N. 51 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 ottobre 2016
Ordinanza del 25 ottobre 2016 della Commissione tributaria provinciale di Roma sul ricorso proposto da Bertazzoni spa contro Autorita' garante della concorrenza e del mercato. Autorita' garante della concorrenza e del mercato - Finanziamento degli oneri derivanti dal suo funzionamento - Previsione di un contributo obbligatorio annuale a carico delle sole imprese con ricavi totali superiori a 50 milioni di euro - Fissazione di una soglia massima di contribuzione pari a cento volte la misura minima. - Legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), art. 10, commi 7-ter e 7-quater.(GU n.15 del 12-4-2017 )
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI ROMA Sezione 5 riunita con l'intervento dei signori: Novelli Giovanni - Presidente; Verde Adele - relatore; Destro Carlo - giudice, ha emesso la seguente ordinanza: sul ricorso n. 6581/2015 depositato il 16 marzo 2015; avverso diniego rimborso n. 0058440/2014 Trib. locali 2013; avverso diniego rimborso n. 0058440/2014 Trib. locali 2014. Contro: Autorita' garante della concorrenza e del mercato c/o Avvocatura generale dello Stato, piazza Verdi n. 6 A - 00100 Roma. Proposto dai ricorrenti: Bertazzoni Spa - via Palazzina n. 8, 42016 Guastalla Re, difeso da: avv. Massimo Coccia - piazza Adriana n. 15, 00193 Roma RM, difeso da: avv. Massimo Luciani - piazza Adriana n. 15, 00193 Roma RM, difeso da: dott. Tefano De Angelis - piazza Adriana n. 15, 00193 Roma RM. Fatto Con ricorso notificato in data 16 febbraio 2015 la societa' Bertazzoni S.p.A. ha proposto impugnazione avverso il diniego espresso dall'Autorita' garante della concorrenza e del mercato al rimborso dei contributi versati a norma dell'art. 10 commi 7-ter e 7-quater della legge n. 287/1990 e delle relative delibere dell'AGCM n. 24352/2013 e 24766/2014 a seguito della istanza presentata dalla societa' in data 16 luglio 2014 per ottenere il rimborso dei contributi versati per gli anni 2013 e 2014. La ricorrente preliminarmente sostiene la giurisdizione di questa Commissione a pronunciarsi sul ricorso sulla base di diverse pronunce sia della Corte costituzionale sia della Suprema Corte di cassazione. In particolare con la sentenza n. 256/2007 il giudice delle leggi si e' espresso in merito al contributo dovuto per le spese di funzionamento dell'Autorita' per la vigilanza sui lavori pubblici qualificandolo di indubbia natura tributaria per il carattere di obbligatorieta' e generalita'. Tanto premesso la ricorrente sostiene che la norma di legge istitutiva del contributo in questione sia in contrasto tanto con il diritto dell'Unione europea quanto con varie norme della nostra Costituzione. Ad opinione della ricorrente il contributo di cui chiede il rimborso contrasterebbe con gli articoli 16 (liberta' d'impresa), 17 (diritto di proprieta'), 20 (uguaglianza di fronte alla legge) e 21 (non discriminazione) del Trattato istitutivo dell'UE. Cio' perche' la struttura del contributo introduce disparita' di trattamento a fronte di situazioni omogenee, ad esempio stabilendone l'obbligatorieta' solo per imprese aventi un volume d'affari superiore a 50 milioni di euro, mentre tutte le imprese possono usufruire dei benefici derivanti dall'attivita' del garante. Inoltre l'aliquota fissata sarebbe eccessiva, tanto da originare un gettito pari a quasi il doppio delle entrate stanziate a carico del bilancio dello Stato prima dell'istituzione del contributo. Questo, poi, sarebbe superiore al budget annuale dell'omologa Direzione per la concorrenza dell'UE e di poco inferiore a quello della corrispondente Commissione antitrust degli Stati Uniti d'America, Il contrasto con la nostra Costituzione si verificherebbe in relazione ai suoi articoli 3 e 53 che prevedono l'obbligo per tutti di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva, mentre il contributo e' dovuto solo per imprese con volume d'affari superiore ai 50 milioni. La ricorrente ricorda ancora come la Corte costituzionale abbia stabilito con sentenze n. 116/13 e n. 223/12 che l'irragionevolezza di un tributo puo' risiedere non nell'entita' del prelievo ma nell'ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. Conclude chiedendo la disapplicazione delle norme impositive del contributo per contrasto con la normativa comunitaria, annullando il diniego al rimborso e condannando l'Autorita' al rimborso di quanto pagato o, in, subordine, di sollevare di fronte alla Corte costituzionale questione di costituzionalita' delle norme che hanno introdotto il contributo per contrasto con gli articoli 3, 23, 53 e 117 della Costituzione. L'Autorita' garante della concorrenza si e' costituita in giudizio con il solo fascicolo di parte senza allegare la memoria difensiva. Diritto 1. Il collegio condivide la tesi esposta dalla ricorrente sulla natura tributaria dei contributi all'AGCM. Si tratta, infatti, di imposte che sono state articolate in un determinato modo dal legislatore per cercare di ridurre i costi diretti a carico dell'erario e far ricadere l'impegno di spesa sui destinatari obbligati del servizio. Come ricordato in ricorso, la Corte costituzionale, con riferimento al sistema di finanziamento dell'Autorita' di vigilanza sui lavori pubblici, ha gia' dichiarato (sentenza n. 256 del 2007) la natura tributaria delle prestazioni poste a carico della platea di soggetti individuati come destinatari dell'obbligo di contribuzione (i partecipanti alle gare), in considerazione dei caratteri di generalita' e obbligatorieta'. Orbene, essendo il sistema di finanziamento dell'Autorita' per la concorrenza ed il mercato del tutto analogo a quello ora indicato non puo' ricorrere dubbio circa la natura di tributo anche per gli analoghi contributi richiesti agli operatori economici che superino una certa entita' di fatturato. Una volta appurata la natura tributaria delle obbligazioni riguardate dal presente ricorso, ritiene questa Commissione come non ci si possa non conformare all'insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 6315 del 2009 e n. 11082 del 2010) secondo il quale: «La giurisdizione del giudice tributario, a seguito della modifica introdotta dall'art. 12, comma secondo, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 all'art. 2 decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, ha carattere pieno ed esclusivo, estendendosi non solo all'impugnazione del provvedimento impositivo, ma anche alla legittimita' di tutti gli atti del procedimento, ivi compresi gli ordini di verifica, a seguito dei quali l'attivita' di accertamento inizia. Gli eventuali, vizi degli ordini di verifica, in quanto atti della sequenza procedimentale, potranno tuttavia essere dedotti soltanto e nel momento in cui si impugni il provvedimento che conclude l'«iter» di accertamento. Nel caso di specie, essendo in discussione il rimborso di imposte gia' pagate e che si affermano non puo' essere revocata in dubbio la giurisdizione tributaria. Come ricordato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 64 del 2008) sussiste un nesso di inscindibilita' fra giurisdizione tributaria e la materia tributaria la cui violazione darebbe luogo alla violazione dell'art. 102, secondo comma, della Costituzione, come peraltro gia' piu' volte affermato con le ordinanze n. 395 del 2007, n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006. 2. Preliminare e' l'esame della pregiudiziale comunitaria sollevata nel ricorso introduttivo. Si sostiene che i commi 7-ter e 7-quater dell'art. 10 della legge n. 287 del 1990 sono in contrasto col diritto della Unione europea, segnatamente col diritto di stabilimento nel mercato comune (art. 49, ex art. 43 T.C.E.) e con il diritto alla libera prestazione di servizi nel mercato europeo (art. 56 T.F.U.E., ex art. 49 T.C.E.). La questione va esaminata in via preliminare in quanto secondo l'insegnamento della Corte costituzionale la compatibilita' della norma indubbiata con le direttive comunitarie che regolano la materia costituisce profilo che, attenendo alla operativita' della norma medesima, investe la rilevanza della relativa questione di legittimita' costituzionale, onde, ai sensi dell'art. 23, legge n. 87 del 1953 - il giudice a quo deve farsi carico di tale profilo e motivare sul punto, pena l'inammissibilita' della questione sollevata (Corte costituzionale ordinanza n. 38/95; n. 249/01). Ritiene il Collegio che le norme di diritto della Unione europea richiamate dalla parte ricorrente non siano risolutive della controversia. Quanto alla contrarieta' con diritto di stabilimento nel mercato comune basta rilevare che le decisioni della Corte di giustizia della Unione europea hanno riguardato ipotesi in cui la discriminazione era a favore del soggetto estero che avesse fissato la sede della propria attivita' economica o costituito un centro di attivita' stabile in un diverso Paese (nel nostro caso l'Italia). Nella attuale controversia, invece, il soggetto che si lamenta della discriminazione e' una societa' italiana con sede in Italia. Quanto alla violazione con il diritto alla libera prestazione di servizi nel mercato europeo la sentenza sez. VIII, 18 luglio 2013, cause da C-228/12 a C-232/12 e da C-254/12 a C-258/12 (Vodafone, Omnitel, NV e altri) della Corte di giustizia della Unione europea in merito alla imposizione di un contributo per il finanziamento della AGCM ha fissato il seguente principio: «Se e' consentito agli Stati membri imporre alle imprese che prestano servizi o reti di comunicazione elettronica un diritto per finanziare le attivita' dell'ANR, cio' vale, tuttavia, a condizione che tale diritto sia esclusivamente destinato alla copertura dei costi relativi alle attivita' menzionate nell'art. 12, paragrafo 1, lettera a), della direttiva autorizzazioni, che la totalita' dei ricavi ottenuti a titolo di detto diritto non superi i costi complessivi relativi a tali attivita' e che lo stesso diritto sia imposto alle singole imprese in modo proporzionato, obiettivo e trasparente». In base a tale principio, ove lo si ritenga applicabile anche all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato, e' possibile imporre l'obbligo di finanziare il servizio reso dall'Autorita' a condizione che i contributi versati abbiano come destinazione esclusivamente la copertura dei costi della autorita'. Nel caso in esame non e' in discussione la destinazione dei contributi in quanto la stessa societa' ricorrente non dubita che essi debbano essere utilizzati per coprire i costi di gestione dell'Autorita' garante. Infatti, ne' la ricorrente, ne' questo Collegio sono in grado di stabilire se le somme versate siano state utilizzate o meno dall'Autorita'. In particolare, nella relazione illustrativa del bilancio di previsione per l'anno 2014 e programmata per il triennio 2014-2016 prodotto dalla Autorita' si da' atto che e' stato introdotto il nuovo criterio e si assume che il bilancio e' stato predisposto nella misura in cui le contribuzioni siano sufficienti a coprire il fabbisogno della Autorita' (infatti vi si legge che «tenuto conto della nuova aliquota e del contesto economico finanziario che sta caratterizzando il Paese, la misura delle contribuzioni a carico delle imprese per l'anno 2014 e' stata prudenzialmente stimata in 60 milioni di euro»). Nessun elemento, tuttavia, viene fornito a questa Commissione da cui si possa desumere la corrispondenza tra le somme incassate e quelle utilizzate per le spese di funzionamento dell'Autorita'. In mancanza di tale elemento di giudizio, le richiamate norme di diritto comunitario non appaiono risolutive della presente controversia. 3. Cio' posto, gia' questa Commissione ha sottoposto la questione alla Corte costituzionale, con ordinanza del 18 marzo 2016, n. 1167/2016. In particolare questa Commissione ha rilevato: «Invero, ad onta del principio di eguaglianza, sancito nell'art. 3 della costituzione, e del generale obbligo di concorrere alle spese pubbliche in ragione della rispettiva capacita' contributiva come previsto dall'art. 53 della Carta, sono state escluse dall'obbligo di contribuzione le categorie non imprenditoriali, quali i consumatori che pure fruiscono e sono i beneficiari della attivita' regolatrice dell'Autorita' (il rispetto della libera concorrenza e' rilevante per tutti i cittadini) e quali le pubbliche amministrazioni, che svolgono la loro attivita' con efficacia diretta o indiretta sul mercato creando o eliminando distorsioni alla concorrenza. Gia' questa limitazione della platea dei soggetti chiamati a contribuire appare sostanziare il dubbio di contrasto delle norme in esame con i principi costituzionali sopra indicati. Oltre alla limitazione della platea dei contribuenti alla categoria dei soli imprenditori si deve rilevare altresi' l'ulteriore dubbio di costituzionalita' derivante dall'assoggettamento al contributo solo di una percentuale ridotta di imprenditori, quella con volume di affari superiore a 50 milioni di euro. Sotto questo profilo appare poi dubbia la conformita' con gli indicati principi costituzionali del parametro del volume di affari che non coincide necessariamente col criterio di redditivita' di un'impresa ben potendo a parita' di fatturato essere ben diversi i profitti e quindi la redditivita' fra imprese operanti in settori diversi. Non puo' neppure escludersi che ad un elevato fatturato faccia poi riscontro un saldo negativo del conto economico che quindi chiuderebbe in perdita. Complessivamente considerando la previsione legislativa la stessa non sembra corrispondere con sicurezza al principio della capacita' contributiva ma anzi sembra idonea a non determinare corrispondenze fra redditivita' dell'impresa e costi fiscali che la stessa viene chiamata a sostenere. Ulteriore dubbio di costituzionalita' appare ravvisabile con riferimento al principio di progressivita' dell'imposizione fissato dal secondo comma dell'art. 53 della Costituzione in quanto i soggetti con maggiore capacita' contributiva possono essere destinatari di obblighi di contribuzione in proporzione meno gravosi di quelli gravanti sui contribuenti con minore capacita' contributiva: a tale effetto appare condurre la limitazione del contributo nel senso che il suo massimo non puo' essere superiore a cento volte la misura minima. Nella sostanza puo' avvenire allora che il tributo non venga applicato in modo progressivo secondo la diversa capacita' contributiva delle imprese ma in misura proporzionale (e solo al di sopra di una certa soglia) senza tener conto delle piu' alte capacita' contributive per poi divenire regressivo una volta raggiunta una certa soglia. Pur tenendosi presente come il legislatore possa diversamente modulare l'imposizione fiscale fra diverse aree economiche o diverse tipologie di contribuenti, pur tuttavia ogni diversificazione per tipologia di contribuenti deve essere supportata da adeguate giustificazioni in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione (Corte costituzionale n. 10/2015). Come affermato dal giudice delle leggi (sentenza n. 142 del 2014) le differenziazioni impositive devono essere ancorate ad adeguata giustificazione oggettiva la quale deve essere coerentemente, proporzionalmente e ragionevolmente tradotta nella struttura dell'imposta. Sotto questo profilo, a parte le esenzioni per tipologia di contribuenti sopra indicate, non sembrerebbe trovare spiegazione un'esenzione di imposta per gli imprenditori con 48 milioni di euro di fatturato cioe' poco al di sotto della soglia di tassabilita' ne' troverebbe giustificazione che l'imprenditore con fatturato di oltre cento volte superiore al minimo previsto per la tassabilita' sia chiamato a versare una somma meno che proporzionale». Questi rilievi appaiono tanto piu' fondati in quanto si ravvisa una discriminazione tra «le societa' italiane con ricavi superiori a 50 milioni di euro iscritte al registro delle imprese tenuto dalle Camere di commercio italiane» e tutte quelle imprese straniere che non hanno una «rappresentanza stabile» in Italia ma comunque esercitano attivita' di impresa nel nostro Paese e, pertanto, usufruiscono dei servizi di vigilanza e di regolamentazione resi dalla AGCM. Al riguardo, deve evidenziarsi che l'Autorita' e' chiamata a vigilare/controllare tutte le imprese le cui condotte siano causative di effetti anticoncorrenziali sul mercato italiano, a prescindere dalla collocazione della loro sede. Attesa, pertanto, l'omogeneita' della situazione di fatto presa in considerazione della legge ai fini della imposizione fiscale, la limitazione della platea dei soggetti passivi chiamati al versamento del contributo (solo le societa' di capitali residenti in Italia a fini fiscali e i cui ricavi superano le soglie indicate nell'art. 7-ter legge cit.) crea un'ingiustificata disparita' di trattamento basata sulla nazionalita' o sulla organizzazione societaria. 4. Ad integrazione dei motivi sopra esposti va, altresi', rilevato che appare ravvisabile la violazione del principio della riserva di legge fissato dall'art. 23 della Costituzione in quanto il potere di fissare l'aliquota e' attribuito alla discrezionalita' della AGCM senza che sia prevista una correlazione tra il fabbisogno per i costi sopportati dall'Autorita' e le entrate ricavabili dalla riscossione. Soprattutto senza che siano previsti i criteri ai quali l'Autorita' debba attenersi nel determinare quelle che nelle sostanza sono aliquote impositive; e cio' in relazione ai soggetti o alle categorie dei soggetti tenuti a versarle (elemento soggettivo) e alla natura e importanza delle questioni sottoposte all'Autorita' (elemento oggettivo). L'art. 10, comma 7-quater della legge n. 287/1990, infatti, demanda alla AGCM la facolta' di apportare con fonte secondaria «variazioni della misura e delle modalita' di contribuzione», senza prevedere alcun criterio a cui la stessa Autorita' debba attenersi nella determinazione di tali importi. Le entrate ricavabili da tale riscossione, pertanto, pur non risultando del tutto disancorate dalle spese effettivamente sopportate dall'AGCM per il suo funzionamento (spese cui sono, invece, istituzionalmente preposte) vengono riscosse in base a criteri lasciati alla mera discrezionalita' dell'AGCM. A tale proposito la giurisprudenza della Corte costituzionale si e' espressa nel senso di ritenere illegittima la legge che «rinvia ad una fonte di rango inferiore a quella legislativa l'individuazione delle prestazioni, senza dettare criteri direttivi idonei a restringere la discrezionalita' dell'organo amministrativo». Dal momento che il ricorso in esame postula la applicazione delle norme di cui al novellato art. 10 legge n. 287/1990, di cui non e' possibile un'interpretazione costituzionalmente orientata, se ne deve rimettere alla Corte costituzionale il giudizio circa la conformita' o meno agli indicati principi della carta costituzionale.
P.Q.M. Visto l'art. 23 legge n. 87 del 1953; La Commissione tributaria provinciale di Roma (sez. 5), ritenutane la rilevanza e non manifesta infondatezza, rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10, commi 7-ter e 7-quater, della legge n. 287 del 1990 in relazione agli articoli 3, 53, 1° e 2° comma e 23 della Costituzione nella parte in cui, per assicurare il funzionamento dell'Autorita' garante della concorrenza e del mercato, vengono applicati contributi a carico dei soli imprenditori con fatturato superiore a 50 milioni di euro e prevedendosi un limite massimo per tale contributo. Sospende il giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza sia notificata a cura della segreteria alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Roma, 30 settembre 2016 Il Presidente: Novelli L'estensore: Verde