N. 292 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 luglio 2015
Ordinanza del 15 luglio 2015 del G.U.P. del Tribunale di Palermo nel procedimento penale a carico di B.G.. Mafia - Misure di prevenzione - Omissione dell'obbligo di comunicazione di variazione patrimoniale - Trattamento sanzionatorio - Applicabilita' delle sanzioni anche con riferimento alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali e' prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali. - Legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazione alla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, alla L. 10 febbraio 1962, n. 57 e alla L. 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), art. 31, primo comma; decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), art. 76, comma 7.(GU n.51 del 23-12-2015 )
TRIBUNALE DI PALERMO Giudice dell'udienza preliminare In persona del Giudice Giuliano Castiglia; nel procedimento indicato in epigrafe nei confronti di B. G., nato il giorno 8.12.1943 a Palermo ed ivi residente e dichiaratamente domiciliato ex art. 161 c.p.p. in viale Del Fante n. 56, difeso di fiducia dall'avvocato Teodoro Caldarone del Foro di Palermo, con studio in Palermo, via Giusti n. 21; emette la seguente ordinanza. In data 21.10.2014 il Pubblico Ministero ha depositato richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di B. G. con la seguente imputazione: «reato di cui agli artt. 30, 31 legge n. 646/1982, per avere omesso di comunicare, pur essendo stato sottoposto, con decreto del Tribunale di Palermo - Sezione Misure di Prevenzione, in data 18.4.2005, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno, confermato con decreto della Corte di appello di Palermo, divenuto definitivo in data 26.2.2009, la seguente variazione patrimoniale: cessione, in data 29.3.2010, della propria quota di proprieta', dell'appezzamento di terreno agricolo, con annesso fabbricato rurale, sito nel territorio del Comune di Cefalu' (PA), contrada Monte S. Nicola, ricadente nel P.R.G. vigente nella sottozona Q2 (verde agricolo) per il corrispettivo complessivo a lui spettante di € 30.000,00. In Palermo il 29 aprile 2.010». Nel corso della conseguente udienza preliminare l'imputato ha avanzato richiesta di giudizio abbreviato, sicche' questo Ufficio ha disposto che il processo proseguisse nelle forme di cui agli artt. 438 e ss. c.p.p.-. Nel corso del giudizio, dopo la discussione e la formulazione ad opera delle parti, delle rispettive conclusioni, e' stata compiuta attivita' istruttoria ai sensi dell'art. 441, comma 5, c.p.p.-. Cio' posto, come emerge dalla sopra riprodotta imputazione, il Pubblico Ministero contesta all'imputato B. G., sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con decreto divenuto definitivo in data 26.2.2009, di avere omesso di comunicare al competente nucleo di polizia tributaria la vendita della propria quota di proprieta' di un appezzamento di terreno entro il termine di 30 giorni dal compimento di essa, avvenuta in data 29.3.2010, e di avere pertanto commesso, in data 29.4.2010, il delitto previsto dall'art. 31, comma 1, della legge 13 settembre 1982, n. 646. Detta disposizione punisce con la pena da 2 a 6 anni di reclusione e da 10.329 a 20.658 euro di multa «chiunque, essendovi tenuto, omette di comunicare entro i termini stabiliti dalla legge le variazioni patrimoniall indicate nell'articolo precedente», ossia nell'art. 30 della stessa legge 13 settembre 1982, n. 646. Tale ultimo articolo, a sua volta, prevede che «le persone condannate con sentenza definitiva per taluno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale ovvero per il delitto di cui all'articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, o gia' sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell'entita' e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresi' tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell'anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani». Non e' contestato ed e' comunque ampiamente documentato dagli atti del processo quanto indicato di seguito: B. G. con decreto della Corte di appello di Palermo del 28.11.2007, divenuto definitivo il 26.2.2009 e con il quale e' stato confermato il decreto del Tribunale di Palermo del 18.4.2005, e' stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale (con obbligo di soggiorno) per la durata di anni 3 e mesi 6; in data 29.3.2010, B. G. (a mezzo del suo procuratore B. S.) e C. S. comproprietari al 50% di un appezzamento di terreno con annesso fabbricato rurale sito nel territorio del Comune di Cefalu', hanno venduto ad un terzo detto immobile per il prezzo complessivo di € 60.000,00; di tale vendita non e' stata data alcuna comunicazione da parte del B. (o del suo procuratore) al Nucleo di Polizia Tributaria di Palermo, al quale la comunicazione doveva essere effettuata ai sensi dell'art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646. Pertanto, alla stregua dei dati appena indicati, non c'e' alcun dubbio sul fatto che B. G. non ha comunicato al Nucleo di Polizia Tributaria di Palermo, entro il termine di 30 giorni previsto dalla legge, di avere venduto la propria quota dell'immobile sopra indicato e, dunque, sul fatto che vi sia stata l'oggettiva realizzazione da parte di B. G. di una condotta corrispondente al reato previsto e punito dall'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646. Sennonche', nel caso di specie, la vendita e avvenuta con atto pubblico rogato in Capo D'Orlando (ME) dal Notaio Domenico Giardina, ossia con atto del quale il notaio rogante, pubblico ufficiale, era tenuto entro brevi termini a curare - e risulta avere curato - tanto la trascrizione nei registri immobiliari (artt. 2671 cod. civ. e 6 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecarie e catastali»), quanto la registrazione a fini fiscali (art. 10, comma 1, lettera b, e 13 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, recante «Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro»). Proprio in relazione a tale profilo del fatto, viene in considerazione il dubbio del Tribunale circa la piena legittimita' costituzionale dell'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 e dell'art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. In particolare, il Tribunale dubita della legittimita' costituzionale di entrambe le predette disposizioni nella parte in cui esse si riferiscono anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali e prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali. Prima di entrare nel merito della questione, va osservato che, con l'entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136», le disposizioni contenute negli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, che si riferiscono ai soggetti sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale sono state inglobate, rispettivamente, negli artt. 80 e 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Con la conseguenza che, mentre gli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, riguardano i soggetti condannati con sentenza definitiva per i reati ivi indicati, gli artt. 80 e 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, riguardano i soggetti sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Il fatto per quale si procede e' precedente all'entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, sicche' qui viene direttamente in considerazione l'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646; tuttavia, stante il carattere prettamente ricognitivo e di coordinamento dell'anzidetto decreto legislativo e il fatto che l'art. 76, comma 7, del medesimo decreto replica, con riferimento ai sorvegliati speciali, la disposizione gia' contenuta nell'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, il dubbio del Tribunale sulla legittimita' costituzionale di quest'ultimo si trasferisce automaticamente sull'analoga disposizione dell'art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Cio' posto, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, minoritario e ormai superato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, la fattispecie incriminatrice delineata dall'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, «anche per l'inserimento nel capo 3° della legge 646 del 1982, intitolato "disposizioni fiscali e tributarie", appare diretta ad impedire ai soggetti di cui sia stata accertata la partecipazione ad associazioni mafiose di occultare al fisco incrementi del proprio patrimonio» (Cass. pen., Sez. I, 20 gennaio 2002, n. 10024). Secondo un altro e ormai consolidato orientamento, invece, «il bene giuridico protetto da tale norma [...] si identifica [...] nella tutela dell'ordine pubblico, trattandosi di norma diretta a consentire l'esercizio di un controllo patrimoniale piu' penetrante da parte della Guardia di Finanza nei confronti di soggetti ritenuti particolarmente pericolosi [...] al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano dallo svolgimento di attivita' illecite» (Cass. Pen., Sez. I, 22 novembre 2001, n. 45798). In ogni caso, quale che sia l'opzione ermeneutica concernente l'interesse tutelato dalla norma, e' pacifico in giurisprudenza che si e' di fronte ad un reato omissivo proprio c.d. «di pura creazione legislativa», ossia ad un reato omissivo che si caratterizza perche' la situazione di fatto al verificarsi della quale scatta l'obbligo di agire penalmente sanzionato e' in se' neutra, cioe' inidonea a spingere naturalisticamente e/o psicologicamente l'uomo normale ad agire a prescindere dalla conoscenza del precetto che tale agire impone (cfr., per es., Cass. pen., Sez. II, 21 maggio 2013, n. 25974; Id., Sez. V, 18 ottobre 2012, n. 792). Nel caso di specie l'obbligo giuridico riguarda i soggetti gravati dai precedenti giudiziari (penali o di prevenzione) indicati dall'art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, e ha ad oggetto la comunicazione delle variazioni patrimoniali che superano un certo valore. Viene cioe' imposto ai soggetti gravati da detti precedenti un dovere di comunicazione, la cui inottemperanza viene sanzionata penalmente, avente ad oggetto condotte - ossia il compimento di determinati negozi-giuridico patrimoniali - che in se' considerate non solo non sono offensive di alcun bene ma che, anzi, sono ordinariamente valorizzate, tutelate e favorite dall'ordinamento. Indubbiamente, siamo di fronte ad una fattispecie riconducibile alla categoria dei reati di sospetto, ossia quei reati consistenti in comportamenti che, in se' non lesivi ne' pericolosi, inducono a supporre l'avvenuta commissione o la futura perpetrazione di altri reati. Nello specifico, l'omessa comunicazione di una variazione patrimoniale da parte di un soggetto ritenuto pericoloso per i precedenti giudiziari ingenera il sospetto che la variazione sottenda attivita' illecite e, in particolare, reati. La categoria dei reati di sospetto, al pari di quella dei reati ostativi o reati ostacolo, come da tempo sottolineato in dottrina, presenta numerosi profili di attrito con i principi cardine del sistema penale contenuti nella Carta fondamentale e, in particolare, mal si concilia con un diritto penale in cui l'offesa al bene giuridico costituisce elemento imprescindibile del ricorso alla sanzione penale. E' naturale, quindi, che le fattispecie riconducibili a siffatte categorie siano state oggetto di frequenti denunce di incostituzionalita' e, conseguentemente, di frequenti interventi della Corte costituzionale. Esperienza, questa, alla quale non fa eccezione la fattispecie di cui all'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646. Ed invero, da tempo, la giurisprudenza di merito non ha mancato di rilevare le criticita' che presenta il paradigma punitivo qui considerato, facendone oggetto, agli inizi degli anni duemila, di ripetute eccezioni di incostituzionalita', sulle quali la Corte costituzionale si e' pronunciata con le ordinanze n. 442 del 2001, 143 del 2002 e 362 del 2002. La prima di tali pronunce tra origine da due ordinanze di rimessione nelle quali i giudici a quibus denunciavano la disposizione de qua, tra l'altro, per violazione dell'art. 27 della Costituzione, lamentando «che la sanzione prevista dall'art. 31 della legge n. 646 del 1982 per il caso di inosservanza dell'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali» fosse «eccessiva e sproporzionata» ed evidenziando come la previsione ponesse «un obbligo puramente formale» perche', tra l'altro, «i dati concernenti le operazioni oggetto di comunicazione» sarebbero stati «conoscibili per altra via, essendo acquisti e alienazioni di immobili» - cioe' le operazioni oggetto di quel procedimento - «realizzati attraverso atti soggetti a forme legali di pubblicita'»; con la conseguenza che, ad avviso dei predetti giudici, «l'applicazione delle pene stabilite dalla disposizione [...] finirebbe per contrastare - specificamente per la "pena minima edittale" e per la sanzione della confisca - con il principio di proporzionalita' della pena e suo tramite con la finalita' rieducativa che della pena e' carattere essenziale». Nell'occasione, la Corte costituzionale, nel dichiarare manifestamente infondate le questioni sollevate in riferimento all'art. 27 della Costituzione, «quanto alle argomentazioni delle ordinanze di rinvio concernenti [...] la possibilita' che l'autorita' ha di conoscere per via diversa i dati ai quali si riferisce l'obbligo di informazione (attraverso le forme di pubblicita' legale alle quali sono generalmente soggette le operazioni patrimoniali)», osservava come il sistema fornisse «elementi che conducono la giurisprudenza, alla stregua della ratio dell'incriminazione e attraverso una lettura conforme a Costituzione, a escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato quando la pubblicita' sia comunque assicurata e dunque sia di per se' impossibile l'occultamento degli atti soggetti a comunicazione»; e come, «considerando i correttivi interpretativi sopra accennati [...], la previsione sanzionatoria [...] costituisce esercizio, in se' non arbitrario o irragionevole, della ampia discrezionalita' che al legislatore e' da riconoscersi quanto alla configurazione degli illeciti penali e alla determinazione delle relative sanzioni» (Corte cost., ord. 442/2001). Tali concetti sono stati ribaditi con le ordinanze n. 143 del 2002 e n. 362 del 2002. In particolare, con quest'ultima pronuncia - a fronte del denunciato contrasto degli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, con «gli artt. 3, 13, primo comma, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, perche', sanzionando una condotta puramente omissiva, anche quando l'obbiettivo in funzione del quale il legislatore ha posto l'obbligo - obbiettivo consistente nel controllo dei movimenti patrimoniali dei soggetti indiziati di mafia - e' agevolmente raggiungibile per altra via, in particolare attraverso accertamenti presso uffici pubblici relativamente ad atti soggetti a forme legali di pubblicita', le disposizioni violerebbero il principio di ragionevolezza della legge e il criterio di necessaria proporzione tra il disvalore del fatto e la sanzione, vanificando la finalita' rieducativa della pena e la personalita' della responsabilita' penale, attraverso una previsione di mero sospetto di carattere preventivo - la Corte, richiamando le ordinanze n. 143 del 2002 e n. 442 del 2001, riteneva le questioni sollevate manifestamente infondate, osservando come «il rilievo dei giudici di merito circa la conoscenza da parte dell'autorita' delle operazioni oggetto dell'obbligo di comunicazione, in particolare attraverso forme di pubblicita' legale degli atti», avesse «condotto altra giurisprudenza a escludere in radice la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, attraverso un'interpretazione idonea a superare i dubbi di costituzionalita'» e come, quindi, «anche alla luce delle possibilita' interpretative accennate» dovesse «ribadirsi che la scelta del legislatore di sanzionare penalmente la mancata comunicazione delle operazioni patrimoniali da parte di persona soggetta a misura di prevenzione qualificata, in un sistema di repressione del fenomeno della criminalita' organizzata fortemente caratterizzato dall'utilizzo degli strumenti di contrasto di tipo patrimoniale», costituisse «esercizio dell'ampia discrezionalita' che al legislatore medesimo e' da riconoscersi quanto alla configurazione degli illeciti penali e alla determinazione delle relative sanzioni». E' dunque evidente che, nel valutare manifestamente infondate le censure mosse nei confronti della fattispecie incriminatrice qui considerata, un rilievo decisivo e' stato attribuito dalla Corte costituzionale all'interpretazione della disposizione, sposata all'epoca da una parte della giurisprudenza, che escludeva la sussistenza del reato, sia pure sotto il profilo dell'assenza dell'elemento soggettivo, per le condotte consistenti nell'omessa comunicazione di variazioni patrimoniali compiute mediante atti soggetti a forme di pubblicita' legale. Sennonche', nell'evoluzione giurisprudenziale successiva alle ordinanze della Corte costituzionale ora richiamate, si e' consolidato e definitivamente imposto l'indirizzo secondo cui il delitto punito dall'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, e' configurabile anche quando l'omissione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici (v., tra le tante, Cass. pen., Sez. V, 18 febbraio 2003, n. 15220; Id., Sez. V, 25 febbraio 2005, n. 14996; Id., Sez. II, 5 aprile 2006, n. 14332; Id., Sez. I, 15 giugno 2006, n. 25862; Id., Sez. I, 25 ottobre 2006, n. 37408; Id., Sez. V, 18 aprile 2008, n. 36595; Id., Sez. I, 17 febbraio 2009, n. 12433; Id. Sez. I, 24 febbraio 2010, n. 10432; Id., Sez. I, 19 maggio 2010, n. 23213; Id., Sez. V, 21 settembre 2011, n. 40338; Id., Sez. V, 18 ottobre 2012, n. 792; Id., Sez. Il, 21 maggio 2013, n. 25974). Di contro, l'interpretazione suggerita dal Giudice delle leggi nelle predette pronunce, cui all'epoca aderiva una parte della giurisprudenza di merito e che era stata sposata da alcune decisioni della Corte di cassazione dei primi anni duemila (Cass. pen., Sez. I, 20 gennaio 2002, n. 10024; Id., Sez. VI, 5 febbraio 2003, n. 11398), non ha avuto piu' seguito e risulta oggi definitivamente abbandonata. Si deve prendere atto, dunque, che l'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n, 646, secondo il «diritto vivente», punisce anche le omissioni di comunicazioni riguardanti variazioni patrimoniali realizzate mediante atti pubblici soggetti a trascrizione nei pubblici registri e a registrazione ai fini fiscali, in contrasto con le indicazioni provenienti dalla pregressa giurisprudenza della Corte costituzionale. Inevitabilmente, quindi, detta disposizione e' tornata all'attenzione del Giudice delle leggi, che si e' recentemente pronunciato in argomento con la sentenza n. 81 del 2014. Va detto che, con l'ordinanza di rimessione che ha dato impulso a tale ultimo intervento - pronunciata con riferimento ad un caso analogo a quello oggetto del presente procedimento, in cui l'omessa comunicazione riguardava una compravendita immobiliare realizzata mediante atto pubblico notarile -, pur svolgendo una critica generale alla disposizione incriminatrice, in particolare nella misura in cui essa, prescindendo non soltanto dalla illegittima provenienza dei beni ma anche da qualsiasi intento dissimulatore, finisce col punire anche chi realizza una violazione meramente formale dell'obbligo di comunicazione e, specificamente, chi conclude l'operazione di cui omette la comunicazione al competente nucleo di polizia tributaria con atto pubblico notarile, il giudice a quo ne ha denunciato l'incostituzionalita' sotto il profilo della irragionevolezza e sproporzione della pena e della confisca obbligatoria ivi previste. Piu' specificamente, nell'occasione, il giudice rimettente ha censurato il carattere irragionevole e sproporzionato della pena della reclusione da due a sei anni e della multa da 10.329 a 20.658 euro nonche' della confisca obbligatoria, comportanti un trattamento sanzionatorio complessivamente addirittura piu' oneroso di quello previsto per condotte in apparenza ben piu' gravi, come quelle di trasferimento fraudolento di valori delineate dall'art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, con la legge 7 agosto 1992, n. 356. Denunciando il contrasto di tale trattamento sanzionatorio con gli artt. 3, 27 e 42 della Costituzione, il giudice de quo ha richiesto alla Corte costituzionale un intervento che, operando sulla pena prevista per il delitto qui considerato e sull'obbligatorieta' della confisca, riconducesse i limiti edittali minimi della pena alla misura che le previsioni generali degli artt. 23 e 24 c.p. stabiliscono, rispettivamente, per la reclusione e per la multa, ed escludesse il carattere obbligatorio della confisca. La Corte, nell'esaminare la questione, ha ripercorso le tappe dei propri precedenti interventi in materia. Cosi', ha rilevato come «l'ipotesi risultata maggiormente problematica, nell'applicazione della previsione punitiva, e' quella in cui la variazione patrimoniale non comunicata alla polizia tributaria derivi da un'operazione soggetta a forme di pubblicita' legali che ne assicurino la pronta e agevole conoscibilita'» e come il «caso paradigmatico» - che veniva in rilievo nel giudizio a quo - «e' quello della compravendita immobiliare stipulata mediante atto pubblico rogato da notaio [...] del quale il notaio rogante e' tenuto a curare entro brevi termini tanto la trascrizione nei registri immobiliari (art. 2671 del codice civile, art. 6 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale»), quanto la registrazione a fini fiscali (artt. 10, comma 1, lettera b, e 13 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, recante «Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro»), comunicandolo, in tal modo, direttamente all'amministrazione finanziaria». Ha poi rilevato come «sul presupposto che, in simili frangenti, l'operativita' della norma incriminatrice in esame risultasse priva di adeguato fondamento razionale e tale da condurre a risultati iniqui, era emerso in giurisprudenza, all'inizio degli anni 2000, un indirizzo interpretativo volto ad escludere la configurabilita' del reato: soluzione che faceva peraltro leva, piu' che sulla carenza di tipicita' del fatto connessa ad un deficit di offensivita', sulla ritenuta insussistenza dell'elemento soggettivo»; indirizzo il quale, «muovendo dal rilievo che lo scopo dell'incriminazione - anche a fronte della sua collocazione nel capo III della legge 11. 646 del 1982, recante "Disposizioni fiscali e tributarie" - fosse quello di impedire l'occultamento all'amministrazione finanziaria degli incrementi dei patrimoni di soggetti collegati ad associazioni mafiose [...], deduceva che il dolo del delitto di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali non potesse essere, a sua volta, che un "dolo di occultamento", logicamente non ipotizzabile quando l'operazione fosse stata compiuta con le modalita' dianzi indicate». Quindi, osservando che «e' in tale quadro interpretativo che si collocano» le sue «precedenti pronunce», la Corte ha ricordato come, «chiamata a scrutinare, a piu' riprese, tanto la norma precettiva (art. 30 della legge n. 646 del 1982) che quella sanzionatoria (art. 31), [...] dichiaro' le questioni manifestamente infondate, sul rilievo che le citate previsioni normative costituivano esercizio, non manifestamente arbitrario o irragionevole, dell'ampia discrezionalita' spettante al legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di determinazione delle relative sanzioni: e cio', tanto piu' a fronte del fatto che la giurisprudenza dell'epoca, attraverso una lettura qualificata come «conforme a Costituzione», escludeva "la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato quando la pubblicita' sia comunque assicurata e dunque sia di per se' impossibile l'occultamento degli atti soggetti a comunicazione"». Ha infine rilevato che «negli anni successivi, tuttavia, si e' consolidato nella giurispridenza di legittimita' un orientamento di segno opposto, in base al quale il delitto in esame e' configurabile anche quando l'omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici, soggetti ad un regime di pubblicita', trattandosi di atti comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di polizia tributaria competente ne' ad opera del pubblico ufficiale rogante, ne' di altri». Dopo avere richiamato i propri precedenti sulla fattispecie incriminatrice qui considerata, la Consulta ha rilevato che il «rimettente denuncia come alla stregua di tale "diritto vivente" - che ingloba nel cono applicativo dell'incriminazione anche fatti che, secondo le indicazioni delle pronunce di questa Corte dinanzi ricordate, avrebbero dovuto restarvi estranee - il trattamento sanzionatorio della fattispecie risulti manifestamente sproporzionato per eccesso, violando, con cio', gli artt. 3, 27, terzo Comma, e 42 Cost.». Al riguardo, la Corte, pur rilevando che l'intervento proposto dal giudice a quo, rimettendo di fatto alla Consulta un compito riservato in via esclusiva al legislatore, ossia quello di individuare la pena minima del reato, fosse impraticabile per il Giudice delle leggi, e pur pervenendo, quindi, ad una pronuncia di inammissibilita', non ha pero' mancato di osservare come «la questione sollevata coglie un indubbio profilo di criticita' del paradigma punitivo considerato». Tale «indubbio profilo di criticita'», ad avviso di questo Tribunale, sulla scia di quanto la Corte costituzionale aveva gia' avuto modo di affermare con le ordinanze n. 442 del 2001, n. 143 del 2002, n. 362 del 2002 e di quanto, da ultimo, la Corte ha ribadito con l'appena richiamata sentenza n. 81 del 2014, e' quello concernente l'estensione dell'incriminazione a condotte che non ledono il bene che la norma si prefigge di proteggere. In altri termini, il nodo della questione non sta nel minimo troppo alto della pena edittale rispetto a quello stabilito da altre fattispecie incriminatrici ma nell'incriminazione di condotte inoffensive che, come tali, non dovrebbero essere incriminate. Del resto, se l'aspetto critico e' che il paradigma punitivo ingloba nel cono applicativo dell'incriminazione anche fatti che, secondo la stessa Corte costituzionale, avrebbero dovuto restarvi estranei, il rimedio non puo' essere rinvenuto in una rimodulazione del trattamento sanzionatorio minimo ma nell'espunzione dal cono predetto di quei comportamenti che devono restare estranei rispetto ad esso. Al riguardo, come si e' detto, in funzione dell'interesse alla conoscenza delle variazioni patrimoniali riguardanti soggetti considerati, in ragione dei precedenti giudiziari, «sospetti» e ritenute, in ragione del loro valore, significative, il sistema impone ai «sospetti» un obbligo di comunicazione delle variazioni significative. Orbene, se in generale l'omessa comunicazione delle anzidette variazioni puo' essere ritenuta offensiva dell'interesse alla loro conoscenza, sicche' puo' essere ritenuto legittimo sanzionare penalmente tale omissione, non e' dato invece cogliere alcuna offesa all'interesse in questione quando l'omissione riguarda variazione patrimoniali realizzate mediante atti soggetti a pubblicita'. In tali casi non c'e' e non ci puo' essere offesa all'interesse alla conoscenza delle variazioni patrimoniali. Ne' in contrario puo' valere il rilievo secondo cui, sul presupposto che le norme mirano ad assicurare la conoscenza effettiva delle variazioni, l'adempimento delle formalita' inerenti alla trascrizione «garantisce alle Autorita' [soltanto] la possibilita' di conoscere i mutamenti dello stato patrimoniale dell'interessato» mentre la segnalazione effettuata ai sensi dell'art. 30 della legge 13 settembre 1982, n, 646, «assicura l'effettiva conoscenza della variazione e non la mera conoscibilita' legale» (cfr., per esempio, Cass. pen., Sez. V, 18 febbraio 2003, n. 15220). Da un lato, infatti, l'obiezione non considera che la «conoscibilita' legale» assicurata dalla trascrizione riguarda la generalita' dei consociati mentre, per quanto riguarda le Autorita', la trascrizione e (anche) la registrazione determinano la conoscenza effettiva del negozio giuridico che ne forma oggetto, sicche' tali Autorita', a seguito di detti adempimenti, acquisiscono effettivamente e concretamente notizia delle variazioni patrimoniali. Vero e' che le Autorita' in questione non coincidono con quella specificamente indicata dall'art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ma - e qui sta il punto decisivo - va considerato che il sacrificio della liberta' personale, diritto essenziale dello stato di diritto, postula una rilevante offesa ad un bene giuridico, offesa che, come detto, non ci puo' essere quando, essendo l'interesse protetto quello alla conoscenza di determinati fatti, questi sono compiuti mediante forme che si caratterizzano proprio perche' portano tali fatti a conoscenza delle Autorita'. Alla stessa conclusione si perviene esaminando la questione in considerazione la natura di reato di sospetto della fattispecie incriminatrice qui considerata. Nella specie, il sospetto e' che l'omessa comunicazione della variazione patrimoniale e, quindi, la volonta' di non informare le Autorita', sottenda ad attivita' illecite e, in particolare, ad attivita' costituenti reato. Orbene, allorche' la variazione patrimoniale sia realizzata con atto pubblico, essendovi in tal caso oggettiva incompatibilita' della variazione con l'ignoranza di essa da parte delle Autorita', prima ancora che soggettiva incompatibilita' con la volonta' di non informare le Autorita' da parte dell'agente, il sospetto sull'omessa comunicazione non alcuna ragion d'essere e, conseguentemente, non ha alcuna ragion d'essere l'incriminazione di tale omissione. In conclusione, quindi, il profilo di criticita' della fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, va individuato nel fatto che tale disposizione, alla stregua del "diritto vivente", ingloba anche fatti che, essendo inoffensivi, secondo le stesse indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale, non dovrebbero esservi ricompresi. Tali fatti sono costituiti dalle omissioni delle comunicazioni riguardanti le variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali e' prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali. Nella misura in cui punisce tali fatti, essendo essi inoffensivi del bene giuridico individuabile a fondamento della norma incriminatrice, detto paradigma punitivo assume la connotazione di reato d'autore e si pone in contrasto con gli artt. 3, 13, comma 1, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione. Con l'art. 3 perche', nei casi in questione, la previsione determina una irragionevole disparita' di trattamento in danno dei soggetti tenuti alla comunicazione ai sensi dell'art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646. Con l'art. 13, comma 1, perche', nei casi in questione, prevede un sacrificio del bene fondamentale della liberta' personale in assenza di un'offesa ad altro bene giuridico. Con l'art. 25, comma 2, perche' la previsione, nei casi in questione, configura come reato, per coloro che sono gravati da determinati precedenti giudiziari, fatti non offensivi di alcun bene che per la generalita' dei soggetti non solo non costituiscono illecito ma sono anzi tutelati dall'ordinamento, finendo pertanto per punire la mera disubbidienza, in contrasto con la funzione propria della pena e con il distinto ruolo di essa rispetto a quello della misura di sicurezza. Con l'art. 27, comma 3, perche', essendo la percezione dell'antigiuridicita' del proprio comportamento presupposto della rieducazione del condannato, con la punizione di mere violazioni di doveri, non offensive di alcun bene, come avviene nei casi in questione, la previsione si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena. Ad avviso di questo Tribunale, pertanto, s'impone un intervento della Corte costituzionale che, dichiarandone la parziale incostituzionalita', escluda dall'ambito di applicabilita' dell'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, le condotte che, per le ragioni sopra indicate, non sono idonee a ledere il bene giuridico che la norma si prefigge di' tutelare. A tal fine si rende necessario dichiarare l'illegittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 13, comma 1, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione, dell'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali e' prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali; nonche', parimenti, per contrasto con gli artt. 3, 13, comma 1, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione, dell'art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, che riproduce oggi la previsione dell'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, vigente al momento del fatto per il quale si procede. La rilevanza della questione prospettata nel presente procedimento risulta di evidente percezione. L'eventuale declaratoria di incostituzionalita' nei termini evidenziati, infatti, inciderebbe direttamente sulla qualificazione giuridica della condotta descritta nell'imputazione, essendo stata la variazione patrimoniale oggetto di omessa comunicazione realizzata mediante atto pubblico notarile, determinandone l'espunzione dal paradigma punitivo delineato in allora dall'art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ed oggi dall'art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e conseguentemente condizionando il contenuto della pronuncia definitoria del giudizio in corso.
P.Q.M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 13, comma 1, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 31, comma 1, della legge 13 settembre 1982, n. 646, nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali e' prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali. Dichiara altresi' rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 13, comma 1, 25, comma 2, e 27, comma 3, della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali e' prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali. Ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Sospende il processo. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Palermo, 19 luglio 2015 Il Giudice: Giuliano Castiglia