N. 26 SENTENZA 11 - 27 gennaio 2017

Giudizio sull'ammissibilita' dei referendum. 
 
Lavoro e  occupazione  -  «Abrogazione  disposizioni  in  materia  di
  licenziamenti illegittimi» - Richiesta di abrogazione referendaria. 
- Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
  contratto di lavoro a tempo indeterminato a  tutele  crescenti,  in
  attuazione della  legge  10  dicembre  2014,  n.  183),  nella  sua
  interezza; legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla  tutela  della
  liberta' e dignita' dei  lavoratori,  della  liberta'  sindacale  e
  dell'attivita'  sindacale  nei  luoghi  di  lavoro  e   norme   sul
  collocamento), art. 18, commi 4, 5, 6, 7 e 8. 
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(GU n.5 del 1-2-2017 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario
  MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria
  de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, 
  
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  ammissibilita',  ai  sensi  dell'art.  2,  primo
comma,  della  legge  costituzionale  11  marzo  1953,  n.  1  (Norme
integrative della Costituzione concernenti la Corte  costituzionale),
della richiesta di referendum popolare per l'abrogazione del  decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto
di lavoro a tempo indeterminato a  tutele  crescenti,  in  attuazione
della legge 10  dicembre  2014,  n.  183),  nella  sua  interezza,  e
dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme  sulla  tutela
della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale  e
dell'attivita'  sindacale  nei  luoghi  di   lavoro   e   norme   sul
collocamento), con riferimento a: 
    - primo comma, limitatamente alle parole «previsti dalla legge  o
determinato da un motivo illecito  determinante  ai  sensi  dell'art.
1345 del codice civile»; 
    - quarto comma, limitatamente alle parole «per insussistenza  del
fatto contestato ovvero perche' il  fatto  rientra  tra  le  condotte
punibili con una sanzione conservativa sulla  base  delle  previsioni
dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili,»
e alle parole «, nonche' quanto avrebbe potuto percepire  dedicandosi
con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso  la
misura dell'indennita'  risarcitoria  non  puo'  essere  superiore  a
dodici mensilita' della retribuzione globale di fatto»; 
    - quinto comma, nella sua interezza; 
    - sesto comma, limitatamente alla parola «quinto» e  alle  parole
«, ma con attribuzione al lavoratore  di  un'indennita'  risarcitoria
onnicomprensiva  determinata,  in  relazione  alla   gravita'   della
violazione formale o procedurale commessa dal datore di  lavoro,  tra
un minimo di sei ed  un  massimo  di  dodici  mensilita'  dell'ultima
retribuzione globale di fatto, con onere di specifica  motivazione  a
tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base  della  domanda  del
lavoratore, accerti che vi e' anche un difetto di giustificazione del
licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal
presente comma, le tutele di cui ai commi» e alle parole «, quinto  o
settimo»; 
    - settimo comma, limitatamente alle parole «che il  licenziamento
e' stato intimato in violazione dell'articolo  2110,  secondo  comma,
del codice civile. Puo' altresi'  applicare  la  predetta  disciplina
nell'ipotesi in cui accerti  la  manifesta  insussistenza  del  fatto
posto a base del licenziamento» e alle parole «; nelle altre  ipotesi
in  cui  accerta  che  non  ricorrono  gli   estremi   del   predetto
giustificato motivo, il giudice  applica  la  disciplina  di  cui  al
quinto  comma.  In  tale  ultimo  caso  il  giudice,  ai  fini  della
determinazione dell'indennita' tra il minimo e il  massimo  previsti,
tiene  conto,  oltre  ai  criteri  di  cui  al  quinto  comma,  delle
iniziative assunte  dal  lavoratore  per  la  ricerca  di  una  nuova
occupazione  e  del  comportamento  delle  parti  nell'ambito   della
procedura di cui all'art. 7 della legge 15 luglio  1966,  n.  604,  e
successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base
della domanda formulata  dal  lavoratore,  il  licenziamento  risulti
determinato  da  ragioni  discriminatorie  o  disciplinari,   trovano
applicazione le relative tutele previste dal presente articolo»; 
    - ottavo comma, limitatamente  alle  parole  «in  ciascuna  sede,
stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha  avuto
luogo il licenziamento», alle parole «quindici lavoratori o  piu'  di
cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonche'  al  datore  di
lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso
comune occupa piu' di quindici dipendenti e all'impresa agricola  che
nel medesimo ambito territoriale occupa piu' di»  e  alle  parole  «,
anche se ciascuna unita' produttiva, singolarmente  considerata,  non
raggiunge  tali  limiti,  e  in  ogni  caso  al  datore  di   lavoro,
imprenditore  e  non  imprenditore,  che  occupa  piu'  di   sessanta
dipendenti», giudizio iscritto al n. 169 del registro referendum. 
    Viste l'ordinanza del 9 dicembre 2016,  con  la  quale  l'Ufficio
centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione,
ha  dichiarato  conforme  a  legge  la  richiesta,  e  la  successiva
ordinanza di correzione di errori materiali del 14 dicembre 2016; 
    udito nella camera di consiglio dell'11 gennaio 2017  il  Giudice
relatore Silvana Sciarra, sostituito per la redazione della decisione
dal Giudice Giorgio Lattanzi; 
    uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Amos Andreoni per Camusso
Susanna Lina Giulia e Baseotto Giovanni Marco Mauro nella qualita' di
componenti del Comitato promotore del referendum, e l'avvocato  dello
Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 9 dicembre 2016, l'Ufficio centrale per  il
referendum, costituito  presso  la  Corte  di  cassazione,  ai  sensi
dell'art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum
previsti  dalla  Costituzione  e  sulla  iniziativa  legislativa  del
popolo) e  successive  modificazioni,  ha  dichiarato  conforme  alle
disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo,
promossa da quattordici cittadini italiani (con  annuncio  pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  69,  serie  generale,
dell'anno 2016), sul seguente quesito: 
    «Volete voi l'abrogazione del decreto legislativo 4  marzo  2015,
n. 23, recante "Disposizioni in materia  di  contratto  di  lavoro  a
tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge  10
dicembre 2014, n. 183" nella sua interezza e dell'art. 18 della legge
20 maggio 1970, n. 300, recante "Norme sulla tutela della liberta'  e
dignita' dei lavoratori, della liberta'  sindacale  e  dell'attivita'
sindacale nei luoghi di lavoro e norme  sul  collocamento"  comma  l,
limitatamente alle parole "previsti dalla legge o determinato  da  un
motivo illecito determinante  ai  sensi  dell'art.  1345  del  codice
civile"; comma 4, limitatamente alle parole: "per  insussistenza  del
fatto contestato ovvero perche' il  fatto  rientra  tra  le  condotte
punibili con una sanzione conservativa sulla  base  delle  previsioni
dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili,"
e alle parole ", nonche' quanto avrebbe potuto percepire  dedicandosi
con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso  la
misura dell'indennita'  risarcitoria  non  puo'  essere  superiore  a
dodici mensilita' della retribuzione globale di fatto"; comma 5 nella
sua interezza; comma 6, limitatamente alla  parola  "quinto"  e  alle
parole  ",  ma  con  attribuzione  al  lavoratore  di   un'indennita'
risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla  gravita'
della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro,
tra un minimo di sei ed un massimo di dodici  mensilita'  dell'ultima
retribuzione globale di fatto, con onere di specifica  motivazione  a
tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base  della  domanda  del
lavoratore, accerti che vi e' anche un difetto di giustificazione del
licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal
presente comma, le tutele di cui ai commi" e alle parole ", quinto  o
settimo"; comma 7, limitatamente alle parole "che il licenziamento e'
stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo  comma,  del
codice  civile.  Puo'  altresi'  applicare  la  predetta   disciplina
nell'ipotesi in cui accerti  la  manifesta  insussistenza  del  fatto
posto a base del licenziamento" e alle parole "; nelle altre  ipotesi
in  cui  accerta  che  non  ricorrono  gli   estremi   del   predetto
giustificato motivo, il giudice  applica  la  disciplina  di  cui  al
quinto  comma.  In  tale  ultimo  caso  il  giudice,  ai  fini  della
determinazione dell'indennita' tra il minimo e il  massimo  previsti,
tiene  conto,  oltre  ai  criteri  di  cui  al  quinto  comma,  delle
iniziative assunte  dal  lavoratore  per  la  ricerca  di  una  nuova
occupazione  e  del  comportamento  delle  parti  nell'ambito   della
procedura di cui all'art. 7 della legge 15 luglio  1966,  n.  604,  e
successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base
della domanda formulata  dal  lavoratore,  il  licenziamento  risulti
determinato  da  ragioni  discriminatorie  o  disciplinari,   trovano
applicazione le relative  tutele  previste  dal  presente  articolo";
comma 8, limitatamente alle parole "in ciascuna  sede,  stabilimento,
filiale, ufficio o reparto autonomo  nel  quale  ha  avuto  luogo  il
licenziamento", alle parole "quindici lavoratori o piu' di cinque  se
si tratta di imprenditore agricolo,  nonche'  al  datore  di  lavoro,
imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso  comune
occupa piu' di quindici dipendenti e  all'impresa  agricola  che  nel
medesimo ambito territoriale occupa piu' di" e alle parole  ",  anche
se  ciascuna  unita'  produttiva,  singolarmente   considerata,   non
raggiunge  tali  limiti,  e  in  ogni  caso  al  datore  di   lavoro,
imprenditore  e  non  imprenditore,  che  occupa  piu'  di   sessanta
dipendenti"». 
    2.- L'Ufficio centrale ha integrato  il  quesito,  essendo  stato
omesso il punto interrogativo alla fine. 
    Il medesimo Ufficio centrale ha altresi' attribuito al quesito la
seguente  denominazione:  «abrogazione  disposizioni  in  materia  di
licenziamenti illegittimi». 
    3.-  Il  Presidente  di  questa  Corte,  ricevuta   comunicazione
dell'ordinanza, ha fissato,  per  la  conseguente  deliberazione,  la
camera di consiglio dell'11 gennaio 2017,  dandone  comunicazione  ai
sensi dell'art. 33 della legge n. 352 del 1970. 
    4.- Nell'imminenza della camera di consiglio, i  promotori  della
richiesta referendaria  hanno  depositato  una  memoria  nella  quale
chiedono che questa Corte la dichiari ammissibile. 
    La richiesta sarebbe chiara, omogenea e saldamente ancorata a una
«matrice razionalmente unitaria». Il si'  al  quesito  lascerebbe  in
vigore  (quale  normativa  di  risulta)  una  disciplina  precisa   e
rigorosamente  unitaria,  incentrata   sulla   tutela   reale   della
reintegrazione  nel  posto  di  lavoro   per   la   generalita'   dei
licenziamenti illegittimi, in tutti i casi in cui il datore di lavoro
occupi alle sue dipendenze piu' di cinque lavoratori. 
    In  vista  di  questa  finalita'  il  quesito  implica  anzitutto
l'abrogazione dell'intero decreto legislativo 4  marzo  2015,  n.  23
(Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato
a tutele crescenti, in attuazione della legge 10  dicembre  2014,  n.
183), il quale per i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore
ha  ulteriormente  modificato  il  regime  di  tutela  nel  caso   di
licenziamento illegittimo, rispetto a quanto gia' era stato fatto con
le  modificazioni  apportate  dalla  legge  28  giugno  2012,  n.  92
(Disposizioni in materia di riforma del mercato  del  lavoro  in  una
prospettiva di crescita) all'art. 18 della legge 20 maggio  1970,  n.
300, recante «Norme  sulla  tutela  della  liberta'  e  dignita'  dei
lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita'  sindacale  nei
luoghi di lavoro e norme sul collocamento» (Statuto dei  lavoratori),
limitando le ipotesi di reintegrazione e prevedendo negli altri  casi
una tutela solo obbligatoria. Sotto questo aspetto l'abrogazione  del
d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua interezza si salderebbe perfettamente
con l'abrogazione parziale di talune disposizioni dell'art. 18  della
legge  n.  300  del  1970  che  limitano  i  casi  di   licenziamento
illegittimo in cui e' prevista la tutela reale. 
    Nella medesima prospettiva, secondo la difesa dei  promotori,  si
giustificherebbe  la  richiesta   di   abrogazione   parziale   delle
disposizioni dell'ottavo comma dell'art. 18 della legge  n.  300  del
1970, volta a rendere applicabile nei confronti di tutti i datori  di
lavoro con piu' di cinque dipendenti il regime di  tutela  reale  nel
caso di licenziamento illegittimo. Questa  richiesta  infatti,  senza
creare alcuna norma nuova o estranea alla  trama  del  testo  attuale
dell'ottavo  comma  dell'art.  18,  mirerebbe  all'abrogazione  della
clausola  generale  che,  per   l'applicazione   del   regime   della
reintegrazione, identifica la soglia dimensionale generale  di  «piu'
di quindici dipendenti», e lascerebbe in vigore, quale  unica  soglia
dimensionale quella di «piu'  di  cinque  dipendenti»,  prevista  per
l'impresa agricola. 
    In  altri  termini  con  l'abrogazione  parziale   richiesta   si
rimuoverebbero limiti connessi per legge a una  clausola  considerata
speciale solo per essere riferita a un novero  piu'  circoscritto  di
imprese (quelle agricole),  ma  dotata  della  medesima  funzione  di
limite   alla   reintegrazione   dei   lavoratori    illegittimamente
licenziati, nel caso  di  organizzazioni  imprenditoriali  di  minori
dimensioni. 
    In pratica, con il referendum, precisano i promotori, «quella che
si  e'  configurata  come  clausola  generale  ("piu'   di   quindici
lavoratori") viene come tale ad  essere  abrogata,  e  dunque  a  non
essere  piu'  applicabile;  mentre,  di   contro   e   peraltro   con
un'abrogazione "parziale" che solo rimuove limiti  ad  essa  connessi
per legge (per rapporto all'agricoltura)  e  che  e'  solo  espansiva
della sua operativita', quella che era clausola  speciale  ("piu'  di
cinque  dipendenti")   rimane   l'unica   clausola   sulla   "soglia"
dimensionale, come tale di generale applicazione. Non c'e'  pertanto,
anche  per  questo  aspetto,   alcuna   innovazione   estranea   alla
legislazione previgente, tale  da  tramutare  il  referendum  in  uno
strumento che trapassi gli effetti di un'abrogazione "parziale" delle
disposizioni dettate dal legislatore politico-parlamentare». 
    Questa Corte, «gia' con la sent. n. 41/2003, [avrebbe] del  resto
ammesso il quesito su plurime disposizioni  di  legge,  talune  delle
quali  da  abrogare  solo  "parzialmente",  in  quanto  tendente   ad
allargare la platea dei beneficiari della tutela reale». 
    La difesa dei promotori aggiunge che l'obiettivo  perseguito  con
l'abrogazione dell'intero decreto legislativo n. 23 del 2015  non  e'
diverso da quello perseguito con la parziale abrogazione dell'art. 18
dello  Statuto  dei  lavoratori,  in  ragione  della   univocita'   e
unitarieta' del risultato, costituito dalla reductio  ad  unum  della
disciplina  sanzionatoria  per  i   licenziamenti   illegittimi,   da
applicare al «datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore,  che
occupa alle  sue  dipendenze  piu'  di  cinque  dipendenti»  (formula
risultante  in  seguito  alle  abrogazioni  oggetto  della  richiesta
referendaria). 
    5.- Anche l'Avvocatura generale dello  Stato  ha  depositato  una
memoria per la Presidenza del Consiglio dei ministri e ha chiesto che
la Corte dichiari inammissibile la richiesta referendaria. 
    In via preliminare la difesa statale richiama  la  giurisprudenza
costituzionale che ha escluso la possibilita' di scindere il  quesito
e impone che esso venga scrutinato ed eventualmente poi sottoposto al
voto popolare nella sua interezza, cosi' come formulato dai promotori
e approvato  dall'Ufficio  centrale  per  il  referendum,  costituito
presso   la   Corte   di   cassazione.   Pertanto   il   difetto   di
«confezionamento»,  ancorche'  di  parte   di   esso,   comporterebbe
inevitabilmente l'inammissibilita' dell'intero quesito. 
    Il quesito sarebbe inammissibile in quanto il referendum  oggetto
del giudizio non si proporrebbe semplicemente di abrogare, in tutto o
in parte, l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, ma, in virtu' di  un
intervento  manipolativo,  avrebbe   l'effetto   di   delineare   una
disciplina  del  licenziamento  illegittimo  completamente  nuova   e
diversa anche rispetto a  quella  esistente  prima  degli  interventi
modificativi del 2012 e del 2015, «estranea al contesto normativo  di
riferimento; disciplina che il quesito ed  il  corpo  elettorale  non
possono creare ex novo, ne' direttamente costruire». Si  tratterebbe,
in altri termini, di un  referendum  con  carattere  surrettiziamente
propositivo  e  manipolativo,  e  questo  rilievo  varrebbe  in  modo
particolare per la richiesta  di  abrogazione  di  parte  dell'ottavo
comma  dell'art.  18,  volta   ad   estendere   la   garanzia   della
reintegrazione nel posto di lavoro ad ambiti precedentemente  esclusi
(vale a dire ai datori di lavoro, imprenditori  o  non  imprenditori,
con meno di quindici dipendenti) mediante l'applicazione estensiva di
una regola contenuta nella stessa disposizione ma riferita al settore
agricolo. 
    La richiesta referendaria  in  esame  sarebbe  inoltre  priva  di
univocita'. In un unico quesito  sarebbero  «contenute,  in  realta',
richieste   differenti»;   cosi'   sarebbe   preclusa   «all'elettore
l'opportunita' di modulare la propria risposta sulla  diversita'  dei
valori legislativi  sottesi  alle  singole  disposizioni  oggetto  di
referendum». 
    Secondo l'Avvocatura generale dello Stato si possono «individuare
almeno quattro distinti quesiti che  si  celano  nella  formulazione,
formalmente   unitaria,   ed   in   particolare:   quello    relativo
all'abrogazione  totale  del  D.Lgs.  n.  23/2015;  quello   relativo
all'abrogazione di parte dell'art. 18 della L. n.  300/1970  per  gli
assunti dal marzo 2015; quello relativo agli assunti prima del  marzo
2015, riguardante  l'abrogazione  delle  modifiche  dell'articolo  18
contenute nella legge Fornero del 2012; infine, un quarto, con cui si
chiede l'applicazione del "nuovo" articolo  18  (come  riformulato  a
seguito dell'operazione di "ritaglio" effettuata  dai  confezionatori
del quesito) a tutti i  datori  di  lavoro  che  abbiano  almeno  sei
dipendenti». 
    Il quesito sarebbe inoltre privo di  chiarezza,  considerato  che
dalla lettura dello stesso non si potrebbe comprendere quale  sarebbe
il  risultato  dell'abrogazione  proposta,  con  l'effetto   di   non
consentire all'elettore la libera e consapevole espressione del voto. 
    6.- Nella camera di consiglio dell'11 gennaio 2017, la difesa dei
promotori ha insistito per  una  pronuncia  di  ammissibilita'  della
richiesta di referendum popolare e, pur non opponendosi alla  replica
orale dell'Avvocatura generale  dello  Stato,  ha  affermato  di  non
ritenerne rituale l'intervento. Cio' in ragione  del  fatto  (rimesso
alla valutazione in sentenza, di questa Corte)  che  tale  intervento
risulterebbe richiesto  con  atto  sottoscritto  (e  che  si  assume,
quindi, proveniente) dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio dei ministri e non dal Presidente del Consiglio stesso. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Preliminarmente, va esclusa  l'irritualita'  dell'intervento,
in   questo   giudizio,   dell'Avvocatura   generale   dello   Stato:
irritualita' che i promotori del referendum hanno prospettato per  il
profilo   della   provenienza   della   correlativa   richiesta   dal
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri e non  dal
Presidente di detto Consiglio, come sarebbe invece  prescritto  dalla
legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attivita' di Governo  e
ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri). 
    E' vero, infatti, che - come dedotto dalla difesa  dei  promotori
-, ai sensi dell'art. 5, comma 1, lettera f), della richiamata  legge
n. 400 del 1988, «le attribuzioni di cui alla legge 11 marzo 1953, n.
87»,  relative  alla  partecipazione  nei  giudizi  di   legittimita'
costituzionale,  sono  direttamente  assegnate  al   Presidente   del
Consiglio dei ministri, che le esercita a nome  del  Governo.  Questa
disposizione pero' non rileva  nel  presente  giudizio,  sia  perche'
l'intervento dell'Avvocatura erariale e' in questo caso richiesto con
delibera del Consiglio dei ministri adottata ai sensi (non  gia'  del
citato art. 5 della legge n. 400 del 1988,  ma)  dell'art.  33  della
legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme  sui  referendum  previsti  dalla
Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), in  materia,
quindi, ricompresa nella delega generale di firma al  Sottosegretario
(perche' non rientrante tra le ipotesi  di  correlativa  esclusione),
sia perche' l'atto sottoscritto dal Sottosegretario, del quale qui si
discute, non altro e' che la mera comunicazione  all'Avvocatura  (che
al Sottosegretario comunque compete) del contenuto della delibera del
Consiglio dei ministri «favorevole alla presentazione di  memoria  in
merito alla inammissibilita' del referendum abrogativo» in questione. 
    2.- La richiesta di referendum abrogativo, su  cui  questa  Corte
deve  pronunciarsi  in  base  all'art.  75,  secondo   comma,   della
Costituzione, riguarda il decreto legislativo 4  marzo  2015,  n.  23
(Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato
a tutele crescenti, in attuazione della legge 10  dicembre  2014,  n.
183), nella sua interezza, e, integralmente  o  per  parti,  i  commi
primo, quarto, quinto, sesto, settimo e  ottavo  dell'art.  18  della
legge 20 maggio 1970, n.  300,  recante  «Norme  sulla  tutela  della
liberta' e  dignita'  dei  lavoratori,  della  liberta'  sindacale  e
dell'attivita'  sindacale  nei  luoghi  di   lavoro   e   norme   sul
collocamento»  (Statuto  dei  lavoratori),   nel   testo   introdotto
dall'art.  1,  comma  42,  della  legge  28  giugno   2012,   n.   92
(Disposizioni in materia di riforma del mercato  del  lavoro  in  una
prospettiva di crescita). 
    Quest'ultima normativa ha modificato il regime  di  garanzia  del
lavoratore  in  caso  di   licenziamento   individuale   illegittimo,
restringendo le  ipotesi  di  tutela  reale,  conseguita  tramite  la
reintegrazione nel posto di lavoro, ed espandendo invece  i  casi  di
tutela  obbligatoria,  affidata  alla  sola  indennita'  risarcitoria
(sulla cui misura la novella e' altresi' intervenuta). 
    In seguito, e con riferimento ai lavoratori assunti  a  decorrere
dalla data della sua entrata in vigore, il d.lgs. n. 23 del  2015  ha
ulteriormente circoscritto le fattispecie di  tutela  reale,  con  la
correlativa espansione della tutela obbligatoria. 
    E' rimasto invece fermo che la prima si applica solo se il datore
di lavoro occupa in ciascuna unita' produttiva o  in  ciascun  Comune
piu' di quindici dipendenti, ovvero piu' di cinque se  si  tratta  di
imprenditore agricolo, e in ogni caso  se  occupa  piu'  di  sessanta
dipendenti nel complesso. 
    Il quesito referendario, per mezzo dell'abrogazione integrale del
d.lgs. n. 23 del 2015 e parziale dell'art.  18,  con  riferimento  ai
commi primo, quarto, quinto, sesto, settimo e ottavo, della legge  n.
300 del 1970, nel testo introdotto dalla legge n.  92  del  2012,  si
propone, per un verso, di eliminare queste novita' normative  e,  per
l'altro,  di  estendere  la  tutela   reale   oltre   la   dimensione
occupazionale  del  datore  di  lavoro  appena  ricordata.   Difatti,
incidendo con la tecnica del ritaglio sull'ottavo comma dell'art.  18
della legge n. 300 del 1970, si  otterrebbe  l'effetto,  in  caso  di
esito favorevole del referendum,  di  applicare  la  tutela  reale  a
qualunque datore di lavoro  che  occupa,  complessivamente,  piu'  di
cinque dipendenti, introducendo un  limite  minimo  che  non  ha  mai
operato nel nostro ordinamento a tal fine, se non con riferimento  al
caso peculiare dell'imprenditore agricolo. 
    3.- Le norme oggetto del quesito referendario sono estranee  alle
materie per le quali l'art. 75,  secondo  comma,  Cost.  preclude  il
ricorso all'istituto del referendum abrogativo. 
    4.- Occorre altresi' verificare se il quesito  si  conforma  agli
ulteriori limiti di ammissibilita' del referendum abrogativo  che  la
giurisprudenza di questa Corte, a partire dalla sentenza  n.  16  del
1978, ha costantemente ricavato dalla Costituzione, e  l'esito  della
verifica, come si vedra', e' negativo. 
    5.- Il  quesito  e'  inammissibile  anzitutto  a  causa  del  suo
carattere propositivo, che lo rende estraneo alla funzione  meramente
abrogativa assegnata  all'istituto  di  democrazia  diretta  previsto
dall'art. 75 Cost. 
    Come si e' visto, il quesito manipola il testo vigente  dell'art.
18 della legge n. 300 del 1970 attraverso la  tecnica  del  ritaglio,
ovvero chiedendo l'abrogazione, quanto ai commi primo, quarto, sesto,
settimo e ottavo, di frammenti  lessicali,  cosi'  da  ottenere,  per
effetto della saldatura dei  brani  linguistici  che  permangono,  un
insieme di precetti  normativi  aventi  altro  contenuto  rispetto  a
quello originario. 
    Questa  tecnica,  risolvendosi  anch'essa  in   una   abrogazione
parziale della legge, non e' di per se' causa di inammissibilita' del
quesito (ex plurimis, sentenza n. 28 del 2011), e  anzi  si  rende  a
volte necessaria per  consentire  la  riespansione  di  una  compiuta
disciplina gia' contenuta in nuce nel tessuto normativo, ma compressa
per  effetto  dell'applicabilita'  delle  disposizioni  oggetto   del
referendum (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 34 e n. 33 del  2000,
n. 13 del 1999). 
    Altra cosa invece e' la manipolazione della struttura linguistica
della disposizione, ove a seguito di  essa  prenda  vita  un  assetto
normativo  sostanzialmente  nuovo.  Ne  discende  che  tale  assetto,
trovando un mero pretesto nel modo con cui  certe  norme  sono  state
formulate sul piano lessicale, sarebbe da imputare direttamente  alla
volonta'  propositiva  di  creare  diritto,  manifestata  dal   corpo
elettorale. In questo caso si realizzerebbe uno stravolgimento  della
natura e della funzione propria del referendum abrogativo. 
    Fin dalla sentenza n. 36 del 1997, infatti, e'  stato  dichiarato
inammissibile   «il   quesito   referendario   [che]    si    risolve
sostanzialmente in una proposta all'elettore, attraverso l'operazione
di  ritaglio   sulle   parole   e   il   conseguente   stravolgimento
dell'originaria ratio e struttura della disposizione,  di  introdurre
una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall'ordinamento, ma anzi
del tutto  estranea  al  contesto  normativo»  (nello  stesso  senso,
sentenze n. 46 del 2003, n. 50 e n. 38 del 2000). 
    6.- L'odierno quesito referendario  si  vale  della  tecnica  del
ritaglio, operando in particolare, ma  non  solo,  sull'ottavo  comma
dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Nel  testo  vigente  questa
disposizione subordina il ricorso alla tutela reale a una  dimensione
occupazionale che il legislatore ha determinato in piu'  di  quindici
dipendenti per unita' produttiva o per  Comune,  ovvero  in  piu'  di
sessanta dipendenti nel complesso. Per la sola impresa  agricola,  il
limite relativo all'unita' produttiva e  all'ambito  territoriale  e'
abbassato a piu' di cinque lavoratori. 
    Attraverso la soppressione di alcune  parole  si  otterrebbe  una
norma del seguente tenore: «le disposizioni dei commi dal  quarto  al
settimo  si  applicano  al  datore  di  lavoro,  imprenditore  o  non
imprenditore,  che  occupa  alle  sue  dipendenze  piu'   di   cinque
dipendenti». 
    L'espressione numerica  «cinque»,  contenuta  nel  testo  vigente
della  norma,  concretizza  un  apprezzamento   che,   in   relazione
all'unita'  produttiva  o  al  medesimo  Comune,  il  legislatore  ha
riservato all'impresa agricola, in virtu' delle peculiarita' in fatto
e in diritto riconosciute a questa figura. Esso non esprime  pertanto
una scelta legislativa potenzialmente idonea  a  regolare  il  limite
minimo di applicazione della  tutela  reale  relativo  al  datore  di
lavoro, qualora il legislatore  non  avesse  optato  per  l'altro  di
quindici.  Costituisce,  infatti,  un  dato  normativo  previsto  con
tutt'altra  finalita',  che  si  giustifica  nell'ordito  legislativo
esclusivamente in  ragione  delle  peculiarita'  cui  si  e'  innanzi
accennato. 
    Ne consegue che la  manipolazione  richiesta  non  e'  diretta  a
sottrarre dall'ordinamento un certo  contenuto  normativo,  affinche'
venga sostituito con cio' che residua in  seguito  all'abrogazione  e
che, in difetto di quel  contenuto,  il  legislatore  ha  predisposto
perche' abbia applicazione al fine di regolare la  fattispecie.  Essa
invece,  del   tutto   arbitrariamente,   rinviene   nell'espressione
linguistica una cifra destinata a rispondere ad altre esigenze, e  se
ne serve per renderla il cardine di un regime giuridico connotato non
piu' dalla specificita' dell'impresa agricola, ma dalla  vocazione  a
disciplinare in termini  generali  il  limite  occupazionale  cui  e'
subordinata la tutela reale. 
    In questo senso la nuova statuizione davvero puo' dirsi «estranea
al contesto normativo» (sentenza n. 36 del 1997), perche'  non  segna
l'espansione di  una  scelta  legislativa  dettata  per  regolare  la
fattispecie  come  conseguenza   connaturata   all'abrogazione,   ma,
rinvenendo nella disposizione un numero,  il  «cinque»,  legato  alla
figura dell'imprenditore agricolo, lo converte  nell'oggetto  di  una
proposta  al  corpo  elettorale  di  un  nuovo  e   diverso   assetto
dimensionale della tutela reale. 
    Al contrario, la decisione  su  quale  debba  essere  il  livello
numerico cui subordinare questo  effetto  esige  una  valutazione  di
interessi contrapposti, che il legislatore formula con riguardo  alla
disciplina generale dell'istituto, e  che  un  referendum  di  natura
esclusivamente abrogativa non puo' invece  determinare  di  per  se',
grazie alla fortuita compresenza nella  disposizione  di  indicazioni
numeriche sfruttabili mediante il ritaglio. Altro sarebbe stato se il
quesito referendario avesse  chiesto  la  integrale  abrogazione  del
limite occupazionale, perche' in questo caso  si  sarebbe  mirato  al
superamento della scelta stessa del  legislatore  di  subordinare  la
tutela reale ad un bilanciamento con  valori  altri,  nell'ambito  di
un'operazione meramente demolitoria di una certa opzione  legislativa
(sentenza n. 41  del  2003).  Laddove  non  intenda  abrogare  quella
opzione di base, ma esclusivamente articolarla in modo differente, il
quesito  assume  invece  un  tratto  propositivo,  che  ne  determina
l'inammissibilita'. 
    7.- Il quesito e' inammissibile anche  a  causa  del  difetto  di
univocita' e di omogeneita'. 
    Questa Corte, fin dalla sentenza n.  16  del  1978,  ha  ritenuto
inammissibili «le richieste cosi' formulate, che ciascun  quesito  da
sottoporre al  corpo  elettorale  contenga  una  tale  pluralita'  di
domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria, da
non poter venire ricondotto  alla  logica  dell'art.  75  Cost.».  In
seguito, si e' precisato  che  l'elettore  non  deve  trovarsi  nella
condizione di «esprimere un voto bloccato su una pluralita' di atti e
di disposizioni diverse, con conseguente compressione  della  propria
liberta' di scelta», come puo'  accadere  specie  quando  il  quesito
raggiunge «interi testi legislativi complessi, o  ampie  porzioni  di
essi,  comprendenti  una   pluralita'   di   proposizioni   normative
eterogenee» (sentenza n. 12 del 2014; inoltre, ex plurimis,  sentenze
n. 6 del 2015, n. 25 del 2004, n. 47 del 1991, n.  65  e  n.  64  del
1990, n. 28 del 1987 e n. 27 del 1981). 
    Va da se'  che  l'omogeneita'  del  quesito  non  puo'  dipendere
esclusivamente dalla compresenza  nel  medesimo  testo  normativo,  e
persino nella medesima  disposizione,  di  piu'  norme.  Quando  esse
abbiano un oggetto differente, l'elettore, infatti,  potrebbe  volere
l'abrogazione di una soltanto  di  tali  norme,  ma  non  dell'altra,
sicche' chiamarlo a votare unitariamente su entrambe  ne  coarterebbe
la liberta' di voto. 
    Naturalmente non e' sempre di immediata evidenza quando le  norme
prefigurino davvero  ipotesi  differenti,  o  quando  esse  piuttosto
contribuiscano a definire una fattispecie razionalmente unitaria.  In
caso  di  dubbio  indizi  probanti  possono  trarsi   dall'evoluzione
normativa di un certo istituto, per verificare se  le  parti  di  cui
esso si compone siano indissolubilmente legate da una comune volonta'
legislativa, o se, invece, esse rispondano a  opzioni  politiche  non
necessariamente unitarie, e anzi  agevolmente  distinguibili  le  une
dalle altre. In quest'ultimo caso, del resto, il corpo elettorale non
sarebbe investito della funzione, propria del referendum  abrogativo,
di rigettare un assetto di interessi voluto dal  legislatore,  ma  si
troverebbe piuttosto a ricombinarne di plurimi per dare  vita  a  una
nuova disciplina ispirata a scelte alternative, e dunque di carattere
propositivo.  Il  requisito   della   omogeneita'   del   quesito   e
l'inammissibilita' di operazioni manipolative-propositive,  in  altri
termini, sono aspetti di un'unica figura, determinata dalla  funzione
meramente abrogativa riservata dall'art. 75 Cost. al referendum. 
    8.- Come si e' detto, il quesito referendario in questione unisce
l'abrogazione integrale del d.lgs. n.  23  del  2015  all'abrogazione
parziale  dell'art.  18  della  legge  n.  300  del  1970.  La  prima
normativa,  a  decorrere  dalla  sua  entrata  in  vigore,  regola  i
licenziamenti illegittimi con una disciplina che, rispetto  a  quella
dell'art.  18,  limita  la  tutela  reale   e   ridimensiona   quella
indennitaria «soprattutto per i lavoratori con anzianita' di servizio
non elevata». 
    I promotori del referendum aggiungono che «si  e'  di  fronte  al
tentativo di  ripristinare  la  facolta'  datoriale  di  adottare  il
licenziamento ad nutum di codicistica memoria, scelta che  il  nostro
ordinamento aveva definitivamente escluso sin dall'introduzione della
legge 604 del 1966 e che avra' il solo inconveniente, per  il  datore
di lavoro, di imporgli un minimo esborso aggiuntivo». 
    I due corpi normativi, oggetto dell'unico  quesito  referendario,
anche se riguardano entrambi i licenziamenti individuali illegittimi,
sono all'evidenza differenti, sia per i rapporti di lavoro  ai  quali
si riferiscono (iniziati prima o dopo l'entrata in vigore del  d.lgs.
n. 23 del  2015),  sia  per  il  regime  sanzionatorio  previsto.  Le
richieste abrogative che li riguardano  sono  percio'  disomogenee  e
suscettibili di risposte diverse.  L'elettore  infatti  ben  potrebbe
volere l'abrogazione  del  d.lgs.  n.  23  del  2015,  rifiutando  le
innovazioni, rispetto all'art.  18  della  legge  n.  300  del  1970,
contenute in tale decreto, senza pero' volere allo stesso tempo anche
la radicale  modificazione  dell'art.  18,  oggetto  della  richiesta
abrogativa. 
    Del resto non e'  senza  significato  il  fatto  che  gran  parte
dell'animato dibattito politico sul cosiddetto Jobs Act e sul  d.lgs.
n. 23 del 2015 e' stato incentrato proprio  sulla  modificazione  che
veniva apportata alla  disciplina  dell'art.  18,  senza  mettere  in
questione anche il contenuto di questa disposizione. 
    9.-  Sotto  un  altro  aspetto  deve  rilevarsi  che  il  quesito
referendario accomuna l'effetto di estendere i casi di tutela  reale,
avuto riguardo  alle  forme  di  licenziamento  illegittimo  previste
dall'ordinamento, con quello di  ampliare  l'ambito  di  operativita'
della tutela, perche' la soggezione al meccanismo  di  reintegrazione
dovrebbe riguardare qualunque datore di lavoro  che  occupi  piu'  di
cinque dipendenti, anziche' piu' di quindici, nell'unita'  produttiva
o nel Comune, oppure complessivamente piu' di sessanta. 
    Appare chiaro che in tal  modo  vengono  accorpate  in  un  unico
quesito determinazioni, proprie della  discrezionalita'  legislativa,
che possono rispondere ad apprezzamenti diversi. Un conto infatti  e'
stabilire in quali ipotesi di licenziamento illegittimo e  attraverso
quali  meccanismi  puo'  essere  in  linea   astratta   tutelato   il
lavoratore; altro conto e' decidere a quale realta',  imprenditoriale
o non imprenditoriale, essi vadano riservati. In questo senso e'  ben
possibile forgiare strumenti di garanzia estremamente rigorosi, ma al
contempo scegliere di renderli residuali  attraverso  un'applicazione
circoscritta a talune categorie  di  datori  di  lavoro;  oppure,  al
contrario, accordare la tutela reale a casi del tutto limitati quanto
alle cause che la giustificano, ma che siano invece  di  applicazione
generale. 
    Difatti gli interventi legislativi che  il  quesito  referendario
vorrebbe abrogare, tanto con riguardo alla legge n. 92 del 2012,  che
ha modificato l'art. 18 della legge  n.  300  del  1970,  quanto  con
riferimento  al  d.lgs.  n.  23  del  2015,  se  hanno  indubbiamente
manifestato uno sfavore crescente del legislatore nei confronti della
tutela reale, riducendone i casi oggettivi di applicazione, non hanno
pero' inciso restrittivamente sui requisiti soggettivi  di  carattere
dimensionale previsti fin dal testo  originario  dell'art.  18  della
legge n. 300 del 1970, e poi ulteriormente arricchiti dalla legge  11
maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali). Segno
questo che tale materia e' stata reputata estranea alla ratio che  ha
sorretto invece le modifiche apportate all'art. 18 della legge n. 300
del 1970, riguardo ai casi di reintegrazione, e  ha  conservato,  nel
disegno legislativo che il quesito referendario intende  contrastare,
una sua autonomia. Percio', una volonta' abrogativa avente ad oggetto
le modifiche di cui si e' detto non necessariamente collima  con  una
parallela volonta' relativa ai limiti  dimensionali  di  applicazione
della tutela reale. 
    Alla vicenda normativa appena ricordata, nella  quale  interventi
finalizzati a contenere le ipotesi di tutela reale coesistono con  la
conferma dei requisiti soggettivi dimensionali del datore di  lavoro,
fanno eco  le  tornate  referendarie  degli  anni  2000  e  2003,  in
occasione delle quali vennero distintamente sottoposti all'elettorato
due diversi quesiti: quello ammesso dalla sentenza di questa Corte n.
46 del 2000, che si riproponeva di abrogare la tutela reale, e quello
ammesso con la sentenza n. 41 del 2003, che invece intendeva  abolire
ogni limite numerico ai fini dell'applicazione di detta tutela. 
    Considerata la diversita' dei quesiti, l'elettore  in  definitiva
potrebbe desiderare che la reintegrazione torni a  essere  invocabile
quale regola generale a fronte di un  licenziamento  illegittimo,  ma
resti confinata ai  soli  datori  di  lavoro  che  occupano  piu'  di
quindici dipendenti in ciascuna unita'  produttiva  o  Comune,  o  ne
impiegano complessivamente piu' di sessanta. Oppure  potrebbe  volere
che quest'ultimo limite sia ridotto, ma che, anche per tale  ragione,
resti invece limitato l'impiego della tutela reale, da mantenere  nei
casi in cui e' attualmente prevista. 
    Il fatto che invece il quesito referendario  lo  obblighi  ad  un
voto   bloccato   su   tematiche   non   sovrapponibili,   proponendo
l'abrogazione parziale anche dell'ottavo comma, e  non  soltanto  dei
commi primo, quarto, quinto, sesto e settimo dell'art. 18 della legge
n. 300 del 1970, comporta un'ulteriore ragione di inammissibilita'. 
      
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara inammissibile la richiesta di  referendum  popolare  per
l'abrogazione  del  decreto  legislativo  4   marzo   2015,   n.   23
(Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato
a tutele crescenti, in attuazione della legge 10  dicembre  2014,  n.
183), e dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme  sulla
tutela della liberta'  e  dignita'  dei  lavoratori,  della  liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), nelle parti indicate in epigrafe, richiesta dichiarata
legittima con ordinanza del 9 dicembre 2016, pronunciata dall'Ufficio
centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 gennaio 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                     Giorgio LATTANZI, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2017. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA