N. 176 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 aprile 2015
Ordinanza del 20 aprile 2015 emessa dal Magistrato di sorveglianza di Padova sull'istanza proposta da C.G.. Ordinamento penitenziario - Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati - Mancata previsione dell'applicabilita' del ristoro economico previsto dall'art. 35-ter, comma 2, O.P. ai condannati alla pena dell'ergastolo che abbiano gia' scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale - Mancata previsione di un effettivo rimedio compensativo nei confronti del condannato alla pena dell'ergastolo - Irragionevole disparita' di trattamento tra detenuti temporanei e perpetui - Compressione dell'effettivita' della tutela giurisdizionale - Inosservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, con specifico riferimento all'art. 3 CEDU e nell'interpretazione della Corte di Strasburgo di "trattamento inumano o degradante" - Violazione del principio della finalita' rieducativa della pena. - Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 35-ter, inserito dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 117. - Costituzione, artt. 3, 24, 27, comma terzo, e 117, primo comma, in relazione all'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.37 del 16-9-2015 )
IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA Vista l'istanza avanzata da C. G. nato a Niscemi (CL) il 31 gennaio 1957 detenuto nella Casa di reclusione di Padova in esecuzione della pena dell'ergastolo determinata con provvedimento di cumulo della Procura generale presso la Corte d'Appello di Catania del 2 ottobre 2007; Sentite le conclusioni del pubblico ministero e della difesa, all'esito della procedura prevista dall'art. 35-ter o.p., quale introdotto dall'art. 1 del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117 ed a scioglimento della riserva assunta all'udienza del 20 marzo 2015, ha emesso la seguente ordinanza. Ritenuto in fatto Con reclamo pervenuto all'ufficio in data 12 agosto 2014, e successivamente integrato il 14 novembre 2014, il detenuto in epigrafe proponeva istanza ai sensi dell'art. 35-ter o. p. per la violazione dell'art. 3 Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo asserendo di aver subito, dalla data della sua detenzione in vari istituti italiani, una restrizione dello spazio disponibile nella cella al di sotto dei 3 mq essendo stato costretto a condividere la cella con altri detenuti. Chiedeva pertanto, in ragione della violazione complessiva dei diritti subita durante la detenzione ed a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena di un giorno per ogni 10 di pregiudizio sofferto in relazione al periodo detentivo. Va precisato che la pena in espiazione riguarda vari periodi detentivi a partire dalla data dell'arresto (1° giugno 1986) in relazione al reato di omicidio per il quale il reclamante e' stato condannato alla pena dell'ergastolo con sentenza 1° dicembre 1988 della Corte d'Appello di Catania. Le pene detentive relative ad un'ulteriore condanna (anni 4 e mesi 6 per l'art. 74 e 73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90) sono confluite nella pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni 1 (quest'ultimo espiato dal 28 maggio 2003 al 28 novembre 2003 e dal 20 gennaio 2005 al 20 luglio 2005). Nonostante alcune successive interruzioni (anche per differimento della pena per complessivi anni 1 mesi 6 e giorni 20) il periodo in valutazione copre dunque l'intera condanna all'ergastolo poi confluita nel cumulo oggi in esecuzione, sebbene l'interessato abbia limitato la domanda risarcitoria soltanto ad alcuni istituti in cui e' stato ristretto: Ragusa, Enna, Noto, Favignana, Lecce, Caltagirone, Sulmona, Vasto, Augusta, Spoleto e Padova. All'esito della complessa istruttoria, resa difficoltosa soprattutto dal fatto che i periodi detentivi sono perlopiu' remoti nel tempo e lo stato degli istituti si e' notevolmente modificato da allora, si e' soltanto potuto accertare fino ad oggi che durante la detenzione nel carcere di Augusta, in cui il detenuto e' stato ristretto con altri 2 compagni disponendo di uno spazio pro capite di soli mq 2,79, egli ha subito certamente un trattamento disumano e degradante, alla stregua dei criteri indicati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, per complessivi giorni 384 (in vari, alternati, periodi compresi tra il 10 giugno 2007 e il 20 maggio 2010, come indicato nella nota del predetto istituto datata 7 gennaio 2015). Altresi', allorche' era detenuto presso il carcere di Caltagirone, nei periodi in cui ha condiviso la cella dapprima con 13 detenuti indi con altri 7 (dal 22 marzo 1992 al 23 marzo 1992 e dal 24 marzo 1992 all'11 aprile 1992), ha avuto a disposizione uno spazio minimo di mq 2,86 nel primo caso e di mq 2,82 nel secondo, per un totale di giorni 19 (cfr. nota della Casa circondariale di Caltagirone del 19 febbraio 2015). Infine, nella Casa di reclusione di Padova, ove attualmente si trova, egli ha subito un analogo trattamento per un giorno soltanto (il 25 febbraio 2014) allorche' ha condiviso la cella con altri due detenuti, disponendo percio' di mq 2,85 (cfr. nota della Casa di reclusione di Padova del 17 gennaio 2015). In ordine alla misurazione dello spazio vivibile, il criterio di misurazione qui adottato esclude dalla superficie utile sia i locali adibiti a servizi igienici sia quegli arredi che, per essere inamovibili, sottraggono alla persona un effettivo spazio utilizzabile. Lo spazio della cella va infatti, a giudizio dello scrivente, ridotto a causa dell'ingombro costituto dalla presenza di vario mobilio: si tratta nel caso di specie (per quanto qui interessa) degli armadi, grossomodo per complessivi mq. 0,54, che riducono lo spazio effettivamente disponibile ad un limite sempre inferiore, nei casi considerati, a quello «vitale» di 3 mq. come fissato dalla Corte europea. Com'e' noto la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il parametro dei 3 mq. debba essere ritenuto il minimo consentito al di sotto del quale si avrebbe violazione «flagrante» dell'art. 3 della Convenzione e dunque, per cio' solo, «trattamento disumano e degradante», indipendentemente dalle altre condizioni di vita detentiva (afferenti in particolare le ore d'aria disponibili o le ore di socialita', l'apertura delle porte della cella, la quantita' di luce e aria dalle finestre, il regime trattamentale effettivamente praticato in istituto). In altre parole, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, oggi espressamente richiamata sub specie iuris nel concetto di «gravita'» dal comma 1 dell'art. 35-ter, ha stabilito che ancorche' il detenuto, per assurdo, trascorra le sole ore dedicate al sonno nella camera, non puo' comunque disporre di uno spazio inferiore a 3 mq. Se e' vero che il 1° comma dell'art. 6 o.p. si limita a prevedere che i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di «ampiezza sufficiente», e' anche vero che esiste uno spazio vitale minimo al di sotto del quale la giurisprudenza della CEDU ravvisa la patente violazione dell'art. 3 della Convenzione ratificata in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. Cio' premesso, si deve ritenere in fatto che il ricorrente abbia subito un pregiudizio, integrante la fattispecie sottesa al rimedio risarcitorio qui reclamato, per un totale di almeno 404 giorni, pari ad una ipotetica riduzione di pena, applicando il criterio proporzionale di cui al comma 1 dell'art. 35-ter o.p., di giorni 40. In relazione agli altri periodi detentivi non si e' raggiunta la piena prova di quanto dedotto dall'instante o perche' in alcuni casi egli e' stato ristretto in una cella, sufficientemente ampia, da solo (Spoleto e Vasto) ovvero perche' i periodi detentivi, particolarmente risalenti, sono di difficile se non impossibile accertamento (Ragusa, Enna, Noto, Favignana e Caltagirone prima del 1992) o, infine, perche' gli istituti penitenziari non hanno dato riscontro alla richiesta istruttoria (Trapani, Caltanissetta, Floridia, Enna, Lecce, Sulmona). Il difensore del ricorrente, fermo dunque il diritto ad ottenere il rimedio risarcitorio reclamato per il proprio assistito quantomeno per il periodo di gia' accertato pregiudizio, solleva in via preliminare questione di legittimita' costituzionale della norma di cui all'art. 35-ter o.p. la quale non consentirebbe di detrarre, nel caso del condannato alla pena dell'ergastolo, il quantum eventualmente accordato a titolo compensativo (nel caso di specie giorni 40), riduzione che potrebbe operare soltanto con riguardo ad una pena temporanea (necessariamente determinata cioe' nel dies ad quem), non essendo stata introdotta una disciplina speculare al contenuto dell'art. 54, ultimo comma, o. p. - sulla scorta della fictio juris adottata in tema di riduzione per liberazione anticipata (li' considerata come «pena espiata») - ne' potendosi d'altro canto dar corso, quale unica riparazione, al rimedio pecuniario essendo quest'ultimo un rimedio solo residuale e previsto di risulta in relazione «al residuo di pena» (comma 2 dell'art. 35-ter). L'impossibilita' di accedere ad un'esegesi in senso costituzionalmente conforme impone, a giudizio del deducente, la denuncia di illegittimita' della nuova disposizione per violazione dell'art. 3 Cost. (in quanto escludente gli ergastolani dal trattamento risarcitorio senza alcuna ragionevole giustificazione), per violazione dell'art. 24 Cost. (rendendo per costoro lo strumento giudiziale di tutela privo di effettivita') e dell'art. 27 Cost. (per la necessita' di non comprimere in modo irragionevole il percorso rieducativo dei condannati all'ergastolo impedendo loro la progressiva umanizzazione della pena) nonche', infine, per violazione dell'art. 117, comma 1 con riferimento all'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. Cio' detto, si osserva che la necessita' di dilungarsi nell'esposizione delle questioni in fatto e' imposta dai profili di rilevanza della questione sollevata, la quale presuppone, com'e' noto, un collegamento giuridico fra la norma della cui costituzionalita' si dubita e la res iudicanda. La norma impugnata e' inerente al giudizio a quo, posto che il richiedente invoca l'applicazione dell'art. 35-ter o. p. Non e' in dubbio che il ricorrente abbia subito, nei periodi di detenzione suddetti, un trattamento «disumano e degradante». In presenza di simili carcerazioni sono oggi esperibili i rimedi «risarcitori» (come tali definiti dal legislatore) di cui al suddetto articolo, introdotto nell'ordinamento penitenziario con il decreto-legge 26 giugno 2014, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117. Il primo rimedio, disciplinato nei commi 1 e 2, e' esperibile dai soggetti detenuti dinnanzi al magistrato di sorveglianza e prevede in via principale il ristoro della riduzione di pena e solo in via residuale quello pecuniario (in caso cioe' di pena «incapiente» o di periodi di detenzione pregiudizievole inferiori ai 15 giorni). Il secondo, regolato dal comma 3, assegna viceversa la competenza al Tribunale civile in composizione monocratica e puo' comportare unicamente un indennizzo monetario per i soggetti non piu' detenuti. Gran parte della dottrina e della giurisprudenza, alle quali ci si intende conformare, hanno aderito all'indirizzo secondo cui davanti al magistrato di sorveglianza puo' agire chiunque sia ancora detenuto, indipendentemente dall'attualita' delle condizioni «inumane» di carcerazione (assente nel caso di specie). A favore di questa soluzione militano plurimi elementi presenti nel testo normativo, poiche' in piu' punti si fa espresso riferimento a «coloro che hanno subito il pregiudizio» e non invece a coloro che «attualmente» lo subiscono. L'approdo e' coerente con la ratio legislativa, deducibile dall'espressa volonta' di rispondere all'invito della Corte europea di introdurre meccanismi di tutela compensativa effettivi (sentenza Torreggiani) e di individuare nella riduzione di pena la destinazione naturale del rimedio, mantenendo l'indennita' pecuniaria come strumento riparativo residuale, da accordare solo se, per fattori oggettivi, non sia piu' possibile la detrazione della sanzione (sentenza CEDU Stella c. Italia del 25 settembre 2014). Si consideri, altresi', che la via risarcitoria ordinaria (come tra l'altro confermato da Cass. n. 4772 del 15 gennaio 2013, Vizzari) era di fatto gia' percorribile dal detenuto avanti al giudice civile anche prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 92/14, sebbene non giudicata soddisfacente dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Da tali considerazioni discende la competenza del giudice remittente a valutare la domanda presentata dal reclamante ex art. 35-ter o.p. Sempre sotto il profilo della rilevanza della questione valga ancora una considerazione in fatto. L'odierno ricorrente e' in espiazione di pena dal 1° giugno 1986 (tranne per una sospensione di anni 1 mesi 6 e giorni 20) e dunque, computando anche i periodi di riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata, da oltre 26 anni. Ha dunque gia' maturato il diritto, in termini temporali, ad accedere al beneficio della liberazione condizionale, indipendentemente dunque da un'ulteriore riduzione che gli venisse riconosciuta a titolo compensativo. In altre parole, ove anche fosse consentita una compensazione per il pregiudizio subito nei termini detrattivi previsti dal comma 1 dell'art. 35-ter o.p., comunque tale riduzione di pena non produrrebbe alcun concreto vantaggio nei confronti del reclamante posto che, quanto a pena espiata, egli gia' puo' accedere al massimo beneficio previsto per l'ergastolano dall'art. 176 codice penale. Considerato in diritto Ritiene questo giudice remittente non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della norma di cui all'art. 35-ter o.p. nella parte in cui non prevede un rimedio compensativo effettivo nei confronti del condannato alla pena dell'ergastolo, per violazione degli articoli 3, 24, 27 comma 3, 117 comma 1, Cost. La questione appare rilevante - per quanto sopra chiarito nelle considerazioni in fatto - posto che nel caso concreto il magistrato di sorveglianza, adito dal detenuto quale giudice competente ad apprestare un rimedio risarcitorio per detenzione inumana, si trova nell'impossibilita' di accordare sia una riduzione di pena, trattandosi di pena perpetua, sia un ristoro economico, previsto quest'ultimo solo in via aggiuntiva per la parte di pena non piu' riducibile. Il giudice remittente non puo' peraltro sottrarsi dal percorrere la strada dell'interpretazione conforme a Costituzione prima di rimettere la questione alla Corte poiche' cio' costituirebbe una rinuncia alla propria indeclinabile funzione ermeneutica. Il giudice infatti e' chiamato a ricorrere all'impugnativa solo dopo aver verificato, anche con l'ausilio del «diritto vivente», la possibilita' di giungere ad una lettura della norma che, nel rispetto dei comuni canoni ermeneutici, consenta di intenderla in armonia con la Costituzione. Va subito osservato che non ci si trova di fronte ad una disposizione legislativa «polisensa», ipotesi in cui il principio dell'interpretazione adeguatrice sprigiona tutte le sue potenzialita', ma ad una norma che prevede casi tassativi di univoca interpretazione, non estensibili in via analogica per il divieto dell'art. 14 preleggi (il rimedio detrattivo e' infatti disposizione eccezionale alla regola generale dell'indefettibile esecuzione di una sanzione detentiva la quale puo' essere modificata in senso quantitativo, a piu' scopi, solo nei casi espressamente previsti dalla legge). Va osservato che, sulla base delle usuali regole ermeneutiche, la norma in oggetto non consente di applicare la detrazione di pena ai condannati che stanno espiando l'ergastolo, ossia una pena perpetua (v. ordinanza Corte costituzionale n. 337 del 1995; sentenza Corte costituzionale n. 270 del 1993) estinguibile solo con l'applicazione della liberazione condizionale e l'assenza di una causa di revoca nei cinque anni successivi alla sua concessione (ex art. 177 codice penale). Si pone dunque il problema di come possa incidere, per il condannato all'ergastolo, una riduzione «in astratto» della pena. Il giudice delle leggi ha gia' avuto modo di affrontare il tema della legittimita' costituzionale dell'art. 176 codice penale, comma 3, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 27 Cost., comma 3, nella parte in cui non viene riconosciuto alcun effetto alla concessione dell'indulto ai fini dell'ammissione alla liberazione condizionale del condannato all'ergastolo. Ed invero, come la Corte costituzionale ha avuto modo di osservare (sentenza n. 337 del 1995), nonostante l'inquadramento di detta pena nell'attuale tessuto normativo abbia, a determinati fini, provocato il venir meno della rigorosa caratteristica di perpetuita' che all'epoca dell'emanazione del codice la connotava, l'ergastolo deve considerarsi comunque una pena perpetua, tanto da non ammettere «scomputi» che incidano sulla natura stessa della pena. Di conseguenza anche se, a taluni fini, la pena dell'ergastolo puo' assumere i caratteri della temporaneita' nel quadro di quelle misure premiali che anticipano il reinserimento come effetto del sicuro ravvedimento del condannato - da comprovarsi dal giudice sulla base non solo della buona condotta tenuta durante l'espiazione della pena, bensi', soprattutto, della sua partecipazione rieducativa - non e' possibile, ai fini dell'accesso alle misure alternative alla detenzione, detrarre dalla pena inflitta la misura corrispondente all'indulto perche', altrimenti, si inciderebbe sulla natura stessa della pena quale irrogata in sede di cognizione, con inevitabili riverberi non solo sulla misura ma sulla qualita' della pena stessa (ex plurimis cfr. Cass., Sez. I, 15 giugno 2007, n. 35209 e Corte costituzionale n. 337/95). Nei confronti degli ergastolani sarebbe pertanto possibile ridurre la sanzione solo tramite una fictio iuris che consenta di diminuire proporzionalmente i limiti di pena previsti dalla legge per l'accesso ai benefici penitenziari. Tuttavia una simile operazione non e' possibile in assenza di un'espressa previsione normativa. L'ergastolo, in quanto pena detentiva perpetua, cosi' come non e' condonabile «in parte» ma soltanto (per volonta' del legislatore) convertibile in pena di altra specie, non e' altrimenti «riducibile» se non per espressa volonta' del legislatore e con meccanismi da esso stesso voluti. Piena conferma di questo orientamento, consolidato e costante, e' la circostanza che la liberazione anticipata, anch'esso istituto che determina una diminuzione della pena (a fini rieducativi), sia applicabile agli ergastolani solo in forza dell'espresso dettato normativo dell'art. 54, comma 4, o.p., che consente di considerare come pena «scontata» i giorni detratti a titolo di liberazione anticipata «agli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semiliberta' e della liberazione condizionale». La liberazione anticipata, proprio in quanto «pena espiata», consente al detenuto «che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione» (art. 54, comma 1 o.p.) di poter accelerare il percorso trattamentale, anticipando l'accesso a strumenti premiali e misure alternative alla detenzione. La stessa Corte, affrontando ex professo la questione di costituzionalita' dell'art. 54 o.p. (sentenza n. 274 del 1983) aveva affermato che, essendo l'ergastolo per definizione una pena «senza una scadenza che sia possibile anticipare», i soggetti a detta pena condannati dovevano poter ugualmente fruire della riduzione prevista dall'art. 54 o.p. «ai soli fini dell'applicazione del terzo comma dell'art. 176 c.p.», essendo ingiustificata ed arbitraria l'esclusione degli ergastolani dal vantaggio derivante dal raccordo tra questo istituto e quello della liberazione condizionale in ragione dei comuni presupposti e delle comuni finalita' (rispetto ai condannati a pena temporanea) attuative del terzo comma dell'art. 27 Cost. La recuperabilita' sociale del condannato all'ergastolo, mediante la possibilita' della liberazione condizionale, segnava del resto una svolta di evidente rilievo nella legislazione penale, sottolineata dalla Corte con la sentenza n. 264 del 1974 che faceva salva la legittimita' della pena perpetua proprio grazie all'accessibilita' al beneficio dell'art. 176 codice penale. Orbene, la norma dell'art. 54 ultimo comma o.p. e' norma eccezionale che devia dal principio generale di immodificabilita' e imperativita' del giudicato e che si fonda su presupposti premiali (meritevolezza) e risocializzanti (attuazione dell'art. 27, comma 3 Cost.) del tutto estranei alla logica compensativa, meramente riparatrice, sottesa all'art. 35-ter o.p. E' norma pertanto insuscettibile di applicazione analogica. Violerebbe il divieto di cui all'art. 14 disposizioni preleggi desumere dalla disposizione dell'art. 54, comma 4, o.p. la possibilita' di riconoscere come «pena espiata» la riduzione di una pena «senza scadenza» a titolo di rimedio risarcitorio da detenzione inumana. Se la finalita' di tale fictio e', come ben chiarisce la citata sentenza n. 274/83, quella di rendere possibile il recupero sociale anche dell'ergastolano grazie all'anticipato accesso ai benefici premiali, dunque nell'ambito delle finalita' attuative del finalismo rieducativo, analoga ratio non si rinviene nel rimedio compensativo (avente finalita' precipuamente riparatorie), siccome avviene nel caso di decurtazione della pena temporanea a titolo di indulto che non puo' valere di per se' come «pena scontata» (se non per volonta' espressa del legislatore) stante la natura clemenziale di questo beneficio, concesso in forme generalizzate prescindendo dalla partecipazione dei condannati all'opera rieducativa. Tale fictio, per essere operante nel caso di specie, avrebbe dunque dovuto essere prevista espressamente. Cio' premesso, va peraltro considerata l'ipotesi - sussistente nel caso concreto all'esame del remittente - dell'ergastolano che abbia comunque gia' raggiunto il termine minimo per l'accesso al beneficio piu' ampio (liberazione condizionale) per il quale dunque la riduzione di pena non apporterebbe, anche a voler estendere in via analogica il disposto del comma 4 dell'art. 54 o.p., alcun concreto vantaggio. Per l'odierno reclamante in altre parole il rimedio risarcitorio di natura «detrattiva» si rivelerebbe del tutto inefficace. Si noti che, viceversa, per il condannato ad una pena temporanea il rimedio «detrattivo» e' sempre per sua natura efficace - anche a non voler considerare la decurtazione come «pena espiata» - poiche' la riduzione di una pena «con scadenza» si risolve in ogni caso, indipendentemente dall'accesso ai benefici, in un'obiettiva utilita' in quanto anticipa la sua fuoriuscita dal circuito penitenziario, possibilita' in contrario preclusa del tutto al condannato a pena perpetua. Ribadito che l'equiparazione espressamente prevista dall'art. 54, comma 4, o.p. e' ipotesi eccezionale che non puo' essere applicata nel contesto dell'art. 35-ter o.p. (nemmeno ai condannati ad una pena temporanea) e che comunque nel caso di specie, ancorche' prevista, essa non apporterebbe alcun concreto vantaggio al richiedente il quale puo' gia' da tempo essere ammesso (avendo espiato oltre 26 anni di pena) al beneficio della liberazione condizionale, resta dunque da esplorare un'ulteriore opzione ermeneutica che individui nel caso di specie il rimedio pecuniario previsto dai commi 2 e 3 come unico esperibile. A tale interpretazione ostano tuttavia decisivi argomenti testuali. La possibilita' di accordare un ristoro patrimoniale e', come ricordato, prevista o nei casi di soggetti ormai fuoriusciti dal circuito carcerario (che, a norma del comma 3, possono rivolgersi solo al giudice civile) o, nei casi di soggetti detenuti (comma 2), «quando il periodo di pena ancora da espiare e' tale da non consentire la detrazione dell'intera misura percentuale di cui al comma 1». E' questo il caso in cui la riduzione di pena non possa essere totalmente satisfattiva per il fatto che la pena «residua» da ridurre non consente di risarcire, per quella via, integralmente il danno patito (e' l'ipotesi in cui il numero dei giorni da decurtare sia superiore a quello dei giorni che rimangono per la completa espiazione della sanzione). L'uso dell'avverbio «altresi'» e l'espressione «residuo periodo» dissolvono ogni dubbio sul ruolo solo «complementare» delle somme di denaro liquidabili dal magistrato di sorveglianza. Salva l'ipotesi, del tutto speciale, di cui all'ultima parte del comma 2 («Il magistrato di sorveglianza provvede allo stesso modo nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali sia stato inferiore ai quindici giorni»), il rimedio pecuniario non e' approdo consentito al magistrato di sorveglianza «per l'intero» ma solo per la parte «residua» non coperta da una pena che, per limiti oggettivi, si riveli «incapiente». Cio' e' tanto vero che l'avverbio «altresi'» impone, per periodi superiori a 15 giorni, al magistrato di sorveglianza dapprima di operare la riduzione di pena e solo se questa non consente l'intera riduzione a cui avrebbe diritto il condannato, di liquidare una somma di denaro, pari ad 8 euro per ogni giorno di pregiudizio sofferto. Tale somma e' destinata a ristorare proprio quella quota percentuale di danno che rimarrebbe non «compensata» dalla riduzione di pena. Non sembra consentito dunque estendere il potere del magistrato di sorveglianza di liquidazione del danno - potere che appare gia' eccezionale e straordinario nell'ambito del procedimento di sorveglianza ex articoli 666 e 678 codice di procedura penale - in via analogica ad ipotesi non previste. L'impossibilita' di accordare un ristoro effettivo del pregiudizio subito dal richiedente alla luce delle argomentazioni sopra esposte, sia attraverso l'estensione analogica dell'equiparazione prevista dall'art. 54, comma 4 o .p. (comunque non satisfattiva nel caso di specie), sia attraverso il risarcimento pecuniario previsto dal comma 2 dell'art. 35-ter o.p. (ed esclusa l'ipotesi del comma 3 essendo il richiedente ancora in vinculis), anche dopo aver verificato l'impossibilita' di giungere ad una lettura della norma che, nel rispetto dei comuni canoni ermeneutici, consenta di intenderla in armonia con la Costituzione, rende la questione sollevata non manifestamente infondata. La norma dell'art. 35-ter o.p., nella parte in cui nega la propria applicabilita' all'ipotesi qui considerata, parrebbe dunque porsi in contrasto innanzitutto con l'art. 3 Cost. in quanto esclude gli ergastolani dal trattamento risarcitorio senza alcuna ragionevole giustificazione. Il diverso trattamento comporta una palese differenza di tutela dei diritti fra detenuti temporanei e perpetui posto che soltanto i primi possono beneficiare dell'ambita riduzione della sanzione penale e, in forma solo parziale, del ristoro patrimoniale, mentre i secondi, pur di fronte a detenzioni lesive della dignita' umana, esaurirebbero le pretese di giustizia nei generali strumenti di tutela risarcitoria in sede ordinaria civile, la cui ineffettivita' e' da tempo condannata dalla Corte europea (come emerge dalla nota sentenza Torreggiani) ovvero, in ultima analisi, nella mera possibilita' di azionare lo speciale rimedio ex art. 35-ter o.p. avanti al giudice civile ma nell'ipotesi, del tutto eventuale, di rimessione in liberta' (opererebbe infatti in tal caso anche nei loro confronti, ormai soggetti liberi, il rimedio previsto dal comma 3). L'irragionevolezza che ne deriva si pone dunque in netto contrasto con l'art. 3 Cost. La norma censurata si pone in conflitto altresi' con l'art. 24 Cost. poiche' rende per tale categoria di soggetti lo strumento giudiziale di tutela privo di effettivita', nonostante le pronunce della Corte costituzionale (n. 99/26) ed i richiami della Corte europea dei diritti dell'uomo (soprattutto C. eur. 8-1-13, Torreggiani ed a. c. Italia) abbiano posto in maniera rilevante la questione dell'effettivita' dei rimedi interni concessi al detenuto contro le violazioni dell'art. 3 Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, non solo per interrompere immediatamente una violazione in atto (cosiddetti rimedi «preventivi»), ma anche per fornire un'adeguata riparazione del danno subito a causa della violazione (cosiddetti rimedi «compensativi»). Imponendo allo Stato di creare «senza indugio» un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi oltreche' compensativi (in grado questi ultimi di consentire alle persone ristrette in condizioni lesive della loro dignita' di ottenere una qualsiasi forma di riparazione per la violazione subita) la Corte EDU ha fissato per lo Stato le coordinate fondamentali del necessario intervento legislativo. Conseguentemente l'art. 35-ter o.p. (introdotto dal decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 117 proprio in esecuzione del monito europeo) si porrebbe in contrasto altresi' con l'art. 117, comma 1 Cost. L'irriducibile compressione dell'art. 24, comma l Cost. e' infatti strettamente connessa alla violazione del parametro interposto dell'art. 117, comma 1 Cost. che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, conseguenti al pieno valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali dell'uomo. La Corte europea nell'invitare alla creazione di nuovi strumenti di protezione dei diritti dei reclusi, in primis di fronte al problema strutturale ed endemico del sovraffollamento, si e' rivolta indubbiamente all'intera popolazione detenuta, senza distinzione fra ergastolani e reclusi comuni. L'art. 3 CEDU, per come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, opera quale norma interposta integrativa del parametro costituzionale violato (l'art. 117, comma 1, Cost.) in quanto l'art. 35-ter o.p., escludendo qualsiasi meccanismo ristorativo e/o risarcitorio per il condannato all'ergastolo, elude il giudicato della sentenza Torreggiani, violando cosi' - direttamente - l'art. 3 CEDU e - indirettamente - l'obbligo costituzionale gravante sul legislatore nazionale di rispettare il relativo vincolo internazionale pattizio. Infine va denunciato il contrasto della norma con l'art. 27, comma 3 Cost. Dalla ricostruzione sopra effettuata emerge infatti chiaramente la necessita' di non comprimere in modo irragionevole il percorso rieducativo dei condannati all'ergastolo impedendo loro la progressiva umanizzazione della pena, con cio' rendendo piu' concreta e funzionale l'azione intesa alla loro rieducazione: in tal senso anche le inequivoche prese di posizione della Corte costituzionale, a partire dalle sentenze n. 12/1966 (mass. 2503) e n. 376/1997, per giungere fino alla recente sentenza n. 279/2013. Del resto la stessa protezione della sfera giuridica del detenuto e' un elemento imprescindibile per consentire alla pena di tendere alla rieducazione del condannato: non e' possibile concepire una pena rieducativa che riconosca sulla carta i diritti del ristretto senza poi corroborarli con gli strumenti necessari per difenderli in giudizio, soprattutto in caso di trattamenti disumani e degradanti e dunque di violazioni di diritti aventi piena protezione costituzionale. E lo stesso percorso di rivisitazione in chiave critica dei reati commessi, funzionale al reinserimento sociale del condannato ex art. 27, comma 1 decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, principale obiettivo del percorso trattamentale anche dell'ergastolano (e proprio in funzione dell'accertamento di quel «sicuro ravvedimento» che e' alla base del beneficio della liberazione condizionale), rimarrebbe compromesso dalla consapevolezza di essere vittima di un'ingiustizia. Cio' detto, deve ora essere specificato il petitum. Esso mira a due addizioni normative all'art. 35-ter o.p., entrambe riferibili alla condizione del condannato alla pena dell'ergastolo: 1) una riduzione di pena a titolo risarcitorio agli effetti del computo della misura di pena scontata per accedere ai benefici penitenziari dei permessi premio, della semiliberta' e della liberazione condizionale; 2) l'estensione del ristoro economico, previsto al comma 2 della disposizione impugnata, al caso dell'ergastolano che abbia gia' scontato una frazione di pena che renda ammissibile la concessione della liberazione condizionale. Nel primo caso l'addizione normativa comporterebbe l'estensione di un meccanismo «esterno», previsto cioe' in altro ambito (quello della liberazione anticipata ex art. 54, comma 4 o.p.) mentre nel secondo caso essa si limiterebbe ad estendere coerentemente il meccanismo riparativo «interno», meramente pecuniario, gia' creato dal legislatore nella stessa norma ma riservato ad altre ipotesi. Questo giudice e' perfettamente consapevole del difetto di rilevanza dell'ipotesi sub 1), per le ragioni sopra esposte in merito all'ammissibilita' temporale ai benefici gia' raggiunta dall'odierno ricorrente, ma non ignora come sia consentito alla Corte, ai sensi dell'art. 27 legge n. 87 del 1953, dichiarare quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimita' deriva come conseguenza della decisione di accoglimento adottata. Non ignora nemmeno il remittente che la decisione di tipo additivo e' consentita solo quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale ma consegua necessariamente al giudizio di legittimita', sicche' la Corte in realta' non crea liberamente la norma ma si limita ad individuare quelle - gia' implicite nel sistema (nel caso di specie il disposto del comma 4 dell'art. 54 o.p. ovvero quello del comma 2 dell'art. 35-ter o.p.) - mediante le quali riempire immediatamente la lacuna. Il remittente e' parimenti consapevole che le pronunce cosiddette «additive» possono risolversi in un intervento manipolativo solo se «a rima obbligata» (v. ex multis Corte costituzionale n. 113/12 del 18 aprile 2012), come tale consentito perche' non necessariamente riservato al legislatore. Nel caso di specie invero la soluzione prospettata (prevedere l'applicazione della riduzione di pena o il ristoro pecuniario a titolo di rimedio risarcitorio anche per l'ergastolano) e' l'unica che puo' ristabilire una condizione di legalita' dell'esecuzione della pena nel caso concreto. Si evidenzia che l'addizione normativa richiesta sembra costituire una soluzione costituzionalmente dovuta che non eccede i poteri di intervento della Corte e non implica scelte affidate alla discrezionalita' del legislatore perche' diretta solo ad evitare discriminazioni fra detenuti comuni e detenuti ergastolani nell'ambito della tutela di diritti riconosciuti da norme nazionali e sovranazionali. La soluzione qui prospettata (consentire la riparazione pecuniaria all'ergastolano per l'intero) inoltre si limita a estendere coerentemente un meccanismo gia' creato dal legislatore per i soggetti detenuti sebbene, nelle ipotesi previste, solo in via complementare. Si osserva incidentalmente che anche la soluzione che ci si limita a sollecitare (considerare la riduzione di pena agli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semiliberta' e della liberazione condizionale) quale conseguenza dell'addizione normativa richiesta (prevedere il ristoro solo economico), appare in linea con quella concezione «dinamica» dell'ergastolo che, con opportuni correttivi, finisce con l'incidere sulla natura stessa della pena. L'ergastolo «a taluni fini» puo' assumere i caratteri della temporaneita' nel quadro di quelle misure premiali che anticipano il reinserimento come effetto del sicuro ravvedimento del condannato (cfr. sentenza n. 168 del 1994) e tra i «fini» cui allude la Corte sembra meritevole di essere ricompreso anche l'eguaglianza dei detenuti di fronte alla legge. Sussistono, in definitiva, ragioni di contrasto della norma contenuta nell'art. 35-ter o.p. con gli articoli 3, 24, 27 comma 3 e 117 comma 1 Cost. e pertanto, sul presupposto della sua rilevanza in fatto, la questione di illegittimita' costituzionale sollevata va dichiarata non manifestamente infondata.
P. Q. M. Visti gli articoli 134 della Costituzione, 23 e ss. legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 35-ter legge 26 luglio 1975, n. 354, come introdotto dall'art. 1 del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117, nella parte in cui non prevede, nel caso di condannati alla pena dell'ergastolo che abbiano gia' scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2 dell'art. 35-ter o.p. e, in ogni caso, nella parte in cui non prevede un effettivo rimedio compensativo nei confronti del condannato alla pena dell'ergastolo, per violazione degli articoli 3, 24, 27 comma 3, 117 comma 1, Cost. (nella parte in cui recepisce l'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo del 4 novembre 1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, e nell'interpretazione a sua volta fornita dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di «trattamento inumano o degradante» ). Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Sospende il procedimento in corso sino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale. Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza di trasmissione degli atti sia notificata alle parti in causa ed al pubblico ministero nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Padova, 20 marzo 2015 Il Magistrato di sorveglianza: dott. Marcello Bortolato