N. 12 SENTENZA 12 - 29 gennaio 2016

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale - Decisione sulle questioni civili solo  in  caso  di
  condanna dell'imputato e non anche in caso di assoluzione in quanto
  non imputabile. 
- Codice di procedura penale, art. 538. 
-   
(GU n.5 del 3-2-2016 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alessandro CRISCUOLO; 
Giudici :Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI,
  Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
  AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  538  del
codice di procedura  penale,  promosso  dal  Tribunale  ordinario  di
Firenze nel procedimento penale a carico di C.E. con ordinanza del 15
gennaio 2015, iscritta  al  n.  71  del  registro  ordinanze  2015  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  18,  prima
serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  B.P.I.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  12  gennaio  2016  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo; 
    uditi l'avvocato Michele Passione per B.P.I. e  l'avvocato  dello
Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 15 gennaio 2015, il Tribunale ordinario  di
Firenze, in composizione monocratica, ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 538 del codice di  procedura  penale,  nella
parte in cui non prevede che il giudice possa decidere sulla  domanda
per le restituzioni e il risarcimento del  danno,  proposta  a  norma
degli artt. 74 e seguenti del medesimo codice, anche quando pronuncia
sentenza di assoluzione dell'imputato in quanto  non  imputabile  per
essere, nel momento in cui ha commesso il fatto,  in  tale  stato  di
mente da escludere la capacita' di intendere e di volere. 
    Il  giudice  a  quo  riferisce  che,  all'esito   dell'istruzione
dibattimentale,  tutte  le  parti  del  processo  principale  avevano
concluso per  l'assoluzione  dell'imputato,  in  quanto  incapace  di
intendere e di volere al momento del fatto per vizio totale di mente:
circostanza che apparirebbe, in effetti,  pacifica  alla  luce  delle
risultanze processuali. La parte civile aveva chiesto, peraltro,  che
l'imputato fosse condannato a corrisponderle  un'equa  indennita'  ai
sensi dell'art. 2047 del codice civile. 
    Tale richiesta, ad avviso del  rimettente,  non  potrebbe  essere
allo stato accolta. Vi osterebbe, infatti - secondo quanto  affermato
dalla Corte di cassazione (sezione prima penale, sentenza 8 ottobre-8
novembre 2013, n. 45228) - il  chiaro  disposto  dell'art.  538  cod.
proc. pen.,  a  mente  del  quale  il  giudice  penale  decide  sulle
questioni civili solo nel caso  di  condanna  dell'imputato.  Con  la
conseguenza  che,  quando  quest'ultimo  sia   assolto   per   totale
infermita' di mente, il danneggiato, costituitosi parte  civile,  non
avrebbe altra via, per far valere  i  suoi  diritti,  che  quella  di
promuovere un autonomo giudizio davanti al giudice civile. 
    Il  giudice  a   quo   dubita,   tuttavia,   della   legittimita'
costituzionale di tale disciplina, escludendo  che  il  dubbio  possa
essere    superato    con    lo    strumento     dell'interpretazione
costituzionalmente orientata, preclusa  dall'univocita'  del  dettato
della norma censurata. 
    Osserva, in specie, il Tribunale fiorentino che -  contrariamente
a quanto sostenuto dalla Corte di cassazione - la disciplina in esame
non  potrebbe  essere   ritenuta   un   coerente   corollario   della
«cessazione, con il vigente codice di procedura penale, del pregresso
sistema di unitarieta' della funzione giurisdizionale e  di  generale
prevalenza dell'accertamento in  sede  penale».  Nella  dinamica  dei
rapporti tra azione civile e azione penale -  ispirata,  in  base  al
vigente codice di rito, al principio di autonomia dei  giudizi  e  al
favor separationis - e' lasciata alla persona danneggiata  dal  reato
la scelta tra chiedere  la  tutela  dei  suoi  interessi  nella  sede
propria o nel processo penale. E' ben vero che, in  caso  di  opzione
per la seconda via, l'azione civile  deve  necessariamente  adattarsi
alla struttura e alla funzione del processo penale in cui si innesta:
ma tali adattamenti non potrebbero  andare  comunque  al  di  la'  di
quanto  richiesto  dalle  esigenze  di   salvaguardia   dei   diritti
dell'imputato e di osservanza delle  regole  sulla  formazione  della
prova. Le legittime aspettative del danneggiato  non  potrebbero,  in
particolare,  rimanere  deluse  per  la  semplice  eventualita'  che,
all'esito del giudizio penale, si accerti che l'imputato era  affetto
da vizio totale di mente al momento del fatto. 
    Impedendo al giudice penale di decidere sulla domanda  civile  in
tale evenienza, l'art. 538  cod.  proc.  pen.  violerebbe  quindi  il
principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), generando una ingiustificata
disparita' di  trattamento  tra  il  danneggiato  costituitosi  parte
civile in un processo che si concluda con l'assoluzione dell'imputato
per vizio totale di mente e il danneggiato che veda invece  esaminata
la sua domanda risarcitoria all'esito  della  condanna  dell'imputato
«sano di mente». 
    Risulterebbe  compromesso,  altresi',  il  pieno  esercizio   del
diritto di difesa del danneggiato costituitosi parte civile (art.  24
Cost.).  La  lesione  non  sarebbe  evitata  dalla  possibilita'   di
riproporre la domanda  risarcitoria  in  sede  civile,  giacche',  in
questo modo, il danneggiato si trova costretto ad agire nuovamente in
giudizio, con totale vanificazione della  precedente  scelta  di  far
valere le proprie ragioni in sede penale: e cio' anche quando -  come
nel  caso  di  specie  -  l'infermita'  mentale   dell'imputato   non
risultasse affatto comprovata al momento della costituzione di  parte
civile. La moltiplicazione dei giudizi  per  il  conseguimento  della
tutela risarcitoria sarebbe, d'altronde,  foriera  di  nocumento  non
solo  patrimoniale,  ma  anche  morale  per  la  vittima  del  reato,
costretta a rievocare, a distanza di tempo, davanti a giudici diversi
i fatti posti a base della domanda. 
    Apparirebbe violato, infine, anche il  principio  di  ragionevole
durata del  processo  (art.  111  Cost.),  in  quanto  l'esigenza  di
trasferire  l'azione  civile  «da  una  giurisdizione  ad   un'altra»
proietterebbe  «in  un  tempo  certamente   lontano»   la   pronuncia
definitiva sulla domanda risarcitoria. 
    Il vulnus al principio di ragionevole  durata  si  apprezzerebbe,
peraltro,  non  soltanto   nella   prospettiva   dell'interesse   del
danneggiato ad ottenere giustizia in tempi brevi,  ma  anche  -  alla
luce di  una  concezione  che  andrebbe  acquisendo  sempre  maggiori
consensi  in  ambito   europeo   -   sulla   base   di   criteri   di
proporzionalita' che tengano conto della intrinseca limitatezza della
«risorsa  "giustizia"».  Rendendo  necessaria,  nel  caso  in  esame,
l'instaurazione   di   un   altro   processo   davanti   a   un'altra
giurisdizione, la norma censurata mobiliterebbe,  infatti,  ulteriori
risorse giudiziarie  per  un  tempo  non  definito  e  imporrebbe  la
ripetizione dell'attivita' istruttoria, senza che  tale  duplicazione
trovi  giustificazione  nell'eventuale  specializzazione  del   nuovo
giudice o  nell'inidoneita'  del  giudice  penale  a  statuire  sulle
domande civili. 
    Non  potrebbe  trascurarsi,  inoltre,  la  circostanza   che   il
principio di ragionevole durata del  processo  risulta  applicato  in
modo specifico a tutela delle vittime di  reato  dall'art.  16  della
direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio,  che  istituisce  norme  minime  in  materia  di  diritti,
assistenza e protezione delle vittime di reato e che  sostituisce  la
decisione quadro 2001/220/GAI. Ivi si stabilisce, infatti,  che  «Gli
Stati membri garantiscono alla vittima il  diritto  di  ottenere  una
decisione in merito al risarcimento da parte  dell'autore  del  reato
nell'ambito del procedimento penale entro  un  ragionevole  lasso  di
tempo, tranne qualora il diritto nazionale preveda che tale decisione
sia adottata nell'ambito di un altro procedimento giudiziario». 
    La questione sarebbe, altresi', rilevante  nel  giudizio  a  quo,
giacche', in  caso  di  suo  accoglimento,  una  volta  accertata  la
riferibilita' del fatto all'imputato,  ancorche'  infermo  di  mente,
egli potrebbe essere condannato  al  pagamento  dell'equa  indennita'
richiesta dalla parte civile in base al secondo comma dell'art.  2047
cod. civ. All'epoca, l'imputato non  era  sottoposto,  infatti,  alla
sorveglianza di alcun soggetto, sicche' la parte civile  non  avrebbe
potuto chiedere la citazione a giudizio di un responsabile civile  ai
sensi del primo comma del medesimo articolo. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. 
    A parere della  difesa  dello  Stato,  la  denunciata  violazione
dell'art.  3  Cost.  non  sarebbe  ravvisabile,   stante   l'assoluta
eterogeneita'  delle  due  ipotesi  poste  a  confronto  dal  giudice
rimettente. L'accertamento dell'incapacita' di intendere e di  volere
per infermita' mentale, escludendo  la  punibilita'  dell'autore  del
fatto, giustifica la pronuncia di una sentenza di assoluzione:  esito
manifestamente non  assimilabile  alla  sentenza  di  condanna,  solo
perche' costituente l'epilogo di un  processo  in  cui  vi  e'  stata
costituzione di parte civile. 
    Parimenti insussistente risulterebbe  la  lamentata  lesione  del
diritto  di  difesa  del  danneggiato  costituitosi   parte   civile.
L'impossibilita' di ottenere la  condanna  al  pagamento  di  un'equa
indennita' nei confronti dell'imputato assolto per totale  infermita'
di mente costituirebbe, infatti, la logica conseguenza  della  scelta
del danneggiato di chiedere la tutela dei propri diritti nel processo
penale, anziche' nella sede naturale: scelta  che  -  secondo  quanto
affermato dalla Corte costituzionale  e  come  lo  stesso  rimettente
ricorda - comporta l'impossibilita' di sottrarsi agli effetti che  ne
conseguono, a causa della struttura e  della  funzione  del  giudizio
penale,  cui  l'azione  civile  deve  necessariamente  adattarsi.  Il
danneggiato conserva, in ogni caso, la possibilita' di rivolgersi  al
giudice civile. 
    Proprio perche' coerente con la struttura  del  processo  penale,
nel cui ambito l'interessato ha scelto di far valere la sua  pretesa,
l'esigenza di adire il giudice civile non potrebbe essere ritenuta in
contrasto  neppure  con  il  principio  di  ragionevole  durata   del
processo. 
    3.- Si e' costituita, altresi', B.P.I., parte civile nel giudizio
a quo, la quale ha svolto deduzioni adesive  alle  tesi  del  giudice
rimettente,  chiedendo  che  la  questione  sia  accolta  e  che   la
dichiarazione di illegittimita'  costituzionale  sia  «eventualmente»
estesa, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della  Corte  costituzionale),
all'art. 185, primo e secondo comma, del codice penale: disposizioni,
queste ultime, che - secondo la parte  privata  -  concorrerebbero  a
determinare i  vulnera  costituzionali  denunciati,  unitamente  alla
norma processuale sottoposta a scrutinio. 
    Sulla base di una disamina della giurisprudenza costituzionale  e
della Corte europea dei diritti dell'uomo, la parte  privata  assume,
in specie, che non vi sarebbe alcun ragionevole motivo per il quale -
una volta accertato che il fatto illecito e' stato commesso,  che  e'
previsto come reato e che ha prodotto un danno, ma non e'  penalmente
perseguibile per difetto di imputabilita' dell'autore  -  il  giudice
penale non possa decidere sulla domanda di  ristoro  del  pregiudizio
causato dall'incapace, sia pure sotto forma del pagamento di  un'equa
indennita', costringendo  cosi'  il  danneggiato  costituitosi  parte
civile ad instaurare un nuovo giudizio davanti al giudice civile, con
ulteriori attese e costi. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Firenze dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 538 del codice di  procedura  penale,  nella
parte in cui non consente al giudice di decidere sulla domanda per le
restituzioni e il risarcimento del  danno,  proposta  a  norma  degli
artt. 74 e seguenti del medesimo codice, quando pronuncia sentenza di
assoluzione dell'imputato in quanto non imputabile per  vizio  totale
di mente. 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l'art.
3 della Costituzione, determinando una  irragionevole  disparita'  di
trattamento fra  il  danneggiato  costituitosi  parte  civile  in  un
processo penale che si concluda con l'assoluzione  dell'imputato  per
totale  infermita'  di  mente,  e  il  danneggiato  che  veda  invece
esaminata  la  sua  domanda  risarcitoria  all'esito  della  condanna
dell'imputato «sano di mente». Se e' vero infatti che, scegliendo  di
far valere le sue pretese nel processo penale, il danneggiato accetta
i condizionamenti  connessi  al  necessario  adattamento  dell'azione
civile alla struttura e alla funzione del  giudizio  penale,  i  suoi
diritti non potrebbero  rimanere  comunque  pregiudicati  dalla  mera
eventualita' che - all'esito  di  quel  giudizio  -  si  accerti  che
l'imputato era totalmente infermo di mente al momento del fatto. 
    Risulterebbe  compromesso,  altresi',  il  pieno  esercizio   del
diritto di difesa del danneggiato costituitosi parte civile (art.  24
Cost.), il quale si troverebbe costretto, per  conseguire  la  tutela
dei suoi diritti, ad instaurare un nuovo giudizio davanti al  giudice
civile,  con  totale  vanificazione   della   scelta   -   che   pure
l'ordinamento gli consente - di far valere la  sua  pretesa  in  sede
penale: e cio' anche quando - come nel caso di specie -  l'infermita'
di mente dell'imputato non fosse affatto comprovata al momento  della
costituzione di parte civile. 
    Sarebbe violato, infine, il principio di ragionevole  durata  del
processo (art. 111 Cost.), in  quanto  l'esigenza  di  trasferire  la
domanda risarcitoria in sede civile allontanerebbe sensibilmente  nel
tempo la pronuncia definitiva sulla stessa e  impegnerebbe  ulteriori
risorse giudiziarie senza alcun apprezzabile motivo. 
    2.- Nell'approccio al thema decidendum, giova ricordare  come  la
norma sottoposta a  scrutinio  trovi  il  suo  immediato  antecedente
storico nell'art. 489, primo comma, del codice  di  procedura  penale
del 1930. 
    Nel confermare la scelta - gia'  operata  dai  precedenti  codici
postunitari  -   di   consentire   l'esercizio   dell'azione   civile
riparatoria nel processo penale,  detto  codice  delineava,  come  e'
noto, un assetto dei rapporti tra giudizio penale e  giudizio  civile
improntato ai principi di unitarieta' della funzione  giurisdizionale
e di preminenza della giurisdizione penale. 
    Il  danneggiato  poteva  esercitare  l'azione   civile   per   le
restituzioni e il risarcimento del  danno  cagionato  dal  reato  nel
processo penale mediante la costituzione di parte civile, ovvero  far
valere le proprie pretese davanti al giudice civile. In  quest'ultimo
caso, tuttavia - salva  la  facolta'  di  trasferire,  a  determinate
condizioni, l'azione civile nel processo penale - il giudizio  civile
rimaneva obbligatoriamente sospeso fino alla pronuncia della sentenza
penale irrevocabile,  la  quale  assumeva  efficacia  vincolante  nel
giudizio di danno (artt. 23 e seguenti cod. proc. pen. del 1930). 
    In questo contesto, era espressamente previsto - sulla  falsariga
dell'art.  8  del  codice  di  procedura  penale  del  1913  -   che,
nell'ipotesi in cui il danneggiato si fosse costituito parte  civile,
il giudice penale non poteva comunque decidere sull'azione civile ove
il procedimento si fosse chiuso con sentenza di non doversi procedere
o di assoluzione per qualsiasi causa (art. 23, primo  comma,  secondo
periodo, cod. proc. pen. del 1930): dunque, neppure quando le ragioni
del proscioglimento - non inerendo alla sussistenza del fatto o  alla
sua  commissione  da  parte  dell'imputato  -  non  escludessero   la
configurabilita'  di  una  responsabilita'  civile.  La  regola   era
ribadita, in modo speculare, dal citato art. 489,  primo  comma,  del
codice abrogato, ove  si  stabiliva  che  l'imputato  potesse  essere
condannato alle restituzioni e al risarcimento del  danno  in  favore
della parte civile (solo) «Con la sentenza di condanna». 
    Si trattava - per  corrente  rilievo  -  di  uno  dei  principali
corollari  del  cosiddetto  principio  di  accessorieta'  dell'azione
civile  innestata  sul  tronco  dell'azione  penale,  rispetto   alle
finalita' di quest'ultima: prospettiva nella quale la competenza  del
giudice penale a conoscere - eccezionalmente - del "torto civile" era
destinata  a   cadere   allorche'   detto   giudice,   prosciogliendo
l'imputato,  avesse  con  cio'  esaurito  il  compito  decisorio  suo
proprio, inscindibilmente connesso  alla  definizione  della  pretesa
punitiva. Al riguardo,  si  rilevava  nella  relazione  del  Ministro
guardasigilli al progetto preliminare del codice che  «La  competenza
del giudice penale a statuire sopra la  responsabilita'  civile  puo'
ammettersi  esclusivamente  quando  egli  riconosca  e  dichiari   la
responsabilita' penale, perche'  soltanto  in  questo  caso  sussiste
quella correlazione che giustifica tale competenza. Quando invece  la
responsabilita'   penale,   cioe'   l'effetto   della    riconosciuta
colpevolezza viene esclusa, il giudice  penale  non  puo'  esercitare
soltanto la giurisdizione civile, che non gli  e'  propria.  Vi  sono
cause che escludono  la  condanna  penale,  nonostante  la  accertata
colpevolezza  dell'imputato  [...].  Ma  il  solo  presupposto  della
colpevolezza non puo' bastare a mantenere nel giudice  penale  quella
competenza civile, che non e' piu'  giustificata  dalla  connessione,
una volta che egli deve assolvere.  L'azione  civile  dovra'  percio'
proporsi dinanzi al giudice competente [...]». 
    3.-  Nonostante  l'evidenziata  possibilita'   di   attivare   la
giurisdizione civile, l'assetto ora ricordato  poteva  risultare,  in
fatto, assai penalizzante per il danneggiato.  Se  si  rivolgeva  sin
dall'inizio al giudice civile, egli vedeva, infatti,  paralizzata  la
sua azione dal regime di sospensione obbligatoria; se optava  per  la
costituzione di parte civile nel processo penale, rischiava di  veder
vanificata l'iniziativa  -  anche  a  distanza  di  numerosi  anni  -
dall'esito assolutorio del giudizio, ancorche' per  ragioni  che  non
escludevano affatto la fondatezza della sua pretesa. 
    Non stupisce, percio', che nei dibattiti che hanno  preceduto  la
nuova codificazione si fossero manifestate spinte per il  superamento
della regola che  qui  interessa:  spinte  che  avevano  trovato  una
parziale eco nel progetto preliminare del 1978,  redatto  sulla  base
della delega legislativa - rimasta poi inattuata  -  conferita  dalla
legge 3 aprile 1974, n. 108  (Delega  legislativa  al  Governo  della
Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale). 
    L'art. 510 del progetto prevedeva, infatti, che il giudice penale
decidesse sulla domanda per le restituzioni  e  il  risarcimento  del
danno non soltanto nell'ipotesi di condanna, ma  anche  «in  caso  di
estinzione del reato quando  risulti  gia'  provata  l'esistenza  del
fatto e la sua attribuzione all'imputato». 
    E' interessante rilevare come, nella relazione  al  progetto,  la
commissione ministeriale incaricata della sua redazione riferisse  di
aver scartato - malgrado le  perplessita'  espresse  da  alcuni  suoi
componenti - la piu' ampia soluzione di prevedere la pronuncia  sulla
domanda civile in tutti i casi di proscioglimento  sulla  base  delle
prove assunte in giudizio. Cio', alla luce della considerazione  che,
in una simile prospettiva,  la  decisione  sulla  domanda  civile  si
sarebbe ricollegata «non gia' alla fattispecie prevista dall'articolo
185 c.p., bensi' a quella prevista dall'articolo 2043 c.c., in ordine
alla quale manca la competenza del  giudice  penale».  Si  era  fatta
eccezione, tuttavia, per l'ipotesi di estinzione del reato, «giacche'
tale estinzione non esclude che sia integrata la fattispecie  di  cui
all'art. 185 c.p.» e tenuto conto, altresi', del fatto che, «in  tale
ipotesi, sarebbe contrario alle regole  di  economia  processuale,  e
sarebbe gravemente pregiudizievole per il  danneggiato,  impedire  la
pronuncia  civile  del   giudice   penale   (particolarmente   quando
l'estinzione del reato si verifica in  appello  o  in  cassazione)  e
costringere il danneggiato a riproporre l'azione riparatoria in  sede
civile». 
    4.- La soluzione prefigurata dal progetto  preliminare  del  1978
non e' stata, peraltro, recepita dal nuovo codice di procedura penale
del 1988, il cui art. 538, comma  1,  continua  a  collegare  in  via
esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna
dell'imputato («Quando pronuncia sentenza  di  condanna,  il  giudice
decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno,
proposta a norma degli articoli 74 e seguenti»). 
    L'unica eccezione - fortemente circoscritta - e' quella stabilita
dall'art.  578  del  medesimo  codice  e  riguarda  il  giudizio   di
impugnazione. Riproponendo e  ampliando  la  disposizione  introdotta
dall'art. 12, primo comma, della legge 3 agosto 1978, n. 405  (Delega
al Presidente della Repubblica per la concessione di  amnistia  e  di
indulto e disposizioni sull'azione civile in seguito ad  amnistia)  e
in puntuale attuazione del criterio  direttivo  di  cui  all'art.  2,
numero 28), della legge  delega  16  febbraio  1987,  n.  81  (Delega
legislativa al Governo della Repubblica per  l'emanazione  del  nuovo
codice di procedura penale), si prevede, infatti, che quando e' stata
pronunciata condanna, anche generica, dell'imputato alle restituzioni
o al risarcimento dei danni a favore della parte civile,  il  giudice
di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il  reato
per amnistia o per prescrizione, decidono comunque  sull'impugnazione
ai soli effetti delle disposizioni e  dei  capi  della  sentenza  che
concernono gli interessi civili. 
    La cornice sistematica entro la quale si colloca la disciplina in
esame e', tuttavia, marcatamente innovativa rispetto al  passato.  Se
e' stata disattesa, infatti, la proposta di "depurare" totalmente  il
processo penale dalla presenza della parte civile, in quanto istituto
storicamente coeso ad impianti di tipo inquisitorio -  essendosi,  al
contrario, rafforzati il  ruolo  e  le  garanzie  di  detto  soggetto
processuale - l'idea di fondo sottesa alla nuova  codificazione,  sul
versante in esame, e' che la costituzione di parte civile non dovesse
essere comunque "incoraggiata". 
    Anche in questa prospettiva, il sistema risulta quindi  informato
al principio della  separazione  e  dell'autonomia  dei  giudizi.  Il
danneggiato puo' scegliere se esperire l'azione civile in sede penale
o attivare la tutela giurisdizionale nella sede naturale.  In  questa
seconda ipotesi, peraltro, egli non  subisce  alcuna  limitazione  di
ordine temporale: diversamente che  sotto  l'impero  del  codice  del
1930,  l'esercizio  dell'azione  penale  per  lo  stesso  fatto   non
comporta, di regola, la sospensione del processo civile,  nell'ambito
del  quale  l'eventuale  giudicato  penale  di  assoluzione  non   ha
efficacia (art. 652 cod. proc. pen.). Il  giudizio  civile  di  danno
prosegue, dunque, autonomamente malgrado  la  contemporanea  pendenza
del  processo  penale  (art.  75,  comma  2,  cod.  proc.  pen.):  la
sospensione rappresenta l'eccezione,  che  opera  nei  limitati  casi
previsti dall'art. 75, comma 3. 
    5.- Con riferimento a tale mutato  quadro  ordinamentale,  questa
Corte ha affermato due principi di rilievo agli odierni fini. 
    Il primo e' che «l'inserimento dell'azione  civile  nel  processo
penale pone in essere una situazione in linea di principio differente
rispetto a quella determinata dall'esercizio dell'azione  civile  nel
processo civile [...], e cio' in quanto tale azione assume  carattere
accessorio e  subordinato  rispetto  all'azione  penale,  sicche'  e'
destinata a subire tutte le conseguenze e gli  adattamenti  derivanti
dalla funzione e dalla struttura del  processo  penale,  cioe'  dalle
esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei  reati
e alla rapida definizione dei processi» (sentenza n. 353 del 1994; in
senso analogo, sentenze n. 217 del 2009 e n. 443 del 1990;  ordinanze
n. 424 del 1998 e n. 185 del 1994).  Soluzione  legislativa,  questa,
nella quale non  puo'  scorgersi  alcun  profilo  di  irrazionalita',
stante la  preminenza  delle  predette  esigenze  rispetto  a  quelle
collegate alla risoluzione delle liti civili (ordinanza  n.  115  del
1992) e considerato che si discute di  «condizionamenti  giustificati
dal fatto che oggetto  dell'azione  penale  e'  l'accertamento  della
responsabilita' dell'imputato» (sentenza n. 532 del 1995). 
    Di conseguenza, una volta che il danneggiato, «previa valutazione
comparativa dei vantaggi  e  degli  svantaggi  insiti  nella  opzione
concessagli», scelga  di  esercitare  l'azione  civile  nel  processo
penale, anziche' nella sede  propria,  «non  e'  dato  sfuggire  agli
effetti che da  tale  inserimento  conseguono»,  nei  termini  dianzi
evidenziati (sentenza n. 94 del 1996, ordinanza n. 424 del 1998). 
    In secondo luogo, poi, e' reiterato, nella  giurisprudenza  della
Corte, il rilievo che «l'assetto generale del nuovo  processo  penale
e' ispirato all'idea della separazione dei giudizi, penale e civile»,
essendo «prevalente, nel disegno del codice, l'esigenza di speditezza
e  di   sollecita   definizione   del   processo   penale,   rispetto
all'interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria  azione
nel processo medesimo» (sentenza n. 168 del 2006; in  senso  analogo,
sentenza n. 23 del 2015). 
    In   questa   cornice,   l'eventuale   impossibilita',   per   il
danneggiato, di partecipare al processo penale  non  incide  in  modo
apprezzabile sul suo diritto di  difesa  e,  prima  ancora,  sul  suo
diritto di agire in giudizio, poiche' resta intatta  la  possibilita'
di esercitare l'azione di risarcimento del danno nella  sede  civile:
di modo che  ogni  separazione  dell'azione  civile  dall'ambito  del
processo penale non puo' essere considerata  una  menomazione  o  una
esclusione del  diritto  alla  tutela  giurisdizionale,  giacche'  la
configurazione di quest'ultima, in vista delle esigenze  proprie  del
processo penale, e' affidata al  legislatore  (sentenze  n.  168  del
2006, n. 433 del 1997 e n. 192 del 1991; ordinanza n. 124 del 1999). 
    6.-  Scendendo,  sulla  scorta  di  tali   preliminari   rilievi,
all'esame dell'odierna questione, la premessa interpretativa  da  cui
muove il giudice rimettente, e che fonda la questione stessa,  appare
senz'altro corretta. 
    L'accertamento che  l'imputato  e'  persona  non  imputabile,  in
quanto incapace di intendere o di volere al  momento  del  fatto  per
vizio totale di mente, esclude la sua punibilita' (artt. 85 e 88  del
codice penale) e conseguentemente impone la pronuncia di una sentenza
di assoluzione (art. 530, comma 1, cod. proc. pen.). 
    Come rilevato dalla  giurisprudenza  di  legittimita'  (Corte  di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 8 ottobre-8 novembre 2013,
n. 45228), detta sentenza non si trasforma, eo ipso, in una pronuncia
di condanna per il  solo  fatto  che,  con  essa,  sia  eventualmente
applicata all'imputato una misura di sicurezza personale. Nell'ambito
dell'ordinamento penale, il concetto di «condanna» designa,  infatti,
unicamente il provvedimento che applica una pena, e non anche  quello
che dispone misure di sicurezza personali, le  quali  operano  su  un
piano  distinto,  essendo  finalizzate  unicamente  a  contenere   la
pericolosita' sociale dell'interessato. 
    Di conseguenza, resta inibito al giudice penale - in forza  della
norma censurata - adottare qualsiasi statuizione a  carattere  civile
con la sentenza che qui  interessa,  compresa  quella  relativa  alla
liquidazione dell'equa indennita' prevista  dall'art.  2047,  secondo
comma, cod. civ. 
    7.- Nel merito, tuttavia, la questione non e' fondata. 
    Il collegamento istituito dalla norma censurata, nel solco di una
lunga tradizione storica, tra  decisione  sulle  questioni  civili  e
condanna dell'imputato riflette il carattere accessorio e subordinato
dell'azione  civile  proposta  nel  processo  penale  rispetto   agli
obiettivi propri dell'azione penale:  obiettivi  che  si  focalizzano
nell'accertamento della responsabilita' penale dell'imputato. Di  qui
la ritenuta inopportunita' di lasciar ferma la competenza del giudice
penale  a  pronunciare  sulle  pretese  civilistiche   anche   quando
l'affermazione di detta responsabilita' non abbia luogo. 
    Il fenomeno, d'altra  parte,  e'  ben  noto  al  danneggiato  nel
momento in cui sceglie se esercitare l'azione di danno nella sede sua
propria, o inserirla nel  processo  penale:  scelta  che  il  vigente
sistema processuale gli consente senza limitazioni  di  sorta  e,  in
particolare, senza la remora legata alla sospensione obbligatoria del
processo civile in pendenza del processo penale sul  medesimo  fatto,
gia' stabilita dal codice di procedura penale abrogato. 
    L'impossibilita'  di  ottenere  una   decisione   sulla   domanda
risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una  sentenza
di proscioglimento per qualunque causa (salvo che nei  limitati  casi
previsti dall'art. 578 cod.  proc.  pen.)  costituisce,  dunque,  uno
degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto  nel  quadro
della valutazione comparativa dei vantaggi e  degli  svantaggi  delle
due alternative che gli sono offerte. 
    8.- Cio'  puntualizzato  in  termini  generali,  con  particolare
riguardo  alla  denunciata  violazione  dell'art.  3  Cost.   occorre
rilevare come le due ipotesi poste a raffronto dal giudice  a  quo  -
sentenza di assoluzione dell'imputato per vizio  totale  di  mente  e
sentenza  di  condanna  -  risultino  palesemente  eterogenee   nella
prospettiva considerata (quella del trattamento della domanda  civile
del danneggiato). 
    E' ben vero che la sentenza di assoluzione per  vizio  totale  di
mente,  lungi  dall'assumere  una  valenza  pienamente   liberatoria,
postula - allo stesso modo di quella  di  condanna  -  l'accertamento
della sussistenza del fatto e della sua  riferibilita'  all'imputato,
in termini  tanto  materiali  che  psicologici:  situazione  che  non
rappresenta, peraltro, affatto un unicum,  essendo  riscontrabile  in
rapporto ad  una  serie  di  altre  ipotesi  di  proscioglimento  (al
riguardo, sentenze n. 274 del 2009 e n. 85 del 2008). 
    Resta, tuttavia, il fondamentale tratto differenziale che, con la
sentenza di condanna, la responsabilita' penale  dell'imputato  viene
affermata; con la sentenza di assoluzione per vizio totale di  mente,
viene invece esclusa. Anzi, viene esclusa - in  virtu'  della  regola
generale dell'art. 2046 cod. civ. - persino  la  sua  responsabilita'
civile. Il danneggiato potra' conseguire il ristoro  del  pregiudizio
patito  unicamente  da  terzi,  ossia  dai   soggetti   tenuti   alla
sorveglianza dell'incapace, qualora non provino di  non  aver  potuto
impedire il fatto (art. 2047, primo comma, cod. civ.).  Solo  in  via
sussidiaria  -  allorche'   non   risulti   possibile   ottenere   il
risarcimento  in  tal  modo  -  il  danneggiato  sara'  abilitato   a
pretendere  dall'incapace,  non   gia'   il   risarcimento,   ma   la
corresponsione  di  un'«equa  indennita'»,  rimessa,  peraltro,   sia
nell'an che nel quantum, all'apprezzamento discrezionale del giudice,
sulla base di una  comparazione  delle  condizioni  economiche  delle
parti (art. 2047, secondo comma, cod. civ.). 
    A fronte di cio', la scelta legislativa di trattare  diversamente
le due ipotesi, escludendo che nella seconda il giudice penale  debba
pronunciarsi  sulle  tematiche  civilistiche,   non   puo',   dunque,
ritenersi manifestamente irragionevole e arbitraria:  questo  essendo
il parametro di riferimento in materia, tenuto conto che  si  discute
di istituti processuali,  nella  cui  conformazione  -  per  costante
giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 64 del  2014
e n. 216 del 2013) - il legislatore fruisce di ampia discrezionalita'
(in senso analogo, con  riguardo  ai  limiti  di  operativita'  della
citata disposizione dell'art. 12, primo comma, della legge n. 405 del
1978, sentenza n. 68 del 1983). 
    L'opposta  soluzione  verrebbe,  in   effetti,   a   rompere   il
collegamento  sistematico  -  reso   esplicito   dalla   disposizione
combinata degli artt. 74 e 538, comma 1, cod. proc.  pen.  -  tra  la
competenza del giudice penale a conoscere delle questioni civili e la
disposizione  sostanziale  dell'art.  185  cod.  pen.,  che   obbliga
l'autore del reato e le persone che,  a  norma  delle  leggi  civili,
debbono  rispondere  del  fatto  di  lui  a   risarcire   il   danno,
patrimoniale o non patrimoniale, cagionato dal  reato  stesso.  Nella
specie, infatti, la pretesa del danneggiato troverebbe fondamento non
piu' nella predetta disposizione,  ma  nell'autonoma  disciplina  del
citato art. 2047 cod. civ.: disciplina  in  base  alla  quale  -  per
quanto  detto  -   le   istanze   risarcitorie   andrebbero   rivolte
primariamente nei  confronti  di  chi  e'  tenuto  alla  sorveglianza
dell'incapace, tramite la sua tempestiva citazione in giudizio  quale
responsabile civile. Con un risultato, peraltro, eccentrico  rispetto
alle attuali coordinate del sistema: quello, cioe',  di  un  soggetto
chiamato a rispondere civilmente  del  fatto  dell'imputato  in  sede
penale in assenza di un'omologa responsabilita' di costui. 
    Come si e' avuto modo di accennare, proprio  sulla  base  di  una
considerazione similare - legata all'esigenza  di  non  scardinare  i
presupposti  sistematici  della  competenza  del  giudice  penale   a
conoscere dell'illecito civile - i redattori del progetto preliminare
del 1978 scartarono la proposta  di  consentire  la  decisione  sulle
questioni civili in tutti i casi di proscioglimento sulla base  delle
prove assunte in giudizio. 
    Alla luce di quanto precede, e' dunque evidente  come  non  possa
essere invocata, in senso contrario, la sentenza n. 274 del 2009, con
la quale questa Corte ha riconosciuto la sostanziale  assimilabilita'
dell'assoluzione per  vizio  totale  di  mente  ad  una  sentenza  di
condanna, ma in una prospettiva ben diversa da quella odierna: vale a
dire,  quella  della   limitazione   dei   poteri   di   impugnazione
dell'imputato (nella specie, contro le sentenze emesse a  seguito  di
giudizio abbreviato); prospettiva  nella  quale  veniva  in  precipuo
rilievo il pregiudizio che la pronuncia in questione e'  suscettibile
di recare al prosciolto. 
    9.- Quanto, poi, all'asserita lesione del diritto di difesa (art.
24 Cost.),  e'  sufficiente  il  richiamo  alla  ricordata,  costante
giurisprudenza di questa Corte, secondo  la  quale  l'impossibilita',
per la persona danneggiata dal reato, di  conseguire  la  riparazione
del pregiudizio  patito  in  sede  penale  non  implica  apprezzabile
violazione di quel diritto (ne', ancor prima, del diritto di agire in
giudizio), restando sempre aperta la possibilita' di  far  valere  la
pretesa in sede civile. E cio' - nella cornice  di  un  sistema  che,
come il vigente, e' ispirato al favor  separationis  -  anche  quando
tale  impossibilita'   dipenda   da   accadimenti   successivi   alla
costituzione  di  parte  civile,  ai  quali  la   legge   processuale
riconnette la necessaria divaricazione dei due percorsi. 
    10.- Con riguardo, infine, all'asserita violazione del  principio
di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma,  secondo
periodo, Cost.), questa Corte ha ripetutamente affermato che  -  alla
luce dello stesso richiamo  al  connotato  di  «ragionevolezza»,  che
compare nella formula costituzionale - possono arrecare un  vulnus  a
quel principio solamente le norme «che comportino una dilatazione dei
tempi del processo  non  sorrette  da  alcuna  logica  esigenza»  (ex
plurimis, sentenze n. 23 del 2015 n. 63 e n. 56 del 2009, n. 148  del
2005). 
    Tale  ipotesi  non  e'  ravvisabile  nel  caso  considerato.   La
preclusione della decisione  sulle  questioni  civili,  nel  caso  di
proscioglimento dell'imputato per qualsiasi causa - compreso il vizio
totale di mente - se pure procrastina la pronuncia  definitiva  sulla
domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un
autonomo giudizio civile,  trova  pero'  giustificazione,  come  gia'
rimarcato, nel carattere accessorio e subordinato dell'azione  civile
proposta nell'ambito del processo penale rispetto alle  finalita'  di
quest'ultimo, e segnatamente nel  preminente  interesse  pubblico  (e
dello stesso imputato) alla sollecita definizione del processo penale
che  non  si  concluda  con  un  accertamento   di   responsabilita',
riportando nella sede naturale le  istanze  di  natura  civile  fatte
valere nei suoi confronti. 
    Cio',  in  linea,  una  volta  ancora,  con  il  favore  per   la
separazione  dei  giudizi  cui  e'  ispirato   il   vigente   sistema
processuale. 
    11.- Non giova, altresi', alle tesi del giudice a quo il richiamo
alla direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE del Parlamento  europeo
e del Consiglio, che istituisce norme minime in materia  di  diritti,
assistenza e protezione delle vittime di reato:  richiamo  destinato,
peraltro, a  fungere  da  mero  argomento  di  supporto  delle  altre
doglianze,   non   avendo   il   rimettente   evocato   i   parametri
costituzionali  che  imporrebbero  -  in  ipotesi   -   l'adeguamento
dell'ordinamento  italiano  alle  istanze  sovranazionali  richiamate
(ossia gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.). 
    Al riguardo, e' sufficiente osservare che l'obbligo  degli  Stati
membri - sancito dall'art. 16, paragrafo 1, della citata direttiva  -
di garantire alla vittima «il diritto di ottenere  una  decisione  in
merito al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del
procedimento penale entro un ragionevole  lasso  di  tempo»,  risulta
espressamente subordinato alla condizione che «il  diritto  nazionale
[non] preveda che tale decisione sia adottata nell'ambito di un altro
procedimento giudiziario». Il che  e'  proprio  quanto  si  verifica,
secondo l'ordinamento italiano, nell'ipotesi in esame. 
    12.- Parimenti non probanti appaiono, da  ultimo,  i  riferimenti
alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo operati
dalla parte privata: anche in  questo  caso,  con  semplice  funzione
rafforzativa delle denunciate violazioni degli artt. 24 e 111  Cost.,
non figurando tra i  parametri  dell'odierno  scrutinio  quello  piu'
direttamente conferente (l'art. 117, primo comma, Cost.). 
    La Corte di Strasburgo e', in effetti, costante  nel  riconoscere
che, nella misura in  cui  la  legislazione  nazionale  accordi  alla
vittima del reato la possibilita' di intervenire nel processo  penale
per difendere i propri interessi tramite  la  costituzione  di  parte
civile, tale diritto va considerato un «diritto civile» agli  effetti
dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, con conseguente spettanza, alla vittima  stessa,
delle garanzie in tema  di  equo  processo  ivi  stabilite,  compresa
quella relativa alla ragionevole durata (Grande Camera,  sentenza  12
febbraio 2004, Perez contro Francia; in senso conforme, tra le altre,
sezione terza, sentenza 25 giugno 2013,  Associazione  delle  persone
vittime del sistema s.c. Rompetrol s.a. e s.c. Geomin  s.a.  e  altri
contro Romania; Grande Camera, sentenza 20 marzo 2009,  Gorou  contro
Grecia). 
    In  questa  logica,   la   Corte   europea   si   e',   peraltro,
specificamente occupata, in piu' occasioni, dell'ipotesi del  mancato
esame della domanda della parte civile per  essersi  il  procedimento
penale chiuso con provvedimento diverso dalla condanna dell'imputato,
in applicazione di una  regola  condivisa  -  sia  pure  con  diverse
varianti e gradazioni - da plurimi ordinamenti nazionali. Tale regime
non e' stato affatto ritenuto, in se' e per se', contrastante con  le
garanzie convenzionali. La violazione  dell'art.  6  della  CEDU,  in
particolare sotto il profilo del diritto di accesso ad un  tribunale,
e' stata ravvisata dai giudici di Strasburgo solo in due ipotesi.  In
primo luogo, quando la vittima del reato non fruisca di altri  rimedi
accessibili ed efficaci per far valere le sue pretese (sezione terza,
sentenza 25 giugno  2013,  Associazione  delle  persone  vittime  del
sistema s.c. Rompetrol  s.a.  e  s.c.  Geomin  s.a.  e  altri  contro
Romania; sezione prima, sentenza 4 ottobre 2007, Forum Maritime  s.a.
contro Romania): rimedi che, nell'ordinamento italiano,  sono  invece
offerti dalla  possibilita'  di  rivolgersi  al  giudice  civile.  In
secondo luogo,  la  violazione  e'  stata  riscontrata  allorche'  il
concreto  funzionamento  del  meccanismo  frustri  indebitamente   le
legittime aspettative del  danneggiato,  come  nel  caso  in  cui  la
prescrizione della  responsabilita'  penale  dell'autore  del  reato,
impeditiva  dell'esame  della  domanda  civile,  sia   imputabile   a
ingiustificati ritardi delle autorita' giudiziarie  nella  conduzione
del procedimento penale (Grande  Camera,  sentenza  2  ottobre  2008,
Atanasova contro Bulgaria; sezione prima,  sentenza  3  aprile  2003,
Anagnostopoulos contro Grecia):  malfunzionamento  che  non  dipende,
peraltro, dalla norma e che  comunque  non  viene  in  considerazione
nell'ipotesi qui in esame. 
    13.- In conclusione - come questa Corte ebbe gia' a  rilevare  in
passato (sentenza n. 68 del 1983) - il legislatore  resta  certamente
libero, nella sua discrezionalita', di introdurre, in  vista  di  una
piu' efficace tutela  della  persona  danneggiata  dal  reato  e  del
conseguimento   di   maggiori   risparmi   complessivi   di   risorse
giudiziarie, una disciplina ampliativa dei casi nei quali il  giudice
penale si pronuncia sulle questioni civili, pur  in  assenza  di  una
condanna dell'imputato (casi oggi ristretti  alle  ipotesi  dell'art.
578 cod. proc. pen.). 
    Cio' non esclude, tuttavia, che l'assetto  espresso  dalla  norma
censurata - in quanto munito di un suo fondamento  logico-sistematico
e tale da non impedire all'interessato di  conseguire  altrimenti  il
riconoscimento dei suoi  diritti  -  si  sottragga  alle  censure  di
illegittimita' costituzionale che gli sono mosse. 
    La questione va dichiarata, pertanto, non fondata. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art.  538  del  codice  di  procedura  penale,   sollevata,   in
riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal  Tribunale
ordinario di Firenze con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 2016. 
 
                                F.to: 
                  Alessandro CRISCUOLO, Presidente 
                      Giuseppe FRIGO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 29 gennaio 2016. 
 
                           Il Cancelliere 
                        F.to: Roberto MILANA