale di Brindisi, in composizione monocratica nella persona del dott. Francesco Cacucci; letti gli atti del procedimento penale in epigrafe indicato nei confronti di M.L.O. nato ad ... il ... ed ivi residente alla effettivamente dimorante in Contrada «Costa Merlata» s.n.c., difeso di fiducia dagli Avv.ti Vito Epifani e Semeraro Angelo, imputato dei seguenti delitti: «Capo A): artt. 81, 2° comma, 336 1° comma, 337 c.p., perche', con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, usava violenza all'Ass.te della Polizia di Stato P.V. (pubblico ufficiale impegnato nella ricezione delle prime dichiarazioni orali rese da C.A.M. che era stata appena vittima di una rapina a mano armata) per costringerlo ad omettere quell'atto dell'ufficio (che V. era impegnato a compiere nella sua qualita' di capo equipaggio dell'unita' operativa della Squadra Volante del Commissariato di Pubblica Sicurezza di Ostuni, per prima giunta sul luogo della commissione del grave delitto immediatamente dopo la fuga del rapinatore), spingendo ripetutamente e strattonando energicamente il V. fino a portarlo all'esterno del «Centro Unico Prenotazioni» dell'Ospedale civile di Ostuni, e, poi, spostato il corpo di C.A.M. (frappostasi fra lui, da un lato, e l'Assistente V. e l'Assistente Capo F.F., giunto in soccorso del primo, insieme con il pari qualifica Q.C. dall'altro), riprendendo a spingere e strattonare ripetutamente la persona offesa (in modo da farle perdere piu' volte l'equilibrio), contestualmente cercando di colpirlo al volto e, inoltre, colpendolo con uno schiaffo alla guancia sinistra - subito prima di spingere con decisione anche l'Assistente Z., (che aveva cercato di frapporsi fra lui ed il collega V.) - e, poi, di nuovo colpendo in pieno volto il V. rimasto bloccato tra la ringhiera della «rampa invalidi» e gli altri presenti e, cercando di ulteriormente colpirlo con un pugno, non andato a segno in conseguenza del risolutivo intervento anche del Sovrintendente D.A. e dell''Assistente Capo A.M. i quali riuscivano finalmente a contenerlo nonostante i violenti strattoni ancora da lui portati in danno di tutti, in tal modo usando violenza anche nei confronti degli altri pubblici ufficiali, per opporsi loro mentre compivano gli atti di ufficio consistenti nell'andare in soccorso del collega primo aggredito e nel reprimere la commissione dei reati gia' in corso di esecuzione; in Ostuni, il 7 maggio 2012, ore 16.30 circa; Capo B): artt. 81, 2° comma, 582, 1° e 2° comma, 585, 1° comma 1° ipotesi, 576, 1° comma nn. 1) e 5-bis, 61 n. 2 c.p., perche', con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commettendo il fatto contro un agente di polizia giudiziaria nell'atto dell'adempimento delle sue funzioni ed al fine di eseguire il delitto di violenza ad un pubblico ufficiale contestato sub A), spingendo ripetutamente e strattonando energicamente l'Assistente della Polizia di Stato P.V. (pubblico ufficiale impegnato nella ricezione delle prime dichiarazioni orali rese da C.A.M. che era stata appena vittima di una rapina a mano armata) e, dopo vari tentativi falliti, colpendolo con uno schiaffo alla guancia sinistra ed attingendolo, poi, con un secondo colpo in pieno volto, cagionava a V. contusioni multiple e minori dalle quali derivava una malattia nel corpo guaribile in giorni cinque, salvo complicazioni; in Ostuni, il 7 maggio 2012, ore 16.30 circa». Premesso in fatto M.L.O. e' stato tratto in arresto il giorno 7 maggio 2012 nella flagranza dei delitti in premessa indicati e presentato dinanzi al Tribunale per la convalida dell'arresto e la contestuale celebrazione del giudizio direttissimo ai sensi dell'art. 558 c.p.p.; l'arresto e' stato convalidato all'udienza del 9 maggio 2012, all'esito della quale l'imputato ha richiesto un termine a difesa ex art. 558 comma 7° c.p.p. Alla successiva udienza del 3 ottobre 2012, e' intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento con la conseguente formulazione delle richieste di prova delle parti. L'istruttoria dibattimentale e' stata espletata - attraverso l'acquisizione delle prove orali e documentali -nel corso delle udienze dell'8 maggio 2013, del 4 dicembre 2013 e del 7 maggio 2014. Il 17 maggio 2014 e' entrata in vigore nel nostro ordinamento la legge 28 aprile 2014 n. 67 (pubblicata nella G.U. n. 100 del 2 maggio 2014) che, nel Capo II, ha introdotto l'istituto della «sospensione del procedimento con messa alla prova per gli imputati maggiorenni». Con le nuove disposizioni (artt. 168-bis, 168-ter, 168-quater c.p., da 464-bis a 464-nonies, 657 c.p.p.; 141-bis e 141-ter disp. att. c.p.p.), il legislatore ha previsto la «messa alla prova» sia quale causa di estinzione del reato, sia come possibilita' di definizione alternativa del procedimento. La disciplina processuale della «messa alla prova» e' contenuta negli artt. 464-bis e ss.gg. c.p.p., che individua diversi termini di decadenza per la presentazione della richiesta, tutti ristretti al giudizio di primo grado (le conclusioni rassegnate dalle parti al termine dell'udienza preliminare, nel procedimento ordinario; la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio; quindici giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato all'imputato o dalla comunicazione del relativo avviso al difensore, nei casi di giudizio immediato; il medesimo termine previsto dall'art. 461 c.p.p. per l'opposizione, nei procedimenti per decreto). La legge n. 67/2014 non contiene una disciplina transitoria. All'udienza dell'11 giugno 2014 (la prima utile successiva all'entrata in vigore della legge n. 67/2014) fissata per l'esame dell'imputato e la discussione di tutte le parti processuali, l'imputato M., assistito dal proprio difensore, ha avanzato richiesta di «sospensione del procedimento con messa alla prova» ai sensi del richiamato art. 464-bis c.p.p.; all'istanza e' stata allegata - come previsto dall'art. 464-bis comma 4) secondo periodo c.p.p. - una «richiesta di elaborazione di un programma di trattamento ex art. 168-bis c.p. e 464-bis c.p.p.», indirizzata all'Ufficio esecuzione penale esterna di Brindisi in data 6 giugno 2014 e relativa ad entrambe le fattispecie delittuose in contestazione. Il Tribunale, su richiesta della difesa, ha disposto la sospensione del dibattimento con rinvio all'udienza del 22 settembre 2014; tanto, anche: a) in ragione dell'avvenuto superamento del termine stabilito dall'art. 464-bis comma 2° c.p.p. («la richiesta puo' essere proposta ... fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo») e dell'assenza nella legge n. 67/2014 di una disciplina transitoria riguardante i procedimenti per i delitti previsti dall'art. 168-bis c.p. che, al momento dell'entrata in vigore della normativa sulla «messa alla prova» per gli imputati adulti, avessero gia' superato le fasi processuali entro le quali puo' essere richiesta la sospensione del procedimento ex art. 464 comma 1° c.p.p.; b) ritenuta la necessita' di valutare l'applicabilita' dell'istituto della «messa alla prova» anche ai processi in corso, in virtu' del principio di retroattivita' della legge penale piu' favorevole al reo contenuto nell'art. 2 comma 2° c.p. e 7 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza della G.C. 17 settembre 2009 (Scoppola c/ Italia). All'udienza del 22 settembre 2014 l'imputato ha depositato una proposta di «programma di trattamento» elaborato dall'U.E.P.E. di Brindisi ai sensi dell'art. 464-bis comma 4° c.p.p., reiterando la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova; il Pubblico Ministero ha espresso parere sfavorevole enunciandone oralmente le ragioni. Il Tribunale si e' riservato la decisione con rinvio alla successiva udienza del 17 dicembre 2014. A scioglimento della riserva, ritiene il Tribunale doversi sollevare d'ufficio questione di legittimita' costituzionale in relazione all'art. 117, 1° comma, Cast. ed all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848 (d'ora in avanti «CEDU»), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con riferimento all'art. 464-bis comma 2° c.p.p., nella parte in cui prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova «puo' essere proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo». In punto di rilevanza della questione, sussistono i presupposti per l'applicazione dell'istituto previsti dagli artt. 168-bis c.p., 464-bis comma 4° e 464-ter comma 4° c.p.p., in quanto: i reati oggetto di contestazione al capo A) della rubrica (artt. 336 e 337 c.p.) rientrano tra quelli elencati nell'art. 550 comma 2° c.p.p. per i quali il Pubblico Ministero esercita l'azione penale con citazione diretta a giudizio; il delitto di cui all'art. 582 c.p. (contestato sub B) e' punito con la pena della reclusione sino a tre anni, ossia con pena inferiore al limite edittale stabilito dall'art. 168-bis c.p., comma 1°, per l'accesso all'istituto («reati puniti con la pena edittale detentiva non superiore, nel massimo, a quattro anni»); invero, l'esplicito riferimento contenuto nella norma unicamente alla «pena edittale» porta a ritenere che ai fini della ricorrenza del presupposto formale stabilito dall'art. 168-bis comma 1° c.p. non si debba tener conto delle circostanze aggravanti contestate o delle circostanze attenuanti eventualmente riconoscibili; nello stesso senso, peraltro, depone il mancato riferimento nella norma - ai fini della determinazione del limite di pena previsto per l'accesso all'istituto - all'eventuale concorso di circostanze attenuanti o aggravanti, diversamente da quanto accade in altre disposizioni del codice di rito (artt. 33-bis comma 2° e 266, comma 1° lett. A e B, che rimandano all'art. 4 c.p.p.; 278 c.p.p., 379 c.p.p.; 550 comma 1° c.p.p.) in cui ai fini della determinazione della pena e' espressamente prevista la necessita' della valutazione anche delle circostanze aggravanti ad effetto speciale o di talune circostanze aggravanti e attenuanti comuni; il limite oggettivo stabilito dall'art. 168-bis comma 1° c.p. non e' determinato attraverso il riferimento alla pena edittale complessiva (come accade, ad esempio, nell'art. 444 c.p.p. per l'accesso al rito del patteggiamento), prevedendo la norma l'indicazione dei «procedimenti per reati puniti» con la sola pena pecuniaria o con pena edittale non superiore nel massimo a quattro anni, nonche' ai «delitti indicati nel comma 2° dell'art. 550 c.p.p.»; da tanto deriva la possibilita' di accedere all'istituto premiale anche in caso di cumulo, all'interno del procedimento, di piu' reati rientranti nella previsione normativa ma con pena edittale complessiva superiore alla soglia indicata; il contenuto del «programma di trattamento» elaborato d'intesa con l'U.E.P.E. di Brindisi si presenta conforme al modello legale del «contenuto della prova» indicato negli artt. 168-bis c.p. e 464-bis, 464-ter e 464-quater c.p.p. e ne soddisfa i requisiti, prevedendosi in particolare: a) lo svolgimento di un'attivita' di volontariato presso l'Associazione sportiva ASD Ostuni 1945; tale ente, peraltro, con dichiarazione del 6 giugno 2014 depositata unitamente alla richiesta di sospensione del procedimento, aveva comunicato la «propria disponibilita' affinche' il M. ... possa svolgere attivita' socialmente utile presso la nostra sede in Ostuni»; nella stessa dichiarazione, il rappresentante di detta Associazione comunicava l'avvio, con il concerto dell'Assessorato ai Servizi sociali del Comune di Ostuni, di un progetto per la «socializzazione ed aggregazione per ragazzi di nazionalita' estera (Albania e Marocco)»; ininfluente, in proposito, appare la circostanza valorizzata dal P.M. che il M. rivesta attualmente la qualifica di dirigente dell'Associazione sportiva indicata, poiche' il «programma di trattamento» prevede la propria partecipazione - secondo un calendario prestabilito - alle iniziative dell'associazione medesima, nella prospettiva dell'assunzione di un ruolo attivo e non meramente formale; mette conto segnalare, in ogni caso, che in data 9 dicembre 2014 il M. ha depositato una «dichiarazione di disponibilita'» dell'U.S. Lightning-Pallavolo di Ostuni a consentire allo stesso M. di espletare attivita' di volontariato presso la predetta societa' con «mansioni organizzative o di segreteria»; l'U.E.P.E. di Brindisi ha aderito alla proposta di modifica del programma di trattamento nel senso indicato dall'imputato; b) lo svolgimento di lavoro di pubblica utilita' presso il Servizio Emergenza Radio di Ostuni, mediante «lo svolgimento di disbrigo pratiche di segreteria»; in proposito si osserva che l'art. 168-bis c.p. non esige che gli enti e le organizzazioni beneficiarie delle prestazioni dell'imputato da ammettere alla messa alla prova siano legate da un rapporto di convenzione con l'Amministrazione, ne' richiama il D.M. 26 marzo 2001 che prevede l'obbligo per il giudice di attingere all'elenco degli enti convenzionati; il M. si e' concretamente attivato per il risarcimento dei danni arrecati alla persona offesa V.P., ossia il pubblico ufficiale che ha riportato le lesioni personali in contestazione al capo B); l'imputato ha, infatti, prodotto un «verbale di remissione di querela» in data 11 giugno 2014 in cui il V. ha dichiarato «di voler rimettere a tutti gli effetti di legge la querela presentata presso il Commissariato di P.S. di Ostuni in data 7 maggio 2012 ... contro M.L.O.», dichiarando altresi' di essere stato «integralmente risarcito dall'Avv. M.L.O. di ogni danno subito in dipendenza dei fatti per cui era querela»; ulteriormente indicativa della volonta' dell'imputato di porre rimedio alle conseguenze dannose derivanti dalle proprie condotte e' la circostanza che - nell'ambito del procedimento penale n. 61/2014 R.G. che lo vendeva imputato per il delitto di cui all'art. 341-bis c.p. consumato sempre il giorno 7 maggio 2012 nel medesimo contesto dei fatti oggetto del presente procedimento - egli ha beneficiato della causa di estinzione del reato prevista dalla norma incriminatrice violata a seguito di integrale risarcimento del danno nei confronti delle persone offese (tutti gli agenti della Polizia di Stato intervenuti) e dell'ente di appartenenza dei medesimi (il Ministero dell'interno - Questura di Brindisi; cfr. sentenza n. 373 emessa in data 4 febbraio 2014 dal Tribunale di Brindisi); sulla base dei parametri indicati dall'art. 133 c.p. puo' formularsi un giudizio di idoneita' del programma di trattamento presentato, nonche' una prognosi favorevole circa il pericolo di recidiva nel reato da parte dell'imputato; tanto anche in considerazione del proprio stato di incensuratezza e delle stesse modalita' dei fatti contestati, connotati da dolo d'impeto e, percio', da ritenersi del tutto occasionali (C.A.M., ossia la vittima dalla rapina che gli agenti della Polizia di Stato erano intenti ad ascoltare per assumere le prime informazioni sull'accaduto, e' coniuge del M.); non ricorrono le cause ostative previste dagli artt. 102, 103, 104, 105 e 108 c.p., ne' allo stato ricorre l'evidenza manifesta tale da giustificare la pronuncia di una sentenza ai sensi dell'art. 129 c.p.p.; l'imputato, per ovvie ragioni, non ha gia' beneficiato di tale causa di estinzione del reato. Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il M. avrebbe potuto accedere alla messa alla prova in relazione a tutti i delitti oggetto di contestazione se, al momento dell'entrata in vigore della legge 28 aprile 2014 n. 67, non fosse gia' stato oltrepassato il termine di decadenza stabilito dall'art. 464-bis comma 2° c.p.p. con riferimento al giudizio direttissimo. La norma oggetto di impugnazione (cioe' l'art. 464-bis comma 2° c.p.p.) introduce, quindi, un limite all'applicabilita' retroattiva della nuova e piu' favorevole disciplina della «messa alla prova» per gli imputati adulti, allorche', al momento dell'introduzione dell'istituto premiale, sia stata superata la fase processuale entro la quale la sospensione del procedimento con la messa alla prova puo' essere richiesta dall'imputato. Osservato, in punto di non manifesta infondatezza della questione. In numerose pronunce la Corte costituzionale ha affermato che il principio di retroattivita' della disposizione penale piu' favorevole al reo - previsto a livello di legge ordinaria dall'art. 2, commi 2°, 3° e 4° c.p. - non e' stato costituzionalizzato dall'art. 25 comma 2° Cost. - che si limita a sancire l'irretroattivita' delle norme incriminatrici e, in generale, delle norme penali piu' severe - bensi' dall'art. 3 Cost. (C. cost. n. 394/2006). In questa prospettiva, il richiamato principio e' derogabile ad opera della legislazione ordinaria, allorche' ricorra una valida ragione giustificativa connessa alla salvaguardia di controinteressi di analogo rilievo costituzionale; cosi', ad esempio, la deroga al principio di retroattivita' della legge penale piu' favorevole introdotta dalla c.d. «Legge ex Cirielli» nella parte in cui escludeva l'operativita' dei nuovi e piu' favorevoli termini di prescrizione per i procedimenti pendenti in grado di appello o di cassazione, e' stata giustificata - e dunque non e' irragionevole - dall'interesse di «evitare la dispersione delle attivita' processuali» gia' svolte nei precedenti gradi di giudizio, ossia di un interesse di rilievo costituzionale connesso «all'efficienza ed alla salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale» (C. cost. n. 72/2008). Il principio di retroattivita' della legge penale piu' favorevole, come e' noto, e' riconosciuto anche dal diritto internazionale e comunitario, in particolare dall'art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici - adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977 n. 881 - e dall'art. 49, comma 1°, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e successivamente recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull'Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunita' europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che le ha attribuito lo stesso valore giuridico dei trattati. Ancor prima dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, peraltro, la Corte di giustizia dell'Unione europea aveva ritenuto che il principio della retroattivita' della lex mitior facesse parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, come tale, dovesse essere considerato parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte di giustizia stessa garantisce il rispetto e che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l'ordinamento comunitario (sentenza 3 maggio 2005, Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02; tale principio e' stato successivamente ribadito dalle sentenze 11 marzo 2008, Jager, C-420/06, e 28 aprile 2011, El Dridi, C-61/11). La discussione sul fondamento costituzionale del principio della retroattivita' della legge penale favorevole e sui margini della sua derogabilita' ha subito un significativo impulso con la pronuncia della nota sentenza della Grande Camera della Corte EDU 17 settembre 2009 (Scoppola c/ Italia): per la prima volta e' stato affermato che l'art. 7 par. 1 della Convenzione non sancisce solo il principio dell'irretroattivita' delle leggi penali piu' severe, ma anche quello della retroattivita' della legge penale meno severa (succedutasi dalla commissione del fatto e sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna), traducendosi nella norma secondo la quale, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli all'imputato (questo orientamento e' stato confermato nella successiva sentenza 27 aprile 2010, Morabito c/ Italia). Il principio in questione, per quanto stabilito dall'art. 15, par. 2°, CEDU, assume valore assoluto ed inderogabile, come tale insuscettibile di subire limitazioni o restrizioni ad opera delle autorita' statali dettate dall'esigenza di salvaguardia di concorrenti interessi generali. Tanto premesso, la giurisprudenza costituzionale ha, in piu' occasioni, stabilito che le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1) -integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, comma 1° Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (sentenze n. 113 e n. 1 del 2011, n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010, n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; sulla perdurante validita' di questa ricostruzione dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011). La Corte ha, inoltre, chiarito che l'art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l'espressione «obblighi internazionali» in esso contenuta" si riferisce «alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 ed 11 Cost. Cosi' interpretato, l'art. 117, primo comma, Cost. ha colmato la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza e' che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117, comma 1°, Cost.» (sentenza n. 311/2009). Pertanto, il principio di retroattivita' in mitius ha assunto una propria autonomia e, attraverso l'art. 117, comma 1° Cost., ha acquistato un nuovo fondamento con l'interposizione dell'art. 7 CEDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo (C. cost. n. 393/2006). Il complesso delle garanzie stabilite dall'art. 7 CEDU si applica alla norme di diritto penale sostanziale (cioe' alle «disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono»), nel cui novero la sentenza Scoppola ha ricondotto l'art. 442 c.p.p., sul rilievo che «la qualifica nel diritto interno del testo di legge interessato non puo' essere determinante. In effetti, se e' vero che gli artt. 438, 441-443 descrivono il campo di applicazione e le fasi processuali del giudizio abbreviato, rimane comunque il fatto che il comma 2° dell'art. 442 e' interamente dedicato alla severita' della pena da infliggere... . Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che l'art. 442 comma 2° c.p.p. sia una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severita' della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato. Essa ricade, dunque, nel campo di applicazione dell'ultimo capoverso dell'art. 7, par. 1, della Convenzione». L'esigenza della verifica dell'effettivo carattere «sostanziale» della norma penale oggetto di scrutinio e, come tale, suscettibile di rientrare «nella protezione offerta dall'art. 7 CEDU», e' stata ulteriormente ribadita dalla Corte EDU nella sentenza «Del Rio Prada c/ Spagna». Nell'occasione, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilita' con l'art. 7 CEDU della c.d. «doctrina Parot» (si trattava di un diverso e successivo orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimita' spagnola circa l'applicazione di alcuni benefici penitenziari), la Corte di Strasburgo ha confermato che: «per rendere effettiva la protezione offerta dall'articolo 7, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare da sola se una particolare misura equivale in sostanza a una "pena" ai sensi di questa disposizione (si vedano Welch, sopra citata, § 27, e Jamil, sopra citata, § 30)». L'istituto della «sospensione del procedimento con messa della prova» per gli imputati adulti introdotto dalla legge n. 67/2014 cumula sia profili di carattere sostanziale (trattandosi di una «nuova causa di estinzione del reato inserita nel codice penale conseguente all'adempimento di un programma che implica misure limitative della liberta' del soggetto»), che di carattere processuale («avendo il legislatore previsto specifici momenti processuali per la proposizione della richiesta»). In questo senso si sono espressi sia alcuni giudici di merito (Tribunale di Torino, ordinanza del 21 maggio 2014, Tribunale di Genova, ordinanza del 7 ottobre 2014; Corte di Appello di Lecce - Sezione distaccata di Taranto del 4 dicembre 2014), sia la Corte di cassazione, Sezione IV che, con ordinanza del 9 luglio 2014, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa all'ammissibilita' nel giudizio di cassazione della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Nella citata pronuncia, la Corte ha, nondimeno, evidenziato che «gli effetti di carattere sostanziale dell'istituto... potrebbero deporre per una interpretazione estensiva della norma ai fatti pregressi ed ai procedimenti pendenti, sia per l'applicazione dell'art. 2, comma 4°, c.p. sia per coerenza alla significativa evoluzione della giurisprudenza sul principio di retroattivita' della lex mitior, alla luce delle fonti internazionali e comunitarie e dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo, che hanno portato a mitigare anche il principio di intangibilita' del giudicato (v. Sezioni Unite, 24 ottobre 2013, 7 maggio 2014, n. 18821, Ercolano)». Il Giudice di legittimita' ha, altresi', richiamato la giurisprudenza costituzionale in forza della quale anche il principio di retroattivita' della lex mitior puo' subire deroghe o limitazioni alla sua operativita', quando siano sorrette da valida giustificazione (C. cost. n. 236/2011), pur avvertendo che «ritenere l'inapplicabilita' della messa alla prova ai processi in corso che si trovano in una fase processuale successiva a quelle indicata negli artt. 464-bis e 464-ter c.p.p. rischierebbe di dare ingresso ad una disparita' di trattamento tra gli imputati il cui processo risulta pendente in primo grado nella fase anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento, che possono avvalersi di questo nuovo istituto, e gli imputati il cui processo si trova in una fase piu' avanzata». «Tale soluzione», continua la Corte, «contrasterebbe con l'art. 2, comma 4°, c.p. in tema di retroattivita' della lex mitior che, pur avendo rango diverso dal principio di irretroattivita' della norma incriminatrice, di cui all'art. 25, comma 2°, Cost., non e' privo di fondamento costituzionale. Questo fondamento e' stato individuato nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto l'abolitio criminis o la modifica mitigatrice (v. sentenza della Corte costituzionale n. 236/11)». Al principio di eguaglianza - come primario parametro di riferimento per valutare la compatibilita' della nuova causa di estinzione del reato con l'attuale assetto costituzionale - rimanda in termini espliciti anche la pronuncia n. 25627 del 31 luglio 2014, con cui la Corte di cassazione ha affermato l'inapplicabilita' nel giudizio di cassazione della sospensione del procedimento con messa alla prova di cui agli artt. 3 e 4 legge n. 67/2014: «La Corte costituzionale ha prima ricordato che, secondo la propria giurisprudenza, "il principio di eguaglianza costituisce non solo il fondamento ma anche il limite dell'applicabilita' retroattiva della lex mitior». Mentre il principio di irretroattivita' della norma penale sfavorevole, infatti, costituisce un valore assoluto ed inderogabile, quella della retroattivita' in mitius e' suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli e, in particolare, dalla necessita' di preservare interessi, ad esso contrapposti, di analogo rilievo». Tali interessi, nel caso in questione, sono individuabili «con riferimento ai valori costituzionali dell'efficienza della giurisdizione e della ragionevole durata del processo», dal momento che «i contesti processuali del processo che non sia giunto a sentenza in primo grado e di quelli che si trovano in fase di impugnazione» sono «assolutamente, strutturalmente e dal punto di vista sistematico, del tutto differenti e non» permettono «di dare applicazione retroattiva alla nuova disciplina, a cio' potendo giungersi solo con esplicita, specifica ed articolata scelta sistematica del legislatore, con un'eventuale disciplina transitoria». Secondo questa impostazione, deve percio' ritenersi, non presenterebbe profili di «irragionevolezza» l'eventuale ampliamento dell'ambito applicativo dell'istituto a tutti i procedimenti di primo grado che - pur avendo superato la dichiarazione di apertura del dibattimento - non siano stati ancora definiti con sentenza, il che rimanda alle argomentazioni contenute nella sentenza n. 393/2006 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalita' dell'art. 10, comma 2°, legge n. 251/05 in relazione alle parole «dei processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento». Tuttavia non puo' mancarsi di ribadire che, come evidenziato dalla dottrina, a partire dalla sentenza «Scoppola» lo «status costituzionale» della retroattivita' della norma penale piu' favorevole deriva non piu' dal solo canone dell'eguaglianza-ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., ma anche e soprattutto - per effetto dell'intermediazione dell'art. 117, 1° comma, Cost. - dall'art. 7 CEDU, le cui, disposizioni, come premesso, rientrano tra quelle non derogabili dagli ordinamenti interni neppure in situazioni di emergenza (art. 15 CEDU). Alla luce dei principi affermati in «Scoppola», quindi, anche il principio della retroattivita' della lex mitior gode del medesimo canone di assolutezza previsto per il divieto della irretroattivita' in peius, nei limiti riconosciuti dalla Corte europea, ossia riguardo alla successione di «disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono» intervenuta prima della sentenza definitiva di condanna. A tal proposito, con la sentenza n. 393/2006 - riguardante la declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma transitoria contenuta nella legge c.d. «ex Cirielli» in materia di applicazione della nuova disciplina della prescrizione - la Corte costituzionale aveva precisato che l'ambito di operativita' del principio di retroattivita' in mitius non deve essere limitato alle sole disposizioni concernenti la misura della pena, ma va esteso a tutte le norme sostanziali che, pur riguardando profili diversi dalla sanzione in senso stretto, incidono sul complessivo trattamento riservato al reo; infatti, «la norma del codice penale (che sancisce la regola generale della retroattivita' della lex mitior) deve essere interpretata, ed e' stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (e da quella di legittimita'), nel senso che la locuzione «disposizioni piu' favorevoli al reo» si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato». Ebbene, sulla scorta delle considerazioni che precedono - in particolare delle richiamate sentenze «Scoppola» e «Del Rio Prada» che hanno considerato irrilevante la qualifica come «processuale» attribuita dal diritto interno a norme in realta' idonee ad incidere sul trattamento sanzionatorio - non puo' negarsi la spiccata prevalenza della natura «sostanziale» in ambito convenzionale delle nuove norme sulla «messa alla prova» di cui alla legge n. 67/2014 che, introducendo un istituto idoneo a condurre all'estinzione del reato, sono suscettibili di incidere in termini oltremodo significativi sulla punibilita' dell'autore della condotta illecita, ed in particolare sull'an della risposta punitiva dell'ordinamento. Il carattere prevalentemente sostanziale dell'istituto si evince, peraltro, dalle finalita' che hanno accompagnato la sua introduzione, individuabili non solo in ragioni deflattive ma anche nelle esigenze specialpreventive e risocializzatrici come emerge dalla centralita' della previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilita'. Il Tribunale non ignora la posizione della Corte costituzionale sul tema della retroattivita' in mitior della legge penale piu' favorevole, espressa con la sentenza n. 236/2011 (con tale pronuncia e' stata dichiarata non fondata la questione di legittimita' costituzionale relativa all'inapplicabilita' della disciplina sulla prescrizione introdotta dalla legge n. 251/05 ai processi pendenti in grado di appello o in cassazione). Nell'occasione, la Consulta ha affermato la «derogabilita'» del principio di retroattivita' della norma piu' favorevole - anche al metro dell'art. 117 comma 1° Cost. e, tramite esso, all'art. 7 CEDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo - «in presenza di particolari ragioni giustificative», nel caso di specie ravvisabili nella tutela di «interessi di rilievo costituzionale sottesi al processo», come «la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale, oltre al principio di effettivita' del diritto penale». A questa conclusione il giudice delle leggi e' pervenuto sul rilievo, tra gli altri, che nella sentenza «Scoppola» «nulla la Corte ha detto per far escludere la possibilita' che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattivita' in mitius subisca deroghe o limitazioni»; del resto, si e' fatto osservare, la sentenza della Corte europea riconosce essa stessa un limite -quello del giudicato - all'operativita' del principio in questione, da tanto derivando l'implicita affermazione della sua non assolutezza. Tuttavia, nella stessa pronuncia i giudici costituzionali hanno riconosciuto «al principio di retroattivita' in mitius una propria autonomia», poiche' detto principio «ha ora, attraverso l'art. 117, primo comma, Cost., acquistato un nuovo fondamento con l'interposizione dell'art. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo». Ed allora, dal nuovo rango convenzionale e costituzionale assegnato al richiamato principio non puo' non farsi discendere la conseguenza - evidenziata da autorevole e condivisibile dottrina - che eventuali deroghe a detto principio potrebbero giustificarsi solo in ragione della tutela di «contro interessi di rango omogeneo al diritto fondamentale cui si intende eccettuare»; l'integrazione attraverso il parametro dell'art. 117, comma 1° Cost. indurrebbe, cosi', ad escludere che il principio della retroattivita' della lex mitior possa essere bilanciato rispetto a contrapposte esigenze «connesse a fattori interni allo svolgimento della funzione giurisdizionale» ed eventualmente sacrificato rispetto a tali istanze. D'altra parte, e in senso generale, nella sentenza n. 317/2009 la Corte costituzionale aveva chiarito che, «con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non puo' mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle gia' predisposte dall'ordinamento interno, ma puo' e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Se si assume questo punto di partenza nella considerazione delle interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, si arriva facilmente alla conclusione che la valutazione finale circa la consistenza effettiva della tutela in singole fattispecie e' frutto di una combinazione virtuosa tra l'obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU - nella sua interpretazione giudiziale, istituzionalmente attribuita alla Corte europea ai sensi dell'art. 32 della Convenzione - l'obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme interne una interpretazione conforme ai precetti convenzionali e l'obbligo che infine incombe sulla Corte costituzionale - nell'ipotesi di impossibilita' di una interpretazione adeguatrice - di non consentire che continui ad avere efficacia nell'ordinamento giuridico italiano una norma di cui sia stato accertato il deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale. Del resto, l'art. 53 della stessa Convenzione stabilisce che l'interpretazione delle disposizioni CEDU non puo' implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali». Da tale premessa i giudici costituzionali avevano fatto discendere l'affermazione che non puo' consentirsi «che si determini, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., una tutela inferiore a quella gia' esistente in base al diritto interno, ma neppure puo'» ammettersi «che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale. La conseguenza di questo ragionamento e' che il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialita' insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti». Nel concetto di massima espansione delle tutele «deve essere compreso, come gia' chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioe' con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall'espansione di una singola tutela. Questo bilanciamento trova nel legislatore il suo riferimento primario, ma spetta anche a questa Corte nella sua attivita' interpretativa delle norme costituzionali». Aveva, quindi, concluso la Corte che «il risultato complessivo dell'integrazione delle garanzie dell'ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall'incidenza della singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali». In conclusione, alla luce del nuovo inquadramento convenzionale (art. 7 CEDU) e costituzionale (art. 117, comma 1° Cost.), il principio della retroattivita' della legge penale piu' favorevole gode di una copertura «piu' intensa» e, quindi, potra' sopportare deroghe ed eccezioni solo in funzione della tutela di antagonisti «diritti fondamentali» della persona riconosciuti a livello convenzionale. Nel nuovo paradigma del raffronto diretto con il principio di legalita' convenzionale espresso dalla norma interposta (art. 7 CEDU), ritiene percio' il Tribunale che istanze quali «l'efficienza del processo», «la tutela dei destinatari della giurisdizione», «la dispersione delle attivita' processuali gia' compiute», la «ragionevole durata del processo», non possano considerarsi sovraordinate - semmai del tutto recessive - rispetto al fondamentale diritto dell'imputato di accedere, in ogni momento, ad un sopravvenuto istituto idoneo a determinare l'estinzione del reato a lui ascritto. D'altra parte, in piu' occasioni la Corte costituzionale ha escluso che «valori costituzionali» coinvolti nel processo possano essere vanificati rispetto ad istanze riferibili ad un utile ed efficace svolgimento della funzione giurisdizionale (cfr. ord. n. 204 del 22 giugno 2001; ord. n. 399 dell'11 dicembre 2001; ord. n. 458 del 19 novembre 2002, riguardanti in particolare il principio della «ragionevole durata del processo»). A ben vedere, diversamente che per la materia della prescrizione - oggetto di scrutinio nella sentenza n. 236/11 - le richiamate istanze in ogni caso non risulterebbero significativamente frustrate per effetto dell'applicazione retroattiva della nuova disciplina della «sospensione del procedimento con messa alla prova per imputati maggiorenni» (attraverso, cioe', l'applicazione dell'istituto ai procedimenti che al momento dell'entrata in vigore della legge n. 67/2014 abbiano superato la fase processuale della «dichiarazione di apertura del dibattimento»). In particolare, per quel che in questa sede rileva, il materiale probatorio raccolto nel corso del dibattimento (si pensi ad eventuali ammissioni di addebiti, a condotte riparatorie, a particolari circostanze e modalita' del fatto contestato che valgano a connotarlo in termini di minore offensivita') potrebbe essere proficuamente recuperato in favor rei ai fini del giudizio sull'idoneita' del programma di trattamento presentato - giudizio che l'art. 464-quater comma 3° stabilisce debba essere effettuato «sulla base dei parametri di cui all'art. 133 c.p.» - sulla sua durata e, soprattutto, per la formulazione della prognosi di non recidiva (laddove, per esempio, le evidenze processuali rimandino al carattere occasionale della condotta criminosa o valgano concretamente ad apprezzare i «motivi a delinquere»); tanto ove viepiu' si consideri che tra i limiti soggettivi per l'accesso all'istituto il legislatore non ha indicato il «recidivo». Nello stesso senso, il rischio della «dispersione» dell'attivita' processuale svolta sarebbe salvaguardato dalla possibilita' di utilizzare ai fini della decisione le prove gia' acquisite, in caso di revoca o esito negativo della prova: in quest'ultima evenienza, infatti, gli artt. 464-septies, comma 2°, c.p.p. e 464-octies, comma 4°, c.p.p. stabiliscono che «il processo riprende il suo corso», in tal modo sottintendendo - o comunque non escludendo - la piena utilizzabilita' dei risultati di tutti gli atti processuali fino a quel momento compiuti, attraverso l'impiego di un termine («il processo») astrattamente riferibile anche all'ipotesi in cui sia stata gia' svolta l'istruttoria dibattimentale con relativa assunzione di prove. Finalita' «recuperatorie», di salvaguardia dell'effettivita' della giurisdizione e di tutela dei suoi destinatari (in particolare le parti offese) sono sottese, inoltre, ad ulteriori disposizioni della legge n. 67/2014 che si presentano strutturalmente compatibili anche con l'eventualita' di un accesso all'istituto nella fase «dibattimentale»; tra queste si segnalano: l'art. 168-ter comma 1° c.p., secondo cui «durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il corso della prescrizione e' sospeso»; l'art. 464-quater, comma 8°, c.p.p., che esclude la contemporanea sospensione del processo civile prevista, in via generale, dall'art. 75, comma 3° c.p.p.; l'art. 657-bis c.p.p., che riconosce la computabilita' del periodo di prova, eseguito con esito negativo, ai fini della determinazione della pena da eseguire. In relazione a tali profili, peraltro, la scelta del Legislatore di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l'accesso alla «messa alla prova» nel giudizio direttissimo non risulterebbe conforme a ragionevolezza, poiche' l'attivita' processuale in ipotesi compiuta non sarebbe del tutto vanificata da un'eventuale accesso all'istituto premiale. Da ultimo e' il caso di segnalare che l'applicazione della «messa alla prova» oltre il termine tassativo indicato nell'art. 464-bis comma 2° c.p.p., risulterebbe conforme all'obiettivo di deflazione carceraria che - all'indomani della sentenza della Corte EDU 8 gennaio 2013, Torreggiani - ha accompagnato e giustificato l'introduzione dell'istituto in commento. Sulla scorta di tutte le considerazioni sin qui svolte, l'art. 464-bis comma 2° c.p.p., nella parte in cui prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova «puo' essere proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo», non e' compatibile con il principio di legalita' convenzionale di cui all'art. 7 CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte europea. E' noto che le sentenze della Corte EDU non sono in alcun modo equiparabili a quelle della Corte di Giustizia del Lussemburgo, adita in via pregiudiziale o nell'ambito di una procedura di infrazione. Il giudice ordinario, quindi, non puo' risolvere il contrasto tra legge interna e norma convenzionale evidenziato dalla Corte di Strasburgo, provvedendo egli stesso a disapplicare la prima, presupponendo cio' il riconoscimento di un primato delle norme contenute nella Convenzione e/o delle sentenze della Corte EDU, analogo a quello conferito al diritto dell'Unione Europea ed alle sentenze della Corte di Giustizia, che incidono direttamente nell'ordinamento nazionale e possono determinare addirittura la disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti. La giurisprudenza costituzionale, a partire dalle richiamate nn. 348 e 349 del 2007, e' costante nell'affermare che «le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione (art. 32, 1, della Convenzione) - integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, comma 1°, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n. 1 e 113 del 2011; nn. 138, 187 e 196 del 2010; nn. 311 e 317 del 2009; n. 39 del 2008). Il Giudice delle leggi - a fronte di un orientamento della giurisdizione amministrativa circa un asserito inserimento nel diritto dell'Unione europea della CEDU compiuto dall'art. 6, par. 2, del Trattato sull'Unione europea, cosi' come modificato nel dicembre 2009 a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (Cons. Stato n. 1220 del 2 marzo 2010; Tar Lazio, n. 11984 del 18 maggio 2010) - ha ritenuto la perdurante validita' della detta ricostruzione pur dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Con la sentenza n. 80/2011, infatti, la Corte costituzionale ha sottolineato che il riferimento all'art. 6, par. 2, T.U.E. e' prematuro, nelle more dell'adesione dell'U.E. alla CEDU, ed ha precisato soprattutto che il richiamo alla CEDU operato dal diritto dell'Unione viene in rilievo con esclusivo riguardo ai casi in cui il giudice italiano deve valutare fattispecie che rientrano nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione. La Consulta ha anche chiarito che «l'art. 117 Cost., comma 1°, ed in particolare l'espressione «obblighi internazionali» in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 ed 11 Cost. Cosi' interpretato, l'art. 117, comma 1° Cost., ha colmato la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza e' che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117 comma 1° Cost.» (sentenza n. 311/2009, richiamata nella sentenza n. 236/2011). In presenza di un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, pero', «il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilita' di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica» (sentenze n. 113/2011, n. 93/2010, nn. 239 e 311 del 2009). L'esito negativo di tale verifica e il contrasto non componibile in via interpretativa impongono al giudice ordinario - che non puo' disapplicare la norma interna ne' farne applicazione, per il ritenuto contrasto con la CEDU e quindi con la Costituzione - di sottoporre alla Consulta la questione di legittimita' costituzionale in riferimento all'art. 117, comma 1°, Cost. (sentenza n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311 del 2009), attraverso un rinvio pregiudiziale, con la conseguenza che l'eventuale operativita' della norma convenzionale, cosi' come interpretata dalla Corte di Strasburgo, deve passare attraverso una declaratoria d'incostituzionalita' della normativa interna di riferimento o, se del caso, l'adozione di una sentenza interpretativa o additiva. Competera', inoltre, al Giudice delle leggi, ove accerti il denunciato contrasto tra norma interna e norma della CEDU, non risolvibile in via interpretativa, verificare se la seconda, che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale, si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Carta fondamentale, ipotesi questa che portera' ad escludere l'idoneita' della norma convenzionale ad integrare il parametro costituzionale considerato (sentenze nn. 113 e 303 del 2011; n. 93 del 2010; n. 311 del 2009; nn. 348 e 349 del 2007). Delineati i rapporti tra CEDU e diritto interno, tornando al tema oggetto di scrutinio, ritiene il Tribunale che il riscontrato divario tra l'art. 464-bis comma 2° c.p.p. e l'art. 7 CEDU non sia superabile in via interpretativa. A questa conclusione si perviene sulla base della considerazione che l'istituto della «messa alla prova» per gli imputati adulti presenta, come gia' ricordato, anche una connotazione tipicamente processuale, poiche' «il beneficio della possibile estinzione del reato e' strettamente connesso alla peculiare procedura che deve essere seguita, l'uno risultando inscindibilmente legato ad una ratio deflattiva che impedisce ogni efficacia del beneficio autonoma, quindi al di fuori del peculiare rito» (cosi' Cass. n. 25627 del 31 luglio 2014). L'effetto sostanziale che l'istituto premiale e' suscettibile di produrre risulta rigidamente vincolato a termini processuali espressi e tassativi, superabili solo attraverso una pronuncia della Corte costituzionale che, intervenendo sulla norma censurata, renda accessibile la «messa alla prova» oltre il termine della «dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo». Alla luce delle considerazioni su esposte appare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale in relazione all'art. 117, 1° comma, Cost. ed all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con riferimento all'art. 464-bis comma 2° c.p.p., nella parte in cui prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova «puo' essere proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo».
P.Q.M. Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, in relazione all'art. 117, 1° comma, Cost. ed all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con riferimento all'art. 464-bis comma 2° c.p.p., nella parte in cui prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova «puo' essere proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo». Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del presente giudizio, con sospensione del corso della prescrizione del reato. Dispone che la presente ordinanza sia notificata al sig. Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicata al sig. presidente del Senato ed al sig. presidente della Camera dei deputati. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti. Brindisi, 17 dicembre 2014 Il Giudice: Cacucci