N. 198 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 maggio 2015

Ordinanza del 12 maggio 2015 del Tribunale di Verona nel procedimento
civile promosso da Vivere Bio  S.c.  a  r.l.  in  liquidazione  conto
Azienda agricola di Bonturi Luigi e Bonturi Federico. 
 
Responsabilita' civile dei magistrati  -  Responsabilita'  per  colpa
  grave - Ampliamento dei casi in cui  si  configura  -  Introduzione
  delle nuove ipotesi costituite dal "travisamento del fatto o  delle
  prove" - Estensione ad esse dell'obbligo di rivalsa dello Stato nei
  confronti del magistrato - Denunciata equivocita' e indefinibilita'
  della nuova fattispecie di  illecito  -  Inidoneita'  a  delimitare
  l'ambito della  responsabilita'  del  magistrato,  dell'obbligo  di
  rivalsa statuale e del  sindacato  disciplinare  sui  provvedimenti
  giudiziari - Incidenza sull'indipendenza e autonomia della funzione
  giurisdizionale  -  Irragionevole  svuotamento  della  clausola  di
  irresponsabilita' dei magistrati  per  l'attivita'  valutativa  del
  fatto e delle prove. 
- Legge 27 febbraio 2015, n. 18, artt. 2, comma 1, lett. b) e  c),  e
  4, comma 1, il primo sostitutivo dei commi 2 e 3 e  aggiuntivo  del
  comma 3-bis all'art. 2 della legge  13  aprile  1988,  n.  117,  il
  secondo modificativo dell'art. 7, comma 1, della medesima legge. 
- Costituzione, artt. 3, 101, comma secondo, e 111, comma secondo. 
Responsabilita' civile dei magistrati  -  Giudizio  risarcitorio  nei
  confronti  dello  Stato  per  fatto  illecito  del   magistrato   -
  Abolizione della fase  preliminare  di  delibazione  in  camera  di
  consiglio della ammissibilita' e non manifesta  infondatezza  della
  domanda - Conseguente  soppressione  del  termine  che  ricollegava
  l'esercizio  dell'azione   disciplinare   alla   comunicazione   di
  ammissibilita' della domanda - Denunciata possibilita' per l'attore
  che proponga  domanda  inammissibile  o  palesemente  infondata  di
  influire indebitamente sul giudizio causativo  del  danno  o  sulla
  serenita'  del  giudice  (condizionando  la   sua   valutazione   o
  provocandone   l'astensione,   anche   attraverso    l'avvio    del
  procedimento  disciplinare)   -   Incidenza   sull'indipendenza   e
  autonomia  della  funzione  giurisdizionale  -  Incongruita'  della
  scelta legislativa in  raffronto  alla  previsione,  con  finalita'
  deflattive, di filtri di ammissibilita' per i giudizi di appello  e
  di Cassazione. 
- Legge 27 febbraio 2015, n. 18, artt. 3, comma  2,  e  6,  il  primo
  abrogativo dell'art. 5 della legge  13  aprile  1988,  n.  117,  il
  secondo modificativo dell'art. 9, comma 1, della medesima legge. 
- Costituzione, artt. 3, 25, primo comma, 101, comma secondo, e  111,
  comma secondo. 
Responsabilita' civile dei magistrati - Azione di rivalsa dello Stato
  nei confronti del magistrato - Obbligatorieta' del suo esercizio  -
  Denunciata sottrazione alla Presidenza del Consiglio  dei  ministri
  del diritto di valutare la convenienza dell'azione - Violazione del
  diritto di non agire in giudizio, implicito in quello di  difesa  -
  Irragionevolezza sotto piu'  profili  (diversita'  dei  presupposti
  soggettivi dell'azione di rivalsa rispetto  a  quella  risarcitoria
  nei confronti dello Stato, obbligatorieta' della rivalsa  anche  in
  caso  di  intervenuta  transazione   nel   giudizio   risarcitorio,
  diversita'  di  disciplina  rispetto  all'azione  di  regresso  nei
  confronti degli altri dipendenti pubblici). 
- Legge 27 febbraio 2015,  n.  18,  art.  4,  comma  1,  modificativo
  dell'art. 7, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117. 
- Costituzione, artt. 3 e 24. 
Responsabilita' civile dei magistrati - Maggiori oneri a carico dello
  Stato  derivanti  dall'applicazione  delle  norme   che   prevedono
  l'ampliamento delle ipotesi di responsabilita' per colpa grave,  la
  risarcibilita' del danno non patrimoniale  conseguente  ad  atto  o
  fatto del magistrato e l'obbligo di rivalsa statuale  -  Denunciata
  omessa indicazione dei mezzi per farvi fronte. 
- Legge 27 febbraio 2015, n. 18, artt. 2, comma 1, lett. a), b) e  c)
  [modificativo del comma 1, sostitutivo dei commi 2 e 3 e aggiuntivo
  del comma 3-bis all'art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117], e 4
  [sostitutivo dell'art. 7 della medesima legge]. 
- Costituzione, art. 81, comma terzo. 
(GU n.40 del 7-10-2015 )
 
                    TRIBUNALE ORDINARIO DI VERONA 
                        Terza sezione civile 
 
    Il giudice dott. Massimo  Vaccari,  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza; 
    Nella  causa  civile  promossa  da  Vivere  Bio  s.c. a  r.l.  in
liquidazione,  con  l'avv.  Zampieri  Franco  del  foro  di   Verona,
elettivamente domiciliata presso lo studio di  quest'ultimo  sito  in
Verona, v.le della Repubblica, 6; 
    Contro Azienda agricola Bonturi  Luigi  e  Bonturi  Federico  con
l'avv. Aramini Giampaolo elettivamente domiciliata presso  lo  studio
di quest'ultimo sito in Cotogna Veneta (Verona), p.zza Liberazione n.
11; 
    A scioglimento della riserva assunta all'udienza  del  23  aprile
2015; 
1. Oggetto del giudizio. 
    Con atto di citazione notificato il 6 febbraio  2013  Vivere  Bio
s.c. a r.l. ha proposto opposizione  avanti  a  questo  Tribunale  al
decreto del 5 novembre 2012 con il quale le  era  stato  ingiunto  di
pagare in favore della  azienda  agricola  Bonturi  Luigi  e  Bonturi
Federico la somma di euro  149.292,53,  oltre  interessi  ex  art.  5
decreto legislativo n. 231/2002, a  titolo  di  pagamento  di  alcune
forniture di prodotti agricoli meglio  di  cui  alle  fatture  emesse
dalla predetta azienda agricola tra il 30 marzo 2007 e  il  31  marzo
2008. 
    A sostegno della opposizione l'attrice ha dedotto: 
        l'insussistenza del credito ingiunto, non essendo  intercorso
tra le parti il rapporto citato nel decreto monitorio  e  non  avendo
l'attrice mai ricevuto le fatture, ad eccezione di quella  datata  31
gennaio 2008; 
        l'intervenuta  estinzione  per  prescrizione   del   credito,
fondantesi  in  realta'  su  un  rapporto  mutualistico,  atteso  che
l'azienda agricola e' socia della  cooperativa,  ai  sensi  dell'art.
2512, primo comma n. 3 c.c.; 
        l'illiquidita' e/o inesigibilita'  del  credito,  atteso  che
l'art. 26 dello statuto della attrice subordina la sussistenza e/o la
debenza dei crediti dei soci all'appostate  nel  conto  economico  di
specifiche somme a titolo di ristorno, evenienza non verificatasi nel
caso di specie; 
        la mancanza di una  preventiva  delibera  dell'assemblea  dei
soci, che, in sede di approvazione del bilancio, avesse deliberato il
pagamento di ristorni ai soci. 
    L'azienda agricola  Bonturi,  nel  costituirsi  in  giudizio,  ha
contestato le  deduzioni  avversarie,  negando,  in  particolare,  di
essere stata mai socia della attrice e che l'assunto  di  controparte
fosse fondato su prova scritta e, in  via  preliminare,  ha  avanzato
istanza di concessione della provvisoria esecuzione. 
    Il giudizio, originariamente assegnato ad altro giudice, e' stato
congelato e, con provvedimento del  3  settembre  2014,  assegnato  a
questo giudice. 
    Alla udienza di prima  comparizione,  tenutasi,  dopo  un  rinvio
interlocutorio, il 24 marzo 2015, la  convenuta  ha  insistito  nella
richiesta di concessione della provvisoria esecuzione alla  quale  si
e'  opposta  l'attrice  che,  a   tal   fine,   ha   prodotto   della
documentazione diretta a comprovare  la  qualita'  di  propria  socia
della azienda agricola Bonturi (scheda socio  relativo  alla  azienda
agricola Bonturi e verbale della assemblea dei soci Vivere Bio s.c  a
r.l. del 27  settembre  2007  di  approvazione  del  bilancio  al  31
dicembre 2006). La convenuta ha  anche  chiesto  la  concessione  dei
termini di cui all'art. 183, VI comma, c.p.c. 
2. La rilevanza delle questioni. 
    Dato  lo  stato  del  giudizio,  come  riassunto  nel  precedente
paragrafo, questo giudice e' chiamato a valutare la  sussistenza  dei
presupposti per  concedere  la  provvisoria  esecuzione  del  decreto
opposto vale a dire, ai sensi dell'art. 648, primo comma, c.p.c.,  se
l'opposizione proposta da Vivere Bio sia  o  meno  fondata  su  prova
scritta o di pronta soluzione. 
    In particolare, data la fase in cui  si  trova  il  giudizio,  e'
necessario stabilire se gli assunti contrapposti delle parti  trovino
conforto nella documentazione dalle stesse versata in causa. 
    Ai fini dell'adozione di tale decisione vengono pero' in  rilievo
alcune delle norme introdotte dalla legge 27  febbraio  2015,  n.  18
(«Disciplina della responsabilita' civile dei  magistrati»),  entrata
in vigore il 19 marzo  di  quest'anno,  atteso  che  essa,  oltre  ad
incidere, per quanto meglio si dira' avanti, in maniera significativa
sugli  interessi  delle  parti  e'  concretamente  e   immediatamente
produttiva di  una  responsabilita'  potenziale  di  questo  giudice,
potendo dar luogo ad un giudizio di responsabilita'. 
    D'altro canto,  con  riguardo  al  profilo  della  rilevanza,  e'
opportuno rammentare che la Corte costituzionale, con la sentenza  n.
18 dell'11 gennaio 1989, nel  decidere  una  serie  di  questioni  di
legittimita' costituzionale che  erano  state  sollevate  proprio  in
relazione ad alcune disposizioni della legge  n.  117  del  1988,  ha
chiarito quale sia l'esatto ambito di applicazione dell'art. 23 della
legge 11 marzo 1953, n. 87. In tale pronuncia il giudice delle  leggi
ha infatti precisato che tale norma  comporta  che  la  questione  di
costituzionalita' proposta deve esser tale che «il giudizio non possa
essere  definito  indipendentemente  dalla  risoluzione»   di   essa,
implicando, di regola, che la rilevanza  sia  strettamente  correlata
all'applicabilita'  della  norma  impugnata  nel  giudizio   a   quo.
Tuttavia, come gia' implicitamente ritenuto in altre occasioni  (cfr.
Corte cost. 24 novembre 1982, n. 196;  4  luglio  1977,  n.  125;  15
maggio 1974, n. 128), la  Corte  ha  anche  stabilito  che:  «debbono
ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non  essendo
direttamente applicabili nel giudizio a quo,  attengono  allo  status
del  giudice,  alla  sua  composizione  nonche',  in  generale,  alle
garanzie e ai doveri  che  riguardano  il  suo  operare.  L'eventuale
incostituzionalita' di tali norme e' destinata ad influire su ciascun
processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status, la
composizione, le garanzie e i doveri:  in  sintesi,  la  "protezione"
dell'esercizio della funzione, nella quale i doveri  si  accompagnano
ai diritti». 
    Tale principio  e'  stato  implicitamente  ribadito  anche  nella
sentenza 24 luglio 2013, n. 237 con la quale la Corte ha ritenuto non
fondate, tra le altre, le questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, e dell'art. 1, con
l'allegata tabella A, del decreto legislativo n. 155 del 2012,  nella
parte  in  cui,  disponevano  la  soppressione   di   alcuni   uffici
giudiziari, tra i quali il Tribunale ordinario di Sala Consilina. 
    In quel caso la rilevanza della questione era stata  desunta  dal
fatto che il processo che si  stava  svolgendo  presso  il  succitato
ufficio  giudiziario  avrebbe  dovuto  essere  rinviato  ad   udienza
successiva a quella di acquisto di efficacia del decreto  legislativo
n. 155 del 2012 e, quindi, nella nuova sede giudiziaria ed era  stata
motivata nella ordinanza di rimessione mediante richiamo al  predetto
principio. 
    A ben vedere poi, se si considera che la nuova legge ha  ampliato
le ipotesi che possono dar luogo a responsabilita' dello Stato e  del
magistrato, introducendo, all'art. 2, comma 3, e all'art. 7, comma 1,
della legge n. 117/1988, quella del travisamento del  fatto  o  delle
prove, risulta evidente come, quantomeno le norme  suddette,  trovino
applicazione immediata in tutti i giudizi in corso  e  potenzialmente
causativi di danno atteso che i giudici  che  li  trattano,  per  non
incorrere  in  responsabilita',  anche  disciplinare  (sul  punto  si
tornera' di qui a breve), devono evitare simili  condotte,  o  meglio
attenersi ai criteri di valutazione fissati dalle nuove disposizioni. 
    Cio' detto in punto di rilevanza,  questo  giudice  dubita  della
legittimita' costituzionale di alcune disposizioni della novella. 
3.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale degli artt. 2 comma 1, lett. c) e dell'art.  4,  comma
1, legge n. 18/2015, laddove ha modificato l'art. 7, comma 1 legge n.
117/1988, nella parte in cui fanno riferimento al  «travisamento  del
fatto o delle prove», per contrasto con gli artt. 101, comma 2, e 111
comma 2 Cost. nonche' dell'art. 2, comma 1 lett. h) per contrasto con
l'art. 3 Cost. 
    Nell'assetto della legge n. 117/1988 la valutazione dei  fatti  e
delle  prove  non  poteva  mai  dar  luogo  a   responsabilita'   del
magistrato, e conseguentemente nemmeno dello Stato (art. 2  comma  2,
c.d. clausola di salvaguardia). Era invece fonte di  responsabilita',
perche' costituiva una  delle  ipotesi  di  colpa  grave  individuate
dall'art.  2,  comma  3,  l'affermazione  determinata  da  negligenza
inescusabile di un fatto  la  cui  esistenza  e'  incontrastabilmente
esclusa dagli atti del procedimento o la  negazione,  determinata  da
negligenza  inescusabile,  di  un  fatto  la  cui  esistenza  risulta
incontrastabilmente dagli atti del procedimento. 
    La  sottrazione,  nella  legge  n.   117/1988,   dall'ambito   di
responsabilita' del magistrato dell'attivita' valutativa del fatto  e
delle  prove,  che,  insieme  alla   interpretazione   delle   norme,
costituisce l'essenza  stessa  della  funzione  giurisdizionale,  era
strettamente funzionale alla  assicurazione  della  indipendenza  del
giudice che, a sua volta, costituisce  garanzia  di  una  valutazione
imparziale dei fatti e delle risultanze istruttorie. 
    La  Corte  costituzionale  aveva   evidenziato   questa   stretta
interrelazione  tra  indipendenza  del  giudice  e  autonomia   nella
valutazione dei fatti e delle prove nel seguente passaggio della gia'
citata sentenza n. 18/1989: «La  garanzia  costituzionale  della  sua
(sott. del giudice,  n.  d.r.)  indipendenza  e'  diretta  infatti  a
tutelare, In primis, l'autonomia di valutazione  dei  fatti  e  delle
prove e l'imparziale interpretazione delle  norme  di  diritto.  Tale
attivita' non puo' dar luogo a responsabilita' del giudice  (art.  2,
n. 2 legge n. 117 cit.)  ed  il  legislatore  ha  ampliato  la  sfera
d'irresponsabilita',  fino  al  punto  in   cui   l'esercizio   della
giurisdizione, in difformita' da doveri fondamentali, non si  traduca
in violazione inescusabile della legge o  in  ignoranza  inescusabile
dei fatti di causa, la cui esistenza non e' controversa. 
    Ne' puo' sostenersi - come fa il giudice a qua  -  che  la  legge
impugnata spingerebbe il giudice a scelte interpretative  accomodanti
e a decisioni meno rischiose in  relazione  agl'interessi  in  causa,
cosi' influendo negativamente sulla sua imparzialita'. Come si e' ora
rilevato, l'art.  2,  comma  secondo,  della  legge  n.  117  esclude
espressamente che possa  dar  luogo  a  responsabilita'  "l'attivita'
d'interpretazione di norme di diritto" e quella  di  valutazione  del
fatto e delle prove». 
    La Corte di cassazione si  era  ripetutamente  pronunciata  negli
stessi termini, avendo affermato  che  la  clausola  di  salvaguardia
della legge n. 117/1988,  che  escludeva  che  potesse  dar  luogo  a
responsabilita' l'attivita' di interpretazione di  norme  di  diritto
ovvero quella di valutazione del fatto e della  prova  non  tollerava
letture riduttive  «perche'  giustificata  dal  carattere  fortemente
valutativo dell'attivita' giudiziaria e, come precisato  dalla  Corte
costituzionale nella sentenza n. 1 del  19  gennaio  1989,  attuativa
della garanzia costituzionale dell'indipendenza del  giudice  e,  con
essa, del giudizio» (Cass. 27 novembre 2006, n. 25123; Cass. sez. VI,
27 dicembre 2012, n. 23979). 
    Risultava,  allora,  coerente  con  una  simile  impostazione  la
scelta, compiuta con la legge n.  117/1988,  di  prevedere  che  solo
l'ignoranza, purche' inescusabile, da parte del giudice di fatti che,
incontrastabilmente, fossero o non fossero «risultati dagli  atti  di
causa» (questa e' l'espressione utilizzata dall'art. 2, comma 3) o la
cui esistenza non fosse stata controversa (cosi' Corte cost. sent. n.
18/1989) poteva legittimare la pretesa risarcitoria.  Grazie  a  tale
rigorosa delimitazione l'ambito di valutazione rimesso al giudice del
giudizio  di  responsabilita'  era  molto  limitato,  per  non   dire
inesistente. 
    La modifica dell'art. 111  Cost.,  con  l'introduzione  del  c.d.
principio del giusto  processo,  aveva  ulteriormente  rafforzato  le
garanzie   che    sovrintendono    all'esercizio    della    funzione
giurisdizionale  soprattutto  nella  prospettiva  di  assicurare   la
parita' tra le parti processuali. 
    La novella si e' discostata da tale impostazione.  Essa  infatti,
pur riproponendo la clausola di salvaguardia (art. 2, comma 1,  lett.
b), ne  ha  ridotto  l'ambito  di  operativita'  perche',  nel  punto
successivo, ha ampliato i casi di colpa grave, sia numericamente, con
l'introduzione delle ipotesi  del  travisamento  del  fatto  o  delle
prove, sia nella loro configurazione oggettiva, avendo  eliminato  il
riferimento  alla  negligenza  inescusabile  quale  presupposto   per
l'integrazione di tutti gli illeciti che danno luogo a risarcimento. 
    Ai  sensi  dell'art.  7,  comma  1,  legge  n.  117/1988,   canne
modificato dall'art. 4 legge n. 15/2018, la  negligenza  inescusabile
costituisce  invece  il  presupposto  soggettivo  dei  comportamenti,
elencati dalla stessa norma, che giustificano l'esercizio dell'azione
di rivalsa nei confronti del magistrato. A ben vedere  quindi,  nella
nuova  disciplina,  non  vi  e'  corrispondenza  sotto   il   profilo
soggettivo tra i casi di responsabilita'  dello  Stato  e  quelli  di
responsabilita' del  magistrato,  mentre  vi  e'  una  solo  parziale
corrispondenza sotto il profilo oggettivo tra gli uni e gli altri. 
    Orbene, questo giudice dubita della compatibilita'  dell'art.  2,
comma  1,  lett.  b),  e  dell'art.  4,  nella  parte  in  cui  fanno
riferimento alle ipotesi del travisamento del fatto  o  delle  prove,
con i parametri degli artt. 101, comma 2, e 111, comma 2 Cost.,  data
l'equivocita' e indefinibilita' di tali nozioni. 
    Nelle intenzioni del  legislatore  esse  non  coincidono  con  le
fattispecie della affermazione o negazione di un fatto  (processuale)
reale, dal momento  che  sono  state  aggiunte  a  queste  ultime,  a
differenza, si noti, di quanto era stato proposto nel d.d.l. n. 1626,
di iniziativa governativa, che invece le aveva espunte dalla legge n.
117/1988. 
    A riprova del fatto che nella novella le  due  serie  di  ipotesi
sono state considerate come distinte va evidenziato  che  l'esercizio
(obbligatorio) dell'azione di rivalsa e'  ora  previsto  in  caso  di
travisamento del fatto o delle prove e non anche per la negazione  di
un fatto risultante dagli atti processuali o per l'affermazione di un
fatto escluso dagli atti processuali  (art.  7,  comma  1,  legge  n.
117/1988 come modificato dall'art. 4 legge n. 18/2015). 
    Non pare pero' che il legislatore, nel ricorrere alla nozione  di
travisamento del fatto, si sia posto il problema della sua  possibile
coincidenza con la fattispecie integrante l'illecito disciplinare  di
cui all'art.  2,  primo  comma,  lett.  h),  decreto  legislativo  n.
109/2006. 
    Eppure quest'ultima e'  stata  identificata  dalla  dottrina,  in
difetto di pronunce delle Sezioni  Unite  della  Suprema  Corte,  con
l'errore revocatorio di cui all'art. 395 n.  4  c.p.c.,  che,  a  sua
volta, corrisponde alla supposizione di un fatto la  cui  verita'  e'
incontrastabilmente esclusa o con  quella  della  inesistenza  di  un
fatto  la  cui  verita'  e'  positivamente   stabilita   dagli   atti
processuali. 
    Orbene, da tale raccordo si evince come il travisamento del fatto
rilevante sul piano disciplinare coincida con l'ipotesi  di  illecito
civile  dell'affermazione  di  un   fatto   la   cui   esistenza   e'
incontrastabilmente esclusa  o  la  negazione  di  un  fatto  la  cui
esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del processo che,  a
sua volta, dovrebbe corrispondere alla nuova ipotesi del travisamento
del fatto quale fatto illecito civile. 
    Ad identico risultato dovrebbe giungersi con riguardo all'ipotesi
del travisamento delle prove se solo si considera che,  da  un  lato,
essa, nella novella, e'  parificata  al  travisamento  del  fatto  e,
dall'altro, che l'errore sul fatto e' difficilmente distinguibile  da
quello sulle prove poiche' il fatto assume rilievo nel processo,  sia
esso civile o penale, se provato. 
    Il travisamento delle prove quindi non  pare  identificabile  con
quello  che  assume   rilievo   nel   diritto   processuale   penale,
traducendosi in un vizio  di  motivazione  della  sentenza  (cfr.  ex
plurimis Cass. pen., sez., VI, 22 gennaio  2014,  n.  10289),  e  del
resto,  dai  lavori  parlamentari,  non  risulta   nemmeno   che   il
legislatore abbia inteso far riferimento a quell'istituto. 
    Dall'esame dei lavori parlamentari  emerge,  peraltro,  l'estrema
difficolta' incontrata da chi vi partecipo'  a  definire  gli  esatti
confini della «nuova» fattispecie  di  illecito  (dopo  quanto  detto
sopra va infatti considerata). 
    Infatti in commissione giustizia del Senato in sede referente  fu
segnalato come esse fossero generiche (cfr. intervento dell'on. Palma
nella seduta del  5  novembre  2014),  mentre  durante  il  confronto
avutosi all'interno della  commissione  giustizia  della  Camera  dei
deputati fu rappresentato il rischio di una loro sovrapposizione  con
le ipotesi gia' previste dalla legge  n.  117/1988  (cfr.  intervento
dell'on. Colletti nella seduta del 17 dicembre 2014). 
    Ancora, anche nell'elaborazione del d.d.l. n.  1626  il  problema
dovette essere affrontato giacche' quel testo, come si e' detto,  pur
introducendo anch'esso il travisamento del fatto o delle prove  aveva
tuttavia soppresso  il  riferimento  nella  legge  n.  117/1988  alle
ipotesi dell'affermazione del fatto escluso  o  della  negazione  del
fatto risultante dagli atti. 
    A ben vedere nemmeno la  relazione  della  commissione  giustizia
della Camera alla proposta di legge n. 2738, poi tradotta nella legge
n. 15/2014, offre elementi utili a  meglio  definire  la  nozione  in
esame. 
    Nel documento infatti, dopo l'affermato che: «il travisamento del
fatto  e  delle  prove  coinvolge   aspetti   tipici   dell'attivita'
valutativa,  che  e'   connessa   ai   principi   costituzionali   di
indipendenza e imparzialita' della  giurisdizione»,  si  propone  una
interpretazione, definita come costituzionalmente orientata, di  tali
fattispecie, in base alla quale  di  travisamento  potrebbe  parlarsi
solo in caso di macroscopico  ed  evidente  stravolgimento  del  dato
fattuale. 
    Orbene, il termine «stravolgimento» non e'  che  un  sinonimo  di
travisamento, e come tale non e'  sufficientemente  distintivo  delle
nuove ipotesi rispetto  a  quelle  della  affermazione  di  un  fatto
escluso o della negazione di un fatto risultanti dagli atti. 
    Ne' valgono a meglio connotarlo gli  attributi  di  «evidente»  e
«macroscopico» che, a ben vedere, non  costituiscono  altro  che  gli
indici sintomatici, sotto  il  profilo  oggettivo,  della  negligenza
inescusabile, presupposto  indefettibile  della  responsabilita'  del
magistrato. 
    La nuova nozione risulta equivoca  anche  sotto  un  ulteriore  e
distinto profilo. 
    Non e' chiaro infatti se essa alluda ad una radicale  alterazione
della  realta'  processuale  e  quindi  ad  una  «svista»  idonea   a
determinare  un  esito  processuale  opposto  a  quello  cui   giunge
provvedimento giudiziario, con la conseguenza che, se questo fosse il
suo significato,  dovrebbe  escludersi  l'illecito  qualora  l'errore
investisse uno dei tanti elementi che abbiano sorretto la decisione. 
    Alla luce delle superiori considerazioni  la  nuova  ipotesi  del
travisamento del fatto o delle prove, ad avviso di questo giudice, e'
del  tutto  inidonea  a  delimitare,   conformemente   ai   parametri
costituzionali degli artt. 101, comma 2, 111 comma 2, Cost., l'ambito
della responsabilita' del magistrato. 
    Si rammenti che erano state  la  «limitatezza»  e  «tassativita'»
delle fattispecie in cui, secondo il tenore originario della legge n.
117/1988, era ipotizzabile una colpa grave del giudice a  indurre  la
Corte costituzionale ad escludere  che  la  loro  previsione  potesse
compromettere la serenita' e l'imparzialita' di giudizio dello stesso
(Corte cost. sent. n. 18/1989). 
    Una  volta  che  la  nuova  fattispecie  difetti  di  sufficiente
tipizzazione e' evidente come  essa  offrano  ampia  possibilita'  di
condizionare l'esercizio della funzione giurisdizionale ed  anche  di
favorire il contenzioso. 
    Il nuovo testo normativo consente infatti di censurare  qualsiasi
valutazione dei fatti o del materiale probatorio compiuta dal giudice
nel  giudizio  a  quo,  che  risulti  non  gradita   o   sfavorevole,
semplicemente qualificandola come travisamento. 
    Non sfugge come tale scelta comporti una estrema incertezza anche
nella individuazione dell'ambito di applicazione  di  altri  istituti
che   influiscono   direttamente   sull'esercizio   della    funzione
giurisdizionale. 
    Innanzitutto determina,  di  riflesso,  l'ampliamento  indefinito
della possibilita' di un  sindacato  disciplinare  sui  provvedimenti
giudiziari, in deroga al  disposto  dell'art.  2,  comma  2,  decreto
legislativo n. 109/2006 nella parte in cui esclude che, fermo  quanto
previsto dal comma 1, lettere g), h), i), l), m), n), o), p), cc)  ed
ff), della stessa norma, dia  luogo  a  responsabilita'  disciplinare
l'attivita' di valutazione del fatto e delle prove. 
    Analogo  effetto  si  ha  sull'ambito  dell'azione  di   rivalsa,
risultando impossibile stabilire esattamente quali siano  i  casi  in
cui essa  non  e'  obbligatoria,  con  la  conseguenza  che  l'organo
deputato  a  promuoverla  sara'  indotto  a  non  effettuare  nessuna
valutazione al riguardo e a proporla in ogni caso. 
    A ben vedere nemmeno l'ambito di applicazione della  clausola  di
salvaguardia, pur formalmente ribadito dall'art. 2, comma 1, lett. b)
legge n. 18/2015, risulta sufficientemente definibile, rispetto  alla
attivita' di valutazione del fatto  e  delle  prove,  cosicche'  puo'
addirittura dubitarsi che essa permanga effettivamente. 
    Sotto tale profilo quindi  la  norma  da  ultimo  citata  risulta
irragionevole e come tale in contrasto con l'art. 3 Cost. 
4.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale degli artt. 3, comma 2, della  legge  n.  18/2015  per
contrasto con gli artt. 3, 25, comma 1, 101, comma 2, 111,  comma  2,
Cost.  e  dell'art.  9,  comma  1,  della  legge  n.  117/1988,  come
modificato dall'art. 6 della legge n. 18/2015, per contrasto con  gli
artt. 25, comma 1, 101, comma 2, 111, comma 2, Cost. 
    Un'altra  delle  novita'  della   legge   n.   18/2015   consiste
nell'abrogazione, ad opera dell'art. 3, comma 2,  dell'art.  5  della
legge n. 117/1988 che prevedeva una  fase  preliminare  del  giudizio
risarcitorio di natura camerale, comunemente definita come filtro  di
ammissibilita'. 
    Occorre infatti rammentare che, ai sensi dell'art.  5,  comma  1,
legge n. 117/1988 il tribunale, investito di una domanda risarcitoria
nei confronti dello Stato per fatto illecito del  magistrato,  doveva
verificare, con decreto motivato,  tutta  una  serie  di  condizioni,
ovvero l'osservanza dei termini  fissati  a  pena  di  decadenza  per
l'esercizio dell'azione e l'esistenza dei presupposti  fissati  dagli
artt. 2, 3 e 4 della legge, nonche'  la  non  manifesta  infondatezza
della domanda. 
    Qualora il  tribunale  avesse  ritenuto  la  domanda  ammissibile
avrebbe dovuto disporre la prosecuzione del giudizio (art.  5,  comma
5) e la trasmissione degli atti al titolare dell'azione  disciplinare
che, a sua volta, avrebbe dato inizio all'azione  disciplinare  (art.
9, comma 1). 
    Come e' stato notato dal C.S.M. nel parere reso,  il  29  ottobre
2014, sul disegno di legge  di  iniziativa  governativa  in  tema  di
responsabilita' civile dei magistrati n. 1626, che conteneva gia'  la
sopra citata disposizione abrogatrice, la  norma  abrogata  mirava  a
realizzare almeno due obiettivi  nell'interesse  dell'amministrazione
della giustizia. 
    Da un lato impediva  la  proliferazione  di  inutili  giudizi  di
merito, consentendo al contempo che i processi ammissibili  potessero
giovarsi di una piu' rapida trattazione nel merito. 
    Dall'altro lato, ed in via prioritaria,  tutelava  «la  serenita'
del singolo magistrato,  che,  al  riparo  da  azioni  pretestuose  e
temerarie, poteva veder limitato il peso dell'esposizione processuale
a casi e tempi razionalmente circoscritti» (cosi',  testualmente,  il
parere sopra citato)  e  quindi  indirettamente,  ancora  una  volta,
l'esercizio indipendente della giurisdizione. 
    A ben vedere quest'ultima esigenza era  stata  soddisfatta  anche
attraverso la riconduzione dell'inizio del procedimento  disciplinare
nei confronti del magistrato per i «fatti  che  avessero  dato  causa
all'azione  di   risarcimento»   (questa   l'espressione   utilizzata
dall'art. 9, comma 1, legge n.  117/1988)  all'esito  del  preventivo
giudizio di ammissibilita' e di non palese infondatezza. 
    Anche nel pronunciarsi sulla legge n.  117/1988,  con  un  parere
reso il 10 dicembre  1987,  lo  stesso  C.S.M.  aveva  segnalato  che
avrebbe costituito «ragione di gravissima turbativa,  inevitabilmente
incidente sulla stessa autonomia della giurisdizione, il fatto in se'
della pendenza  di  un  cospicuo  contenzioso  che,  pur  formalmente
esaurendosi nei confronti dello Stato e non dando  luogo  a  rivalsa,
tuttavia consisterebbe nella messa in  discussione  di  provvedimenti
giurisdizionali da parte dei loro destinatari del tutto al  di  fuori
della logica delle impugnazioni». 
    Si noti come le predette valutazioni sono del tutto  conformi  al
costante orientamento della Corte costituzionale che ha «riconosciuto
il rilievo costituzionale di un meccanismo di  filtro  della  domanda
giudiziale, diretta  a  far  valere  la  responsabilita'  civile  del
giudice,  perche'  un  controllo  preliminare  della  non   manifesta
infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie  e
intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza  e
di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli  artt.  da
101 a  113  della  Costituzione  nel  piu'  ampio  quadro  di  quelle
condizioni e  limiti  alla  responsabilita'  dei  magistrati  che  la
peculiarita' delle funzioni giudiziarie  e  la  natura  dei  relativi
provvedimenti suggeriscono» (Corte cost. sent. n. 468/1990). 
    Nella stessa prospettiva giudice delle leggi ha  anche  affermato
che: «la previsione del  giudizio  di  ammissibilita'  della  domanda
garantisce adeguatamente il  giudice  dalla  proposizione  di  azioni
"manifestamente  infondate"  che  possano  turbarne   la   serenita',
impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i  presupposti  per
l'astensione e la ricusazione» (Corte cost. sent. n. 18/1989). 
    La previsione  del  filtro  di  ammissibilita'  trovava,  quindi,
fondamento non solo negli artt. 101, comma 2 e 111, comma 2, ma anche
nell'art. 25, comma 1, Cost., perche' era idonea ad  evitare  che  la
parte  che  avesse  promosso  un  giudizio  di  responsabilita'   nei
confronti dello Stato, palesemente infondato o inammissibile, potesse
anche concretamente influire  sul  giudizio  dal  quale  si  assumeva
danneggiata provocando l'astensione  del  giudice  che  lo  aveva  in
carico ai sensi dell'art.  51,  secondo  comma  c.p.c.  nel  giudizio
civile e ai sensi dell'art. 36, primo  comma,  lett.  h)  c.p.p.  nel
giudizio  penale.  E'  indubbio   infatti   che,   a   fronte   della
rappresentazione della pendenza di un giudizio  nei  confronti  dello
Stato per condotte o provvedimenti a lui attribuibili, il  giudice  a
quo avrebbe  ravvisato  le  gravi  ragioni,  menzionate  dalle  norme
succitate, per astenersi. 
    Orbene, l'eliminazione di tale vaglio preventivo,  offre  ora  ad
una parte, priva di remare o anche solo particolarmente  determinata,
la duplice alternativa di condizionare la  valutazione  del  giudice,
(possibilita'  vieppiu'  concreta  dopo  l'introduzione  della  nuova
ipotesi di illecito del travisamento del fatto o delle  prove)  o  di
provocare la sua astensione, e con essa la dilatazione dei  tempi  di
definizione del giudizio  a  quo,  anche  attraverso  l'avvio  di  un
procedimento disciplinare nei confronti del giudice  stesso,  che  e'
rimesso, quanto all'an, al quando e al quomodo. 
    Va infatti evidenziato come, a seguito dell'abrogazione dell'art.
5 della legge n. 117/1988, con l'art. 6 legge  n.  15/2014  e'  stata
anche abrogata la parte dell'art. 9, comma 1,  della  legge  Vassalli
che ricollegava l'inizio del procedimento disciplinare, per  i  fatti
che  avessero  «dato  causa   all'azione   di   risarcimento»,   alla
comunicazione da parte del  tribunale  del  provvedimento  che  aveva
ritenuto ammissibile la domanda risarcitoria. 
    E' rimasta invariata invece la parte  di  tale  disposizione  che
prevede il dovere per il Procuratore  generale  presso  la  Corte  di
cassazione di esercitare  l'azione  disciplinare  nei  confronti  del
magistrato per i predetti fatti. 
    Contrariamente a quanto sostenuto in uno dei primi commenti  alla
legge n. 18/2015, il mantenimento di quest'ultima previsione non pare
frutto di una svista del legislatore, che non  avrebbe  tenuto  conto
della  sua  inconciliabilita'  con  il  nuovo  sistema   disciplinare
delineato  dal  decreto  legislativo  n.  109/2006,  giacche',  nella
relazione della commissione giustizia della camera alla  proposta  di
legge n. 2738, si legge che con l'art. 6 si e' inteso  modificare  la
legge Vassalli «coordinando la disciplina dell'azione disciplinare  a
carico  del  magistrato  (conseguente  all'azione   di   risarcimento
intrapresa) con la soppressione del filtro  di  ammissibilita'  della
domanda disposto dall'art. 3, comma 2». 
    Ancora,  va  evidenziato  che  il  legislatore,  nell'intervenire
sull'art. 9, comma 1, della legge n. 117/1988, ha scartato l'opzione,
che pure era stata seguita nel d.d.l. di  iniziativa  governativa  n.
1626 (art.  3,  comma  3),  di  attribuire  il  succitato  potere  di
segnalazione al Tribunale investito della domanda di rivalsa. 
    E' evidente allora che, con la nuova disciplina, l'attore  ha  la
possibilita' di rendere noti alla procura generale presso la Corte di
cassazione  gli  assunti  esposti  nel  giudizio   risarcitorio   nei
confronti dello Stato, per quanto essi possano essere  manifestamente
infondati o possano  prescindere  dai  presupposti  soggettivi  della
responsabilita' del magistrato (sul punto si e' detto  nel  paragrafo
precedente). 
    L'art. 9, comma 1, legge n. 117/1988,  infatti,  prevede  tuttora
che l'iniziativa disciplinare sia assunta in relazione ai «fatti  che
hanno dato causa all'azione di risarcimento» e tale  espressione  non
implica  uno  scrutinio  della  fondatezza  nel  merito  dell'assunto
dell'attore, come non  lo  richiedeva  prima  che  la  norma  venisse
modificata dalla novella ma allora la prospettazione del  danneggiato
era pero', quantomeno, oggetto di una valutazione di ammissibilita' e
di non manifesta infondatezza. 
    Puo' peraltro escludersi che la notizia  di  illecito  in  questi
casi sia integrata dalla sola  pendenza  del  giudizio  risarcitorio,
consistendo essa invece nelle allegazioni del preteso danneggiato. 
    Orbene, stando al tenore  della  norma,  la  predetta  iniziativa
costringerebbe, per cio' solo,  il  Procuratore  generale  presso  la
Corte   di   cassazione   ad   esercitare   l'azione    disciplinare,
eventualmente nella forma della richiesta di non  luogo  a  procedere
qualora ritenesse  non  vi  siano  elementi  per  sostenere  l'accusa
disciplinare.  Tale  disciplina,  che  potrebbe   giustificarsi   con
l'esigenza  di  assicurare  la  verifica  da  parte  del  privato  su
modalita' e tempi di  esercizio  della  iniziativa  disciplinare,  e'
pero' difforme da quella del decreto legislativo n. 109/2006 che, pur
stabilendo il principio di obbligatorieta' della azione  disciplinare
(art. 14, comma 3), consente al suddetto organo, negli altri casi  di
notizie di illecito proveniente da privati, di archiviare la  notizia
di illecito ai sensi dell'art. 16, comma 5-bis. 
    Anche l'art. 9, comma 1, legge n. 117/1988, ad avviso  di  questo
giudice, si pone quindi in contrasto con gli artt. 25, 101, comma  2,
111, comma 2 Cost. perche' attribuisce ad una parte del  giudizio  la
possibilita' di influire indebitamente sul corso del giudizio o sulla
serenita'  del  giudice,  e  quindi  sull'esercizio  della   funzione
giurisdizionale, senza che sia prevista una preventiva  verifica  dei
suoi assunti. 
    A  ulteriore  conforto  delle   superiori   considerazioni   deve
aggiungersi che  l'esposizione  del  giudice  titolare  del  giudizio
causativo del danno alle evenienze sopra esposte (astensione e  avvio
del procedimento disciplinare) risulta  anche  protratta  nel  tempo,
contrariamente a quando accadeva nel regime anteriore,  tenuto  conto
delle  forme  in  cui  si  svolgera'  d'ora   innanzi   il   giudizio
risarcitorio. 
    Il  giudizio   preventivo   di   ammissibilita'   della   domanda
risarcitoria verso lo Stato, secondo il testo originario della  legge
n. 117/1988, doveva svolgersi in camera di consiglio e concludersi in
tempi predefiniti (quaranta giorni dal  provvedimento  di  rimessione
del giudice istruttore) con un provvedimento avente forma di  decreto
e, di conseguenza, aveva una durata molto contenuta. 
    A decorrere dalla data  di  entrata  in  vigore  della  legge  n.
15/2014 ogni giudizio di responsabilita', per  quanto  inammissibile,
deve  invece  svolgersi  nelle  forme  del  giudizio   ordinario   di
cognizione e va deciso dal collegio (ai sensi dell'art. 50-bis, primo
comma,  n.  7,  c.p.c.)  con  sentenza.  La  sua  durata  e'   quindi
sensibilmente  maggiore  di  quella  del  succitato  procedimento,  a
cominciare dalla sua prima udienza  di  trattazione  che  va  fissata
dall'attore nel rispetto del termine a comparire  di  novanta  giorni
(art. 163-bis, primo comma, c.p.c.). 
    Limitate sono infatti le possibilita' per  il  tribunale  che  si
trovi a trattare quel giudizio di  ridurre  i  tempi  di  definizione
dello stesso atteso che: 
        1) non potrebbe disporre la c.d. conversione in rito sommario
ai sensi dell'art. 183-bis c.p.c.  come  introdotto  dalla  legge  n.
132/2014, atteso che tale norma trova applicazione solo nel  giudizio
monocratico; 
        2) a fronte della richiesta anche del  solo  attore  dovrebbe
concedere i termini di cui all'art. 183,  VI  comma,  c.p.c.,  atteso
che, secondo l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale prevalente
(per la giurisprudenza di legittimita' si veda, ex plurimis: Cass. 24
maggio 2000, n. 6808) la c.d.  appendice  scritta  della  trattazione
costituisce  una  facolta'  incondizionata  delle  parti,  immune  da
qualsiasi vaglio preventivo del giudice; 
        3)  non  potrebbe  ricorrere  al  modello  decisorio  di  cui
all'art. 281-sexies c.p.c. che e' utilizzabile solo nel  procedimento
davanti al giudice in composizione monocratica. 
    Ancora, non va sottaciuto come, una volta concluso  il  giudizio,
la  sentenza  che  dovesse  dichiarare   inammissibile   la   domanda
risarcitoria sarebbe passibile  di  impugnazione  secondo  i  termini
ordinari, che sono molto piu' ampi di quelli ai quali era soggetto il
decreto di inammissibilita' ex art. 5 legge n. 117/1988 (dieci giorni
dalla comunicazione per l'appello e quaranta giorni  per  il  ricorso
per  Cassazione),  cosicche'  il   giudicato   sul   punto   potrebbe
sopraggiungere solo a distanza di molti anni dall'inizio della  causa
risarcitoria. 
    Ne' pare idoneo a scongiurare le sopra descritte possibilita'  di
interferenza tra giudizio risarcitorio verso lo Stato  e  giudizio  a
quo, supplendo all'eliminazione del filtro  di  ammissibilita'  della
domanda, il ricorso all'istituto di  cui  all'art.  96  c.p.c.,  come
integrato dalla legge n. 69/2009, secondo quanto e'  stato  sostenuto
anche nel corso della discussione sul  d.d.l.  n.  1070  in  sede  di
commissione giustizia del Senato. 
    Tale applicazione  infatti,  presupponendo  un  accertamento  nel
merito, sulla coscienza dell'infondatezza della domanda o delle  tesi
difensive sostenute, (cfr. ex plurimis Cons. Stato, 25 febbraio 2003,
n. 1026; Cass. 21 luglio 2000, n. 9579; id., sez. lav.,  16  febbraio
1998, n. 1619;), sarebbe possibile solo per le ipotesi  di  manifesta
infondatezza della domanda risarcitoria nei confronti dello Stato,  e
non anche per quelle di inammissibilita' della stessa  (si  pensi  al
caso, quale quello esaminato da Cass. civ. Sez.  VI  -  3,  Ord.,  29
gennaio 2015,  n.  1715,  di  una  azione  risarcitoria  diretta  nei
confronti del magistrato). 
    A detta applicazione poi si potrebbe giungere solo all'esito  del
giudizio risarcitorio, a distanza di un piu' che  apprezzabile  lasso
di tempo dal momento del suo inizio. La possibilita' di  una  futura,
e, a volte, anche remota, condanna ai sensi dell'art. 96  c.p.c.  non
sarebbe quindi di per se' sufficiente a dissuadere la parte  in  mala
fede dall'assumere le iniziative di cui si  e'  detto  sopra,  tenuto
conto che il suo interesse  prevalente  sarebbe  quello  di  influire
sull'esito del giudizio a quo. 
    Per completezza va evidenziato che nell'attuale assetto normativo
nemmeno gli oneri relativi all'iscrizione a ruolo  costituiscono  una
remora alla  proposizione  di  un  giudizio  risarcitorio  temerario,
atteso che i giudizi ex legge n. 117/1988 sono esenti  dal  pagamento
del contributo unificato ai sensi dell'art. 300, comma 6 del  decreto
del Presidente della Repubblica n.  115  del  2002  che  ha  abrogato
l'art. 15 della legge n. 117/1988. 
    Infine, la scelta di eliminare il filtro di ammissibilita'  della
domanda risarcitoria risulta  incongrua  rispetto  a  quelle  che  lo
stesso legislatore ha compiuto di recente  rispetto  alla  disciplina
del giudizio  di  appello  e  del  giudizio  di  Cassazione,  che  ha
modificato introducendo dei filtri di ammissibilita'  sia  per  l'uno
(artt. 342, primo comma n. 2, e 348-ter c.p.c.  introdotti  dall'art.
54 comma 1, lett. a) d.l. 22 giugno 2012,  n.  83)  che  per  l'altro
(art. 360-bis inserito dall'art. 47, comma 1 lett. a) legge 18 giugno
2009, n. 69), con evidenti finalita' deflattive. 
    Sotto questo profilo l'art. 3,  comma  2,  legge  n.  18/2015  e'
quindi in contrasto con l'art. 3 Cost. perche' trascura le  finalita'
deflattive che le predette modifiche hanno inteso realizzare. 
5.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 4 legge n. 15/2018 nella  parte  in  cui  ha
modificato l'art. 7, comma 1, legge n. 117/1988, prevedendo l'obbligo
di esercitare l'azione di rivalsa verso il magistrato, per  contrasto
con gli artt. 24 e 3 Cost. 
    Secondo la relazione della  commissione  giustizia  della  Camera
alla proposta di legge n. 2738 con la  norma  in  esame  «la  rivalsa
verso  il  magistrato  e'  stata  espressamente  resa  obbligatoria».
Orbene, ad avviso  di  questo  giudice,  questa  nuova  formulazione,
sebbene fughi i dubbi interpretativi  che  poneva  quella  precedente
("Lo Stato... esercita l'azione di rivalsa") non pare pero'  conforme
al disposto dell'art. 24, comma 1, Cost. che, nel riconoscere diritto
di difesa, implicitamente riconosce anche il diritto di non agire  in
giudizio. 
    Tale disposizione infatti sottrae alla Presidenza del  Consiglio,
il diritto di valutare la convenienza della azione di  rivalsa  sulla
base,  soprattutto,  di  un  raffronto  tra  i  costi  del   giudizio
risarcitorio nei confronti dello Stato, tra i quali il piu' rilevante
e'  costituito  dall'entita'  della  somma  versata  per  sentenza  o
transazione alla parte vittoriosa, i possibili costi del giudizio nei
confronti del magistrato e le probabilita' di successo del medesimo. 
    La scelta, che, si noti, si discosta da quella  originaria  della
legge n. 117/1988, nella quale vi  era  piena  corrispondenza,  anche
sotto il profilo soggettivo tra fatti illeciti oggetto  del  giudizio
verso lo Stato e fatti illeciti  oggetto  del  giudizio  di  rivalsa,
appare anche irragionevole, e quindi in contrasto  con  il  parametro
dell'art. 3 Cost.,  se  si  tiene  presente  che  i  presupposti  per
l'esercizio dell'azione nei confronti dello Stato non sono i medesimi
dell'azione di rivalsa atteso che, come gia' si e' detto (pf. 3), per
questa occorre che i comportamenti  espressamente  individuati  dalla
norma siano connotati da negligenza inescusabile. 
    Da  cio'  consegue  che  la  Presidenza  del   Consiglio   dovra'
esercitare l'azione di rivalsa «al buio»,  vale  a  dire  senza  aver
avuto, nella maggiora parte dei  casi,  il  conforto  della  positiva
verifica dell'elemento soggettivo della negligenza  inescusabile  del
magistrato nel giudizio nei confronti dello Stato e anche  nei  casi,
invero remoti, in cui fosse stata acclarata l'insussistenza  di  quel
presupposto. 
    Ulteriore e distinto profilo di irragionevolezza della  norma  in
esame  e'  dato  rinvenire  nella  assimilazione  tra  transazione  e
sentenza  di  condanna  quali  presupposti  processuali   dell'azione
obbligatoria di  rivalsa,  sebbene  essi  abbiano  genesi  del  tutto
differenti. 
    Il primo dei predetti esiti  infatti  e'  frutto  di  una  scelta
discrezionale della parte-Presidenza del  Consiglio  dei  ministri  e
come tale puo' essere dettato da varie considerazioni, soprattutto di
convenienza, che potrebbero anche essere  viziate  da  un  errore  di
valutazione sulla ammissibilita' o sulla  palese  infondatezza  della
domanda risarcitoria. Ebbene, anche a fronte di una simile  evenienza
il magistrato  subirebbe  l'azione  di  regresso  che  sarebbe  pero'
destinata ad insuccesso per lo Stato. 
    Proprio al fine di  evitare  una  simile  eventualita'  il  testo
previgente dell'art. 7 legge n. 117/1988 aveva stabilito che l'azione
di regresso potesse essere esercitata a seguito  di  conclusione  del
giudizio con transazione, purche' questa fosse stata conclusa dopo la
declaratoria di ammissibilita' della domanda (da  tale  previsione  i
commentatori  avevano  desunto,  a  contrario,  che  una  transazione
conclusa in relazione ad una  domanda  dichiarata  inammissibile  non
desse titolo per quella azione). 
    Ancora, va evidenziata la ingiustificata  differenza  tra  questa
disciplina e quella dell'azione di regresso nei confronti degli altri
dipendenti pubblici sotto almeno due aspetti. 
    In primo luogo l'azione di rivalsa verso i  dipendenti  pubblici,
in base ai principi generali in tema di garanzia personale (art. 1950
c.c.), non derogati  dall'art.  22,  comma  primo,  del  decreto  del
Presidente  della  Repubblica  10  gennaio  1957,  n.   3,   non   e'
obbligatoria, sebbene presupponga  che  nel  giudizio  nei  confronti
dello Stato sia stato accertato l'elemento soggettivo (dolo  o  colpa
grave)  del  comportamento  del   funzionario   danneggiante   e   la
conseguente valutazione sulla probabilita' di successo della  rivalsa
stessa. 
    In secondo luogo l'iniziativa  giudiziaria  rimane  discrezionale
anche in caso di transazione della lite, come si evince dal  disposto
dell'art. 30 decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957,
n. 3, e la ratio di tale previsione  e'  la  medesima,  sopra  citata
dell'originario testo dell'art. 7, comma 1, legge n. 117/1988. 
    Ne' la  ragione  di  tali  disparita'  di  trattamento  normativo
potrebbe  individuarsi  nella  diversita'   dei   presupposti   della
responsabilita' del magistrato e di  quella  degli  altri  dipendenti
pubblici, atteso che il titolo dell'azione regresso e' costituito  in
entrambi i casi dall'esistenza della obbligazione i danni dello Stato
e dall'intervenuto pagamento. Tantomeno tale ragione puo'  consistere
nella differente entita' economica della rivalsa  (contenuta,  per  i
magistrati, in una somma pari alla meta' dello stipendio  annuale  al
momento in  cui  l'azione  di  risarcimento  e'  proposta,  ai  sensi
dell'art. 5 legge n. 118/2015).  Tale  aspetto  avrebbe  dovuto  anzi
costituire un ulteriore motivo per rendere discrezionale l'azione  di
regresso nei confronti del magistrato, dal momento che la limitazione
dell'entita' della somma recuperabile,  a  fronte  delle  motivazioni
dell'esito  sfavorevole  per  lo  Stato  del  giudizio  risarcitorio,
potrebbe in certi casi sconsigliare quella iniziativa. 
    Anche sotto questi due profili, quindi, la norma in esame  e'  in
contrasto con il parametro dell'art. 3 Cost. 
6.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 1, lett. a), b) e c) e dell'art.  4
legge n. 18/2015 per contrasto con l'art, 81, comma 3, Cost. 
    La legge n. 18/2015 non indica i mezzi per far fronte ai maggiori
oneri derivanti, a carico dello Stato, dalla applicazione delle norme
che ampliano le ipotesi di responsabilita' (art. 2, comma 1, lett.  b
e c), di quella che riconosce la risarcibilita' anche del  danno  non
patrimoniale conseguente ad un atto o  provvedimento  del  magistrato
(art. 2, comma 1, lett, a) e di quella che prevede la obbligatorieta'
dell'azione di rivalsa (art. 4), e cio' a differenza  del  d.d.l.  n.
1626  di  iniziativa  governativa,  che  conteneva  una  norma  sulla
copertura  finanziaria  (si  trattava  dell'art.  4)  proprio   delle
conseguenze del  presumibile  incremento  del  contenzioso  derivante
dalle suddette modifiche. 
    Eppure, come si evince dalla relazione  al  predetto  disegno  di
legge, la stima di quegli oneri sarebbe  stata  ben  possibile  sulla
base del numero delle sentenze di condanna al risarcimento dei  danni
cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie  nel  periodo  di
vigenza della legge n. 117/1988. 
    D'altro   canto   l'eventualita'   della    spesa,    correlabile
all'eventualita'  dei  giudizi  risarcitori   e   delle   conseguenti
condanne, non e' elemento di per se' ostativo all'adozione di  simili
previsioni, che infatti sono  state  puntualmente  adottate  in  casi
analoghi, come, ad esempio, quando venne modificata la disciplina  in
tema patrocinio a spese dello Stato (art. 22, legge 28 marzo 2001, n.
134 e art. 295 decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002). 
 
                              P. Q. M. 
 
    Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di
legittimita' costituzionale: 
    1) degli artt. 2, comma 1,  lett.  c)  e  dell'art.  4  legge  n.
18/2015, laddove ha modificato l'art. 7, comma 1  legge  n.  117/1988
nella parte in cui fanno riferimento al  «travisamento  del  fatto  o
delle prove», per contrasto con gli artt. 101, comma 2, e 111,  comma
2, Cost., nonche' dell'art. 2, comma 1, lett. b)  per  contrasto  con
l'art. 3 Cost.; 
    2) dell'art. 3, comma 2, della legge n. 18/2015 per contrasto con
gli artt. 3, 25, comma 1, 101, comma 2, 111, comma 2, Cost.; 
    3) dell'art. 9, comma 1, della legge n. 117/1988, come modificato
dall'art. 6 della legge n. 18/2015, per contrasto con gli  artt.  25,
comma 1, 101, comma 2, 111, comma 2, Cost.; 
    4) dell'art. 4 legge n. 15/2018, nella parte in cui ha modificato
l'art. 7, comma 1, legge n. 117/1988, prevedendo  che  il  Presidente
del Consiglio dei ministri ha l'obbligo  di  esercitare  l'azione  di
rivalsa verso il magistrato, per contrasto  con  gli  artt.  3  e  24
Cost.; 
    5) dell'art. 2, comma 1, lett. a), b) e c), e dell'art. 4,  comma
2, legge n. 18/2015, nella parte in cui prevede che il Presidente del
Consiglio dei ministri ha l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa
verso il magistrato, per contrasto con l'art. 81, comma 3, Cost. 
    Dispone che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza  sia
notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei  ministri  e
comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica. 
 
      Verona, 12 maggio 2015 
 
                         Il giudice: Vaccari