N. 323 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 luglio 2015

Ordinanza del 22 luglio 2015 del Tribunale di Napoli nel procedimento
civile promosso da De Luca Vincenzo contro Presidenza  del  Consiglio
dei ministri ed altri.. 
 
Elezioni - Elezione del Presidente e  dei  componenti  del  Consiglio
  regionale - Sospensione degli  eletti  a  seguito  di  sentenza  di
  condanna penale non definitiva -  Mancato  riferimento  a  sentenza
  definitiva di condanna per delitti  non  colposi,  successiva  alla
  candidatura o all'affidamento della carica. 
- Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235  (Testo  unico  delle
  disposizioni  in  materia  di  incandidabilita'  e  di  divieto  di
  ricoprire cariche elettive e  di  Governo  conseguenti  a  sentenze
  definitive  di  condanna  per  delitti   non   colposi,   a   norma
  dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre  2012,  n.  190),
  art. 8, comma 1. 
Elezioni  -  Elezione  del  Presidente  del  Consiglio  regionale   -
  Sospensione  solo  dopo  sentenza  di  condanna  relativa  a  reati
  commessi dopo l'entrata in vigore della norma censurata  -  Mancata
  previsione. 
- Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235  (Testo  unico  delle
  disposizioni  in  materia  di  incandidabilita'  e  di  divieto  di
  ricoprire cariche elettive e  di  Governo  conseguenti  a  sentenze
  definitive  di  condanna  per  delitti   non   colposi,   a   norma
  dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre  2012,  n.  190),
  art. 8, comma 1, in relazione all'art. 7, comma 1,  lett.  c),  del
  d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235. 
- Elezioni -  Elezioni  dei  componenti  del  Consiglio  regionale  -
  Sospensione dalla carica degli eletti solo in caso di condanna  per
  uno dei reati con una soglia di pena  superiore  a  due  anni  come
  previsto  per  i  parlamentari  nazionali  ed  europei  -   Mancata
  previsione. 
- Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235  (Testo  unico  delle
  disposizioni  in  materia  di  incandidabilita'  e  di  divieto  di
  ricoprire cariche elettive e  di  Governo  conseguenti  a  sentenze
  definitive  di  condanna  per  delitti   non   colposi,   a   norma
  dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre  2012,  n.  190),
  art. 1, comma 1, lett. b), in relazione  agli  artt.  7,  comma  1,
  lett. c), e 8, comma 1, lett. a), del d.lgs. 31 dicembre  2012,  n.
  235. 
(GU n.52 del 30-12-2015 )
 
                         TRIBUNALE DI NAPOLI 
                          I Sezione civile 
 
    Il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, nella persona
dei magistrati: 
    dott. Umberto Antico, Presidente; 
    dott. Raffaele Sdino, Giudice; 
    dott.ssa Anna Scognamiglio, Giudice Rel. 
    Riunito in camera di consiglio, all'esito della riserva  espressa
all'udienza del 17 luglio 2015; 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Ordinanza 
 
nella causa civile iscritta al n.  16879  del  ruolo  generale  degli
affari contenziosi dell'anno  2015  avente  ad  oggetto:  contenzioso
elettorale tra De Luca Vincenzo elettivamente domiciliato a Napoli al
viale Gramsci n.  16,  presso  lo  studio  dell'avv.  prof.  Giuseppe
Abbamonte, dal quale e' rappresentato e difeso unitamente agli avv.ti
Antonio Brancaccio e Lorenzo Lentini in virtu' di procura  a  margine
del ricorso; 
    Ricorrente e Presidenza del  Consiglio  dei  ministri,  Ministero
dell'interno, Prefettura U.T.G.  di  Napoli  in  persona  dei  legali
rapp.ti in carica p.t rappresentati e difesi ex lege  dall'Avvocatura
distrettuale dello Stato di Napoli presso cui domiciliano  ope  legis
in Napoli alla via Armando Diaz n. 11; 
    Resistenti  Movimento  difesa  del  Cittadino  in   persona   del
presidente Longo Antonio e Longo Antonio in proprio  rappresentati  e
difesi dall'avv. Gianluigi Pellegrino, elettivamente  domiciliati  in
Napoli alla via Melisurgo n. 4 presso lo  studio  dell'avv.to  Andrea
Abbamonte, in virtu' di procura agli atti; 
    Interventore  e  Aurisicchio  Raffaele,   Barra   Francesco,   De
Cristofaro Giuseppe, D'Alessandro Antonio, Di Luca Antonio,  Grimaldi
Amodio,  Mari  Franco,  Scotto   Arturo,   Vozza   Salvatore,   tutti
elettivamente domiciliati a Napoli alla Riviera  di  Chiaia  n.  267,
presso lo studio dell'avv. Francesco Lombardi, rappresentati e difesi
dal prof. avv. Arnaldo Miglino in virtu' di procura in calce all'atto
di intervento; 
    Interventore e Partito socialista italiano  (P.S.I.)  Federazione
regionale della Campania  in  persona  del  legale  rapp.te  p.t.  il
segretario regionale avv. Antonio Scuderi, procuratore e difensore di
se stesso, rapp.to e difeso, anche disgiuntamente,  dall'avv.  Enrico
Ricciuto, presso cui  elettivamente  domicilia  in  Napoli  alla  via
Vecchia Poggioreale n. 14 in virtu' di mandato a margine dell'atto di
intervento; 
    Interventore e Ciarambino  Valeria,  Viglione  Vincenzo,  Saiello
Gennaro Cammarano Michele, Muscara' Maria, Malerba  Tommaso,  Cirillo
Luigi, tutti elettivamente domiciliati a Napoli alla via Melisurgo n.
23, presso lo studio dell'avv. Enrico Bonelli, rappresentati e difesi
anche disgiuntamente dagli avv.ti Agosto Oreste e Marchese Stefania; 
    Interventore  e  Germano  Giovanni  elettivamente  domiciliato  a
Napoli alla via Toledo n. 282,  presso  l'avv.  Antonino  Gebbia  dal
quale e' rappresentato e  difeso  in  virtu'  di  procura  a  margine
dell'atto di intervento; 
    Interventore Avolio Sergio  elettivamente  domiciliato  a  Napoli
alla via Blundo n. 54, presso lo studio  dell'avv.  Mario  Montefusco
dal quale e' rappresentato e difeso in virtu'  di  procura  in  calce
all'atto di intervento; 
    Interventore e regione Campania in persona  del  presidente  p.t.
elettivamente domiciliata a Napoli alla via S. Lucia  n.  81,  presso
l'avvocatura regionale, rappresentata e  difesa  dagli  avv.ti  Maria
d'Elia,  Fabrizio  Niceforo,  Massimo  Lacatena   e   Almerina   Bove
dell'avvocatura regionale; 
    Interventore e D'Amelio Rosa elettivamente domiciliata  a  Napoli
alla via S. Brigida n. 64, presso  gli  avv.ti  Lelio  della  Pietra,
Fulvio Bonavitacola e Giuseppe Russo in virtu' di procura  a  margine
dell'atto di intervento; 
    Interventore  e  Foglia  Pietro,   Maisto   Giuseppe,   Fortunato
Giovanni, Salvatore  Gennaro,  Marino  Angelo,  Romano  Paolo,  Nappi
Sergio, Ruggiero Antonia, Schifone  Luciano,  Amente  Mafalda,  tutti
rappresentati e difesi dal prof avv. Giuseppe Olivieri, dagli  avv.ti
Salvatore e Giuliano Di Pardo, dall'avv. Nicola Scapillati, dall'avv.
Andrea Latessa  e  dall'avv.  Francesco  Percuoco,  presso  cui  sono
elettivamente domiciliati a Napoli  al  viale  Raffaello  n.  34,  in
virtu' di mandato in calce alla comparsa di intervento; 
    Interventore nonche' il pubblico ministero presso il Tribunale di
Napoli in persona del sostituto procuratore della Repubblica dott.ssa
Valeria Gonzales y Reyero; 
    Interventore ex lege; 
    Visto il ricorso ex art. 700  del  codice  di  procedura  civile,
depositato il 30 giugno 2015 in corso di causa, nel giudizio promosso
ex art. 22 del decreto legislativo n. 150/2011 ed  art.  702-bis  del
codice di procedura civile, nell'interesse di De Luca Vincenzo con il
quale  il  ricorrente  ha  richiesto  di  sospendere/disapplicare  il
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 giugno  2015
e conseguentemente  reintegrare,  con  effetto  immediato,  l'on.  le
Vincenzo De Luca nella carica di presidente della  regione  Campania,
con esercizio dei connessi poteri e funzioni, fino alla decisione del
giudizio di merito, anche inaudita altera parte, in  via  subordinata
rimettersi la questione di legittimita' costituzionale degli articoli
7 e 8 del decreto legislativo n. 235/2012 alla Corte costituzionale e
medio tempore sospendersi il decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri del 26  giugno  2015,  con  reintegrazione  provvisoria  del
ricorrente nella carica  di  presidente,  almeno  fino  alla  udienza
successiva alla decisione della Corte. 
    Vista la comparsa  di  costituzione  e  risposta  dell'Avvocatura
distrettuale dello Stato di Napoli e gli  atti  di  intervento  delle
parti. 
    Visti gli atti e la documentazione prodotti, sentite le parti  ed
il PM. 
 
                               Osserva 
 
    Preliminarmente  quanto  all'eccezione  di  inammissibilita'  del
ricorso perche' proposto nella  forma  cartacea  anziche'  telematica
come  previsto  dall'art.  16-bis  della  legge   n.   221/2012   (di
conversione del decreto-legge  n.  179/2012)  come  introdotto  dalla
legge n. 228/2012  rileva  il  collegio  che  il  ricorso  cautelare,
sebbene proposto  in  corso  di  causa,  costituisce  comunque  nuova
domanda che poteva essere proposta anche con il deposito tradizionale
in cancelleria; tale ricorso non puo' considerarsi un successivo atto
processuale rispetto al giudizio ex art. 22 del  decreto  legislativo
n. 150/2011, avendo natura eventuale e  non  necessaria  rispetto  al
ricorso principale anche perche' oltre alla sussistenza  del  diritto
(quanto meno del fumus boni iuris)  richiede,  come  presupposto,  il
periculum in mora, necessita di uno specifico mandato ad litem e  del
versamento di un ulteriore contributo  unificato,  tant'e'  che  allo
stesso viene dato autonomo numero di ruolo (rispetto  al  ricorso  di
merito).  In  ogni   caso   si   e'   correttamente   instaurato   il
contraddittorio e l'atto quindi, al di la della forma  prescelta,  ha
raggiunto lo scopo sanando ogni eventuale nullita', tra  l'altro  non
espressamente prevista e quindi non dichiarabile (articoli 156 e  157
del codice di procedura civile). 
    Lo stesso ragionamento va applicato alla memoria difensiva  degli
avv.ti Marchese e Agosto depositata in udienza dovendosi ritenere una
comparsa di costituzione integrativa di quella gia' depositata  il  2
luglio 2015 per il principio di simmetria delle forme. 
    Questo   collegio   quanto   alle   eccezioni   preliminari    di
inammissibilita' e di incompetenza territoriale del ricorso  proposto
ritiene che la controversia appartenga alla giurisdizione del giudice
ordinario adito, competente territorialmente. 
    Come gia' osservato da questa stessa sezione  nell'ordinanza  del
19 settembre 2015 dep. il 25 giugno 2015 e resa nel  procedimento  n.
14976/15, noto come «ricorso De Magistris»: 
    «In via preliminare, ritiene il tribunale che  effettivamente  la
questione relativa alla sospensione di cui all'art. 11, comma  1  del
decreto  legislativo  n.  235/2012  rientri  tra  le  cause  indicate
dall'art. 22 del decreto legislativo n.  150  cit.  che,  nell'ambito
della  cosiddetta  "semplificazione  dei  riti",   ha   dettato   una
disciplina omogenea per le controversie in materia di  eleggibilita',
decadenza ed incompatibilita' nelle elezioni comunali, provinciali  e
regionali.  Invero,  sebbene  non   esplicitamente   richiamata   dal
legislatore,  la  sospensione  e'   sicuramente   assimilabile   alle
questioni   di   ineleggibilita',   incandidabilita'   e   decadenza,
differenziandosi in  particolare  da  quest'ultima  perche'  a  tempo
determinato  e  perche'  riconnessa  ad  una  condanna   non   ancora
definitiva, che, tuttavia, allorquando lo divenga  determina  appunto
la decadenza dal munus pubblico.  In  sostanza,  anche  nel  caso  di
specie cio' che viene richiesto e' la verifica dei requisiti  per  la
permanenza nella carica elettiva (cd. ius in officio). Del resto,  in
passato, l'orientamento espresso, in alcune pronunce,  dalla  Suprema
Corte (cfr. per il caso di sospensione dalla  carica  di  consigliere
regionale: Cass. Sez. I n. 17020 del 12 novembre 2003 e per  il  caso
di sospensione dalla carica di consigliere comunale Cass. Sez.  I  n.
1990 del 20 gennaio 2004 e Cass. Sez. I n. 16052 dell'8 luglio 2009),
nelle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa  di  una  delibera
applicativa  di  una  sospensione  dalla  carica  si  sono   ritenute
applicabili - secondo un'interpretazione estensiva  del  concetto  di
"delibere in materia di  eleggibilita'"  -  le  disposizioni  di  cui
all'art. 82 del decreto del Presidente  della  Repubblica  16  maggio
1960, n. 570, in quanto l'art.  9-bis  del  citato  decreto  abrogato
dall'art. 274, comma 1, lettera e) del decreto legislativo  8  agosto
2000,  n.  267,  fatta  salva  l'applicabilita'  agli  amministratori
regionali - ai sensi dell'art. 19 della legge 17  febbraio  1968,  n.
108, richiamava per i relativi giudizi i termini stabiliti  dall'art.
82». 
    A tal proposito la Suprema Corte a sezioni unite  nella  sentenza
n. 11131/15 nell'affermare la giurisdizione del giudice ordinario  ha
affermato che «la sospensione e' assimilabile, per  continenza,  alle
suddette questioni di ineleggibilita', incadidabilita',  decadenza  e
che, «la mera circostanza delle  temporaneita'  degli  effetti  della
causa che impedisce di rivestire la carica in nessun modo e' idonea a
far rifluire la  situazione  giuridica  di  diritto  soggetto  ad  un
posizione di interesse legittimo cosi' da radicare  la  giurisdizione
del g.a.». 
    Ricondotto il giudizio in merito alla sospensione dalla carica di
presidente della regione nella disciplina dell'art. 22 della legge n.
150/2011, va disattesa l'eccezione di incompetenza per territorio del
giudice adito in quanto lo stesso  art.  22  prevede  che  le  azioni
popolari e le impugnative consentite per quanto concerne le  elezioni
regionali sono  di  competenza  del  tribunale  del  capoluogo  della
regione. Si tratta di competenza territoriale inderogabile ex art. 28
del codice di procedura civile, in ragione della  partecipazione  del
PM, il cui necessario intervento comporta la  riserva  di  cognizione
collegiale del rito sommario ex art. 702-bis del codice di  procedura
civile e quindi anche del ricorso cautelare in corso di causa. 
    Quanto alla compatibilita' del ricorso cautelare con la procedura
semplificata prevista dall'art. 22 della  legge  n.  150/2011  questo
tribunale  sempre  nella  precitata  ordinanza   ha   osservato   che
«l'effetto di razionalizzazione che permea il decreto legislativo  n.
150  cit.  quanto  al  contenzioso  elettorale  si  coglie  nell'aver
ricondotto il medesimo al modello  delineato  dal  rito  sommario  di
cognizione, scegliendo, pero', di conservare, accanto 
    ai   criteri   previsti   dalla   disciplina    previgente    per
l'individuazione dell'organo giudicante quei profili di  specificita'
della disciplina precedente  strettamente  connessi  con  la  materia
oggetto del giudizio i cui effetti non  possano  conseguirsi  con  le
norme contenute nel codice di procedura civile (cfr.  art.  54  della
legge di  delega  n.  69/2009).  In  particolare,  poiche'  obiettivo
primario e' la  celere  definizione  del  giudizio  dal  momento  che
risultano in discussione i diritti inviolabili di  elettorato,  posto
che di solito il circoscritto oggetto del giudizio esige al piu',  di
regola, un'istruzione meramente documentale, il legislatore ha scelto
il rito sommario, dettando pero' degli accorgimenti che, dando  conto
delle soluzioni accolte dalla disciplina previgente, fanno discostare
sotto molteplici profili la disciplina in questione  dal  modello  di
cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile. 
    Sgombrato il campo da tale questione quanto  alla  compatibilita'
in linea generale tra l'art. 702-bis del codice di procedura civile e
la tutela di cui all'art. 700 del codice di procedura  civile,  posto
che non vi e' alcuna norma di legge che la escluda specificamente, si
osserva che  il  procedimento  sommario  di  cognizione  e'  di  tipo
"ordinario" perche' la cognizione e'  piena,  mentre  la  sommarieta'
consiste solo nella deformalizzazione. Se  la  cognizione  e'  piena,
allora essa rientra nella nozione di "via  ordinaria",  giustificando
cosi' l'applicazione dell'art. 700 del codice  di  procedura  civile,
laddove sia esperibile, comunque, un'azione tramite rito sommario  di
cognizione. Nel procedimento sommario di  cognizione  la  sommarieta'
non riguarda  il  contenuto  dell'accertamento  posto  a  base  della
decisione, il quale accertamento deve, invece, tendere alla  verifica
della fondatezza delle allegazioni di parte  in  termini  di  verita'
(processuale) e non gia' di mera verosimiglianza. In  altri  termini,
la sommarieta' del procedimento cautelare e' diversa  da  quella  del
procedimento sommario,  perche'  nel  primo  caso  ci  si  limita  ad
accertare il fumus boni iuris,  mentre  nel  secondo  caso  si  attua
un'istruttoria,  seppur  deformalizzata,  che  ha  lo  scopo  di  far
pervenire ad una pronuncia idonea a divenire cosa giudicata  ex  art.
2909 del codice civile (sulla possibilita' della tutela cautelare  in
corso di causa nell'ambito dei procedimenti sommari ex  art.  702-bis
del codice di procedura civile cfr. da ultimo Cass. Sez. 2,  sentenza
n. 592 del 15 gennaio 2015 in tema  di  procedimento  giurisdizionale
previsto dall'art. 63 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, avverso  le
deliberazioni  in  materia  disciplinare  del   Consiglio   nazionale
dell'Ordine dei giornalisti, richiamato anch'esso alla disciplina del
procedimento  sommario  dall'art.  27  del  decreto  legislativo   n.
150/2011).». 
    La giurisprudenza  oggi  ritiene  pacificamente  il  procedimento
sommario quale rito semplificato  di  cognizione  piena  (Cass  2/12)
alternativo  al  rito  ordinario  con  una   scelta   lasciata   alla
discrezionalita'  del  giudice,  tranne  che  per  giudizi  (come  il
contenzioso elettorale) assoggettati obbligatoriamente a tale rito ex
decreto legislativo n. 150/2011; il  carattere  semplificato  attiene
tuttavia solo alla trattazione o  all'istruzione  e  non  anche  alla
cognizione. Inoltre nel rito sommario, a differenza del  procedimento
cautelare uniforme, non e' previsto un  contradditorio  anticipato  e
pertanto non sono previsti provvedimenti inaudita  altera  parte,  ma
deve  essere  fissata  la  comparizione  delle  parti  e  l'ordinanza
conclusiva del giudizio ha idoneita' a passare in giudicato. E' stato
altresi'  escluso  che  il  rito  sommario  abbia  natura  cautelare,
nonostante la collocazione delle norme ad esso inerenti nella  stessa
sezione del codice, essendo  esclusa  per  la  sua  instaurazione  il
periculum  in  mora  ed  essendo  la  natura   cognitiva   risultante
esplicitamente dalla rubrica del capo III bis del codice di procedura
civile introdotto dall'art. 51 della  legge  n.  69/2009  (Cass  SSUU
11512/12). 
    Ne'  puo'  argomentarsi  diversamente  per  il   fatto   che   le
controversie di cui all'art. 22 del decreto legislativo n.  150  cit.
abbiano carattere urgente. 
    «Sul punto, in realta' la disciplina dettata dall'art. 22 cit. si
conclude con la disposizione che  prevede  la  trattazione,  in  ogni
grado, in via di urgenza,  ma  tale  disposizione  non  attiene  alle
modalita' di svolgimento del giudizio, ma bensi' alla  priorita'  con
cui tali controversie devono essere  trattate  rispetto  alle  altre.
Cio' e' reso palese dal fatto che le  modalita'  di  svolgimento  del
giudizio risultano disciplinate mediante, ad esempio,  la  previsione
di termini specifici per l'instaurazione del contraddittorio che, nel
caso di specie, per rispondere ad un'altra delle eccezioni  sollevate
dalle difese sopra richiamate, avrebbero  comportato  la  trattazione
del giudizio regolarmente instaurato  con  ricorso  ex  art.  22  del
decreto legislativo n. 150 cit.  a  termine  di  ultrattivita'  della
misura cautelare concessa dal T.A.R. ampiamente elasso,  e  cio'  con
irrecuperabile detrimento  del  diritto  di  elettorato  passivo  del
ricorrente e in dispregio del principio della translatio iudicii. 
    Del resto, vale  altresi'  rilevare  che  analoga  previsione  in
termine di urgenza era contenuta nella  disciplina  previgente  (cfr.
art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica  n.  570/1960)  e
che  nonostante  l'urgenza  prescritta  per  la   trattazione   delle
controversie elettorali i termini che scandiscono l'iter del processo
elettorale sono  comunque  soggetti  alla  regola  della  sospensione
feriale, fatta salva la facolta' del giudice di dichiarare  l'urgenza
di un singolo procedimento ai sensi e per gli effetti  dell'art.  92,
comma 2 ord. giud. (cfr. fra le piu' recenti sez. 1, sentenza n. 2195
del 14 febbraio 2003, sez. 1, sentenza n. 1733 del 7 febbraio  2001).
Infine, anche la disciplina dettata in tema di contenzioso elettorale
devoluto  alla  giurisdizione  amministrativa,  laddove  il   decreto
legislativo n. 104/2010  all'art.  129,  comma  10,  conferma  quanto
sostenuto  in  precedenza:  invero,  il   legislatore   ha   disposto
espressamente per l'esenzione dalla sospensione dei  termini  feriali
delle  sole  controversie  avverso  gli  atti   di   esclusione   dal
procedimento preparatorio, nulla prevedendo per le altre ipotesi. 
    Inoltre, sul punto occorre effettuare un'ultima considerazione. 
    Valutate le rilevanti finalita'  cui  e'  preordinato  l'istituto
della sospensione necessaria del processo non e' mai  stato  dubitato
il suo operare anche nell'ambito del  giudizio  elettorale,  malgrado
l'urgenza che ne informa lo svolgimento. Nel caso di specie, come  si
e' detto in precedenza, il giudizio di merito che prosegue innanzi al
tribunale e' il giudizio nel corso del quale il T.A.R. ha  dichiarato
la sospensione ai sensi dell'art. 23, comma 2, della legge n. 87/1953
e  l'art.  669-quater  del  codice  di  procedura   civile,   prevede
espressamente la possibilita' che  in  un  giudizio  sospeso  possano
essere avanzate istanze cautelaci. Cio' posto, sostiene il  Movimento
difesa del  cittadino  che  l'art.  22  del  decreto  legislativo  n.
150/2011 non prevede esplicitamente la possibilita'  di  chiedere  la
sospensione  dell'atto  della  P.A.  che,  nel  caso  di  specie,  ha
dichiarato la sospensione dalla carica  del  de  Magistris  in  forza
dell'art. 11 del decreto legislativo n.  235/2012  e  che,  pertanto,
anche alla luce dell'art. 5 del decreto legislativo n. 150  cit.  non
sarebbe  stato  possibile  per  il  ricorrente  ottenere  la   tutela
cautelare richiesta. Tuttavia, l'interpretazione offerta non convince
dal momento che l'art. 5 cit. si  limita  a  dettare  una  disciplina
comune per tutte le ipotesi in cui nel  decreto  legislativo  n.  150
cit.  sia  esplicitamente  prevista  la  sospensione   dell'efficacia
esecutiva di un provvedimento.  Da  tale  disciplina  comune  non  e'
possibile cogliere alcun  divieto  in  ordine  alla  possibilita'  di
ricorrere alla tutela cautelare offerta dall'art. 700 del  codice  di
procedura  civile,  proprio  laddove  esplicitamente   non   previsto
l'istituto della sospensione, la quale, peraltro, viene applicata, di
regola,   "quando   ricorrono   gravi   e   circostanziate    ragioni
esplicitamente indicate nella motivazione" (art. 5,  cit,  comma  1),
venendo il rilievo del periculum in mora solo in caso di  concessione
del provvedimento fuori udienza (art. 5 cit., comma  2  "In  caso  di
pericolo imminente di un danno grave ed irreparabile  la  sospensione
puo' essere  disposta  con  decreto  pronunciato  fuori  udienza.  La
sospensione diviene inefficace se non e' confermata  entro  la  prima
udienza successiva con l'ordinanza di cui al comma 1"). 
    Del resto, con la storica sentenza costituzionale n. 190 del 1985
si  e'  registrata   una   radicale   inversione   di   rotta   nella
giurisprudenza della  Consulta  quanto  alla  tutela  cautelare  che,
proprio a partire da quel momento,  ha  assunto  progressivamente  un
ruolo essenziale nella  prospettiva  dell'effettivita'  della  tutela
giurisdizionale, trovando fondamento in una  norma  non  scritta  del
diritto processuale comune. Di tale tutela l'art. 700 del  codice  di
procedura civile, costituisce una specifica applicazione  nell'ambito
del processo civile, secondo le regole positive che il legislatore ha
dettato. In sostanza, e' proprio dal 1985 che si e' posto il problema
di  conferire  rilevanza  costituzionale  al  principio  chiovendiano
secondo  cui  la  durata  del  processo  non  deve  andare  a   danno
dell'attore che ha ragione. Tale principio e'  stato  dapprima  posto
genericamente a fondamento  della  tutela  cautelare  considerata  in
senso ampio, in  seguito  trovando  massima  esplicazione,  sotto  il
profilo della legislazione ordinaria, nell'art.  700  del  codice  di
procedura civile.  In  Costituzione,  invero,  non  e'  previsto  uno
specifico modello di tutela giurisdizionale in quanto  la  disciplina
della materia era rimessa al legislatore ordinario. Tuttavia, come si
e' visto  in  precedenza  con  riferimento  proprio  alla  translatio
iudicii, i principi  costituzionali  influiscono  direttamente  sulle
scelte  del  legislatore  e   la   tutela   giurisdizionale   risulta
indispensabile nell'attuazione del diritto sostanziale, a  sua  volta
imprescindibile  e   ulteriore   passaggio   rispetto   al   semplice
riconoscimento di una posizione soggettiva. Del resto, nei  confronti
dei diritti fondamentali il nostro ordinamento non ha approntato  una
tutela  differenziata,  come  invece  nel  sistema  di  altri  Paesi;
conseguentemente, e' apparso decisivo, per assicurare una  protezione
giurisdizionale  effettiva,  rinviare  alla  tutela   d'urgenza.   In
sostanza,  la  tutela  cautelare  e'  espressione  di  quel  generale
principio  del  processo  in  virtu'  del  quale,   al   termine   di
quest'ultimo, la parte costretta a rivolgersi al giudice debba essere
posta, se ha avuto ragione, nella stessa situazione in cui si sarebbe
trovata   se   non    avesse    dovuto    ricorrere    all'intervento
giurisdizionale. Lo stesso principio vale, ovviamente, anche  per  la
parte nei cui confronti sia stata infondatamente  attuata  la  tutela
richiesta. 
    Anche la Corte di giustizia comunitaria si e' occupata di  misure
cautelaci,  che  ha  ritenuto  essere  solo  quelle   dal   carattere
provvisorio emanate sulla base del  presupposto  dell'urgenza  inteso
come rischio, sempre provato dal ricorrente, di  un  imminente  danno
grave ed irreparabile.  Nell'esperienza  giuridica  comunitaria,  con
riferimento  a  tale  ultima  nozione  di  danno,  un   pericolo   di
pregiudizio assume la  connotazione  della  irreparabilita'  qualora,
verificandosi,  non  vi  si  possa  rimediare  tramite  indennizzo  a
posteriori o quando, in  mancanza  del  provvedimento  cautelare,  la
situazione giuridica soggettiva fatta  valere  in  giudizio  potrebbe
essere  compromessa  in  modo  irreversibile  anche  ad  opera  della
decisione di merito. 
    E' evidente la solidita' della copertura costituzionale  prevista
per la tutela cautelare atipica e l'ammissibilita', quindi, per tutte
le argomentazioni sopra svolte al  suo  ricorso  anche  nel  caso  di
specie». 
    Infine quanto all'ammissibilita' degli interventi va rilevato che
il ricorso elettorale e' una ipotesi  di  azione  popolare  che  puo'
essere proposta da qualsiasi  cittadino  elettore,  diretta  a  porre
rimedio  ad  un  eventuale   operato   illegittimo   della   pubblica
amministrazione;  tale  azione  popolare  e'  posta  a  tutela  della
collettivita'  in  quanto  il  ricorrente  agisce   uti   civis   per
salvaguardare la regolare composizione ed il  regolare  funzionamento
degli organi collegiali degli enti locali da cui deriva il  carattere
diffuso della legittimazione; inoltre  la  legittimazione  ha  natura
fungibile perche' posta ad evitare che  l'inerzia  di  colui  che  ha
instaurato il giudizio finisca  per  pregiudicare  l'interesse  della
collettivita' dovendosi ritenere opportuno garantire  il  diritto  di
difesa a tutti coloro  che,  attesa  l'estensione  ultra  partes  del
giudicato elettorale, sono in ogni caso tenuti a subire  gli  effetti
della decisione. L'interesse  dell'attore,  in  genere,  ha  comunque
carattere individuale e  si  identifica  nel  diritto  di  elettorato
attivo  e/o  passivo  previsto  dalla  Costituzione,  e  pertanto  va
riconosciuta la legitimatio ad causam  ai  soli  cittadini  dell'ente
locale in questione. Sono inoltre legittimati all'azione elettorale i
diretti interessati dovendosi con cio' intendere sempre i titolari di
diritti  soggettivi  (come  i  candidati  non  risultati  eletti,   e
precisamente il primo di  questi,  qualsiasi  componente  dell'organo
deliberativo) e non coloro  che  hanno  un  mero  interesse  al  buon
andamento della pubblica amministrazione. Legittimati  all'intervento
nel giudizio  elettorale  sono  quindi  i  soggetti  investiti  della
relativa legitimatio ad causam  e  pertanto  gli  elettori  dell'ente
locale in oggetto. 
    «In tema  di  contenzioso  elettorale  il  processo  puo'  essere
promosso da qualsiasi cittadino elettore del comune e da chiunque  vi
abbia interesse,  il  che  configura  una  legittimazione  diffusa  e
fungibile, accordata dall'ordinamento in  funzione  di  un  interesse
pubblico alla regolare composizione ed al retto  funzionamento  degli
organi collegiali degli enti pubblici territoriali e che trova la sua
ragion  d'essere  nell'opportunita'  di  utilizzare  l'iniziativa  di
qualsiasi  cittadino  elettore,  diretta   ad   eliminare   eventuali
illegittimita' verificatesi in materia di elettorato  amministrativo,
con la necessaria conseguenza che  il  giudicato  formatosi  in  tale
giudizio acquisti autorita' ed  efficacia  erga  omnes,  non  essendo
compatibile con la natura popolare dell'azione, con il suo  carattere
fungibile e con le sue funzioni e finalita', che  gli  effetti  della
pronuncia rimangano limitati alle  sole  parti  del  giudizio  e  non
operino  anche  nei  confronti  di  tutti  gli  altri  legittimati  e
dell'organo collegiale cui il giudizio stesso si riferisce  (cfr.  le
sentenze delle sezioni unite nn. 73 del 2001 e 2464 del 1982; sez. 1,
sentenza n. 27327 del 2011). 
    La  giurisprudenza   tende   ad   escludere   la   legittimazione
processuale dell'ente territoriale nel giudizio promosso da colui che
sia  stato  dichiarato  decaduto  dalla  carica  elettorale   o   non
eleggibile, anche quando il ricorso miri a ottenere  la  declaratoria
di nullita' della relativa deliberazione, in quanto tale giudizio  ha
per oggetto non la legittimita' del provvedimento di dichiarazione di
decadenza o di ineleggibilita', bensi'  la  sussistenza  del  diritto
soggettivo alla permanenza nella carica (vedi  Cass.  nn.  1020/1991,
8979/1992, 4868/1994, 6153/1996, 13588/2000, 16205/2000). Osserva  la
Corte che «nel giudizio  promosso  dall'eletto  avverso  la  delibera
municipale di nullita' della sua  elezione,  legittimo  e  necessario
contraddittorio e' il soggetto che a lui  si  sostituisce  per  legge
nella carica in dipendenza della delibera stessa. A lui soltanto deve
essere notificato  il  ricorso  da  parte  del  candidato  dichiarato
decaduto  per  versare  in  una  situazione  di   ineleggibilita'   o
incompatibilita'. Il principio e' imposto dal rilievo che il  giudice
ordinario, anche in detta controversia, non svolge un sindacato sulla
legittimita' dell'atto  consiliare,  ne'  esercita  giurisdizione  di
annullamento dell'atto stesso, ma deve statuire sulla spettanza della
carica, definendo un conflitto su posizioni  di  diritto  soggettivo,
alle quali rimane estraneo l'ente territoriale (sez. 1,  sentenza  n.
25946 del 2007)». 
    Inoltre la Cassazione esclude come contraddittori  necessari  gli
eletti delle liste collegate,  ma  ne  ammette  l'intervento  adesivo
dipendente (sez. 1, sentenza n. 15284 del 29 novembre 2000). 
    In  base  agli  enunciati  principi  deve  quindi  escludersi  la
legittimazione processuale della regione  Campania  e  del  Movimento
difesa del cittadino e di Antonio Longo dei quali e' stata contestata
la legittimazione all'intervento, in quanto il Movimento  difesa  del
cittadino risulta essere una organizzazione a tutela degli  interessi
del cittadino consumatore e il sig. Antonio  Longo  risulta  elettore
della regione Lazio (cfr sentenza del Consiglio di Stato 27  novembre
2012),  mentre  tutti  gli  altri  interventori  risultano  cittadini
elettori della regione Campania. 
    Passando al merito, con decreto del presidente di questa  sezione
del 2 luglio 2015 veniva sospesa l'efficacia  esecutiva  del  decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 giugno 2015  con  il
quale era stata disposta la sospensione di  De  Luca  Vincenzo  dalla
carica di presidente del consiglio regionale della Campania. 
    In via di urgenza veniva ritenuto sussistente il fumus boni iuris
- non essendo manifestamente infondata la questione  di  legittimita'
costituzionale gia' rimessa alla Corte e dal giudice amministrativo e
da quello ordinario (v. per tutte quanto al giudice ordinario,  corte
di appello di Bari ordinanza n.  1748/2014  del  27  gennaio  2014  e
quanto  al  giudice  amministrativo,  TAR  della  Campania  ordinanza
depositata il 30 ottobre  2014)  -  ed  il  periculum  in  mora,  nel
pregiudizio irreparabile  derivante  dalla  mancata  rimozione  degli
effetti della sospensione  dalla  carica,  posto  che  l'istante  non
potrebbe recuperare, in alcun modo il periodo di sospensione  subito,
nelle  more  dell'accertamento  definitivo  del  merito  e   che   il
provvedimento  impugnato,  inibendo  al  presidente  l'esercizio  dei
poteri connessi  alla  sua  carica  e  impedendo  l'insediamento  del
consiglio regionale e  la  nomina  degli  organi  di  presidenza  del
consiglio entro il termine del 12 luglio 2015 nonche' la composizione
della giunta regionale e la nomina del vicepresidente, determinerebbe
la  necessita'  di  ricorrere  a  nuove  elezioni,  con   conseguente
vanificazione del risultato elettorale e con indubbia  lesione  anche
delle posizioni soggettive dei rimanenti eletti in consiglio. 
    Come  affermato  dalla  Cassazione  a  sezioni  unite  (sent.  n.
11131/15)  «il  provvedimento  di  sospensione  incide  sul   diritto
soggettivo di elettorato passivo, atteso che questo non si  esaurisce
con la partecipazione all'elezione  ma  ovviamente  si  estende  allo
svolgimento delle funzioni per le  quali  si  e'  stati  eletti».  Il
provvedimento amministrativo che  venga  a  disporre  la  sospensione
dalla  carica  per  il  periodo  di  diciotto  mesi,  dunque,  incide
direttamente su tale diritto soggettivo. 
    Diviene quindi rilevante ai fini del presente giudizio  cautelare
e di quello successivo di  merito,  la  decisione  delle  prospettate
questioni di legittimita' costituzionale,  non  risultano  possibile,
dato il chiaro tenore  letterale  delle  norme  in  commento,  alcuna
interpretazione   costituzionalmente   orientata   risolutiva   della
fattispecie in esame. 
    Ritiene  questo  collegio  che  la  questione   di   legittimita'
costituzionale  possa  essere  sollevata  anche  nel  corso   di   un
procedimento cautelare, non essendovi  alcuna  statuizione  normativa
che ne impedisce la proposizione e non essendo in linea di  principio
incompatibile con il procedimento  cautelare  ove  -  sussistente  il
fumus boni iuris ed il periculum in  mora  -  medio  tempore  vengano
adottate  soluzioni  di  tutela  idonee  a   preservare   il   futuro
riconoscimento del diritto. 
    A  tal  proposito  la  Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.
151/2009, richiamando la pregressa giurisprudenza della stessa Corte,
ammette la possibilita' che siano sollevate questioni di legittimita'
costituzionale in sede cautelare, sia quando il giudice non  provveda
sulla domanda, sia quando conceda la relativa  misura,  purche'  tale
concessione non si risolva  nel  definitivo  esaurimento  del  potere
cautelare del quale in quella sede il giudice  fruisce  (sentenza  n.
161 del 2008 e ordinanze n. 393 del 2008 e n. 25 del  2006,  sentenza
n. 274/14). 
    Ritiene questo collegio che non sia manifestamente  infondata  la
questione di  legittimita'  costituzionale  eccepita  dal  ricorrente
quanto al punto 1) del ricorso  di  merito:  violazione  art.  8  del
decreto legislativo n. 235/2012 in  relazione  all'art.  51  Cost.  -
divieto di interpretazione  analogica  estensiva  in  tema  di  cause
restrittive  del  diritto  di  elettorato  passivo  -  illegittimita'
dell'art. 8, comma 1, lettera a) e 7, comma 1, lettera c) del decreto
legislativo 31 dicembre 2102, n. 235,  per  violazione  dell'art.  1,
comma 64, legge n. 190/2012. 
    La legge delega n. 190/2012 attribuiva al Governo  un  potere  di
riordino delle disposizioni in materia di incandidabilita' e  divieto
di ricoprire nuove  cariche  elettive  e  di  governo  conseguenti  a
sentenze definitive di condanna per delitti non colposi (art.  8  del
disegno di legge). L'oggetto della delega  al  comma  63  individuava
l'adozione di un testo unico in materia di incandidabilita' a cariche
elettive e il divieto, di assunzione di alcune cariche elettive e  di
governo ed in entrambi i casi  le  disposizioni  dovevano  riguardare
soggetti per i quali erano state pronunciata sentenze  definitive  di
condanna. 
    Infatti l'art. 1, comma 64, lettera m) della legge  n.  190/2012,
ha delegato il governo a disciplinare le  ipotesi  di  sospensione  e
decadenza dal diritto dalle cariche in caso di sentenza definitiva di
condanna per  delitti  non  colposi  successiva  alla  candidatura  o
all'affidamento  della  carica   (recita   testualmente   la   norma:
«disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto  dalle
cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna
per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento
della carica»). 
    Si rinviene nei lavori preparatori della Camera che l'art. 8  del
progetto di legge  n.  513,  comma  2,  lettere  l)  ed  m),  dettava
disposizioni comuni  («principi  e  criteri  direttivi  di  carattere
generale»). La lettera l), in particolare, prevedeva in ossequio alle
tecniche di redazione degli atti  normativi,  l'abrogazione  espressa
delle disposizioni incompatibili  con  quelle  recate  nel  testo  di
legge. Nella seconda (la lettera m) si legge: «disciplina le  ipotesi
di incandidabilita' sopravvenuta ossia il caso  in  cui  la  condanna
definitiva per delitti non colposi  che  causa  l'incandidabilita'  o
l'interdizione,  sopraggiunga   in   un   momento   successivo   alla
candidatura (in caso di cariche  elettive)  o  all'affidamento  della
carica (in caso di cariche non  elettive).  Il  principio  di  delega
prevede che in questi casi si procede a sospensione o alla  decadenza
di diritto dalla  carica.  La  disposizione  non  fornisce  ulteriori
dettagli in ordine ai casi in cui si applica l'una  o  l'altra  delle
fattispecie anche  se  sembrerebbe  plausibile  l'applicazione  della
sospensione in caso di cariche  elettive  (anche  in  relazione  alla
temporaneita' dell'incadidabilita' prevista dalle lettere a) e  b)  e
di decadenza per le cariche non elettive (di governo)». 
    Come ritenuto dalla Corte costituzionale «La  legge  delegata  e'
una delle due  forme  eccezionali  con  cui  si  esercita  il  potere
normativo  del  Governo.  Il  relativo  procedimento  consta  di  due
momenti: nella prima fase il Parlamento con una norma di  delegazione
prescrive i requisiti e determina la  sfera  entro  cui  deve  essere
contenuto l'esercizio della funzione legislativa delegata (art.  76);
successivamente, in virtu' di tale delega, il potere esecutivo  emana
i «decreti che hanno forza di legge ordinaria» (art.  77,  comma  1).
Queste fasi si inseriscono nello stesso iter, e ricollegando la norma
delegata alla disposizione  dell'art.  76,  attraverso  la  legge  di
delegazione, pongono il processo formativo della legge delegata, come
una eccezione al principio dell'art. 70. La norma  dell'art.  76  non
rimane estranea alla disciplina del rapporto tra organo  delegante  e
organo delegato, ma e' un elemento del  rapporto  di  delegazione  in
quanto, sia il precetto costituzionale dell'art.  76,  sia  la  norma
delegante  costituiscono  la  fonte  da   cui   trae   legittimazione
costituzionale la legge delegata. 
    La inscindibilita' dei cennati momenti formativi dell'atto avente
forza di legge si evince anche dalla disposizione dell'art. 77, comma
1, secondo cui si nega al Governo il potere  normativo,  se  non  sia
intervenuta la delegazione delle Camere: l'art. 76, fissando i limiti
del potere normativo delegato, contiene una preclusione di  attivita'
legislativa, e la legge  delegata,  ove  incorra  in  un  eccesso  di
delega, costituisce il mezzo con cui il precetto dell'art. 76  rimane
violato. La incostituzionalita' dell'eccesso di delega,  traducendosi
in una usurpazione del potere legislativo da parte  del  Governo,  e'
una conferma del principio, che soltanto il Parlamento puo'  fare  le
leggi. 
    Ne' per sottrarre le leggi delegate al  controllo  costituzionale
si  dica  che,  nella  specie,  mancherebbe  il  presupposto  per  la
esistenza della controversia di legittimita' costituzionale; cioe' un
contrasto diretto tra norma ordinaria e precetto  costituzionale,  in
quanto soltanto tale contrasto potrebbe dar luogo ad un  accertamento
di conformita' o di divergenza costituzionale. Giacche' se di  regola
il rapporto di costituzionalita' sorge tra un precetto costituzionale
e una legge ordinaria, non e' da escludere che, in piena aderenza  al
sistema, possa egualmente verificarsi una violazione di  un  precetto
costituzionale, come per le leggi delegate, qualora  nello  esercizio
del potere normativo eccezionalmente attribuito al Governo non  siano
osservati i limiti prescritti. Anche in siffatta ipotesi si  verifica
un caso di mancanza  di  potere  normativo  delegato,  che  non  puo'
sfuggire al sindacato di questa Corte. 
    La tesi opposta, che considera la  legge  delegante  e  la  legge
delegata, come leggi ordinarie, porterebbe a negare la competenza  di
questa Corte a conoscere di eventuali contrasti  tra  le  due  norme,
attribuendone l'esame al giudice ordinario. 
    Non puo' inoltre sostenersi che, considerando la  norma  delegata
come provvedimento di esecuzione della legge delegante, le  eventuali
esorbitanze debbano essere conosciute dal giudice ordinario, al  pari
degli eccessi dei regolamenti esecutivi; perche', non  trovandosi  la
legge delegata sullo  stesso  piano  costituzionale  del  regolamento
esecutivo, non si puo' relativamente ai vizi dell'atto  avente  forza
di  legge  ordinaria  negare  la  particolare  piu'  efficace  tutela
disposta dalla Costituzione. 
    Sarebbe in contrasto col principio  organizzativo  posto  a  base
della formazione delle leggi, negare per le  leggi  delegate,  aventi
anche esse carattere generale e che pur possono  essere  mancanti  di
elementi essenziali, sia la tutela costituzionale predisposta per  le
leggi del potere legislativo, sia la possibilita'  di  una  decisione
con efficacia erga omnes (art. 136 Costituzione). 
    Pertanto non  e'  a  dubitare,  che  la  violazione  delle  norme
strumentali per il processo formativo della  legge  nelle  sue  varie
specie (articoli 70, 76, 77 Costituzione), al  pari  delle  norme  di
carattere   sostanziale   contenute   nella    Costituzione,    siano
suscettibili di sindacato costituzionale; e che nelle  «questioni  di
legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di
legge» (articoli 1, legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.  1;  23,
comma 3 e 27, legge 11 marzo 1953, n. 87) vanno comprese le questioni
di legittimita' costituzionale relative alle leggi delegate. 
    Consegue che il sindacato  e'  devoluto  sempre  alla  competenza
della Corte costituzionale, ai sensi  degli  articoli  1  cit.  legge
costituzionale n. 1, 23 cit. legge 1953, n. 87; soltanto le decisioni
della Corte costituzionale possono assicurare, con  la  certezza  del
diritto,  la  piena   tutela   del   diritto   del   cittadino   alla
costituzionalita' delle leggi. 
    Affermata la sindacabilita' costituzionale della legge  delegata,
occorre precisare i rapporti tra legge delegante e legge delegata. 
    La legge delegante va considerata  con  riferimento  all'art.  76
della Costituzione, per accertare se sia stato rispettato il precetto
che ne legittima il processo formativo. L'art.  76  indica  i  limiti
entro cui puo' essere conferito al Governo l'esercizio della funzione
legislativa. 
    Per quanto la legge delegante sia a carattere normativo generale,
ma sempre vincolante per l'organo delegato, essa si pone in  funzione
di limite per lo sviluppo dell'ulteriore  attivita'  legislativa  del
Governo. I limiti dei principi e criteri direttivi, del  tempo  entro
il quale puo' essere emanata la legge delegata, di oggetti  definiti,
servono da un lato a circoscrivere il campo della delegazione si'  da
evitare che la delega  venga  esercitata  in  modo  divergente  dalle
finalita' che  la  determinarono;  devono  dall'altro  consentire  al
potere delegato la possibilita' di valutare le particolari situazioni
giuridiche della legislazione precedente, che  nella  legge  delegata
deve trovare una nuova regolamentazione. 
    Se la legge delegante non contiene, anche  in  parte,  i  cennati
requisiti,  sorge  il  contrasto  tra  norma  dell'art.  76  e  norma
delegante, denunciabile  al  sindacato  della  Corte  costituzionale,
s'intende dopo l'emanazione della legge delegata. 
    Del pari si verifica un'ipotesi d'incostituzionalita', quando  la
legge  delegata  viola  direttamente  una   qualsiasi   norma   della
Costituzione (Corte costituzionale sentenza n. 3 del 1957).». 
    Pertanto il Governo: 
        a) nel prevedere all'art. 8, comma 1 del decreto  legislativo
n. 235/2012 la sospensione di diritto dalle cariche indicate all'art.
7, comma 1) di coloro che hanno riportato una condanna non definitiva
per uno dei delitti indicati dall'art. 7, comma 1, lettere a),  b)  e
c), non poteva disattendere il  limite  imposto  alla  legge  delega,
estendendo  la  sospensione  anche  per  le  sentenze   di   condanne
precedenti la candidatura o l'assunzione della carica. 
    Sempre  ai  fini  della  rilevanza  della  questione,  non   puo'
ritenersi dalla semplice lettura dell'art. 8 della  cosiddetta  legge
Severino che la stessa non sia applicabile  al  ricorrente  De  Luca,
come prospettato dalla sua difesa. 
    La circostanza che il De Luca abbia  riportato  la  condanna  non
definitiva prima dell'assunzione della carica, risulta irrilevante in
quanto  nella  norma  citata  e'  completamente  scomparso  qualsiasi
riferimento temporale relativo alle  condanne  che  la  legge  delega
ancorava solo ad epoca successiva all'assunzione della carica  stessa
e tale norma e' quella allo stato imperativa; 
        b) non poteva disattendere  il  limite  imposto  dalla  legge
delega estendendolo anche al  caso  di  sentenza  non  definitiva  di
condanna, non previsto dalla legge delega. 
    Come osservato nella ordinanza della Corte di appello di Bari del
27 gennaio 2014: 
        «In altre parole il primo giudice e'  incorso  nella  patente
violazione dell'art. 12 delle  preleggi,  accedendo  ad  una  lettura
della norma assolutamente contraria ad un chiaro e inequivoco dettato
che  demandava  al  legislatore  il  compito   di   disciplinare   la
sospensione di  diritto  solo  in  caso  di  sentenza  definitiva  di
condanna. 
    Il mandato non era ne' illogico ne' contradditorio atteso che  il
Parlamento,  approvando  il   testo   delle   legge   delega,   aveva
evidentemente condiviso le conclusioni  rassegnate  alla  Commissione
affari costituzionali  dal  relatore,  che  aveva  sostenuto  che  la
lettera m) del comma 64 dell'art.  1  riferiva  la  sospensione  alle
cariche elettive e la decadenza a quelle non elettive, come detta  il
tenore letterale della norma  teste'  trascritta.  La  portata  della
delega era pertanto chiara  e  manifesta  e  non  era  consentito  al
legislatore   delegato   di   regolare   la   fattispecie   in   modo
inconfutabilmente creativo secondo  una  logica  diversa,  certamente
condivisibile e piu' aderente allo scopo generale  che  si  intendeva
perseguire, ma ben al  di  la'  del  mandato  conferito  dalla  legge
delega. Il legislatore  delegato  non  poteva  travalicare  i  limiti
assegnabili». 
    Non  e'  quindi  manifestamente   infondata   la   questione   di
legittimita' costituzionale del comma primo dell'art. 8  del  decreto
legislativo 3 dicembre 2012, n. 235,  perche',  in  violazione  degli
articoli 76 e 77 della Carta costituzionale, dispone  la  sospensione
dalla carica di presidente della regione  Campania  (per  quanto  qui
rileva) a seguito di condanna non definitiva. 
    Sull'ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale sollevata
dal ricorrente al punto  IV  del  ricorso  di  merito,  ovverosia  la
illegittimita' costituzionale  degli  articoli  7  e  8  del  decreto
legislativo n. 235/2012 in relazione agli articoli  25  e  117  della
Cost. e all'art. 7 CEDU ed 11 delle preleggi in relazione tanto  alla
irretroattivita' della norma alla fattispecie concreta  rappresentata
dalla decisione del tribunale di Salerno,  che  aveva  condannato  il
ricorrente per abuso di ufficio per fatti risalenti al  2008,  quanto
alla previsione  di  un'ulteriore  fattispecie  di  reato  (abuso  di
ufficio) non prevista come causa di sospensione o di decadenza  dalla
carica,  ritiene  il  collegio   di   parzialmente   condividere   le
argomentazioni, nei termini di seguito specificati. 
    A tal proposito la precitata ordinanza di rimessione della  Corte
di appello  di  Bari,  di  cui  si  condividono  le  motivazione,  ha
argomentato che «quand'anche dovesse ritenersi che effettivamente  la
sospensione  dalla  carica   costituisca   un   effetto   di   natura
amministrativa  della  condanna  penale  ancorche'  non  passata   in
giudicato, non appare tuttavia  dubbio  che  comunque  si  tratta  di
effetto afflittivo conseguito di diritto  a  condanna  per  un  reato
consumato in data antecedente a quella  dell'entrata  in  vigore  del
decreto legislativo n. 235/2012, che tale effetto aveva statuito,  di
modo che non pare possa  sostenersi  ragionevolmente  l'insussistenza
della  violazione  degli  articoli  della  Costituzione  25   e   117
(quest'ultimo con riferimento all'art. 7 della CEDU). Sebbene infatti
lo  scopo  delle  norme  sia  indubbiamente  quello  di   allontanare
dall'amministrazione della cosa pubblica, anche in via cautelare, chi
si sia reso moralmente indegno - e si tratta di  scopo  assolutamente
condivisibile in quanto risponde alla comune opinione dei  consociati
-, tuttavia va considerato che la  suddetta  tutela  collide  con  il
diritto di rango costituzionale di accesso alle cariche elettive e di
esercizio delle funzioni connesse alla carica conseguita in virtu' di
libere elezioni, diritti tutelati  e  garantiti  dall'art.  51  della
Carta costituzionale che non possono in concreto essere garantiti  se
non nell'ambito delle garanzie costituzionali tutte, di modo  che  e'
parte  necessaria  consustanziale   del   diritto   il   divieto   di
retroattivita' delle norme sanzionatorie, disciplinato  dall'art.  11
delle preleggi». 
    Anche il TAR Campania nella ordinanza  del  22  ottobre  2014  ha
sollevato analoga questione di legittimita' costituzionale  dell'art.
11, primo comma, lettera a) del decreto legislativo n.  235/2012,  in
relazione all'art. 10, primo comma, lettera c) del  medesimo  decreto
legislativo perche' l'applicazione retroattiva si pone  in  contrasto
con gli articoli 2, 4 secondo comma, 51  primo  comma  e  97  secondo
comma   della   Costituzione.   Ha   ritenuto   tale   collegio   che
«l'applicazione retroattiva di  una  norma  sanzionatoria,  anche  di
natura non penale ai sensi dell'art. 25, secondo  comma,  Cost,  urta
con la pienezza ed il regime rafforzato di diritti costituzionalmente
garantiti, tutte le volte in cui la  Carta  rimette  alla  disciplina
legislativa  il  regime  ordinario  di  esercizio  di  quel  diritto;
pertanto ove vi sia riserva di legge per  la  disciplina  di  diritti
fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango  costituzionale
anche i principi generali che disciplinano  la  fonte  di  produzione
normativa  primaria;  di   conseguenza,   essendo   il   divieto   di
retroattivita' di cui all'art. 11 delle disposizioni sulla  legge  in
generale, uno dei principi su cui si fonda  l'efficacia  della  legge
nel tempo, la sua violazione e' anche violazione del diritto  che  la
Costituzione espressamente la chiama a disciplinare e proteggere.  In
questo senso l'art. 51 della Costituzione  nell'affidare  alla  legge
l'individuazione dei requisiti per l'accesso alle cariche  pubbliche,
quindi  la  disciplina  positiva  per  l'esercizio  del  diritto   di
elettorato passivo, cio' consente  nei  limiti  fisiologici  entro  i
quali  alla  legge  stessa   e'   consentito   operare,   cioe'   non
retroattivamente.  Si  aggiunga  che  la  forza   di   tale   assunto
s'intensifica, tenuto conto del primo dei citati postulati, ossia  la
natura  sanzionatoria  della  cause  ostative  di  cui   al   decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 - tra cui figura la  sospensione
dalla carica  applicata  al  ricorrente  -  attesa  l'inderogabilita'
assoluta del principio di irretroattivita' nell'ambito di istituti  e
regimi  in  buona   parte   assimilabili   alle   sanzione   penali».
Condividendo  questo   collegio   le   argomentazioni   esposte   con
particolare riferimento all'assimilabilita' ad  una  sanzione  penale
delle cause di sospensione  dall'esercizio  di  una  carica  pubblica
quale limite all'esplicazione del diritto di  elettorato  passivo  di
cui all'art. 51, primo comma della Costituzione, diritto  inviolabile
ai sensi  dell'art.  2  della  Carta,  e  posto  a  fondamento  delle
istituzioni  democratiche  repubblicane   secondo   quanto   previsto
dall'art. 97, secondo comma ed espressione di una libera  scelta  dei
cittadini ai sensi dell'art. 4, secondo comma, si ritiene che non sia
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 8, primo comma,  lettera  a)  del  decreto  legislativo  n.
235/2012 in relazione all'art. 7, comma 1, lettera c), perche' la sua
applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli articoli 2,  4,
secondo  comma,  51,  primo  comma,  e   97   secondo   comma   della
Costituzione, e dell'art. 8, comma prima del  decreto  legislativo  3
dicembre 2012, n. 235, in quanto in violazione  dell'art.  25  e  del
primo comma dell'art.  117  (in  relazione  all'art.  7  CEDU)  della
Costituzione, non prevedendo la  sospensione  solo  per  sentenze  di
condanna relative a reati consumati dopo la loro entrata in vigore. 
    Ritiene, infine, questo collegio non manifestamente infondata  la
questione di legittimita' costituzionale anche dell'art. 1, comma  1,
lettera b) in relazione all'art. 7, comma 1, lettera c)  del  decreto
legislativo n.  235/2012  e  all'art.  8,  comma  1,  lettera  a)  in
violazione degli articoli 3, 51, 76 e 77  della  Costituzione  ed  in
evidente disparita' di trattamento non prevedendo la  norma  per  gli
eletti al consiglio regionale, ai fini della sospensione dalla carica
in caso di condanna per uno dei delitti  previsti  (abuso  d'ufficio)
una soglia di pena superiore a due anni come e'  per  i  parlamentari
nazionali ed  europei  ai  fini  dell'incandidabilita',  non  essendo
prevista soglia alcuna. 
    Il  decreto  legislativo   infatti   senza   motivazione   alcuna
differenzia gli eletti al governo ed al parlamento rispetto a  quelli
alle cariche regionali prevedendo ai fini  della  incandidabilita'  e
della impossibilita'  a  ricoprire  la  carica  di  presidente  della
regione, consigliere regionale o assessore una sentenza  di  condanna
definitiva per il reato di abuso  di  ufficio  (che  qui  interessa),
mentre per la incandidabilita' temporanea dei  deputati,  senatori  e
parlamentari europei, prevede una sentenza di condanna  definitiva  a
pena superiore a due anni di reclusione. La sentenza di condanna  non
definitiva per taluni reati tra cui l'abuso di ufficio, sempre  senza
riferimento alla pena superiori ai due anni  di  reclusione,  e'  poi
prevista all'art. 8 del decreto legislativo,  senza  alcun  riscontro
nella legge delega, per la  sospensione  dalla  carica  degli  eletti
nell'ente territoriale. 
    Non puo' a tal fine argomentarsi per  sostenere  la  razionalita'
della  scelta  legislativa,  che  le  cariche   in   questione   sono
differenti, in quanto non vi e'  ragione  alcuna  per  trattare  piu'
severamente gli organi locali rispetto a quelli nazionali, essendo se
mai necessario  il  contrario,  attesa  la  maggiore  estensione  del
mandato elettorale, e avendo  comunque  anche  gli  organi  regionali
funzioni legislative. Vi e' quindi una  evidente  e  palese,  nonche'
ingiustificata disparita' di trattamento degli eletti. 
    Quanto al periculum in mora: 
    Ritiene il collegio che la sospensione  riguardante  il  De  Luca
comporterebbe la lesione irreversibile  del  suo  diritto  soggettivo
all'elettorato  passivo,  posto  il  limite  temporale  del   mandato
elettivo. L'applicazione della sospensione,  nell'elevato  dubbio  di
legittimita' costituzionale delle norme sopra  indicate,  comprimendo
l'esercizio delle elettorato passivo e  del  libero  svolgimento  del
mandato  elettorale,  comporterebbe  un  danno  non  riparabile   ne'
risarcibile. 
    Si  impone  pertanto,  in  attesa  della  decisione  della  Corte
costituzionale,  la   sospensione   cautelativa   del   provvedimento
sospensivo del Presidente del Consiglio dei ministri  con  previsione
della prosecuzione del presente giudizio cautelare alla prima  camera
di consiglio successiva alla pronuncia della Corte. 
    In tali termini, va quindi  modificato  il  provvedimento  emesso
inaudita altera parte dal Presidente della I  sezione  civile  del  2
luglio 2015. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Il tribunale: 
        dichiara  rilevante  e  non   manifestamente   infondata   le
questioni di legittimita' costituzionale: 
    1) dell'art. 8, primo comma del decreto  legislativo  3  dicembre
2012, n. 235, perche', in violazione degli articoli  76  e  77  della
Carta  costituzionale,  dispone  la  sospensione  dalla   carica   di
presidente della regione Campania (per quanto qui rileva)  a  seguito
di condanna non definitiva, e perche' manca il riferimento a sentenza
definitiva di condanna  per  delitti  non  colposi,  successiva  alla
candidatura o all'affidamento della carica, cosi' eccedendo i  limiti
della delega conferita dall'art. 1, comma 64, lettera m) della  legge
n. 190 del 6 dicembre 2012; 
    2) dell'art. 8, comma primo del decreto  legislativo  3  dicembre
2012, n. 235, in quanto, in violazione del secondo  comma  25  e  del
primo comma dell'art.  117  (in  relazione  all'art.  7  CEDU)  della
Costituzione,  non  prevede  la  sospensione  solo  per  sentenze  di
condanna relative a reati consumati dopo la  entrata  in  vigore  del
predetto art. 8; 
    3) dell'art. 8, comma primo del decreto  legislativo  3  dicembre
2012, n. 235, in relazione all'art. 7, primo comma,  lettera  c),  in
quanto la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto  con  gli
articoli 2, 4, secondo comma, 51, primo comma,  e  97  secondo  comma
della Costituzione; 
    4) dell'art. 1, comma 1, lettera  b)  in  relazione  all'art.  7,
comma 1, lettera c) e all'art. 8, comma 1,  lettera  a)  del  decreto
legislativo n. 235/2012 perche' in violazione degli articoli  3,  51,
76 e 77 della Costituzione ed in evidente disparita' di  trattamento,
non prevede per gli eletti al  consiglio  regionale,  ai  fini  della
sospensione dalla carica in caso di  condanna  per  uno  dei  delitti
previsti (abuso d'ufficio), una soglia di pena superiore a  due  anni
come  e'  per  i  parlamentari   nazionali   ed   europei   ai   fini
dell'incandidabilita'; 
        dichiara inammissibile l'intervento del Movimento  di  difesa
del cittadino, di Antonio Longo e della regione Campania. 
    In parziale modifica del decreto del presidente di questa sezione
del 2 luglio 2015, accoglie provvisoriamente la domanda  cautelare  e
sospende  gli  effetti  dell'impugnato  provvedimento  (decreto   del
Presidente del Consiglio dei  ministri  26  giugno  2015)  fino  alla
camera di consiglio di ripresa del giudizio cautelare successiva alla
definizione delle questioni di legittimita' costituzionale. 
    Dispone la sospensione del presente giudizio e ordina l'immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. 
    Si comunichi. 
 
    Cosi' deciso nella camera di consiglio del 17 luglio 2015. 
 
                        Il Presidente: Antico 
 
 
                     Il Giudice a Latere: Sdino 
 
 
                 Il Giudice Estensore: Scognamiglio