N. 331 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 dicembre 2014

Ordinanza  del  16  dicembre  2014 del  Tribunale  di   Firenze   nel
procedimento  civile   promosso   da   G.A.L.A.   di   Massimo   Lari
Sas contro Banca Sai Spa Capogruppo Bancario Banca Sai . 
 
Procedimento civile - Condanna aggiuntiva della parte soccombente  al
  pagamento di somma equitativa per abuso del processo - Previsione a
  favore della controparte vittoriosa, anziche' a favore dell'erario. 
- Codice di procedura civile, art. 96, comma terzo. 
(GU n.1 del 7-1-2016 )
 
                  IL TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE 
                       (Terza Sezione Civile) 
 
     Il  Tribunale,  nella  persona   del   Giudice   dott.   Roberto
Monteverde, sciogliendo la riserva assunta all'odierna udienza del 16
dicembre 2014 ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile
di I Grado iscritta al n. r.g. 389/2011 promossa da: 
    G.A.L.A.  di  Massimo  Lari  SAS  (C.F.  05366230489),   con   il
patrocinio dell'avv. Melozzi Benedetta, elettivamente domiciliato  in
Piazza Tanucci 25 - 50134 Firenze presso il  difensore  avv.  Melozzi
Benedetta, attore opponente; 
    Contro  Banca  SAI  SPA  Capogruppo   Bancario   BANCASAI   (C.F.
04966500011),  con  il  patrocinio  dell'avv.  De  Fabritiis  Cesare,
elettivamente domiciliato in Viale  Spartaco  Lavagnini  20  -  50129
Firenze presso il  difensore  avv.  De  Fabritiis  Cesare,  convenuto
opposto. 
 
                              Premesso 
 
    Con atti di citazione  in  opposizione  del  medesimo  contenuto,
notificati l'11  gennaio  2011  e  il  12  gennaio  2011  al  decreto
ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. 5367 del 2010,  con  formule
esecutiva apposta in data 18 novembre 2010, emesso dal  Tribunale  di
Firenze il 12 ottobre 2010, la GALA  di  Massimo  Lari  e  C  s.a.s.,
conveniva in giudizio la Banca SAI S.P.A. per sentire  accogliere  le
seguenti conclusioni: «Voglia l'Ill.mo Tribunale adito ogni contraria
istanza ed eccezione disattesa: in  via  preliminare:  sospendere  la
provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto notificato il 3
dicembre 2010, concorrendo gravi  motivi;  nel  merito:  accertare  e
dichiarare la mancanza del requisito della  certezza  del  credito  e
l'illegittimita'  della  capitalizzazione  degli  interessi  maturati
nonche' la nullita' e/o illegittimita'  e/o  inefficacia  del  titolo
esecutivo e del precetto per omessa valida notifica  al  debitore  e,
conseguentemente, di ogni eventuale ulteriore atto  esecutivo  per  i
motivi di cui  in  narrativa.  Con  vittoria  di  spese,  diritti  ed
onorari». 
    Si costituiva la Banca SAI S.P.A. contestando  tutte  le  domande
formulate dall'opponente. 
    Come   rilevato   dall'opposta,   la    sintetica    formulazione
dell'odierna opposizione rivela un indubbio carattere dilatorio,  non
essendo stata  contestata  in  alcun  modo  l'esistenza  del  credito
azionato dall'opposta in sede monitoria. 
    Deve preliminarmente rilevarsi che parte  opponente,  solo  nelle
conclusioni prese nell'atto  di  opposizione  lamenti  «la  nullita',
illegittimita', inefficacia del titolo esecutivo e del  precetto  per
omessa  valida  notifica  al  debitore»   senza   riferire   tuttavia
alcunche', ne' in fatto ne' in diritto nella narrativa dell'atto. 
    Si tratta dunque di affermazione priva di pregio  sostanziale  in
quanto non minimamente motivata e peraltro infondata nel merito. 
    Con  riferimento  all'asserita  illegittima  applicazione   degli
interessi   passivi,   l'opponente   non   motiva   in   alcun   modo
l'affermazione. Risulta per contro che gli interessi richiesti con il
decreto ingiuntivo opposto  siano  tutti  documentalmente  provati  e
certificati ai sensi dell'art. 50 T.U. D.Lgs. 1°  settembre  1993  n.
385 (Docc. da 1 a 5 fascicolo monitorio). 
    In ogni caso nell'allegato A del mutuo chirografario  oggetto  di
causa, viene statuito all'art. 8 che: «la risoluzione  del  contratto
comportera'  la  decadenza  del  beneficio  del  termine   e   quindi
l'immediata  restituzione  della  somma  mutuata  e  di   quant'altro
eventualmente dovuto, con applicazione degli interessi di mora  nella
misura  prevista   all'articolo   quattro...»   (Doc.   5   fascicolo
monitorio). 
    Circa l'asserita  illegittima  capitalizzazione  degli  interessi
maturati, l'opponente lamenta che tale circostanza parrebbe  emergere
dal conteggio risultante dagli atti di  quanto  asseritamente  dovuto
alla Banca SAI S.P.A., senza tuttavia  indicare  minimamente  dove  e
come desumere l'applicazione di una capitalizzazione illegittima. 
    L'eccezione  oltre   che   meramente   esplorativa   e   pertanto
inammissibile,  deve  ritenersi  chiaramente  dilatoria,  posto   che
dall'esame  dei  documenti  risulta  che  l'art.  4  dell'allegato  A
espressamente preveda: «... su detti interessi non e' consentita  una
capitalizzazione periodica...», mentre all'art.  10:  «...  l'importo
relativo a  tale  credito  non  e'  consentita  una  capitalizzazione
periodica degli interessi» (Doc. 5 fascicolo monitorio). 
    Emerge  pertanto  dalla  documentazione  prodotta  che  le  parti
pattuirono un  finanziamento  a  tasso  variabile  che  prevedeva  un
ammortamento  mediante  rate  costituite,  in  quota  parte,  da  una
componente di  interessi  decrescente;  variabilita'  del  tasso  che
comporta necessariamente il mutare del saggio applicato in  relazione
all'andamento del  parametro  di  riferimento,  nel  caso  di  specie
Euribor. 
    D'altra parte nei prestiti con rimborso graduale del capitale  si
registra un fenomeno, per cosi' dire; di  segno  inverso  rispetto  a
quanto si verifica  in  regime  di  capitalizzazione  nei  mutui  con
rimborso graduale del prestito, come quello in esame,  ciascuna  rata
paga, oltre all'interesse del periodo, anche una quota del debito  in
linea capitale, con conseguente riduzione del capitale che fruttifica
nel periodo successivo. Le quote  interessi  di  ciascuna  rata  sono
sempre  decrescenti  perche'  calcolate  su  un  capitale  che  viene
progressivamente abbattuto in concomitanza del pagamento  delle  rate
che appunto contengono anche una quota capitale. 
    Piu' frequentemente avviene l'abbattimento tanto  piu'  vantaggio
ne trae il mutuatario. Pertanto,  una  volta  che  sia  stabilito  il
numero complessivo delle rate destinate a rimborsare il prestito, non
appare configurabile neppure teoricamente, ed in questa sede  non  e'
stata rappresentata, la possibilita'  che  il  mutuatario  trovi  nel
piano allegato al contratto sorprese o variazioni a suo danno. 
    Un simile sistema  di  ammortamento,  largamente  diffuso,  rende
davvero   difficilmente   comprensibile   come   possa   qualificarsi
illegittimo il conteggio degli interessi e la loro  capitalizzazione,
la cui prova sarebbe in ogni caso spettata alla  parte  opponente  la
quale, lungi dal fornirla, non l'ha neppure dedotta. 
    L'opposizione   deve   essere   rigettata,   risultando    infine
manifestamente infondata e caratterizzata da asserzioni  non  fondate
su  motivi  che  ne  possano  indiziarne   un   qualche   ragionevole
fondamento, non emendate o integrate in sede di memorie ex  art.  183
c.p.c., ne' in ordine alle ragioni dell'opposizione  che  definiscono
il tema del giudizio, ne' con riferimento  agli  elementi  di  prova.
L'opposizione, dunque, siccome alligata  et  (non)  probata,  risulta
all'evidenza del tutto ingiustificata ed inconsistente. 
    Lo scopo dilatorio della parte opponente, sia oggettivo  per  gli
effetti indubbiamente raggiunti, che soggettivo  per  la  malafede  o
colpa grave nell'introdurre una  controversia  non  basata  su  alcun
elemento  che  potesse  fondarne  l'accoglimento,  risulta  del  pari
manifesto, consistendo nel conseguente indubbio e indebito  vantaggio
derivante dal ritardare  il  pagamento  dovuto  per  il  lungo  tempo
occorrente   alla   definizione    del    giudizio,    per    effetto
dell'intasamento  dei   ruoli   del   contenzioso   giudiziario   che
l'opposizione  ha  essa  stessa  incrementato  e,  in  quota   parte,
determinato. 
    Detto  comportamento  si  ritiene  ben  possa  essere  sanzionato
d'ufficio con la  misura  prevista  dall'art.  96  comma  3°  c.p.c.,
mediante  la  condanna  aggiuntiva  in  un  importo   equitativamente
determinato. 
Momento determinante la questione di costituzionalita'. 
    La causa e' giunta in fase di decisione  e  questo  Giudice  deve
pronunciare  sentenza   ai   sensi   dell'art.   281-sexies   c.p.c.,
provvedendo al rigetto dell'opposizione con la conferma  del  decreto
ingiuntivo opposto ed alla liquidazione delle spese del  giudizio  in
favore della parte opposta interamente vittoriosa. 
    Pronunciando sulle spese ai sensi  dell'art.  91,  deve  altresi'
provvedere d'ufficio, secondo i motivi che sostengono la decisione, a
condannare  la  parte  soccombente  al  pagamento,  a  favore   della
controparte,  di  una  somma  equitativamente  determinata  ai  sensi
dell'art. 96 comma 3  c.p.c.,  disposizione  della  cui  legittimita'
costituzionale questo Giudice dubita, nella parte in cui  prevede  la
condanna al pagamento a favore della controparte  anziche'  a  favore
dell'Erario,  per  contrasto  con  gli  artt.  3,  24  e  111   della
Costituzione, per i seguenti 
 
                               Motivi 
 
La questione e' rilevante. 
    L'infondatezza dell'opposizione e, per  converso,  la  fondatezza
della pretesa agita con ricorso monitorio  dalla  parte  opposta,  e'
accertata e affermata  con  chiarezza  e  ad  essa  avrebbero  dovuto
seguire correlative statuizioni, conseguendone la concentrazione  del
giudizio di responsabilita' per cosiddetta «lite temeraria»  in  capo
alla sola parte opponente. 
    L'art. 96 comma 3 c.p.c. interviene su  un  rapporto  processuale
pendente, instaurato  successivamente  all'entrata  in  vigore  della
disposizione.  Si   ritiene   pertanto   che   essa   dovra'   essere
necessariamente  applicata,  secondo  i  motivi  che  sostengono   la
decisione. 
La questione non e' manifestamente infondata. 
    Con una recente pronuncia, la Corte regolatrice si e' espressa in
ordine alla natura  della  misura  prevista  dall'art.  96,  comma  3
c.p.c.,  affermando  che  «La  condanna  al  pagamento  della   somma
equitativamente determinata, ai sensi del terzo  comma  dell'art.  96
cod proc. civ., aggiunto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, ha natura
sanzionatoria e officiosa, sicche'  essa  presuppone  la  malafede  o
colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un  diritto
di azione della parte vittoriosa» (Cass. Sez. 6  -  2,  Ordinanza  n.
3003 dell'11 febbraio 2014). 
    L'arresto  ora  richiamato,   maturato   dall'esame   dello   ius
superveniens  nella   specifica   materia,   sembra   modificare   il
tradizionale  orientamento   della   giurisprudenza   relativo   alla
possibilita' di riconoscere natura  di  danno  punitivo  alle  misure
previste dall'ordinamento,  orientamento  secondo  il  quale  «rimane
estranea al sistema l'idea  della  punizione  e  della  sanzione  del
responsabile civile ed e' indifferente  la  valutazione  a  tal  fine
della sua condotta E' quindi incompatibile con l'ordinamento italiano
l'istituto dei danni punitivi» (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1183 del 19
gennaio 2007; Sez. 2, Sentenza n. 15814 del 12 giugno 2008;  Sez.  3,
Sentenza n. 25820 del 10 dicembre 2009). 
    Con riguardo al primo comma della disposizione in esame, e' stato
per contro ribadito che «In forza dei principi relativi al c.d "danno
conseguenza" affermato dalle Sezioni unite di  questa  Corte  (Cass.,
S.U. 11.11.2008, n. 26972- 5), il pregiudizio subito dalla parte deve
essere provato, sia pure anche mediante presunzioni, e non puo'  piu'
essere  individuato  in  re  ipsa  (c.d.  danno  evento)  nella  mera
violazione dell'interesse leso, in quanto il danno, quale  componente
dell'illecito, e' una  conseguenza  meramente  eventuale  dell'evento
lesivo, potendo anche configurarsi illeciti non produttivi di  danni»
(Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4925 del 27 febbraio 2013; v. anche  Cass.
sez. II Civile. 11.4.2013, n. 8913). 
    Pertanto, deve ritenersi che «Il citato art. 96 c.p.c., comma  1,
richiede la domanda della parte e la  prova  del  danno,  liquidabile
anche d'ufficio ma solo ove  il  danno  risulti  comunque,  provato»,
mentre «L'art. 96 c.p.c., comma 3, prescinde, invece,  dalla  domanda
della parte, puo' essere anche riconosciuto d'ufficio dal giudice che
puo', altresi', condannare la parte soccombente al pagamento a favore
della controparte, di una somma equitativamente  determinata»  (Cass.
Sez. 5, Sentenza n. 4925 del 27 febbraio 2013). 
    Secondo la  ricostruzione  che  il  «diritto  vivente»  fa  della
disposizione di cui all'art. 96 comma 3  c.p.c.,  la  condanna  della
parte soccombente al pagamento in favore  della  controparte  di  una
somma equitativamente  determinata,  ben  puo'  dunque  eventualmente
prescindere dalla domanda della parte e dalla prova del  danno,  come
invece preteso dal comma 1 della disposizione in quanto, appunto,  il
terzo comma dell'art. 96 c.p.c.  configura  una  condanna  di  natura
sanzionatoria e officiosa. 
    La  possibilita'  di  una  condanna  di  natura  sanzionatoria  e
officiosa che prescinda dalla ricorrenza per la parte  vittoriosa  di
un danno in concreto subito a seguito della condotta processuale  del
soccombente, e' del resto confermato dal rilevo per cui  «Non  vi  e'
alternativita' ma cumulabilita' tra il primo e terzo comma  dell'art.
96  c.p.c.,   potendo,   astrattamente,   il   giudice   pronunciare,
sussistendone le rispettive condizioni,  la  condanna,  in  forza  di
entrambe le disposizioni di legge, applicate  cumulativamente,  cosi'
come desumibile dalla  locuzione  "altresi'",  di  cui  al  comma  3,
essendo la condanna per responsabilita' aggravata ai sensi  dell'art.
96  c.p.c.,  commi  1  e  3,  ancorati  a  presupposti   parzialmente
differenti» (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4925 del  27  febbraio  2013),
dove appare difficilmente confutabile che se le due condanne  possono
coesistere   possano   anche,   al   contrario,   essere    comminate
singolarmente, nella ricorrenza dei rispettivi presupposti. 
    Se dunque la condanna di cui al primo comma dell'art.  96  c.p.c.
risarcisce la parte vittoriosa dall'illecita condotta processuale del
soccombente produttiva  di  un  danno  che  deve  essere  azionato  e
provato, la sanzione officiosa di cui  al  terzo  comma  deve  essere
necessariamente comminabile anche in assenza di un danno realizzatosi
in concreto in pregiudizio della parte vittoriosa,  cosicche'  dovra'
necessariamente esserle riconosciuta una  natura  diversa  da  quella
risarcitoria, che il remittente ritiene di poter  individuare,  anche
alla luce del contesto in cui agisce la norma, delle voci  dottrinali
e della sua applicazione maggioritaria nei Tribunali, in  una  natura
punitiva. 
    La  natura  della  condanna  di  cui   al   terzo   comma   della
disposizione, infatti, deve ritenersi presidiare una  funzione  e  un
interesse ulteriore ed eterogeneo rispetto a quello gia' presidiato e
pienamente soddisfatto dal primo comma, mediante il risarcimento  del
danno ingiustamente subito. 
    Il principio della ragionevole  durata  di  un  giusto  processo,
introdotto nell'art. 111 Cost., di cui l'art.  96,  3°  comma  c.p.c.
costituisce  espressione  ed  una  fra  le   molteplici   attuazioni,
introduce nell'ambito del processo civile un criterio  di  necessario
contemperamento  fra  il  costituzionale  diritto  d'azione   sancito
dall'art.  24  della  Costituzione  e  l'altrettanto   costituzionale
diritto alla ragionevole durata del giusto processo,  inesorabilmente
rinviante ad  un  principio  di  realta',  costituita  specificamente
nell'enorme massa  formata  dai  milioni  di  giudizi  pendenti,  che
impediscono  la  ragionevole  durata  di  ciascuno  di  essi  in  una
situazione, fra l'altro, in cui ogni organismo internazionale che  se
ne sia occupato ha dovuto registrare che la Magistratura italiana  e'
comparativamente ai vertici fra le piu' produttive al mondo. 
    Non sembra  facilmente  contestabile  che  promuovere  azioni  (o
resistervi con difese) manifestamente emulative,  vada  a  costituire
una massa di giudizi del tutto  evitabili,  addirittura  indebiti  se
riguardati nell'ottica del giusto processo e  della  sua  ragionevole
durata,  che  costituiscono  a  loro  volta  un  potente  fattore  di
rallentamento delle altre  controversie  non  altrettanto  banalmente
caratterizzate. 
    E' dunque ragionevole e del  tutto  costituzionalmente  legittimo
che lo Stato, nel doveroso  contemperamento  delle  due  disposizioni
costituzionali rammentate, ben possa, e di  fatto  abbia,  approntato
strumenti di  reazione  processuale  all'irragionevole  ricorso  alla
giurisdizione, all'abuso della giurisdizione, con  la  pluralita'  di
scopo di sanzionare in via endoprocedimentale il singolo abuso  e  di
prevenirlo per il futuro. 
    In tal senso, la ratio della nuova disposizione di  cui  all'art.
96, 3° comma c.p.c. deve dunque essere individuata nello  scoraggiare
l'abuso del processo o comportamenti strumentali  alla  funzionalita'
del servizio giustizia, cio' che pur presupponendo una pronuncia  che
accerti il requisito della malafede o della colpa grave,  esclude  la
necessita' di un danno arrecato alla controparte. 
    La circostanza che si prescinda da una richiesta di parte, che la
condanna possa essere comminata d'ufficio senza soggiacere  a  limite
nella determinazione dell'importo e senza  necessita'  di  preventiva
instaurazione  del  contraddittorio  ex  art.  101  c.p.c.,   essendo
posterius e non prius logico  della  decisione  di  merito,  appaiono
nell'insieme elementi tali  da  giustificare  tale  ricostruzione  e,
finalmente, assegnare alla  disposizione  in  esame  la  funzione  di
presidiare il processo civile dal  possibile  abuso  processuale,  di
soddisfare l'interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione
civile,  al  giusto  processo  di  cui   parla   l'art.   111   della
Costituzione. 
    L'art. 96, 3° comma c.p.c.  introduce  cioe'  una  fattispecie  a
carattere sanzionatorio che prende le distanze dalla struttura tipica
dell'illecito civile, emancipandola dall'alveo della  responsabilita'
civile, nella specie della responsabilita' aggravata di cui ai  primi
due commi dell'art. 96, per confluire in quello delle  c.d.  condanne
afflittive, e  con  la  quale  il  giudice  puo'  (e,  invero,  deve)
responsabilizzare la parte ad un ricorso alla  giurisdizione  sano  e
funzionale, scoraggiando  il  contenzioso  fine  a  se'  stesso  che,
aggravando  il  ruolo  o  carico  dei  magistrati  e  concorrendo   a
rallentare i tempi di definizione dei processi, crea  nocumento  alle
altre cause  in  trattazione,  mosse  da  ragioni  serie  e,  spesso,
impellenti o urgenti  necessita',  nonche'  agli  interessi  pubblici
primari dello Stato Comunita' che la giurisdizione rappresenta. 
    Un giusto processo di ragionevole durata  e'  un  bene  comune  e
prezioso, nel quale e con il quale si manifesta, al  massimo  livello
istituzionale, lo Stato Comunita'. Un bene sancito dalla Costituzione
e  dai  trattati  internazionali  cui  l'Italia  e'  legata  per   la
condivisione  che  ha  voluto  esprimere  dei  diritti   fondamentali
dell'uomo, un bene quindi addirittura di  «carattere  universale  ...
che, al  pari  degli  altri  diritti  che  la  Costituzione  proclama
inviolabili, spetta  ai  singoli  non  in  quanto  partecipi  di  una
determinata comunita' politica, ma in  quanto  esseri  umani»  (Corte
costituzionale Sentenza n. 105 del 2001). 
    Se, mediante lo strumento  della  sanzione  officiosa  dell'abuso
processuale, tale e di tale rango e' l'interesse presidiato dall'art.
96 comma 3, senza che  dottrina  e  giurisprudenza  maggioritarie  ne
dubitino, allora non si vede  perche'  la  medesima  disposizione  di
legge preveda la Condanna ad una somma,  equitativamente  determinata
della  parte  soccombente  a  favore  della  controparte   vittoriosa
anziche' all'Erario, dal momento che la parte  privata  risulta  gia'
munita di adeguata protezione per il risarcimento del  danno  che  la
condotta abusiva del  contraddittore  abbia  ad  essa  arrecato,  cui
corrisponde uno specifico diritto di azione. 
    Dal riconoscimento che  il  «diritto  vivente»  fa  della  natura
esclusivamente sanzionatoria e officiosa della misura di cui al terzo
comma dell'art. 96 c.p.c., deriva che  non  sembra  intestabile  alla
sfera   discrezionale   del    legislatore,    fra    le    soluzioni
costituzionalmente compatibili, quella di considerare  consustanziale
alla lesione dell'interesse pubblico la lesione  di  quello  privato,
cosi' da prevedere irragionevolmente in  favore  di  quest'ultimo  la
condanna alla somma equitativamente determinata dal giudice,  perche'
tale plurioffensivita', in concreto, potrebbe non  essere  e,  se  lo
fosse, la parte danneggiata godrebbe della ricordata azione  ex  art.
96 comma 1 c.p.c.. 
    Ne'  un  diverso  titolo   indennitario,   distinto   da   quello
risarcitorio che sarebbe, nell'ipotesi considerata, privo di causa in
assenza di danno, potrebbe giustificare detta soluzione, dal  momento
che le situazioni giuridiche che possono dar causa a tale  genere  di
emolumento  sono  state  ricondotte   dalla   giurisprudenza,   anche
costituzionale,  alle  distinte  ipotesi  del  diritto  ad  un   equo
indennizzo,  discendente  direttamente  da  precetti  costituzionali,
qualora si tratti di danno non derivante da fatto illecito,  che  sia
conseguenza dell'adempimento di un obbligo legale (per es.  artt.  32
comma 2, 42 comma 3 Costituzione) e del diritto, ove ne sussistano  i
presupposti a norma dell'art. 2 e dell'art. 38  Cost.,  a  misure  di
sostegno  assistenziale,  disponibili  dal  legislatore   nell'ambito
dell'esercizio   costituzionalmente   legittimo   dei   suoi   poteri
assistenziali (Argomenti tratti da Corte Cost. n. 118 del 1996  e  n.
226 del 2000; Cass. Sez. III, 31 maggio 2005, n. 11609), dove non  e'
possibile reperire alcuno fra tali presupposti  nella  previsione  di
condanna alla somma equitativamente determinata dal giudice in favore
della parte processuale. 
    Proprio il  diritto  d'azione  per  i  danni  processuali  subiti
risulta in definitiva idoneo ad esaurire l'interesse privato al  loro
satisfattivo  ristoro,  cosicche'   ogni   altro   pagamento   appare
realizzare nient'altro che un immeritata ed  ingiusta  locupletazione
di un ulteriore emolumento privo di ragionevole titolo. 
    Che il diritto di azione sia posto a base  del  risarcimento  del
danno  processuale  non  sembra  dubitabile,  dal  momento   che   la
verificazione di un pregiudizio alla parte processuale non puo' dirsi
effetto  automatico  della  condotta  abusiva   o   emulativa   della
controparte, ben potendo concepirsi condotte che ledano  in  se'  gli
interessi  presidiati  dal  giusto  processo  senza  arrecare   danni
all'avversario processuale e, d'altra parte, il danno stesso non puo'
essere individuato in re ipsa nella  mera  violazione  dell'interesse
leso, potendo anche configurarsi illeciti  non  produttivi  di  danni
(Cass., S.U. 11.11.2008, n. 26972- 5; Cass. Sez. 5, Sentenza n.  4925
del 27/02/2013; Cass.. sez. Civile. 11.4.2013, n. 8913). 
    Sta di fatto che l'azione della parte vittoriosa  che  rivendichi
il  ristoro  del  pregiudizio  subito  dalla   condotta   processuale
dell'avversario  ben  puo'  ritenersi  esaurire  l'interesse   e   la
protezione del privato il quale, se  invece  se  ne  astiene  perche'
l'abuso processuale non si rivolse  ne'  riflesse  nella  sua  sfera,
ovvero perche' riconosciuto non produttivo di danni o, al limite, per
mera rinuncia, non potra' nemmeno dirsi  versare  in  una  situazione
giustiziabile. 
    La difesa degli interessi privati e' affidata ad un numero  cosi'
elevato di professionisti da non avere possibilita'  di  comparazione
con nessun altro Paese confrontabile all'Italia,  mentre  l'interesse
pubblico   alla   ragionevole   durata   di   un   giusto   processo,
inevitabilmente  insidiato  da   tale   sovrastante   grandezza,   e'
presidiato nel processo civile dall'art. 111 della Costituzione e  da
alcune sue attuazioni, quali gli artt. 348-bis e  360-bis  c.p.c.  e,
per quanto interessa, dall'art. 96 comma 3 c.p.c.. 
    Le innovazioni  normative  introdotte  a  partire  dalla  riforma
dell'art.  111  della  Costituzione  appaiono  tali   da   sovvertire
obiettivamente il preesistente  quadro,  introducendo  nel  processo,
dentro il processo, un nuovo interesse  nominato  e  rilevante  dello
Stato, nella sua inscindibile articolazione in Comunita', Apparato  e
Ordinamento,  a  garantire  a  tutti  i  consociati  un  processo  di
ragionevole durata, equo e giusto. 
    Ed e' proprio il meccanismo  della  sanzione  officiosa,  la  cui
natura punitiva e afflittiva  non  appare  ignorabile,  che  convince
dell'estraneita' della parte processuale all'interesse  tutelato  dal
terzo comma dell'art. 96 c.p.c., sicche'  risulta  irragionevole  che
del versamento della sanzione  pecuniaria  disposta  dal  giudice  si
avvantaggi la parte processuale. 
    L'offensivita' della condotta di  abuso  processuale  contemplata
dal terzo comma dell'art. 96 c.p.c., e' rivolta  alla  giurisdizione,
e' offesa alla giurisdizione. 
    Se  tale  condotta  riveli   attitudine   plurioffensiva,   nella
direzione sia della lesione  dell'interesse  pubblico  ad  un  giusto
processo che della lesione dell'interesse privato,  potra'  ritenersi
quella cumulabilita' tra il primo e terzo comma dell'art.  96  c.p.c.
rammentata da Cass. n. 4925 del 27 febbraio 2013 ma, al contrario, se
la   condotta   processuale   non   rivelasse   in   concreto    tali
caratteristiche, potrebbero ben darsi condanne selettive ai sensi dei
soli primo o terzo comma dell'art. 96 c.p.c., come di fatto e  finora
avvenuto nella casistica processuale. 
    Ma la punizione, che il remittente ritiene insita nella  sanzione
ex art.  96  comma  3  c.p.c.,  non  puo'  costituire  un  immeritato
vantaggio di un soggetto, che goda del  riconoscimento  di  specifica
azione a tutela dell'interesse a lui riferibile, del  tutto  estraneo
all'interesse pubblico violato dalla condotta  di  abuso  processuale
perche' cio' sarebbe intrinsecamente irragionevole. 
    La  condanna  di  natura  sanzionatoria  e   officiosa   prevista
dall'art. 96 comma 3 c.p.c. per l'offesa arrecata alla giurisdizione,
che deve manifestare e garantire la ragionevole durata di  un  giusto
processo, in attuazione  di  un  interesse  di  rango  costituzionale
intestato  allo  Stato,  nella  sua   rammentata   articolazione,   e
ragionevole che sia disposta in favore di quest'ultimo e,  per  esso,
all'Erario,  mentre  la  condanna  di  natura  risarcitoria  prevista
dall'art. 96 comma 1 c.p.c, che richiede la domanda della parte e  la
prova del danno, e ragionevole  che  rimanga  ancorata  agli  attuali
presupposti. 
    Per quanto finora esposto risultano validi  motivi  per  dubitare
della costituzionalita'  della  norma  in  esame,  sotto  il  profilo
dell'intrinseca ragionevolezza  ed  arbitrarieta'  nella  modulazione
dell'istituto processuale da parte del legislatore,  nella  parte  in
cui prevede che «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai  sensi
dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, puo'  altresi'  condannare
la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una
somma equitativamente determinata» anziche' a favore dell'Erario, per
contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. 
    Ad opinione del  remittente,  alla  luce  del  «diritto  vivente»
richiamato,  formatosi  successivamente  all'Ordinanza  della   Corte
costituzionale  n.  0138  del  2012,  l'insuperabile  dicotomia   fra
esigenze  di  ragionevole  tutela  sia  dell'interesse  privato   che
dell'interesse pubblico costituzionalmente qualificato, fra  condanna
di natura  risarcitoria  e  condanna  di  natura  sanzionatoria,  fra
diritto di azione della parte vittoriosa  e  natura  officiosa  della
sanzione,  contemplati  rispettivamente  nel  primo  e  terzo   comma
dell'art. 96 c.p.c., rendono la chiesta pronuncia additiva pressoche'
«a rime obbligate» e costituzionalmente vincolata,  senza  che  possa
manifestarsi  a  tale  riguardo   una   sfera   di   discrezionalita'
legislativa connotata da pluralita' di  soluzioni  costituzionalmente
compatibili. 
    Si tratta infatti esclusivamente  di  stabilire  se  sia  o  meno
ragionevole - come si ritiene - che della  condanna  derivante  dalla
lesione dell'interesse dello Stato al giusto processo, che  danneggia
tutti, si avvantaggi lo stesso Stato e  la  comunita'  nazionale  che
Esso rappresenta e garantisce con la giurisdizione; per  converso  se
sia o meno irragionevole - come si ritiene - che della  condanna  per
la lesione di tale interesse si avvantaggi mi  privato  non  titolare
dello specifico interesse aggredito e del bene comune  che  ne  forma
l'oggetto, che ha a sua volta  a  disposizione  validi  strumenti  di
reazione all'abuso della controparte processuale che diriga  l'offesa
anche nei suoi confronti. 
    Ne', sembra al remittente, puo' dirsi che la soluzione  auspicata
possa determinare una soluzione  del  tutto  eccentrica  rispetto  al
sistema processuale civile in  essere,  deviando  dal  principio  che
vuole, in detta disciplina, coinvolte  esclusivamente  le  parti  del
processo,  anche  nel  caso  della  condanna  d'ufficio   alla   pena
pecuniaria, aprendo ad una sorta di sanzione «amministrativa» per  il
pregiudizio recato ad un interesse pubblico. 
    Sanzioni di  natura  pubblicistica  sono  infatti  gia'  note  al
sistema processuale civile  e  non  costituirebbero  un  assoluta  ed
inedita novita', avulsa dal sistema. 
    Puo' in effetti rammentarsi il  sistema  di  sanzioni  pecuniarie
pubblicistiche previste dagli artt. 220 e 226 c.p.c. per i  casi,  di
chiara natura emulativa, del  disconoscimento  di  scrittura  privata
successivamente accertata come di mano della parte che l'ha negata  e
di proposizione di querela di falso decisa col rigetto della querela. 
    Del tutto analogamente a quanto espressamente indicato  dall'art.
96 comma 3 c.p.c.,  «Nell'ipotesi  di  proposizione  dell'istanza  di
verificazione  di  una  scrittura  privata   disconosciuta   in   via
incidentale, la pronunzia su  di  essa  non  puo'  non  avvenire  nel
contesto della sentenza che definisce la causa principale, mentre  la
irrogazione di una pena pecuniaria a carico  della  parte  che  abbia
infondatamente  disconosciuto  il  documento  costituisce  una   mera
facolta' del giudice, tenuto solo a giustificarne l'Esercizio"  (Sez.
1, Sentenza n. 4651 del 10/08/1979). 
    Al riguardo e' stato inoltre affermato che  con  la  formula  «il
collegio, con la  sentenza  che  rigetta  la  querela  di  falso  ...
condanna inoltre la parte querelante a una pena pecuniaria» impiegata
dall'art. 226 c.p.c., deve ritenersi che «... l'obiettivo della norma
e' piuttosto preventivo che punitivo, compendiandosi nell'interesse a
responsabilizzare fortemente chi  possa  determinarsi  a  querela  di
falso, onde  evitare  al  massimo  l'abuso  di  quello  strumento  di
protezione, che investe atti a fede privilegiata.  Sappia,  pertanto,
chi voglia querelare che se la domanda verra' rigettata, non  importa
con quale ragionamento sulle prove,  egli  sara'  condannato  a  pena
pecuniaria. L'avvertenza e'  tradizionale,  nel  nostro  ordinamento,
tanto vero che l'abrogato codice di procedura civile,  all'art.  314,
ancor piu' severamente - e con pesanti risvolti acquiliani  collegati
all'esito processuale anzi che la condotta tipizzata -  ammoniva  che
«la parte  che  ha  proposto  la  querela,  se  sia  soccombente,  e'
condannata al risarcimento dei danni verso l'altra  parte  e  in  una
multa estensibile a lire cinquecento". Oggi, scomparso nella  formula
specifica quel risvolto, per altro allocabile - piu' armonicamente  -
negli elementi della generica responsabilita' aggravata (art. 96 cod.
proc. civ.), resta tuttavia l'ancoraggio  della  pena  pecuniaria  al
fatto della soccombenza specifica, nella quale si traduce il  rigetto
della querela di falso» (Sez. 3, Sentenza n. 11347 del 1992).  Dunque
non responsabilita' extracontrattuale, bensi' sanzione pecuniaria con
funzione, se non punitiva, certamente special-preventiva,  di  natura
prettamente pubblicistica. 
    Piu'  specificamente  e  con  evidente  intento   deflattivo   ed
ancoraggio all'interesse dello  Stato  alla  ragionevole  durata  del
giusto processo, puo' rammentarsi la misura prevista dall'art. 13 del
D.P.R. n.  115  del  2002,  «Testo  unico  in  materia  di  spese  di
giustizia», che al comma 1-quater, inserito dall'art.  1,  comma  17,
legge 24 dicembre 2012,  n.  228,  prevede:  «Quando  l'impugnazione,
anche  incidentale,  e'  respinta  integralmente  o   e'   dichiarata
inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta e' tenuta a
versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari  a
quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a
norma del comma 1-bis. Il giudice da' atto  nel  provvedimento  della
sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e  l'obbligo
di pagamento sorge  al  momento  del  deposito  dello  stesso»,  dove
prevedendosi il pagamento aggiuntivo, determinante il raddoppio della
somma gia' versata a titolo di  contributo  unificato,  per  il  solo
fatto obiettivo del rigetto dell'impugnazione, evidentemente  fondato
su una presunzione  iuris  et  de  iure  della  sua  inadeguatezza  o
insufficienza, non sembra rinvenibile  altra  qualificazione  se  non
quella sanzionatoria di chiara natura pubblicistica. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 134 e ss. della Costituzione, 23 legge  11  marzo
1953 n. 87; 
    Solleva d'ufficio la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 96 comma 3 del Codice di procedura civile per contrasto con
gli articoli 3, 24 e  111  della  Costituzione  nella  parte  in  cui
dispone: «In  ogni  caso,  quando  pronuncia  sulle  spese  ai  sensi
dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, puo'  altresi'  condannare
la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una
somma equitativamente determinata», anziche' a favore dell'Erario; 
    Ordina   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso; 
    Ordina che a cura della Cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente  del  Consiglio
dei  ministri  e  comunicata  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento. 
      Firenze, 16 dicembre 2014 
 
                       Il Giudice: Monteverde