N. 268 SENTENZA 19 ottobre - 15 dicembre 2016

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Militari -  Perdita  del  grado,  senza  giudizio  disciplinare,  del
  militare condannato con sentenza  definitiva  non  condizionalmente
  sospesa, per delitto non colposo che comporti  la  pena  accessoria
  della interdizione temporanea  dai  pubblici  uffici  -  Automatica
  cessazione del rapporto di impiego. 
- Decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66  (Codice  dell'ordinamento
  militare), artt.  866, comma 1, 867,  comma  3,  e  923,  comma  1,
  lettera i). 
-   
(GU n.51 del 21-12-2016 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,  Giuliano
  AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale  degli  articoli  866,
comma 1, 867, comma 3, e  923,  comma  1,  lettera  i),  del  decreto
legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento  militare),
promossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia  con
ordinanza del 26 giugno 2015 e dal Tribunale amministrativo regionale
per  la  Campania  con  ordinanza  del  5  novembre  2015   iscritte,
rispettivamente, al n. 246 del registro ordinanze 2015 e al n. 78 del
registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno 2015 e n. 16, prima
serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  costituzione  di  D.  M.  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  19  ottobre  2016  il  Giudice
relatore Marta Cartabia; 
    uditi l'avvocato Marco Zambelli per D.M. e l'avvocato dello Stato
Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 26 giugno 2015, iscritta al r.o. n. 246 del
2015, il Tribunale amministrativo  regionale  per  la  Lombardia,  ha
sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di
legittimita' costituzionale degli articoli 866, comma 1,  867,  comma
3, e 923 (recte: 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15
marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento militare). 
    Le norme impugnate prevedono che: «La perdita  del  grado,  senza
giudizio  disciplinare,   consegue   a   condanna   definitiva,   non
condizionalmente sospesa, per reato militare o  delitto  non  colposo
che comporti la pena accessoria della rimozione o della  interdizione
temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene  accessorie  di
cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale» (art.
866, comma 1); «se la perdita del grado consegue a  condanna  penale,
la stessa decorre dal passaggio in giudicato  della  sentenza»  (art.
867, comma 3); «1. Il rapporto di impiego del militare cessa per  una
delle seguenti cause: [omissis] i)  perdita  del  grado»  (art.  923,
comma 1). 
    Il giudice a quo dubita che il combinato  disposto  delle  citate
disposizioni violi  l'art.  3  Cost.,  sia  sotto  il  profilo  della
ragionevolezza  della  scelta  operata  dal  legislatore,  in  quanto
sproporzionata, sia sotto il profilo del principio di uguaglianza, in
quanto riserva un identico trattamento a  situazioni  strutturalmente
diverse, equiparando gli effetti dell'interdizione perpetua a  quelli
dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici. 
    1.1.- In  particolare,  il  rimettente  ha  precisato  di  essere
investito del ricorso proposto da D.M. per l'annullamento del decreto
del Direttore della III Divisione della  Direzione  Generale  per  il
personale militare del Ministero della Difesa, con il quale e'  stata
disposta, ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e  923  del
d.lgs. n. 66  del  2010,  la  perdita  del  grado  e  la  contestuale
cessazione del rapporto d'impiego del militare. 
    Il provvedimento e' stato emesso dall'amministrazione  in  quanto
divenuta definitiva la condanna di D.M. a due anni, sei mesi e  venti
giorni di reclusione, con  contestuale  interdizione  temporanea  dai
pubblici uffici per una durata pari a quella  della  pena  principale
inflitta, costituendo la  perdita  del  grado  e  la  cessazione  del
rapporto  d'impiego  effetto  automatico  dell'applicazione  in  sede
penale della predetta pena accessoria. 
    1.2.- In punto di rilevanza,  il  rimettente  ha  osservato  come
soltanto l'eventuale accoglimento  della  questione  di  legittimita'
costituzionale, sollevata sui citati artt. 866, comma 1, 867, comma 3
e 923 del d.lgs. n.  66  del  2010,  consentirebbe  al  Tribunale  di
annullare il provvedimento impugnato, che si  basa  sull'applicazione
delle predette disposizioni ed e' immune da ulteriori vizi formali  e
sostanziali. 
    Al  riguardo  viene  altresi'  precisato  che,  conformemente  al
consolidato orientamento del Consiglio di Stato, la perdita di  grado
e  la  cessazione  del  rapporto  d'impiego   costituiscono   effetto
indiretto delle pene accessorie applicate  in  sede  penale,  con  la
conseguenza che deve applicarsi  la  disciplina  vigente  al  momento
dell'emanazione del provvedimento ablativo (cioe' i citati artt. 866,
comma 1, 867, comma 3 e 923), non quella  vigente  al  momento  della
commissione dei fatti di reato (artt. 12, lettera f e 34,  numero  7,
della legge 18 ottobre 1961, n.  1168,  recante  «Norme  sullo  stato
giuridici dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell'Arma  dei
carabinieri»). 
    1.3.- In punto di non manifesta infondatezza,  il  rimettente  ha
osservato quanto segue. 
    1.3.1.- Il rimettente ritiene,  in  primo  luogo,  che  le  norme
impugnate  violino  l'art.   3   Cost.   sotto   il   profilo   della
ragionevolezza, richiamando la giurisprudenza costituzionale  secondo
cui e' illegittima la destituzione dal rapporto di impiego  senza  il
previo  filtro  del  procedimento  disciplinare  (vengono  citate  le
sentenze n. 971 del 1988, n. 40 del 1990, n. 415, n. 104 e n. 16  del
1991, n. 134 del 1992, n. 197 del 1993 e n. 363 del 1996). 
    Piu' precisamente il giudice a quo considera estensibili al  caso
di specie i  principi  affermati  dalla  Corte  costituzionale  nella
sentenza  n.  363  del  1996,  che  ha  dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 34, numero 7, della l.  n.  1168  del  1961,
secondo  cui  alla  pena  accessoria   della   rimozione   conseguiva
l'automatica cessazione del rapporto d'impiego. 
    La circostanza che  in  quel  caso  la  cessazione  del  rapporto
d'impiego conseguisse alla pena accessoria militare della  rimozione,
e non alla pena accessoria dell'interdizione temporanea dei  pubblici
uffici, non viene infatti ritenuta tale da poter discriminare le  due
fattispecie. Si osserva che, in entrambi i casi, la perdita del grado
con cessazione del rapporto consegue a sanzioni penali accessorie (la
prima a  reato  militare  e  la  seconda  a  reato  comune)  in  modo
automatico, in conseguenza della definitivita' della sentenza che  le
applica.   A   maggior   ragione,    poi,    dovrebbe    riconoscersi
l'irragionevolezza dell'attuale disciplina in quanto la rimozione  e'
perpetua, mentre l'interdizione temporanea  e'  per  definizione  non
definitiva. 
    In questo modo, prosegue  il  rimettente,  si  colpiscono,  senza
possibilita'   di   alcuna   distinzione,   la   molteplicita'    dei
comportamenti possibili nell'area degli illeciti penali cui  consegue
l'interdizione  temporanea  dai  pubblici  uffici,  pregiudicando  il
principio di proporzione tra misure e fatti concreti cui conseguono. 
    1.3.2.- Il giudice a quo ritiene che l'art. 3 Cost.  sia  violato
anche sotto il profilo  del  necessario  rispetto  del  principio  di
uguaglianza, perche' equipara, ai fini della perdita  del  grado  con
cessazione del  rapporto  d'impiego,  gli  effetti  dell'interdizione
perpetua a quelli dell'interdizione temporanea dai  pubblici  uffici:
mentre la prima pregiudica in radice qualsiasi ripresa del  rapporto,
la seconda e' per definizione provvisoria, di tal che si  riserva  un
medesimo trattamento a situazioni strutturalmente dissimili. 
    Secondo il rimettente,  tale  valutazione  non  cambia  anche  se
rapportata alla piu' recente evoluzione normativa in materia di reati
contro  la  pubblica  amministrazione,  in  quanto  l'estinzione  del
rapporto  di  lavoro  e  di  impiego  del  dipendente  di   pubbliche
amministrazioni  ed  enti  pubblici  consegue  soltanto,   ai   sensi
dell'art. 32-quinquies cod. pen., alla condanna alla  reclusione  per
un tempo non inferiore a tre anni e unicamente per determinati  reati
contro la pubblica amministrazione, mentre lo stesso  automatismo  e'
previsto per la perdita del grado anche in caso di condanne inferiori
a tre anni e per la generalita' dei reati. 
    2.- Con memoria depositata il 22 ottobre 2015, si  e'  costituito
D.M. e, insistendo per l'accoglimento delle prospettate questioni  di
legittimita'  costituzionale,  ha  sottolineato  che  l'ordinanza  di
rimessione ha colmato le lacune motivazionali che avevano indotto  la
Corte costituzionale a dichiarare inammissibile, con la  sentenza  n.
276 del 2013, analoga questione sollevata in precedenza con ordinanza
di altro Tribunale. 
    In  particolare,  ad  avviso  della  parte   privata,   l'attuale
ordinanza  di  rimessione  ricostruisce  con  completezza  il  quadro
normativo,  esplicita  le  ragioni  per  le  quali  le   ragioni   di
illegittimita', valide  in  generale  per  il  pubblico  impiego,  si
estendano anche agli appartenenti ai ruoli dell'Arma dei carabinieri,
e tiene adeguatamente conto della piu' recente  evoluzione  normativa
in   materia   di   reati   contro   la   pubblica   amministrazione,
dettagliatamente illustrando le condivisibili ragioni per le quali le
disposizioni impugnate debbano ritenersi violare l'art. 3 Cost.,  sia
sotto il profilo della ragionevolezza, sia sotto quello del principio
di uguaglianza. 
    3.- Con atto depositato il 15 dicembre 2015,  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha  chiesto  di  dichiarare
infondate le sollevate questioni di legittimita' costituzionale. 
    In particolare, la difesa  dello  Stato  ha  osservato  come  sia
inidoneo a dimostrare l'assunta irragionevolezza della disciplina  il
generico riferimento ad una giurisprudenza  costituzionale  formatasi
in un contesto normativo diverso dall'attuale, che e'  caratterizzato
da una maggiore severita', ai sensi del novellato  art.  32-quinquies
cod. pen., delle conseguenze sul rapporto di pubblico  impiego  delle
sanzioni  accessorie  consistenti  nell'interdizione  temporanea  dai
pubblici uffici. 
    Perfettamente coerente, e in linea con  l'indirizzo  espresso  da
questo nuovo contesto  normativo,  dovrebbe  quindi  considerarsi  la
disciplina  censurata,  come  tale   esente   da   ogni   vizio,   di
irragionevolezza o disuguaglianza. 
    4.- Con ordinanza del 5 novembre 2015 (r.o. n. 78 del  2016),  il
Tribunale amministrativo  regionale  per  la  Campania  ha  sollevato
questione di legittimita' costituzionale degli artt.  866,  comma  1,
867, comma 3 e 923, comma 1 (recte: 923, comma  1,  lettera  i),  del
d.lgs. n. 66 del 2010, per violazione degli artt. 3, 4,  24,  secondo
comma, 35 e 97 Cost. 
    4.1.- Il giudice a  quo  ha  premesso  di  essere  investito  del
ricorso proposto da T.M. per l'annullamento del decreto del Direttore
della  III  Divisione  della  Direzione  Generale  per  il  personale
militare del Ministero della Difesa, con il quale e' stata  disposta,
ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del  d.lgs.  n.
66 del 2010, la perdita del grado e  la  contestuale  cessazione  del
rapporto d'impiego del militare. Il provvedimento impugnato e'  stato
emesso sulla base della sentenza n. 1354 del 14 maggio  2012  con  la
quale la Corte di  appello  di  Napoli  ha  sostituito  con  la  pena
pecuniaria di euro 3.040,00 di multa, revocando  il  beneficio  della
sospensione condizionale, la pena detentiva  di  mesi  due  e  giorni
venti di reclusione,  inflitta  all'imputato,  unitamente  alla  pena
accessoria dell'interdizione  temporanea  dai  pubblici  uffici,  con
sentenza  n.  7  del  15  gennaio  2009  del   Giudice   dell'udienza
preliminare di Nola. L'imputazione per la quale l'imputato  e'  stato
condannato e' quella di cui agli artt. 110 e 323 cod. pen., per avere
intenzionalmente procurato a un terzo, nella sua qualita' di pubblico
ufficiale, l'indebito vantaggio consistito nella  mancata  elevazione
del verbale di contravvenzione per non avere il  terzo  indossato  la
cintura di sicurezza. 
    4.2.- Lo  stesso  rimettente  ha  escluso  vizi  di  legittimita'
formale, ritenendo cosi' la rilevanza della questione di legittimita'
costituzionale sulle disposizioni di cui agli  artt.  866,  comma  1,
867, comma 3 e 923, comma 1 del d.lgs. n. 66 del 2010, in  quanto  il
provvedimento amministrativo impugnato  costituisce  atto  dovuto,  a
contenuto   vincolato   proprio    dalle    predette    disposizioni:
conseguentemente   solo   la    dichiarazione    di    illegittimita'
costituzionale delle medesime potrebbe consentire l'accoglimento  del
ricorso presentato. 
    4.3.- In punto di non manifesta  infondatezza  il  rimettente  ha
osservato quanto segue, ritenendo in tal modo di  colmare  le  lacune
motivazionali che hanno portato la Corte costituzionale a  dichiarare
inammissibile, con la sentenza n. 276  del  2013,  analoga  questione
sollevata in precedenza da altro giudice. 
    4.3.1.- In particolare, il  giudice  a  quo  ritiene  violato  il
canone di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. 
    Sarebbe violato in primo  luogo  il  principio,  stabilito  dalla
Corte,  secondo  cui  una  presunzione  assoluta  deve   considerarsi
arbitraria se  non  risponde  a  dati  di  esperienza  generalizzati,
riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit e, quindi,  se
sia possibile formulare agevolmente ipotesi di  accadimenti  contrari
alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa  (vengono
citate le sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n.  231
e  n.  164  del  2011,  n.  265  e  n.   139   del   2010).   Proprio
l'indiscriminata ampiezza del  presupposto  cui  viene  collegata  la
misura espulsiva  dall'Arma  dei  carabinieri  dimostrerebbe  la  sua
inidoneita'  a  fondare  una   adeguata   presunzione   assoluta   di
riprorevolezza o indegnita' morale. 
    Il rimettente ha ricordato come la Corte costituzionale abbia  da
tempo affermato il principio secondo cui, nel  campo  della  potesta'
disciplinare come nell'area penale, sussiste l'esigenza di esclusione
di  sanzioni  rigide,  imponendo  l'art.  3  Cost.  una   gradualita'
sanzionatoria che  assicuri  adeguatezza  tra  illecito  e  irroganda
sanzione (viene richiamata la sentenza n. 270 del 1986). 
    Corollario  di  tale  principio  viene  ritenuto   quello   della
necessaria mediazione del procedimento disciplinare, che  ha  portato
la  Corte  costituzionale,  con  la  sentenza  n.  971  del  1988,  a
dichiarare l'illegittimita' della destituzione di  diritto,  che  era
prevista dall'art. 85, lettera a), del decreto del  Presidente  della
Repubblica 10 gennaio 1957, n.  3  (Testo  unico  delle  disposizioni
concernenti gli impiegati civili dello Stato). 
    Il vulnus rappresentato dall'automatismo della  massima  sanzione
disciplinare, senza possibilita' di  discriminare  tra  i  molteplici
possibili comportamenti, e' stato ribadito  da  molteplici  ulteriori
sentenze della Corte (segnatamente vengono richiamate le sentenze  n.
40 e n. 158 del 1990, n. 16 e n. 104 del 1991, n. 197  del  1993,  n.
363 del 1996), fino a che il legislatore - con l'art. 9 della legge 7
febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di  circostanze,  sospensione
condizionale della pena e destituzioni dei pubblici dipendenti) -  ha
espunto dall'ordinamento la destituzione del  pubblico  dipendente  a
seguito di condanna penale, abrogando ogni contraria disposizione. 
    Tale assetto normativo e' poi stato  confermato  dalla  legge  27
marzo 2001, n. 97 (Norme  sul  rapporto  tra  procedimento  penale  e
procedimento  disciplinare  ed  effetti  del  giudicato  penale   nei
confronti dei dipendenti delle  amministrazioni  pubbliche),  nonche'
dal decreto legislativo 27 ottobre 2009,  n.  150  (Attuazione  della
legge 4 marzo  2009,  n.  15,  in  materia  di  ottimizzazione  della
produttivita' del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle
pubbliche amministrazioni). 
    Assodato,  dunque,  il  principio  del  divieto  di   automatismi
sanzionatori a seguito di condanna penale, sussistente  nei  rapporti
tra procedimento penale e  disciplinare,  il  giudice  rimettente  ha
rilevato come  nella  specie  venga  in  rilievo  il  piu'  specifico
problema degli (eventuali) effetti destitutori di una pena accessoria
interdittiva. 
    Sul punto, ha ricordato il giudice a quo, la Corte costituzionale
con la sentenza n. 286 del 1999 ha ritenuto legittima  la  previsione
di detto effetto destitutorio in rapporto  all'interdizione  perpetua
dai pubblici uffici. 
    Tuttavia, mentre l'interdizione perpetua risulta  strutturalmente
incompatibile  con  qualsiasi  prosecuzione  del  rapporto  d'impiego
pubblico, non cosi' puo'  ritenersi  per  l'interdizione  temporanea,
caratterizzata ontologicamente dalla sua provvisorieta'. 
    D'altro canto, la Corte costituzionale,  con  specifico  riguardo
alla  perdita  del  grado  dei  militari  appartenenti  all'Arma  dei
carabinieri,  ha  gia'  ritenuto  necessaria  la  mediazione  di   un
procedimento disciplinare anche nel caso di applicazione  della  pena
accessoria della rimozione,  che  nell'ordinamento  militare  e'  una
sanzione   interdittiva   addirittura   di   carattere    permanente,
dichiarando illegittime le norme che la prevedevano (sentenza n.  363
del 1996). 
    Da questo punto di vista,  la  provvisorieta'  strutturale  della
pena accessoria  dell'interdizione  temporanea  dai  pubblici  uffici
porterebbe, ad avviso del rimettente, a ritenere  a  maggior  ragione
estensibile alla disciplina qui scrutinata i principi affermati dalla
Corte costituzionale con  la  citata  sentenza  n.  363  del  1996  a
proposito  della  pena  accessoria  militare  della  rimozione,   con
riferimento alla disciplina previgente. 
    Del resto, ha osservato il giudice a quo, anche il novellato art.
32-quinquies cod. pen. subordina pur sempre l'estinzione del rapporto
d'impiego,  conseguente  alla   pena   accessoria   dell'interdizione
temporanea  dai  pubblici  uffici,   alla   presenza   di   ulteriori
presupposti (rappresentati da determinati  e  qualificati  titoli  di
reato  e  da  una  pena  principale  non  inferiore  a  due  anni  di
reclusione) che,  per  la  specificita'  del  titolo  e  la  gravita'
concreta del  fatto,  consentano  di  giustificare  l'esclusione  del
procedimento disciplinare per la sanzione espulsiva. 
    Secondo  il  rimettente,  proprio  l'assenza  di  tali  ulteriori
presupposti   per   l'appartenente   all'Arma   dei   carabinieri   e
l'abnormita' delle conseguenze dovute  all'indiscriminata  latitudine
dei  comportamenti  per  i  quali  puo'  intervenire   l'interdizione
temporanea, determinano, con riferimento alla  disciplina  sospettata
d'illegittimita', il  venir  meno  di  quel  necessario  rapporto  di
congruita' e di intrinseca ragionevolezza tra misura ed  esigenze  da
tutelare, che deve sussistere ai sensi dell'art. 3 Cost. 
    In realta', lo stesso  caso  concreto  sottoposto  all'esame  del
giudice a quo evidenzia un'ipotesi di particolare levita'  che  rende
chiara l'esigenza della mediazione di  un  procedimento  disciplinare
attraverso il quale valutare la portata  del  concreto  comportamento
realizzato, in rapporto all'effetto destitutorio che se ne vuole  far
derivare, fornendo cosi' un agevole esempio contrario  che  smentisce
la generalizzazione posta  a  base  della  presunzione  assoluta  che
determina l'automatismo espulsivo ai sensi degli artt. 866, comma  1,
867, comma 3 e 923, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010. 
    4.3.2.- Il giudice a quo ritiene che la disciplina in esame violi
anche il principio di uguaglianza codificata dall'art.  3  Cost.,  in
quanto  equipara  ai  fini  dell'automatismo   espulsivo   situazioni
strutturalmente diverse  quali  l'interdizione  temporanea  e  quella
perpetua. 
    Ne' tale  ingiustificata  omologazione,  secondo  il  rimettente,
potrebbe trovare spiegazione  nel  particolare  status  militare  del
carabiniere, tanto  piu'  che  viene  posta  in  discussione  non  la
possibilita' di prevedere una misura espulsiva, ma il modo in cui  si
perviene a tale risultato, attraverso un automatismo che  esclude  il
procedimento  disciplinare,  riservando  cosi'  ai   carabinieri   un
trattamento deteriore che la Corte costituzionale aveva gia' ritenuto
non giustificato  dal  loro  status  di  militari  (viene  citata  la
sentenza n. 126 del 1995). 
    Del resto, osserva il giudice a quo, la disparita' di trattamento
risulta particolarmente evidente nel caso di specie  dove  l'episodio
concreto, che ha portato alla condanna, afferisce ad attribuzioni  di
polizia  stradale,  come  tali  esercitate  anche  da  personale  non
militare, che non incorrerebbe in simile automatismo. 
    4.3.3.- Ad avviso  del  giudice  rimettente  le  norme  censurate
violano anche il diritto di difesa garantito  dall'art.  24,  secondo
comma, Cost., in quanto precludono all'interessato ogni  possibilita'
di far valere le proprie ragioni in relazione alla  misura  espulsiva
dall'Arma dei  carabinieri,  ragioni  che  avrebbero  potuto  trovare
adeguato spazio nel solo procedimento disciplinare, escluso invece in
radice dal ricordato automatismo. 
    4.3.4.- Il giudice a quo ritiene, inoltre, che le norme censurate
pregiudichino il diritto al lavoro dell'interessato,  tutelato  dagli
artt. 4 e 35 Cost., posto che la cessazione del rapporto di  impiego,
in   considerazione   della   marcata   connotazione    specialistica
dell'attivita' svolta, impedirebbe ogni  plausibile  possibilita'  di
reinserimento nel mondo del lavoro. 
    4.3.5.-   Secondo   il    rimettente,    infine,    l'automatismo
precluderebbe   ogni    possibile    valutazione    della    pubblica
amministrazione sulla possibilita' di una proficua  prosecuzione  del
rapporto  d'impiego,   cosi'   da   incidere   sul   buon   andamento
dell'amministrazione  militare  sotto  il  profilo   della   migliore
utilizzazione delle risorse professionali  e  da  violare  il  canone
previsto dall'art. 97 Cost. 
    5.- Con atto depositato il 10  maggio  2016,  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di respingere le
sollevate questioni di legittimita' costituzionale. 
    Secondo la difesa dello Stato il rimettente  non  avrebbe  tenuto
conto dell'orientamento espresso dalla Corte,  per  il  quale  misure
espulsive,  come  quelle  in  esame,  possono   essere   giustificate
dall'esigenza di dare attuazione alle pene  accessorie  previste  dal
legislatore penale. 
    La ragionevolezza  della  previsione  del  meccanismo  espulsivo,
anche in presenza di una interdizione temporanea dai pubblici uffici,
sarebbe dimostrata dalla peculiarita' dello status  di  militare  del
carabiniere, il cui comportamento deve essere sempre improntato  alla
massima rettitudine  e  onesta',  cosi'  da  rendere  impensabile  la
riammissione in servizio dopo il periodo di  interdizione  temporanea
conseguito alla condanna penale, non condizionalmente sospesa, di per
se' dimostrativa del  disvalore  sociale  della  condotta,  cosi'  da
giustificare   l'estromissione   del   suo   autore   dall'Arma   dei
carabinieri. 
    Ingiustificato sarebbe poi il  richiamo  al  diritto  al  lavoro,
posto che tale diritto non e'  incompatibile  con  la  necessita'  di
assicurare al datore di lavoro  l'adozione  di  misure  rigorose  per
salvaguardare il buon andamento e l'efficienza dell'amministrazione. 
    Cio'  dimostrerebbe  altresi'  l'inconferenza  del  richiamo   al
principio di cui all'art. 97 Cost., posto che la normativa denunciata
risulta funzionale  proprio  a  garantire  il  buon  andamento  della
pubblica amministrazione. 
    Quanto, infine, alla dedotta violazione del diritto di difesa  ex
art. 24, secondo comma, Cost., l'Avvocatura generale dello  Stato  ha
osservato  che,  seguendo   la   tesi   del   rimettente,   qualsiasi
provvedimento vincolato della pubblica amministrazione determinerebbe
un vulnus costituzionale:  l'assurdita'  della  predetta  conclusione
dimostrerebbe, pertanto, l'infondatezza della censura. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 26 giugno 2015 il Tribunale  amministrativo
regionale per la Lombardia ha sollevato, in  riferimento  all'art.  3
della Costituzione, questione di  legittimita'  costituzionale  degli
articoli 866, comma 1, 867, comma 3  e  923  (recte:  923,  comma  1,
lettera i, del decreto legislativo  15  marzo  2010,  n.  66  (Codice
dell'ordinamento militare). 
    Secondo la  prospettazione  del  rimettente,  per  effetto  delle
disposizioni impugnate, il passaggio in giudicato della  sentenza  di
condanna, non condizionalmente sospesa, per delitto non  colposo  che
comporti  la  pena  accessoria  della  interdizione  temporanea   dai
pubblici uffici,  determina  la  perdita  del  grado  senza  giudizio
disciplinare; a sua volta, la perdita del grado e'  causa  automatica
di cessazione del rapporto di impiego del militare. 
    La disciplina in esame violerebbe l'art. 3 Cost. sotto molteplici
profili:  anzitutto,  sarebbe  frutto  di  una   scelta   legislativa
incongrua  e  sproporzionata,  come  tale  del  tutto  irragionevole;
inoltre, essa riserverebbe un  identico  trattamento,  la  cessazione
automatica del rapporto  di  impiego,  a  situazioni  strutturalmente
diverse, per di  piu'  equiparando  gli  effetti  della  interdizione
temporanea a quelli della interdizione perpetua dai pubblici uffici. 
    2.-  Con  ordinanza   del   5   novembre   2015,   il   Tribunale
amministrativo regionale per la Campania ha  sollevato  questione  di
legittimita' costituzionale  delle  medesime  disposizioni  contenute
negli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma  1  (recte:  923,
comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 66 del 2010, per violazione  degli
artt. 3, 24, secondo comma, 4, 35 e 97 Cost. 
    Il  giudice  a  quo  ritiene  che  la  disciplina  in  esame  sia
intrinsecamente  irragionevole,  perche'  prevedendo,  a  determinate
condizioni,  l'automatica  perdita  del  grado   senza   procedimento
disciplinare -  la  quale,  a  sua  volta,  e'  causa  di  automatica
cessazione del rapporto di  impiego  -  violerebbe  il  principio  di
gradualita' e proporzione delle sanzioni. 
    La  violazione  sarebbe  particolarmente  evidente  nella  specie
sottoposta a giudizio, in cui l'espulsione automatica del militare e'
conseguente ad una condanna per abuso lieve di ufficio, per non avere
l'interessato elevato una contravvenzione  stradale  consistente  nel
mancato utilizzo delle cinture di sicurezza. 
    L'automatismo  della  cessazione  dal  servizio   determinerebbe,
inoltre,  una   violazione   del   principio   di   uguaglianza.   Si
verificherebbe, infatti, una ingiustificata disparita' di trattamento
tra  il  militare  che  incorra  nella  ricordata   sanzione   penale
accessoria temporanea,  per  la  quale  e'  previsto  un  automatismo
espulsivo, rispetto allo stesso militare che sia soggetto all'analoga
sanzione penale militare accessoria della rimozione, per la quale  la
perdita  del  grado  e  la  cessazione  dal  servizio   sono   invece
subordinate  alle  valutazioni  da  compiersi  in   un   procedimento
disciplinare. Parimenti ingiustificata sarebbe poi la  disparita'  di
trattamento rispetto al pubblico  impiegato  la  cui  posizione,  per
analoga interdizione temporanea dai pubblici uffici, dovrebbe  invece
essere vagliata in procedimento disciplinare all'uopo previsto  dalla
legge. 
    Oltre ai ricordati profili di violazione dell'art.  3  Cost.,  il
rimettente ravvisa altresi' la contestuale violazione: dell'art.  24,
secondo comma, Cost., in quanto l'automatismo della perdita del grado
e   la   conseguente   cessazione    dal    servizio    impedirebbero
all'interessato qualsiasi difesa  in  merito  all'applicazione  delle
ricordate misure disciplinari; degli artt. 4 e 35 Cost., in quanto il
predetto automatismo finirebbe per pregiudicare il diritto al lavoro;
dell'art.   97   Cost.,   in   quanto   il    medesimo    automatismo
pregiudicherebbe il buon andamento  della  pubblica  amministrazione,
impedendo  all'amministrazione  interessata  ogni  valutazione  sulla
perdurante opportunita' della permanenza in servizio e, quindi, sulla
migliore utilizzazione delle risorse professionali. 
    3.- In via preliminare deve osservarsi che le questioni sollevate
con  le  due  descritte  ordinanze  hanno  ad  oggetto  le   medesime
disposizioni  e  lamentano  la   violazione   di   parametri   almeno
parzialmente coincidenti. Ai  fini  di  una  decisione  congiunta  e'
percio' opportuna la riunione dei relativi giudizi. 
    4.-  Sempre  in  via  preliminare,  deve   osservarsi,   che   la
costituzione della parte privata D.M. e' pienamente  ammissibile,  in
quanto si tratta di parte nel giudizio a quo. 
    5.-  Non  sono  state   eccepite,   ne'   risultano,   cause   di
inammissibilita' delle sollevate questioni, dovendosi  escludere  che
le  ordinanze  introduttive  del  presente  giudizio  soffrano  delle
medesime carenze che hanno indotto questa Corte, con la  sentenza  n.
276 del 2013, a dichiarare inammissibile analoga questione  sollevata
sul solo  art.  866  del  d.lgs.  n.  66  del  2010,  per  incompleta
ricostruzione del quadro normativo e insufficienza di motivazione. 
    Invero, entrambi i Tribunali rimettenti si sono  confrontati  con
la  precedente  sentenza  di  inammissibilita'  e  hanno  colmato  le
numerose lacune che avevano allora indotto questa  Corte  a  ritenere
che la questione di legittimita' non fosse sufficientemente precisata
nei suoi termini essenziali, ne' fosse sufficientemente  sorretta  da
un adeguato iter argomentativo,  alla  luce  della  complessita'  del
quadro normativo in  cui  la  disposizione  censurata  doveva  essere
collocata. 
    Non  cosi'  nel  caso  oggi  all'esame  della  Corte.  I  giudici
rimettenti hanno ricostruito con completezza il quadro  normativo  di
riferimento,  anche  alla  luce   delle   piu'   recenti   evoluzioni
legislative,  hanno  dato   adeguato   conto   della   giurisprudenza
costituzionale  e  comune  sul  tema,  si  sono  fatti  carico  delle
necessarie precisazioni in ordine alle  peculiarita'  delle  funzioni
dell'Arma  dei  carabinieri,  attinenti  alla  pubblica  sicurezza  e
all'ordine pubblico, e hanno  precisato  l'oggetto  della  questione,
individuandolo nelle disposizioni,  congiuntamente  interpretate,  di
cui agli art. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del citato  d.lgs.  n.
66 del 2010. 
    Al  riguardo  deve  solo  osservarsi  che,   in   riferimento   a
quest'ultima disposizione, la censura non investe l'intero  articolo,
ma deve essere circoscritta  al  solo  comma  1,  lett.  i).  Tra  le
numerose cause  di  cessazione  del  rapporto  di  impiego  enumerate
nell'intero corpo dell'art.  923,  viene  in  rilievo,  nel  presente
giudizio, solo quella connessa alla  «perdita  del  grado»,  indicata
appunto al comma 1, lett. i), come si evince inequivocabilmente dalla
puntuale motivazione delle due  ordinanze  di  rimessione.  Ad  essa,
dunque, deve limitarsi il giudizio di questa Corte. 
    6.- Nel merito la questione e' fondata in riferimento all'art.  3
Cost., sia per contrasto con il fondamentale canone di ragionevolezza
e proporzionalita', a cui tutte le leggi debbono conformarsi, sia per
violazione del principio di eguaglianza. 
    6.1.- Le disposizioni impugnate prevedono un caso  di  automatica
cessazione del rapporto di pubblico impiego, applicabile al personale
militare. 
    Per effetto del congiunto operare delle disposizioni censurate  -
artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923,  comma  1,  lettera  i),  del
d.lgs. n. 66 del 2010 - il militare che  abbia  subito  una  condanna
penale, non condizionalmente sospesa, per la  quale  e'  prevista  la
pena accessoria della interdizione temporanea  dai  pubblici  uffici,
cessa automaticamente e definitivamente dal servizio  a  partire  dal
passaggio in giudicato della sentenza di  condanna.  Infatti,  l'art.
923, comma 1, lettera i) stabilisce la cessazione  dal  servizio  del
militare in caso di «perdita  del  grado».  A  sua  volta,  ai  sensi
dell'art. 866, comma 1,  la  «perdita  del  grado»  consegue,  «senza
giudizio    disciplinare»,    alla    condanna    definitiva,     non
condizionalmente  sospesa,  per  delitto  non  colposo  che  comporti
l'interdizione temporanea dai pubblici uffici. In  proposito,  l'art.
867, comma 3, precisa che la perdita del grado decorre dal  passaggio
in giudicato della sentenza di condanna. 
    L'esplicita previsione che la  cessazione  dal  servizio  avviene
«senza giudizio disciplinare» (art. 866, comma 1)  e  con  decorrenza
dal «passaggio in giudicato» della sentenza penale di condanna  (art.
867, comma 3)  attesta  inequivocabilmente  il  carattere  automatico
della misura destitutoria. 
    6.2.- La giurisprudenza costituzionale e' costante nell'affermare
l'illegittimita' costituzionale dell'automatica  destituzione  da  un
pubblico impiego a seguito di sentenza penale,  senza  la  mediazione
del procedimento disciplinare. 
    Questa Corte ha, infatti, chiarito che la  sanzione  disciplinare
va graduata, di regola, nell'ambito dell'autonomo procedimento a cio'
preposto, secondo criteri di proporzionalita' e adeguatezza  al  caso
concreto, e non  puo'  pertanto  costituire  l'effetto  automatico  e
incondizionato di una condanna penale (sentenze n. 234 del 2015, n. 2
del 1999, n. 363 del 1996, n. 220 del 1995, n. 197 del  1993,  n.  16
del 1991, n. 158 del 1990, n. 971  del  1988  e  n.  270  del  1986),
neppure quando si  tratti  di  rapporto  di  servizio  del  personale
militare (ad esempio, sentenze n. 363 del 1996 e n. 126 del 1995). 
    Solo eccezionalmente l'automatismo potrebbe essere  giustificato:
segnatamente quando la fattispecie penale  abbia  contenuto  tale  da
essere radicalmente incompatibile con il rapporto  di  impiego  o  di
servizio, come  ad  esempio  quella  sanzionata  anche  con  la  pena
accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28,
secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996)
o dell'estinzione del rapporto di impiego ex art.  32-quinquies  cod.
pen. 
    Queste ragioni di incompatibilita' assoluta con  la  prosecuzione
del rapporto di impiego - che giustifica  l'automatismo  destitutorio
non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della  pena
gia'  definitivamente  inflitta   -   non   sussiste   in   relazione
all'interdizione temporanea dai pubblici uffici  ex  art.  28,  terzo
comma,  cod.  pen.,  connotata  per  definizione  da   un   carattere
provvisorio e, quindi, tale da  non  escludere  la  prosecuzione  del
rapporto momentaneamente interrotto. 
    Da qui l'intrinseca irrazionalita' della disciplina censurata che
collega automaticamente - senza possibilita'  di  alcuna  valutazione
discrezionale  sulla   proporzionale   graduazione   della   sanzione
disciplinare nel caso concreto - una grave conseguenza  irreversibile
ad  una  misura  temporanea  che,  di  per  se',   non   la   implica
necessariamente. 
    6.3.- Ne' si versa, nella specie, in un caso in cui l'automatismo
destitutorio si giustifica in vista della necessita' di  tutelare  la
collettivita' dalla pericolosita' sociale del condannato, quale  gia'
accertata nel procedimento penale. 
    Vero e' che questa Corte, in nome di tale esigenza di  protezione
della collettivita', ha ritenuto  non  illegittima  la  previsione  -
contenuta nell'art. 8, comma 1, lettera c),  del  d.P.R.  25  ottobre
1981,   n.   737   (Sanzioni   disciplinari    per    il    personale
dell'Amministrazione di pubblica  sicurezza  e  regolamentazione  dei
relativi procedimenti) - dell'automatica cessazione dal servizio  del
personale appartenente all'amministrazione di  pubblica  sicurezza  a
cui, in sede penale, sia stata  applicata  una  misura  di  sicurezza
personale (cosi', ad esempio, nella sentenza n. 112 del 2014). 
    E' altresi' vero, pero', che  la  misura  di  sicurezza  ha  come
presupposto  necessario  della  sua  applicazione  l'accertamento  in
concreto  della  pericolosita'  sociale  della  persona  che  vi   e'
soggetta. Sicche' la Corte ha ritenuto non  irragionevole  la  scelta
del  legislatore   di   prevedere   una   presunzione   assoluta   di
incompatibilita'   con   il   rapporto   di   servizio    nell'ambito
dell'amministrazione  della   pubblica   sicurezza,   della   persona
sottoposta a misura di sicurezza personale. 
    L'interdizione temporanea dai pubblici uffici - di cui si  tratta
nel caso sottoposto all'attuale giudizio della Corte costituzionale -
non e', invece, una misura di sicurezza che si applica esclusivamente
a persone socialmente pericolose, ma e' soltanto una pena accessoria. 
    6.4. Una presunzione assoluta (nella specie  di  incompatibilita'
con il rapporto di servizio) deve poi essere  rispettosa  dei  canoni
esplicitati dalla Corte in proposito. 
    Secondo la costante giurisprudenza costituzionale,  infatti,  «le
presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto  fondamentale
della  persona,  violano  il  principio  di  eguaglianza,   se   sono
arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono  a  dati   di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque accidit», con la conseguenza che «l'irragionevolezza  della
presunzione assoluta si puo' cogliere  tutte  le  volte  in  cui  sia
"agevole"  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa»  (ex  multis,
sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e  n.  164
del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010). 
    Tali principi sono violati  dalle  disposizioni  sottoposte  allo
scrutinio della Corte nel giudizio in esame. 
    Nella specie, proprio in uno dei procedimenti a quibus  (r.o.  n.
78  del  2016),  si  rinviene  una  chiara  esemplificazione  di   un
accadimento reale che smentisce la generalizzazione  legislativa.  Si
tratta, segnatamente, di un militare condannato alla  pena  detentiva
di mesi due e giorni venti di reclusione per abuso  lieve  d'ufficio.
Nel caso di specie, il  condannato,  agendo  nella  sua  qualita'  di
pubblico  ufficiale,  ha  procurato  intenzionalmente  a   un   terzo
(conducente di un'auto)  un  indebito  vantaggio,  consistente  nella
mancata elevazione del verbale di contravvenzione stradale,  per  non
avere questi  indossato  la  cintura  di  sicurezza.  Nella  sentenza
definitiva di condanna, con la  quale  la  pena  detentiva  e'  stata
sostituita con quella pecuniaria, sono stati evidenziati gli elementi
di  tenuita'  del  fatto  e  lieve  offensivita'  in  concreto,   che
contrastano   con   l'abnormita'    delle    conseguenze    derivanti
dall'applicazione della massima sanzione disciplinare,  basata  sulla
mera  presunzione  di  pericolosita'  o   indegnita'   del   pubblico
ufficiale. 
    Dunque,  a  causa  dell'ampiezza  dei  presupposti  a  cui  viene
collegata  l'automatica  cessazione  dal  servizio,  le  disposizioni
impugnate non possono validamente fondare, in tutti i  casi  in  esse
ricompresi, una presunzione  assoluta  di  inidoneita'  o  indegnita'
morale o, tanto meno,  di  pericolosita'  dell'interessato,  tale  da
giustificare una sanzione disciplinare cosi' grave  come  la  perdita
del grado con conseguente cessazione dal servizio. 
    L'automatica interruzione del rapporto di  impiego  e',  infatti,
suscettibile di essere applicata a una troppo  ampia  generalita'  di
casi, rispetto ai quali e' agevole formulare ipotesi in cui essa  non
rappresenta una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito. 
    Di  qui,  l'irragionevolezza  delle   disposizioni   oggetto   di
giudizio, e la conseguente violazione dell'art. 3 Cost. sotto  questo
profilo. 
    6.5.-  La  disciplina  censurata  viola  anche  il  principio  di
uguaglianza, in quanto  sottopone  a  un  ingiustificato  trattamento
deteriore  l'appartenente  all'Arma  dei  carabinieri   rispetto   ai
dipendenti dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche. 
    Per questi ultimi, infatti,  il  legislatore  aveva  disposto  il
radicale divieto di «destituzioni di diritto» per condanna penale, in
virtu' dell'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19  (Modifiche  in
tema  di  circostanze,  sospensione   condizionale   della   pena   e
destituzione dei pubblici dipendenti). 
    Successivamente sono intervenute altre disposizioni, tra le quali
si deve ricordare l'art. 32-quinquies cod. pen., inserito dall'art. 5
della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento
penale e procedimento disciplinare ed effetti  del  giudicato  penale
nei  confronti  dei  dipendenti  delle  amministrazioni   pubbliche),
modificato dall'art. 1, comma 75, lettera b), della legge 6  novembre
2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione  della
corruzione e dell'illegalita' nella pubblica amministrazione) e, poi,
dall'art. 1 della legge  27  maggio  2015,  n.  69  (Disposizioni  in
materia  di  delitti   contro   la   pubblica   amministrazione,   di
associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio). La disposizione
stabilisce  che  in  casi  tassativamente  indicati  si  applica   la
cessazione automatica del rapporto  di  impiego,  peraltro  non  come
sanzione disciplinare, ma come pena accessoria.  In  particolare,  si
deve trattare di condanne per i delitti di  cui  agli  articoli  314,
primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma,  e  320
cod. pen., per i quali sia stata in concreto inflitta la  pena  della
reclusione per un tempo non inferiore a due anni. L'art. 32-quinquies
cod. pen. ha, pertanto, una portata applicativa  ben  circoscritta  e
delimitata da precisi requisiti qualitativi e quantitativi,  che  non
puo' in alcun modo essere assimilata all'ampiezza  delle  fattispecie
che possono determinare la cessazione del rapporto  di  servizio  del
personale militare ai sensi degli impugnati artt. 866, 867 e 923  del
Codice dell'ordinamento militare. 
    Per i casi non rientranti nel citato art. 32-quinquies cod. pen.,
l'art. 5, comma 4, della  legge  n.  97  del  2001  prevede,  invece,
l'instaurazione di un apposito procedimento disciplinare. 
    Anche  tale  disparita'  di  trattamento  non  trova  ragionevole
giustificazione, considerato che questa Corte ha gia' avuto occasione
di affermare che il peculiare status dei militari, che pure esige  il
rispetto  di  severi  codici  di  rettitudine  e  onesta',  non  puo'
costituire  di  per  se'  una  valida  ragione  a  sostegno  di   una
discriminazione del personale militare rispetto agli impiegati civili
dello Stato sotto il profilo delle garanzie  procedimentali  poste  a
presidio del diritto di difesa, che risultano altresi' strumentali al
buon andamento dell'amministrazione militare  (sentenza  n.  126  del
1995). 
    Di qui anche la conseguente violazione degli artt. 24 e 97 Cost. 
    7.- Le rilevate ragioni di illegittimita' costituzionale assumono
rilievo assorbente degli ulteriori parametri dedotti. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  degli  articoli  866,
comma 1, 867, comma 3  e  923,  comma  1,  lettera  i),  del  decreto
legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento  militare),
nella parte in  cui  non  prevedono  l'instaurarsi  del  procedimento
disciplinare per la cessazione dal servizio  per  perdita  del  grado
conseguente alla pena accessoria della  interdizione  temporanea  dai
pubblici uffici. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2016. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                      Marta CARTABIA, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2016. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA