N. 28 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 7 marzo 2017

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il  7  marzo  2017  (del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri). 
 
Sicurezza pubblica - Norme della Regione  Veneto  -  Istituzione  del
  servizio regionale di controllo e vigilanza  -  Previsione  per  il
  personale di polizia provinciale trasferito al  servizio  regionale
  di vigilanza del mantenimento della qualifica di agente di  polizia
  giudiziaria. 
Previdenza - Norme  della  Regione  Veneto  -  Modifiche  alla  legge
  regionale n. 37/2014 istitutiva dell'Agenzia Veneta per lo sviluppo
  nel settore primario - Previsione per i dirigenti e dipendenti  del
  mantenimento dell'iscrizione all'INPS. 
Sanita' pubblica -  Norme  della  Regione  Veneto  -  Previsione,  in
  presenza di riorganizzazioni dell'area tecnico-amministrativa degli
  enti del servizio sanitario  regionale  derivanti  dall'istituzione
  dell'Azienda  per  il   governo   della   sanita'   della   Regione
  Veneto-Azienda Zero, della riduzione permanente dei  fondi  per  la
  contrattazione integrativa del personale dirigenziale di un importo
  pari  ai  risparmi  derivanti  dalla  diminuzione  delle  strutture
  complesse - Previsione della destinazione dei risparmi,  conseguiti
  dagli   enti   del   S.S.R.   per   effetto    delle    sopraddette
  riorganizzazioni in quota parte dalla Regione, alla costituzione ed
  integrazione  dei  fondi  per  la  contrattazione  integrativa  del
  personale dell'Azienda Zero - Professori e ricercatori universitari
  svolgenti   attivita'   assistenziale   in   aziende    ospedaliere
  universitarie   -   Attribuzione   di    un'eventuale    indennita'
  integrativa, a carico  del  S.S.R.,  necessaria  ad  assicurare  un
  trattamento  economico  complessivo  non  inferiore  a  quello   al
  personale del S.S.N. di pari anzianita'  e  grado  -  Collegio  dei
  revisori delle aziende sanitarie locali - Previsione del diritto al
  rimborso delle sole spese vive e documentate, per effetto del  loro
  trasferimento in diverse sedi aziendali, nell'esercizio delle  loro
  funzioni - Esclusione dei rimborsi per spese di vitto,  alloggio  e
  di viaggio per il trasferimento tra la residenza  o  domicilio  del
  componente e la  sede  legale  dell'Azienda  sanitaria  -  Chiusura
  definitiva delle gestioni liquidatorie delle soppresse  USL  al  31
  dicembre 2016 e  successione,  in  tutti  i  rapporti  giuridici  e
  processuali delle stesse, delle Aziende sanitarie, a decorrere  dal
  1° gennaio 2017 - Autorizzazione ed accreditamento delle  strutture
  sanitarie, socio sanitarie e sociali  -  Attribuzione  alla  Giunta
  regionale, con esclusione del Comune, della competenza  in  materia
  di autorizzazione alla realizzazione degli ospedali  di  comunita',
  delle unita' territoriali e degli hospice. 
Paesaggio (tutela del) - Norme della Regione  Veneto  -  Attribuzione
  alla  Giunta  regionale  del  potere  di  procedere,   nelle   more
  dell'approvazione del piano paesaggistico, alla ricognizione  degli
  immobili e delle aree dichiarate di notevole interesse  pubblico  e
  delle aree tutelate per legge di cui  agli  artt.  136  e  142  del
  Codice dei beni culturali. 
Acque ed acquedotti - Norme della Regione Veneto -  Previsione  della
  possibilita' di interventi di manutenzione degli  alvei,  di  opere
  idrauliche in alveo, delle sponde e degli argini dei corsi d'acqua,
  senza necessita' di autorizzazione paesaggistica. 
Impresa ed imprenditore - Norme della Regione Veneto  -  Agevolazioni
  concesse all'imprenditoria femminile - Previsione in considerazione
  della crisi economica del settore produttivo regionale che  non  si
  procede, in caso di violazioni di cui alle lett. b), c) e  d),  del
  d.P.R. n. 314 del 2000, alla revoca e al recupero dell'aiuto, o  al
  recupero degli aiuti gia' revocati. 
Banca  e  istituti  di  credito  -  Norme  della  Regione  Veneto   -
  Limitazione degli  interventi  sul  fondo  di  garanzia  costituito
  presso il Mediocredito Centrale Spa. 
Miniere, cave e torbiere - Norme della Regione Veneto - Attivita'  di
  lavorazione e stoccaggio presso cave non estinte  di  materiali  di
  scavo derivanti dalla realizzazione di opere pubbliche limitata  ai
  materiali qualificabili come sottoprodotto -  Divieto  di  apertura
  per 9 anni di nuove cave di sabbia e ghiaia - Prevista possibilita'
  di  ampliamento  delle  cave  di  sabbia  e  ghiaia  non   estinte,
  subordinata  al  volume  massimo  assentito  ai  singoli  operatori
  richiedenti e ad  una  soglia  massima  prestabilita  di  validita'
  almeno triennale dei volumi estraibili per ciascuna Provincia. 
Energia - Norme della Regione Veneto - Impianti a biomassa, a  biogas
  e gas  di  discarica  e  di  processi  di  depurazione  di  potenza
  superiore ai 1.000 e ai 3.000 KW - Previsione  di  distanze  minime
  rispetto alle residenze civili sparse e concentrate - Previsione di
  vincoli  di  conformita'  pianificatoria  alla   localizzazione   -
  Prevista  possibilita'   di   autorizzazione   in   zona   agricola
  esclusivamente se richiesti  dall'imprenditore  agricolo  a  titolo
  principale - Prevista  possibilita'  per  la  giunta  regionale  di
  emanare provvedimenti esplicativi e di indirizzo. 
- Legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato  alla
  legge di stabilita' regionale 2017), artt.  6,  comma  5;  20;  29,
  commi 3 e 4; 30, commi 1 e 2; 31, comma 1; 33; 34, commi 3 e 4; 63,
  comma 7; 68, comma 1; 79, comma 1; 83; 95, commi 2, lett. a),  4  e
  5; 111, commi 2, 3, 4, 5, 7 e 8. 
(GU n.18 del 3-5-2017 )
    Ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri,  rappresentato
e  difeso  dalla  Avvocatura  Generale  dello  Stato  presso  cui  e'
domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
    Contro Regione Veneto in persona del Presidente pro  tempore  per
la  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale   dei   seguenti
articoli: art. 33, art. 34, commi 3 e 4, art. 63, comma  7,  art.  68
comma 1, art. 79 comma 1, art. 95 commi 2, 4, 5, art.  83,  art.  111
commi 2, 3, 4, 5, 7, 8, art. 6, comma 5, art. 20, art. 29 commi  3  e
4, art. 30 comma 1, art. 31, comma 1 della legge della Regione Veneto
n. 30 del 30 dicembre 2016,  pubblicata  nel  B.U.R  n.  127  del  30
dicembre 2016 «Collegato alla Legge di stabilita' regionale 2017». 
    La legge n. 30 del 30 dicembre 2016 della Regione Veneto reca  le
disposizioni del «Collegato alla legge di stabilita' regionale 2017». 
    Le norme di seguito indicate presentano profili di illegittimita'
costituzionale. 
    L'art. 33 della legge regionale in esame dispone: 
    «Le gestioni liquidatorie delle  disciolte  Unita'  locali  socio
sanitarie di cui all'art. 45-bis della legge regionale  14  settembre
1994, n. 55 e all'art. 27 della legge regionale 14 settembre 1994, n.
56, sono definitivamente chiuse al 31 dicembre  2016,  e  le  Aziende
Sanitarie territorialmente competenti, a decorrere dalla data del  1°
gennaio 2017,  subentrano  nella  titolarita'  di  tutti  i  rapporti
giuridici e processuali delle rispettive gestioni liquidatorie  delle
disciolte Unita' locali socio sanitarie.». 
    La  disposizione,  nel  prevedere  il  subentro   delle   Aziende
sanitarie nella gestione liquidatoria delle disciolte  Unita'  locali
socio  sanitarie,  appare  costituzionalmente  illegittima   per   il
seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, comma 3 della Costituzione. 
    L'art. 33 della legge regionale in esame si pone in contrasto con
i principi fondamentali della  legislazione  statale  in  materia  di
tutela della salute, di cui all'art.  6,  comma  1  della  legge,  n.
724/1994. 
    L'art. 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724,  dispone
che: «In nessun caso e' consentito alle Regioni di far gravare  sulle
aziende di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992,  n.  502,  (e
successive  modificazioni  ed  integrazioni)  ne'  direttamente   ne'
indirettamente, i debiti e  i  crediti  facenti  capo  alle  gestioni
pregresse delle  unite  sanitarie  locali.  A  tal  fine  le  regioni
dispongono  apposite  gestioni  a  stralcio,  individuando  l'ufficio
responsabile delle medesime.». 
    L'art. 2, comma  14,  della  legge  28  dicembre  1995,  n.  549,
stabilisce che «(..., le regioni attribuiscono ai direttori  generali
delle istituite  aziende  unita'  sanitarie  locali  le  funzioni  di
commissari  liquidatori  delle  soppresse  unita'  sanitarie   locali
ricomprese nell'ambito  territoriale  delle  rispettive  aziende.  Le
gestioni a stralcio di cui  all'art.  6,  comma  1,  della  legge  23
dicembre 1994, n. 724, sono trasformate in gestioni liquidatorie.». 
    Quest'ultima norma esprime l'intento  del  legislatore  che,  nel
disporre la trasformazione delle  «gestioni  stralcio»  in  «gestioni
liquidatorie»,  attribuisce,  altresi',  ai  direttori  generali   le
funzioni di commissari liquidatori delle soppresse  unita'  sanitarie
locali, di  coordinare  le  gestioni  liquidatorie  con  la  gestione
ordinaria delle aziende sanitarie. Cio' al  fine  di  assicurare  che
l'esposizione debitoria delle soppresse unita' sanitarie  locali  sia
sempre tenuta distinta dalla gestione ordinaria e non possa venire  a
gravare  su  questa,  come  appunto  disposto  in  via  di  principio
dall'art. 6, comma 1 cit. 
    Al riguardo codesta ecc.ma Corte costituzionale nella sentenza n.
116/2007, ha stabilito che i precetti di cui  all'art.  6,  comma  1,
ultima parte, della legge n.  724  del  1994  costituiscono  principi
fondamentali in materia di tutela della salute (sentenza n.  437  del
2005). 
    Consegue che  in  nessun  caso  la  legislazione  regionale  puo'
confondere  la  liquidazione  dei  pregressi  rapporti  delle  unita'
sanitarie locali con l'ordinaria gestione delle ASL, al duplice  fine
di sottrarre le ASL al peso delle preesistenti  passivita'  a  carico
delle USL e di fornire ai creditori di queste  ultime  la  necessaria
certezza   sulla   titolarita'   passiva   del   rapporti   e   sulla
individuazione dei mezzi su cui soddisfarsi (sentenze n. 89/2000 e n.
437/2005, e sentenza n. 25/2007). 
    Sul punto, si espressa, piu' volte, anche la Corte di  cassazione
(Corte di cassazione,  sezione  III,  sentenza  15  maggio  2014,  n.
10629), chiarendo  che  le  gestioni  stralcio  (al  pari  di  quelle
liquidatorie) mantengono  l'autonoma  soggettivita'  giuridica  delle
disciolte  USL  e  specificando,  ulteriormente,  che   le   gestioni
liquidatorie  fruiscono  della   stessa   soggettivita'   dell'organo
soppresso (Cass., SS.UU., sentenza n. 23022/2005). 
    Inoltre,  e'  stato  affermato  il  principio  della  continuita'
soggettiva tra le gestioni stralcio e gli enti soppressi  durante  la
fase liquidatoria (Cass., sentenza n. 10135/2012). 
    E' stato, altresi', ribadito (Cons. Stato,  sez  VI,  22  gennaio
2001, n. 184), che «a seguito  dell'entrata  in  vigore  del  decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e delle  leggi  nn.  724/1994  e
549/1995, le nuove Aziende sanitarie locali (ASL) non sono subentrate
nei rapporti obbligatori dei quali erano parti  le  Unita'  sanitarie
locali (USL), essendo stati trasferiti i debiti di queste ultime alle
Regioni». 
    La successione ex lege delle aziende sanitarie nei  debiti  delle
soppresse USL, inequivocabilmente disposta dalla norma  impugnata  in
una con la cessazione al 31  dicembre  delle  gestioni  liquidatorie,
contrasta frontalmente con questo assetto di principi non  derogabili
dalla legislazione concorrente della regione  in  materia  di  tutela
della salute. 
    L'art. 34 della  legge  regionale  in  esame  modifica  la  legge
regionale  16  agosto  2002,  n.  22,   recante   «Autorizzazione   e
accreditamento  della  strutture   sanitarie,   socio   sanitarie   e
sociali.». 
    In particolare, l'art. 34 comma 3 dispone: «alla lettera  b)  del
comma 1 dell'art. 7 della legge regionale 16 agosto 2002, n. 22, dopo
le parole: «nei rimanenti  casi»  sono  inserite  le  seguenti:  «con
esclusione degli ospedali di comunita',  delle  unita'  riabilitative
territoriali e degli hospice.». 
    Il successivo comma 4, nell'aggiungere un ulteriore comma dopo il
comma 2 dell'art. 7 della legge regionale  16  agosto  2002,  n.  22,
prevede quanto  segue:  «2-bis.  L'autorizzazione  alla  costruzione,
ampliamento,  trasformazione,  trasferimento  in  altra  sede   degli
ospedali di comunita',  delle  unita'  riabilitative  territoriali  e
degli hospice richiesta da  istituzioni  ed  organismi  a  scopo  non
lucrativo, nonche' da strutture private e'  rilasciata  dalla  Giunta
regionale, sentita la competente Commissione consiliare, fatto  salvo
quanto disposto dall'art. 2, comma 1, lettera g), n. 7,  della  legge
regionale 25 ottobre 2016, n. 19.». 
    L'effetto della novella  normativa  e'  quello  di  escludere  la
competenza del comune in materia di autorizzazione alla realizzazione
(permesso di costruire) di ospedali di comunita' (definibili come una
strutture sanitarie  distrettuali  in  grado  di  seguire  in  regime
residenziale e semiresidenziale  una  quota  di  popolazione  che  in
passato afferiva alla tradizionale  degenza  ospedaliera;  come  tali
dotate di caratteristiche  intermedie  tra  il  ricovero  ospedaliero
propriamente  detto  e  le  altre  possibili  risposte  assistenziali
domiciliari (ADI) o residenziali (RSA), e quindi classificabili  come
servizi   sanitari   extra   ospedalieri),    unita'    riabilitative
territoriali   (definibili   come   strutture   di    residenzialita'
extraospedaliera  a  carattere   temporaneo   per   l'erogazione   di
prestazioni prevalentemente di riabilitazione neurologica  e  motoria
per la riduzione  della  disabilita'  residua  dopo  eventi  acuti  o
riacutizzazioni di patologie croniche), e  hospice  (definibili  come
strutture che permettono un ricovero temporaneo o permanente  per  le
persone malate che non possono essere piu' assistite in un  programma
di assistenza domiciliare specialistica, o per le quali  il  ricovero
in un ospedale non e' piu' adeguato). 
    La  disposizione  regionale  nell'escludere  la  competenza   del
Comune,  in  materia  di  autorizzazione  alla  realizzazione   degli
ospedali di comunita', delle unita' territoriali e degli  hospice,  e
demandando   alla   Giunta   regionale   tale   competenza,    appare
costituzionalmente illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, terzo comma, e 118 secondo comma, della
Costituzione. 
    L'art. 34, commi 3 e 4, della legge regionale in  esame  sono  in
contrasto con i principi fondamentali  in  materia  di  tutela  della
salute, di cui all'art. 8-ter del decreto legislativo n. 502/1992. 
    L'art.  8-ter,  comma  3  del  decreto  legislativo  n.  502/1992
stabilisce che:  «Per  la  realizzazione  di  strutture  sanitarie  e
sociosanitarie il comune  acquisisce,  nell'esercizio  delle  proprie
competenze in materia di autorizzazioni e concessioni di cui all'art.
4  del  decreto-legge  5  ottobre  1993,  n.  398,  convertito,   con
modificazioni, dalla legge 4  dicembre  1993,  n.  493  e  successive
modificazioni, la verifica di compatibilita' del  progetto  da  parte
della regione. Tale verifica e' effettuata in rapporto al  fabbisogno
complessivo  e  alla  localizzazione  territoriale  delle   strutture
presenti in ambito regionale,  anche  al  fine  di  meglio  garantire
l'accessibilita' ai servizi e valorizzare  le  aree  di  insediamento
prioritario di nuove strutture.». 
    La disposizione  statale  ora  riportata  intende  coordinare  le
competenze istituzionali  dei  comuni  in  materia  di  rilascio  dei
permessi di costruire, previa  verifica  della  compatibilita'  delle
opere con gli strumenti urbanistici, con la programmazione  sanitaria
regionale.  La  disposizione  statale   chiaramente   comporta,   con
previsione  di  principio,  che  la  finalita'   sanitaria   di   una
costruzione non puo' costituire circostanza atta a privare il  comune
del  potere  di  verificarne  la  compatibilita'  urbanistica  e   di
rilasciare il permesso di costruire. Tale potere rimane  intangibile,
e il suo esercizio va  coordinato  con  la  programmazione  sanitaria
regionale attraverso la specifica valutazione di  compatibilita'  con
la suddetta programmazione, espressa dalla regione. 
    L'art.  34,  commi  3  e  4,  della  legge  regionale  in  esame,
escludendo gli ospedali di comunita', le unita'  territoriali  e  gli
hospice dalla competenza del Comune in materia di autorizzazioni alla
realizzazione,  contrasta  con  la  citata   normativa   statale   di
principio, in base alla quale il Comune, in tale ambito,  acquisisce,
nell'esercizio   delle   proprie   competenze,   la    verifica    di
compatibilita' del  progetto  da  parte  della  Regione,  ma  rimante
titolare del potere autorizzatorio della costruzione. 
    Al riguardo, codesta ecc.ma Corte costituzionale ha  recentemente
ribadito che «se e' condivisibile che la competenza regionale in tema
di autorizzazione e vigilanza  delle  istituzioni  sanitarie  private
vada inquadrata nella potesta' legislativa concorrente in materia  di
tutela della salute (di cui all'art. 117, comma terzo, Cost.), resta,
comunque, (...) precluso alle Regioni di derogare a norme statali che
fissano principi fondamentali» (Corte cost., 7 giugno 2013, n. 132). 
    Inoltre,  la  norma  regionale  comporta  una  violazione   delle
prerogative comunali ai sensi dell'art. 118, secondo comma, Cost. che
dispone: «I Comuni,  le  Province  e  le  Citta'  metropolitane  sono
titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con
legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.». 
    La  previsione  che  l'autorizzazione  alla  realizzazione  delle
strutture sociosanitarie indicate  dalla  disposizione  regionale  in
esame venga disposta direttamente  dalla  regione,  anche  dove  tali
strutture siano realizzate  da  soggetti  privati,  lede  chiaramente
l'autonomia del Comune in materia di  organizzazione  e  governo  del
territorio. 
    Cio' in particolare perche' in tale materia priva  il  Comune  di
una competenza, quale quella al rilascio dei permessi  di  costruire,
attribuitagli direttamente dalla  legge  statale,  in  cio'  violando
l'art. 118, comma 2, Cost. E  perche',  comunque,  contrasta  con  il
principio di sussidiarieta' e di adeguatezza  di  cui  all'art.  118,
comma  1.  Il  carattere  specifico  delle  tre  descritte  strutture
sanitarie, che debbono essere necessariamente di  dimensioni  ridotte
proprio per assicurare  ai  particolari  malati  che  ne  abbisognano
un'assistenza, insieme,  di  tipo  «protetto»  e  «non  ospedaliero»,
comporta infatti che le valutazioni edilizie e urbanistiche  relative
ad esse possano e debbano essere  espresse  dall'ente  ordinariamente
competente, cioe' dal comune; e che l'intervento  regionale  possa  e
debba, quindi, limitarsi al coordinamento delle decisioni del  comune
con la programmazione sanitaria regionale, attraverso la verifica  di
compatibilita' sanitaria prevista dalla norma statale  interposta  di
cui all'art. 8-ter, comma 3, decreto legislativo n. 502/1992 citato. 
Articolo 63, comma 7. 
    L'art. 63 comma 7, inserendo il comma 1-bis all'art. 45-ter della
legge regionale n. 11 del 2004, dispone che «La Giunta regionale,  in
attuazione all'accordo con il Ministero dei beni  e  delle  attivita'
culturali e del turismo (MIBACT) di cui agli articoli 135, comma 1  e
143, comma 2, del Codice,  nelle  more  dell'approvazione  del  piano
paesaggistico di cui al comma  1,  procede  alla  ricognizione  degli
immobili e delle aree dichiarate di  notevole  interesse  pubblico  e
delle aree tutelate per legge di cui, rispettivamente, agli  articoli
136 e 142, comma 1, del Codice». 
    La  disposizione,  prevedendo  un   procedimento   differente   e
incompatibile  rispetto  alle  norme  interposte   costituite   dagli
articoli 135 e 143 del  codice  dei  beni  culturali,  relativi  alla
pianificazione   paesaggistica   congiunta   Stato-Regione,    appare
costituzionalmente illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, comma 2, lettera s), Cost. 
    L'art.  143,  comma  1,  del  codice  dei  beni  culturali,   con
disciplina  dettagliata  dispone   che   l'elaborazione   del   piano
paesaggistico comprende, tra l'altro, la ricognizione degli  immobili
e delle aree dichiarati  di  notevole  interesse  pubblico  ai  sensi
dell'art. 136 e all'art. 142 del codice. 
    L'art. 135, comma 1 del codice, a sua volta, prevede che  «1.  Lo
Stato  e  le  regioni  assicurano  che  tutto   il   territorio   sia
adeguatamente conosciuto, salvaguardato,  pianificato  e  gestito  in
ragione dei differenti valori espressi dai diversi  contesti  che  lo
costituiscono. A  tale  fine  le  regioni  sottopongono  a  specifica
normativa d'uso il territorio mediante  piani  paesaggistici,  ovvero
piani  urbanistico-territoriali  con  specifica  considerazione   dei
valori  paesaggistici,  entrambi  di   seguito   denominati:   "piani
paesaggistici".  L'elaborazione  dei  piani   paesaggistici   avviene
congiuntamente  tra  Ministero  e  regioni,  limitatamente  ai   beni
paesaggistici di cui all'art. 143, comma 1,  lettere  b),  c)  e  d),
nelle forme previste dal medesimo art. 143». 
    La disposizione regionale, nel prevedere  la  ricognizione  degli
immobili e delle aree  ad  opera  della  Giunta  Regionale  viola  la
competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del
paesaggio. 
    La previsione impugnata comporta l'impossibilita' di applicare la
norma statale appena riportata. Le aree di cui agli artt. 136 e  142,
comma 1 del codice sono infatti,  rispettivamente,  le  «bellezze  di
insieme» e le aree tutelate per legge (derivanti  dal  c.d.  «decreto
Galasso»). Tali beni sono esattamente  quelli  contemplati  dall'art.
143, comma 1, lettere b) e c)  come  oggetto  minimo  necessario  del
piano paesaggistico; ma sono anche quelle in  ordine  alle  quali  il
riportato art. 135, comma 1 del codice prevede  inderogabilmente  che
la pianificazione avvenga in modo congiunto tra Ministero e regioni. 
    Questa previsione e' tale da escludere che la regione, neppure in
via temporanea, possa operare  unilateralmente  la  ricognizione  dei
beni e delle aree in questione. D'altra parte,  la  garanzia  che  il
piano paesaggistico congiunto sia approvato, e che quindi la fase  di
pendenza  dell'approvazione  del  piano  stesso  non   si   protragga
indefinitamente, sta nella previsione  dell'art.  143,  comma  2  del
codice, ove si  prescrive  che  l'accordo  tra  Ministero  e  regione
indichi il termine entro il quale il piano dovra' essere elaborato  e
approvato; e che, decorso inutilmente  tale  termine,  il  piano  sia
approvato dal Ministro in via sostitutiva. Il comma 9  dell'art.  143
prevede, poi, comunque, una misura di salvaguardia ex lege che  opera
non appena il piano sia adottato dalla regione. 
    La  disposizione  impugnata,  quindi,  sovrapponendosi  in   modo
incompatibile  con  le  richiamate  disposizioni  statali,  viola  la
competenza  legislativa  esclusiva  dello   Stato   in   materia   di
procedimenti di adozione dei piani paesaggistici. 
    Va ribadito, al riguardo, che la competenza a dettare le norme di
legge che disciplinano la materia della tutela del  paesaggio  spetta
in via esclusiva allo Stato. L'intervento delle regioni in materia di
beni culturali e,  in  particolare,  per  quanto  qui  interessa,  di
paesaggio, e', invece, di livello esclusivamente amministrativo  (nel
caso in esame, di tipo pianificatorio). 
    Ne', infine, la suddetta disposizione appare  in  linea  con  gli
obiettivi e le attivita' concordate e sottoscritte con il  Protocollo
di Intesa tra il Ministero e la Regione Veneto e  con  il  successivo
disciplinare del 2009 richiamati dalla disposizione. 
    Invero, l'accordo del 15 luglio 2009 sottoscritto tra il Ministro
dei beni culturali e il Presidente della regione (che si produce  con
il presente ricorso) non prevedeva  (ne'  avrebbe  potuto  prevedere)
alcuna competenza legislativa regionale in proposito, e  nell'art.  6
si limitava a prevedere, conformemente a  quanto  previsto  dall'art.
143  del  codice,  che  "«Le  parti   si   impegnano   a   completare
l'elaborazione congiunta  del  Piano,  ai  sensi  dell'art.  143  del
Codice, come sostituito dall'art. 2, comma 1, lettera p) del  decreto
legislativo 26 marzo 2008, n. 63, entro il 31 dicembre 2010. 
    Il Piano sara' oggetto di accordo tra il Ministero e la  Regione,
ai sensi dell'art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il quale  ne
stabilira' il termine di approvazione con provvedimento regionale e i
presupposti, le modalita' e i tempi per la revisione ...  Qualora  il
Piano non sia approvato entro il termine stabilito dall'accordo  esso
e' approvato in via sostitutiva con decreto del Ministro per i beni e
le attivita' culturali, sentito il  Ministro  dell'ambiente  e  della
tutela del territorio e del mare». 
    Inoltre, l'art. 10, comma 3 dell'accordo prevedeva  che  «...  le
parti si impegnano sin d'ora a completare  la  ricognizione  indicata
all'art. 143, comma 1, lettere b) e c), del Codice, ivi  compresa  la
determinazione  delle  specifiche  prescrizioni   d'uso   intese   ad
assicurare, rispettivamente, la conservazione dei valori  espressi  e
la  conservazione  dei  caratteri  distintivi  di   dette   aree   e,
compatibilmente con essi, la valorizzazione,  entro  il  31  dicembre
2009.». 
    Come si vede, non era contemplato alcun intervento  «sostitutivo»
o «interinale» della regione, neanche relativamente ai  beni  di  cui
all'art. 143, comma 1,  lettere  b)  e  c),  oggetto,  invece,  della
disposizione qui impugnata, che dunque, contrariamente  a  quanto  in
essa dichiarato, non potrebbe trovare titolo neppure nell'accordo del
2009. 
    Articolo 68, comma 1 (Norme semplificative per  la  realizzazione
degli interventi di sicurezza idraulica) dispone che «Gli  interventi
di manutenzione degli alvei, delle opere idrauliche in  alveo,  delle
sponde e degli argini dei  corsi  d'acqua,  compresi  gli  interventi
sulla  vegetazione  ripariale  arborea  e  arbustiva,  finalizzati  a
garantire il libero deflusso  delle  acque  possono  essere  eseguiti
senza necessita' di autorizzazione paesaggistica, ai sensi  dell'art.
149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 "Codice  dei  beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 6 luglio
2002, n. 137 e  successive  modificazioni"  e  della  valutazione  di
incidenza ai sensi del decreto  del  Presidente  della  Repubblica  8
settembre  1997,  n.  357  "Regolamento  recante   attuazione   della
direttiva  92/43/CEE  relativa  alla  conservazione   degli   habitat
naturali  e  seminaturali,  nonche'  della  flora   e   della   fauna
selvatiche" previa verifica della sussistenza di tali presupposti  ai
sensi delle disposizioni statali e regionali.». 
    L'art.  68,  disponendo  la  sottrazione  di  alcuni   interventi
all'autorizzazione    paesaggistica,    appare     costituzionalmente
illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, comma secondo, lettere m) e s), Cost. 
    Ai sensi delle disposizioni costituzionali  ora  citate,  attuate
dagli artt. 146 e 149 del codice dei beni culturali, compete solo  al
legislatore statale individuare le  tipologie  di  interventi  per  i
quali l'autorizzazione paesaggistica non e' richiesta. 
    In tal senso codesta ecc.ma Corte costituzionale  ha  piu'  volte
stabilito che «Chiare ed inequivocabili sono, quindi, le esigenze  di
uniformita' della disciplina in tema di autorizzazione  paesaggistica
su tutto il territorio nazionale, tanto da giustificare -  grazie  al
citato parametro (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) - che si
impongano anche all'autonomia legislativa delle Regioni» e  che  «non
e' consentito alla Regione autonoma di individuare altre tipologie di
interventi realizzabili in assenza di  autorizzazione  paesaggistica,
al di fuori  di  quelli  tassativamente  individuati  dall'art.  149,
lettera a), del decreto legislativo n. 42 del 2004» (sentenze n.  207
del 2012 e n. 238 del 2013). 
    In linea con quanto esposto l'art. 12, comma 2, del decreto-legge
31 maggio 2014, n. 83, come modificato dall'art.  25,  comma  2,  del
decreto-legge 12  settembre  2014,  n.  133,  ha  previsto  che,  con
regolamento da emanare ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23
agosto 1988, n. 400, su  proposta  del  Ministro  dei  beni  e  delle
attivita'  culturali  e  del  turismo,  d'intesa  con  la  Conferenza
unificata, sono individuate le tipologie di interventi  per  i  quali
l'autorizzazione paesaggistica non e' richiesta, ai  sensi  dell'art.
149 del codice, sia nell'ambito degli  interventi  di  lieve  entita'
gia' compresi nell'allegato 1 al regolamento  di  cui  all'art.  146,
comma 9,  quarto  periodo,  del  Codice  dei  beni  culturali  e  del
paesaggio (d.P.R. n. 139  del  2010),  sia  mediante  definizione  di
ulteriori interventi minori privi di rilevanza paesaggistica. 
    La disposizione impugnata si pone chiaramente  in  contrasto  con
questi principi perche' per il solo territorio della  regione  Veneto
crea un'area di franchigia dall'autorizzazione paesaggistica per  gli
interventi in  essa  contemplati.  Inoltre,  la  disposizione  appare
generica, allorche' non specifica quali siano i «presupposti» la  cui
verifica (non si dice da chi operata) renderebbe  operante  l'esonero
dall'autorizzazione  prevista  dalle  norme  statali.  E',   infatti,
formula del tutto inconsistente quella secondo cui gli interventi  in
questione  dovrebbero  essere  «finalizzati  a  garantire  il  libero
deflusso delle acque», giacche',  rendendo  rilevante  solo  il  fine
dell'intervento,  ne  trascura   completamente   le   caratteristiche
tecniche e l'entita' materiale delle conseguenze. 
    Costituendo    le    norme,    anche    statali,    di    esonero
dall'autorizzazione paesaggistica delle eccezioni al principio di cui
all'art.  146  del  codice,  esse  debbono  essere,   al   contrario,
tassativamente formulate e restrittivamente interpretate.  E'  invece
evidente come una disposizione dalla formula  ampia  e  indeterminata
come quella in  commento  si  traduce  nell'abrogazione  in  concreto
dell'autorizzazione per una intera classe di interventi  identificati
soltanto in base al loro presunto fine. 
    Evidente e', quindi, la sovrapposizione del legislatore regionale
alla competenza statale esclusiva esercitata con gli artt. 146 e  149
del codice. 
    Ne'  la  disposizione  puo'   assumere   un   piu'   concreto   e
giustificabile contenuto tramite il rinvio da essa fatto all'art. 10,
legge n. 137/2002 e al d.P.R. n. 357/1997. 
    La legge n. 137/2002, nell'art. 10, conteneva soltanto  la  norma
di delegazione in base alla quale fu  adottato  il  codice  dei  beni
culturali, e non dettava quindi alcuna previsione specifica in  punto
di esonero dalle autorizzazioni paesaggistiche; tanto  meno  per  gli
interventi sugli alvei e le sponde dei corsi d'acqua. 
    Il d.P.R. n. 357/1997, peraltro  richiamato  in  modo  del  tutto
generico nella disposizione qui impugnata, reca il «Regolamento  (di)
attuazione della  direttiva  92/43/CEE  relativa  alla  conservazione
degli habitat naturali e seminaturali, nonche' della  flora  e  della
fauna selvatiche». Esso, quindi, attiene strettamente alla competenza
statale esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, sicche' proprio
il richiamo ad esso conferma che non vi e' titolo per  un  intervento
legislativo regionale in materia. 
    L'art. 79 al  comma  1,  dispone  che  «In  considerazione  della
gravita' della crisi economica che ha colpito il  sistema  produttivo
regionale veneto, al fine di non creare disparita' di trattamento con
le imprese di cui all'art. 55, comma  3,  della  legge  regionale  27
aprile 2015, n. 6 "Legge  di  stabilita'  regionale  per  l'esercizio
2015", non si procede  alla  revoca  dell'agevolazione  nei  casi  di
violazione delle lettere b), c) e d), del comma 1  dell'art.  20  del
decreto del Presidente  della  Repubblica  28  luglio  2000,  n.  314
"Regolamento per  la  semplificazione  del  procedimento  recante  la
disciplina  del  procedimento  relativo  agli  interventi  a   favore
dell'imprenditoria femminile" di cui alla abrogata legge 25  febbraio
1992, n. 215 "Azioni positive per  l'imprenditoria  femminile".  Sono
fatti  salvi  i  provvedimenti  amministrativi  gia'  adottati,   con
esclusione  degli  accertamenti  e  delle  procedure  di  riscossione
coattiva non ancora concluse alla data di  entrata  in  vigore  della
presente legge». 
    La disposizione  appare  costituzionalmente  illegittima  per  il
seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, comma 1 e comma 2, lettera e) Cost. 
    L'art. 79 in esame lede i principi di tutela della concorrenza  e
perequazione delle risorse finanziarie di cui all'art. 117, comma  2,
lettera  e)  Cost.,  nonche'  il  principio  di   conformita'   della
legislazione agli obblighi di fonte europea, specificamente sotto  il
profilo del divieto di aiuti di Stato non compatibili in  quanto  non
giustificati dalla  loro  concreta  utilita'  per  fini  di  sviluppo
economico. 
    Con d.P.R. del 28 luglio 2000,  n.  314,  e'  stato  adottato  il
«Regolamento per  la  semplificazione  del  procedimento  recante  la
disciplina  del  procedimento  relativo  agli  interventi  a   favore
dell'imprenditoria femminile (n.  54,  allegato  1,  della  legge  n.
59/1997». Il Regolamento ha profondamente innovato le modalita' e  le
procedure per la concessione dei contributi previsti dalla  legge  n.
215/1992 «Azioni positive per l'imprenditoria femminile», rispetto al
precedente Regolamento di attuazione (D.M. n. 706/1996). 
    Il d.P.R. n. 314/2000, all'art. 12  «Integrazione  delle  risorse
statali da parte delle regioni» stabilisce  che  le  regioni  possono
disporre un'integrazione delle quote di risorse  statali,  assegnando
fondi propri  al  finanziamento  delle  iniziative  ammissibili  alle
agevolazioni. 
    Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del decreto del Presidente  della
Repubblica suddetto,  qualora  vi  sia  stata  un'integrazione  delle
risorse da  parte  della  regione,  la  domanda  di  ammissione  alle
agevolazioni e' trasmessa dalla ditta richiedente alla regione  nella
quale l'iniziativa avra' luogo. 
    Il successivo comma 3 recita «La regione .... provvede  all'esame
delle domande  verificandone,  in  particolare,  la  completezza,  il
contenuto, la sussistenza dei requisiti stabiliti dalla legge  e  dal
presente regolamento,  nonche'  la  validita'  tecnica,  economica  e
finanziaria del progetto e,  ove  le  caratteristiche  di  questo  lo
consentano, il relativo impatto ambientale». 
    Infine, ai sensi del comma 9, art. 13 del d.P.R. n. 314/2000,  la
regione, inserite in graduatoria  le  domande  ritenute  ammissibili,
approva  le  suddette  graduatorie  e  provvede  a  trasmetterle   al
Ministero, il quale a sua volta provvedera' a pubblicarle. 
    Nell'ipotesi  sopradescritta  rimane  in  capo  al  Ministero  la
funzione  di  emanazione  delle  norme   generali   regolatrici   del
procedimento di ripartizione delle risorse e quella di  coordinamento
operativo dell'attivita'  delle  regioni,  nonche'  la  pubblicazione
delle graduatorie  da  queste  approvate,  che  non  comporta  alcuna
valutazione di merito sulle stesse. 
    La procedura agevolativa viene invece gestita dalle Regioni,  ivi
compresa l'adozione dell'eventuale provvedimento di revoca. 
    Ai sensi del successivo art. 20, comma 1, infatti, «le regioni  o
le province autonome, ovvero il Ministero nel caso in cui le  regioni
non abbiano provveduto all'integrazione delle risorse statali di  cui
all'art. 12, comma 1, provvedono alla revoca totale o parziale  delle
agevolazioni concesse ... », in particolare nei casi di cui: 
        alla lettera b) qualora «i controlli  effettuati  evidenziano
l'insussistenza delle condizioni previste dalla legge o dal  presente
regolamento,  ovvero  il  venir  meno  delle   condizioni   stabilite
dall'art. 2, comma  1,  lettera  a),  della  legge,  in  ordine  alla
presenza femminile nell'impresa»; 
        alla lettera c) qualora  «i  beni  oggetto  dell'agevolazione
risultano essere stati ceduti, alienati o distratti, nei cinque  anni
successivi alla data di concessione dell'agevolazione»; alla  lettera
d) qualora «gli elementi che  hanno  determinato  l'attribuzione  del
punteggio  per  l'inserimento  in  graduatoria  subiscano  variazioni
superiori ai limiti di scostamento indicati con  il  decreto  di  cui
all'art. 10, comma 2». 
    Cio' premesso, la norma regionale in esame introduce  una  deroga
alla disciplina statale stabilendo in sostanza che «in considerazione
della gravita' della  crisi  economica  che  ha  colpito  il  sistema
produttivo regionale veneto», nei casi descritti non si procede  alla
revoca e al recupero dell'aiuto,  o  al  recupero  degli  aiuti  gia'
revocati. 
    Tale previsione, nella sua assoluta genericita', nel  merito  non
giustifica il mancato recupero di risorse  pubbliche  erogate  e  non
utilizzate nel rispetto della normativa vigente  e  pertanto,  appare
arbitraria  e  priva  di  un  fondamento  giustificativo  che   possa
sorreggere la differenziazione normativa introdotta  a  favore  delle
sole imprese venete ammesse ai benefici in questione. La revoca,  nei
casi sopra indicati, e' un provvedimento vincolato che non  puo'  mai
essere omesso; mentre il recupero conseguente alla revoca puo' essere
escluso solo attraverso eccezionali valutazioni caso  per  caso,  che
documentino l'impossibilita' concreta di procedervi. 
    Le decisioni di revoca non possono mai essere omesse, e quelle di
recupero non possono non  essere  adottate  per  decisione  regionale
basata sulla sola «considerazione della gravita' della crisi  che  ha
colpito il sistema produttivo regionale veneto».  Come  e'  evidente,
cio' determinerebbe una ingiustificata disparita' di trattamento  nei
confronti  delle  altre  imprese  presenti  su  tutto  il  territorio
nazionale, parimenti coinvolte nella grave crisi economica e  per  le
quali occorre garantire il medesimo trattamento  nel  rispetto  delle
regole  della  concorrenza.  Concorrenza  che,  gia'  inevitabilmente
alterata dalla concessione di  queste  forme  di  aiuto  (considerate
compatibili  solo  perche'  finalizzate  all'obiettivo  di  interesse
generale di  promuovere  l'imprenditoria  femminile),  impone  che  i
presupposti per le  revoche  siano  uguali  in  tutto  il  territorio
nazionale, e che i relativi provvedimenti siano adottati in  tutti  i
casi. 
    Quanto allo specifico profilo dell'esclusione  dei  recuperi,  va
poi  osservato  che  la  concessione  degli  aiuti  in  questione  ha
comportato un rilevante esborso di risorse pubbliche,  che  avrebbero
potuto essere utilizzate da altre imprese presenti nella  regione  ed
invece rimaste escluse dai finanziamenti.  Tali  risorse,  una  volta
accertatone il cattivo uso da parte del beneficiario, debbono  quindi
essere recuperate per essere rimesse a disposizione delle  iniziative
di sostegno allo sviluppo economico, e per ristabilire condizioni  di
corretta concorrenza, indubbiamente  alterate  dall'erogazione  degli
aiuti a soggetti che li  hanno  utilizzati  in  modo  difforme  dalla
finalita' che li aveva giustificati. 
    La giustificazione della  norma  impugnata  non  potrebbe  essere
ravvisata  neppure  nel  riferimento  che  essa   fa   alle   ipotesi
contemplate dall'art. 55, comma 3 della legge  regionale  n.  6/2015;
ipotesi che imporrebbero, stando alla  norma  impugnata,  di  evitare
disparita' di trattamento. 
    In realta', l'art. 55, comma 3, legge regionale  n.  6/2015  cit.
dispone che «3. Nei casi di violazione dell'art. 20, comma 1, lettere
b) e c) del decreto del Presidente della Repubblica 28  luglio  2000,
n. 314 "Regolamento per la semplificazione del  procedimento  recante
la disciplina del procedimento  relativo  agli  interventi  a  favore
dell'imprenditoria femminile", si procede alla revoca parziale  delle
agevolazioni in relazione al periodo di  mancato  utilizzo  dei  beni
nella  destinazione  originaria  o  di  mancato  mantenimento   delle
condizioni che hanno determinato la concessione del beneficio.  Dalla
data di entrata in vigore della presente legge non producono  effetti
gli eventuali provvedimenti di revoca totale gia' adottati.». 
    Non  si  vede  come  una  disposizione  (anche  ammesso  che  sia
costituzionalmente legittima) che prevede la  revoca  parziale  degli
aiuti non utilizzati  in  conformita',  cioe'  non  estesa  anche  al
periodo in cui vi fu utilizzazione conforme, possa giustificare  «per
parita' di trattamento» la rinuncia totale alle revoche e ai recuperi
in tali casi. 
    Inoltre, sotto altro aspetto, omettere le revoche  o  i  recuperi
degli aiuti esclusivamente in considerazione della crisi economica  e
produttiva, comporterebbe trasformare le misure in questione in aiuti
di tipo diverso: da aiuti allo sviluppo dell'imprenditoria  femminile
(di cui peraltro si e' costatata la mancata utilizzazione  specifica,
tanto che si sono verificati i presupposti per la loro revoca),  essi
si trasformerebbero in aiuti «di mero  funzionamento»  finalizzati  a
consentire alle imprese di ridurre i  costi  asseritamente  derivanti
dalla crisi economica e produttiva. Come tali, essi dovrebbero essere
previamente sottoposti alla valutazione della Commissione europea  ai
sensi dell'art. 107 TFUE. Evidente  e'  quindi,  anche  sotto  questo
profilo, il  contrasto  della  norma  impugnata  con  i  principi  di
concorrenza e di conformita' alle regole europee. 
    Quanto sopra per il contenuto di merito della norma impugnata. 
    Ma prima ancora essa e' viziata da incompetenza. 
    Come  si  e'  visto,  il  d.P.R.  n.  314/2000  costituisce   una
manifestazione della competenza legislativa  statale  in  materia  di
tutela della  concorrenza,  perche'  mira  a  determinare  condizioni
uniformi nel territorio nazionale quanto all'erogazione  degli  aiuti
pubblici in questione, che attengono ad  una  finalita'  di  politica
economica di rilevanza certo nazionale  e  non  locale,  come  e'  la
promozione dell'imprenditoria femminile. 
    E' quindi precluso in via  di  principio  alle  regioni  adottare
norme legislative nella medesima materia. L'intervento delle  regioni
puo' attuarsi soltanto al sopra descritto livello amministrativo,  di
concreta istruttoria sulla concessione e sulla  revoca  dei  benefici
previsti dalla legge statale, e cio', inoltre, sul presupposto che la
regione abbia in parte finanziato gli interventi  stessi,  integrando
le risorse messe a disposizione dal bilancio statale. 
    La  mera  circostanza  che   le   regioni   si   siano   inserite
nell'intervento statale di sostegno,  integrandone  le  risorse,  non
puo' di per se' valere a fondare una competenza legislativa regionale
in materia, essendo evidente che l'intervento rimane di iniziativa  e
di competenza statale. 
    Da ultima rendicontazione fornita  dai  competenti  uffici  della
Regione  Veneto,  risulta  pari  a  €  5.888.151,667,  e  non   a   €
4.500.000,00, come riportato nel comma 2, dell'art. 79 in esame. 
    L'art.  95,   recante   «Prime   disposizioni   in   materia   di
pianificazione regionale delle attivita' di cava» nel dettare  alcune
disposizioni per la disciplina delle attivita' estrattive,  al  comma
2, lettera a) regola le attivita' di lavorazione e stoccaggio  presso
cave non estinte dei materiali di scavo derivanti dalla realizzazione
di opere  pubbliche,  prevedendo  che  queste  ultime  attivita'  sia
consentite soltanto per materiali qualificabili come  sotto  prodotti
ai sensi della normativa vigente (L.R. n. 30/2016). 
    La disposizione prevede infatti che  «2.  E'  consentito,  previa
autorizzazione della struttura regionale  competente  in  materia  di
attivita' estrattive, lo stoccaggio e la lavorazione, nelle cave  non
estinte, di  materiali  da  scavo  costituiti  da  sabbie  e  ghiaie,
provenienti dalla realizzazione delle opere di cui al  comma  1,  con
almeno 500.000 metri cubi di materiale di risulta, ove sussistano  le
seguenti condizioni: 
        a) i materiali sono qualificabili come sottoprodotti ai sensi
della vigente normativa; 
        b) i materiali conferiti sono equiparabili per  tipologia  al
materiale costituente il giacimento coltivato nella cava.». 
    Al comma 4 vieta per un periodo di  9  anni  l'autorizzazione  di
nuove cave di sabbia e ghiaia, prevedendo che «4. Per un  periodo  di
nove (9) anni non puo' essere autorizzata l'apertura di nuove cave di
sabbia e ghiaia». 
    Al comma 5, consente l'ampliamento delle cave di sabbia e  ghiaia
non estinte, ma lo  condiziona  alla  presenza  di  taluni  requisiti
essenziali, tra cui un limite massimo determinato a priori dei volumi
complessivamente assentiti ai singoli operatori richiedenti  (lettera
a), e una soglia massima prestabilita (di validita' almeno triennale)
dei volumi estraibili in ampliamento per ciascuna Provincia  (lettera
d). Si prevede infatti che «5. Sono consentiti i soli ampliamenti  di
cave di sabbia e ghiaia, non ancora integralmente  estinte  ai  sensi
dell'art. 25 della legge regionale 7 settembre  1982,  n.  44,  quali
aree di cui all'art. 5, lettera a) della legge regionale 7  settembre
1982, n. 44, nel caso ricorrano le seguenti condizioni: 
        a) l'impresa richiedente sia titolare  di  autorizzazioni  di
cava per sabbia e ghiaia che, nel complesso, non presentino un volume
residuo estraibile superiore a cinquecentomila metri cubi; 
        (omissis); 
        d) ai fini di cui all'art. 5, lettere b)  e  c)  della  legge
regionale  7  settembre  1982,  n.  44,  i  volumi   autorizzati   in
ampliamento  ai  sensi   del   presente   comma   5,   non   superino
complessivamente 8,5 milioni  di  metri  cubi  cosi'  suddivisi:  4,5
milioni di metri cubi per il territorio della provincia di Verona e 4
milioni di metri cubi per il territorio della provincia  di  Vicenza.
Tali previsioni,  ai  sensi  dell'art.  7  della  legge  regionale  7
settembre 1982, n. 44, sono novennali e soggette a  revisione  almeno
ogni  tre  anni  e  comunque  ogni  qualvolta  se  ne  determini   la
necessita'». 
    La  previsione  dell'art.   95,   commi   2,   4   e   5   appare
costituzionalmente illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione  dell'articolo  117,  secondo  comma,  lettera  s)  Cost.;
violazione degli articoli 3 e  41,  Cost.;  violazione  dell'articolo
117, comma 2, Cost. 
    La disposizione regionale di cui al comma  2  incide  nell'ambito
della disciplina del trattamento dei sottoprodotti previsto dall'art.
184-bis del  decreto  legislativo  n.  152/2006,  che  rientra  nella
competenza esclusiva statale in materia di ambiente. 
    Lo smaltimento delle terre e rocce da scavo e' infatti materia di
legislazione statale  esclusiva,  ai  sensi  dell'art.  117,  secondo
comma, lettera s), Cost. 
    Tale principio e' stato reiteratamente affermato da una serie  di
recenti sentenze di codesta Corte Costituzionale cn. 232 del 2014; n.
70 del 2014; n. 300 del 2013), ove si  legge:  «la  disciplina  delle
procedure per lo smaltimento delle rocce e terre da scavo attiene  al
trattamento dei residui di produzione ed percio' da  ascriversi  alla
"tutela dell'ambiente", affidata in  via  esclusiva  alle  competenze
dello Stato, affinche' siano garantiti livelli di tutela uniformi  su
tutto il territorio nazionale». Pertanto, «in materia di  smaltimento
delle rocce e terre da scavo non residua alcuna competenza -  neppure
di carattere suppletivo e cedevole - in  capo  alle  Regioni  e  alle
Province autonome in vista della semplificazione delle  procedure  da
applicarsi ai cantieri di piccole dimensioni» (sentenza  n.  232  del
2014). 
    La  disposizione  impugnata  contrasta  chiaramente  con   questi
principi, allorche' sul solo presupposto che il materiale provenga da
cantieri di opere pubbliche, sia classificabile come sottoprodotto  e
non come rifiuto, e presenti  tipologia  equiparabile  al  giacimento
coltivato nella cava, consente senz'altro lo stoccaggio in  cava  del
suddetto materiale. 
    La disciplina statale, di competenza esclusiva ex art. 117, comma
2, lettera s) Cost.,  in  materia  di  «sottoprodotti»  da  scavo  e'
contenuta negli artt. 183,  comma  1,  lettera  qq),  e  184-bis  del
decreto legislativo n. 152  del  2006  e  nel  decreto  del  Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio  e  del  mare  10  agosto
2012, n. 161 (Regolamento recante  la  disciplina  dell'utilizzazione
delle terre e rocce da scavo). 
    In particolare quest'ultimo  decreto  stabilisce,  come  principi
fondamentali, che i materiali e le  rocce  da  scavo  debbano  essere
estratti, utilizzati, riutilizzati esclusivamente in attuazione di un
apposito «piano di utilizzo» (art. 5 decreto  cit.),  e  che  ne  sia
sempre garantita la caratterizzazione, cioe' l'«attivita' svolta  per
accertare la sussistenza dei requisiti  di  qualita'  ambientale  dei
materiali da scavo in conformita' a quanto stabilito dagli allegati 1
e 2» (art. 1, lettera g), decreto cit.). 
    Queste regole valgono anche per i materiali da scavo  costituenti
sottoprodotti. L'art. 4 del decreto stabilisce infatti nei commi 1  e
2 che «1. In applicazione dell'art. 184-bis,  comma  1,  del  decreto
legislativo n.  152  del  2006  e  successive  modificazioni,  e'  un
sottoprodotto di cui all'art. 183, comma 1, lettera qq), del medesimo
decreto legislativo, il materiale da scavo che risponde  ai  seguenti
requisiti: 
        a) il materiale da scavo e' generato durante la realizzazione
di un'opera, di cui costituisce parte  integrante,  e  il  cui  scopo
primario non e' la produzione di tale materiale; 
        b) il materiale da scavo e'  utilizzato,  in  conformita'  al
Piano di Utilizzo: 
          1) nel corso dell'esecuzione della stessa opera, nel  quale
e' stato generato, o di un'opera diversa,  per  la  realizzazione  di
reinterri,  riempimenti,  rimodellazioni,   rilevati,   ripascimenti,
interventi a mare, miglioramenti fondiari o viari oppure altre  forme
di ripristini e miglioramenti ambientali; 
          2) in processi produttivi, in sostituzione di materiali  di
cava; 
        c) il materiale da  scavo  e'  idoneo  ad  essere  utilizzato
direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento  diverso  dalla
normale pratica industriale secondo i criteri di cui all'allegato 3; 
        d) il materiale  da  scavo,  per  le  modalita'  di  utilizzo
specifico di cui alla precedente lettera b), soddisfa i requisiti  di
qualita' ambientale di cui all'allegato 4. 
    2. La sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 del presente
art. e' comprovata dal proponente tramite il Piano di Utilizzo.». 
    E'  evidente  come   la   disposizione   impugnata,   consentendo
indiscriminatamente la destinazione  dei  sottoprodotti  di  scavo  a
stoccaggio in cava, sulla sola base del generico accertamento  che  i
materiali siano «equiparabili»  a  quelli  coltivati  nella  cava  di
stoccaggio, vanifica del tutto la previsione del piano di utilizzo; e
in  particolare  la  garanzia  che  i  sottoprodotti  in   questione,
attraverso la opportuna caratterizzazione, presentino i requisiti  di
qualita' ambientale di cui all'allegato 4 del decreto citato. 
    Lo stoccaggio a tempo indeterminato in cave  solo  «equiparabili»
vanifica poi la  previsione  del  decreto  secondo  cui,  decorso  il
termine di utilizzo previsto dal piano di utilizzo, il  materiale  di
scavo perde la qualifica di sottoprodotto e  viene  qualificato  come
rifiuto, con applicazione della  pertinente  legislazione  di  tutela
ambientale (art. 5, commi 6, 7, 8, 9 decreto cit.). 
    E' quindi evidente come con la disposizione impugnata la  regione
si sia sovrapposta alla  disciplina  statale  esclusiva  in  tema  di
stoccaggio dei sottoprodotti da scavo. 
    Il comma 4 della legge regionale vieta per un periodo di  9  anni
l'autorizzazione di nuove cave di sabbia e ghiaia. 
    La norma disponendo un'aprioristica ed indiscriminata sospensione
del rilascio dei suindicati titoli minerari, impedisce per  un  lasso
di tempo non trascurabile  sia  l'avvio  di  nuove  iniziative  nello
specifico settore estrattivo, sia l'esperimento  delle  procedure  di
valutazione di compatibilita' correlate a progetti  futuri,  previste
dall'art. 7 del decreto legislativo n. 152/2006. 
    In tal modo si determina un effetto sostanzialmente  interdittivo
rispetto alle attivita' di coltivazione  di  nuove  cave  di  inerti,
eludendosi percio' l'obbligo di  ponderazione  di  ciascuna  proposta
progettuale,  anche  in   relazione   alle   rispettive   alternative
praticabili, imposto dalla normativa in  tema  di  VIA  riconducibile
alla potesta' legislativa esclusiva statale ex  art.  117,  comma  2,
lettera s), Cost. 
    Al riguardo codesta ecc.ma Corte costituzionale ha stabilito  che
«(...) le discipline relative alla valutazione di impatto  ambientale
debbono essere ascritte alla materia della "tutela dell'ambiente"  in
ordine alla quale lo Stato ha competenza  legislativa  esclusiva,  ai
sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenze n. 67
e n. 1 del 2010,  n.  234  e  n.  225  del  2009)»  (Corte  cost.  n.
199/2014). 
    La Corte ha gia' ritenuto l'illegittimita'  costituzionale,  alla
luce del dettato dell'art. 117, comma  2  Cost.  e  della  disciplina
comunitaria  in  materia  ambientale,   di   norme   regionali,   che
disponevano dell'efficacia di titoli minerari in assenza di procedure
di valutazione di impatto ambientale, in base all'assunto che  «(...)
una tale disciplina potrebbe "mantenere  inalterato  lo  status  quo,
sostanzialmente   sine   die,   superando   qualsiasi   esigenza   di
'rimodulare'  i  provvedimenti  autorizzatoci   in   funzione   delle
modifiche  subite,  nel  tempo,  dal  territorio   e   dall'ambiente"
(sentenza n. 67 del  2010),  e  sarebbe,  quindi,  "atta  ad  eludere
l'osservanza nell'esercizio dell'attivita' di cava della normativa di
VIA" (sentenza n. 246 del 2013) dettata  dallo  Stato  in  un  ambito
riservato alla sua competenza legislativa esclusiva.». 
    Inoltre, l'art. 95, comma 4, contrasta con il combinato  disposto
degli artt. 3,  comma  1  e  41  della  Costituzione,  in  quanto  le
limitazioni di carattere normativo all'iniziativa economica  privata,
ancorche' astrattamente legittime, debbono  perseguire  finalita'  di
utilita' sociale, sicche' esse non possono che  essere  informate  ai
principi di ragionevolezza e proporzionalita'. 
    Cio' premesso, il generalizzato novennale divieto di rilascio dei
provvedimenti, sebbene astrattamente volto ad  un  fine  di  utilita'
sociale, quali gli scopi di tutela dell'ambiente (enumerati al  comma
1, dell'art. 95, legge regionale  n.  30/2016),  non  puo'  ritenersi
conforme a ragionevolezza e proporzionalita', in quanto impedisce  in
limine l'esame delle ricadute ambientali e delle specifiche soluzioni
tecniche relative  alle  singole  proposte  progettuali,  precludendo
l'assunzione di misure proporzionate rispetto al  concreto  contenuto
di ciascuna istanza di coltivazione mineraria. 
    Codesta Corte costituzionale, investita della questione  relativa
all'asserita violazione  del  diritto  alla  liberta'  di  iniziativa
economica,  «ha  costantemente  negato  che  sia  "configurabile  una
lesione della liberta' d'iniziativa economica allorche' l'apposizione
di  limiti  di  ordine  generale   al   suo   esercizio   corrisponda
all'utilita' sociale", purche', per  un  verso,  l'individuazione  di
quest'ultima "non appaia arbitraria  e  che,  per  altro  verso,  gli
interventi  del  legislatore  non  la  perseguano   mediante   misure
palesemente incongrue" (da ultimo, sentenza n. 167 del 2009).»  (cfr.
Corte cost. sent. n. 152/2010). 
    Tale e' il caso di specie, in cui la norma regionale, da un  lato
sostanzialmente vieta nuove iniziative economiche nel  settore  delle
cave; e dall'altro, rendendo correlativamente dominante la  posizione
degli attuali titolari di autorizzazione alla coltivazione  di  cave,
arreca a questi un beneficio sproporzionato  e  irragionevole,  anche
rispetto alla stessa enunciata finalita' di protezione dell'ambiente:
lo  sfruttamento  esasperato   delle   cave   esistenti,   non   piu'
bilanciatile  dall'apertura  di  nuove  cave  e  dalla   chiusura   e
ricomposizione delle cave preesistenti, non puo' infatti che tradursi
in un maggior pregiudizio complessivo all'ambiente stesso, di cui non
e' piu' programmabile un equilibrato utilizzo. 
    Il comma 5 della legge regionale  in  epigrafe,  pur  consentendo
l'ampliamento  delle  cave  di  sabbia  e  ghiaia  non  estinte,   lo
condiziona alla presenza di taluni requisiti essenziali, ivi compresi
un limite massimo determinato a priori  dei  volumi  complessivamente
assentiti ai singoli operatori  richiedenti  (comma  5,  lettera  a),
nonche'  una  soglia  massima  prestabilita  (di   validita'   almeno
triennale)  dei  volumi  estraibili  in  ampliamento   per   ciascuna
Provincia (comma 5, lettera d). 
    Le   previste   limitazioni   all'esercizio   delle    iniziative
imprenditoriali, concernenti l'ampliamento di  preesistenti  cave  di
inerti, derivanti dall'applicazione dell'art. 95, legge regionale  n.
30/2016, collidono con la competenza esclusiva statale ex  art.  117,
comma 2 Cost. in materia di tutela della concorrenza; e comunque  con
la competenza statale esclusiva in materia di tutela dell'ambiente ex
art. 117, comma 2, lettera s). 
    Com'e'  noto,  infatti,  la  giurisprudenza   costituzionale   ha
affermato che la nozione di concorrenza «riflette quella operante  in
ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori  che
a titolo principale  incidono  sulla  concorrenza,  quali  le  misure
legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i
comportamenti delle imprese che incidono  negativamente  sull'assetto
concorrenziale dei mercati e che  ne  disciplinano  le  modalita'  di
controllo,  eventualmente  anche  di  sanzione;  b)  sia  le   misure
legislative di promozione, che  mirano  ad  aprire  un  mercato  o  a
consolidarne l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo o
eliminando   vincoli   al   libero   esplicarsi    della    capacita'
imprenditoriale e della competizione tra imprese,  rimuovendo  cioe',
in generale, i vincoli alle modalita' di  esercizio  delle  attivita'
economiche (sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160/2009, n.  430  e
n. 401 del 2007)». 
    Anche in questo caso, si assiste ad una irragionevole limitazione
quantitativa e temporale dell'attivita' economica  di  cava  che  non
puo' di per se' rispondere  ad  una  effettiva  finalita'  di  tutela
dell'ambiente;  tale  tutela,  nel  sistema  delineato  dal   decreto
legislativo n. 152/2006, puo' infatti attuarsi  solo  attraverso  una
gestione pianificata  delle  risorse  ambientali,  e  non  attraverso
rigide predeterminazioni legislative delle modalita' di tale gestione
che,  in  quanto  non  precedute  da  specifica  istruttoria  e   non
modificabili se non attraverso un nuovo iter legislativo, in caso  di
impatto negativo delle  misure  sono  suscettibili  di  recare  danni
irreversibili all'ambiente. 
    Non potendo giustificarsi  con  finalita'  di  tutela  ambientale
(comunque rimesse alla legislazione statale esclusiva), le previsioni
dell'impugnato  comma  5  si  risolvono   quindi   in   irragionevoli
restrizioni  della  liberta'  di   iniziativa   economica   e   della
concorrenza. 
    L'art. 83 (Limitazione degli interventi  sul  fondo  di  garanzia
costituito presso  il  Mediocredito  Centrale  Spa)  dispone  (enfasi
aggiunta): «1. Al fine  di  facilitare  l'accesso  al  credito  delle
piccole e medie imprese (PMI),  tenuto  conto  dell'operativita'  del
fondo regionale di garanzia di cui all'art. 2, comma 1,  lettera  c),
della legge regionale 13 agosto 2004, n. 19 "Interventi di ingegneria
finanziaria per il sostegno e  lo  sviluppo  delle  piccole  e  medie
imprese", la Giunta regionale e' autorizzata ad avviare le  procedure
per limitare nel territorio della Regione del Veneto l'intervento del
fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale  Spa  di
cui all'art. 2, comma 100, lettera a), della legge 23 dicembre  1996,
n. 662 "Misure di razionalizzazione  della  finanza  pubblica",  alla
controgaranzia delle garanzie emesse dal predetto fondo  regionale  e
di quelle emesse dai consorzi di garanzia fidi, aventi sede operativa
in Veneto ai sensi dell'art. 18, comma 1,  lettera  r),  del  decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112 "Conferimento di funzioni e compiti
amministrativi dello Stato alle  regioni  ed  agli  enti  locali,  in
attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59". 
    2. La limitazione dell'intervento del fondo di garanzia di cui al
comma 1 e' richiesta in via sperimentale per un  periodo  massimo  di
anni due e per operazioni di importo fino a 100.000,00 euro e  potra'
conformarsi  alle  evoluzioni   della   normativa   che   regola   il
funzionamento del fondo di garanzia di cui  all'art.  2,  comma  100,
lettera a), della legge n. 662 del 1996.». 
    La norma regionale, come si vede, autorizza la  giunta  regionale
ad avviare le procedure per limitare  nel  territorio  della  regione
Veneto l'intervento del fondo di cui all'art. 2, comma  100,  lettera
a), della legge 23 dicembre  1996,  n.  662  (secondo  cui  «2.  100.
Nell'ambito  delle  risorse  di  cui  al  comma  99,  escluse  quelle
derivanti dalla riprogrammazione delle risorse di cui ai commi  96  e
97, il CIPE puo' destinare: a) una somma fino ad un  massimo  di  400
miliardi di lire  per  il  finanziamento  di  un  fondo  di  garanzia
costituito  presso  il  Mediocredito  Centrale  Spa  allo  scopo   di
assicurare una  parziale  assicurazione  ai  crediti  concessi  dagli
istituti di credito a favore delle piccole  e  medie  imprese»)  alla
sola  controgaranzia  delle  garanzie  emesse  dal  fondo   regionale
costituito ai sensi dell'art. 2, comma 1,  lettera  c),  della  legge
regionale 13 agosto 2004, n. 19  e  di  quelle  emesse  dai  consorzi
garanzia fidi, aventi sede operativa in Veneto,  ai  sensi  dell'art.
18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31  marzo  1998,  n.
112. 
    Tale ultima  disposizione  prevede,  invero,  che  la  Conferenza
Unificata di cui all'art. 8  del  decreto  legislativo  n.  281/1997,
possa individuare con apposita delibera, tenuto conto  dell'esistenza
di fondi regionali di garanzia, le  regioni  sul  cui  territorio  il
fondo limita il proprio intervento alla controgaranzia  dei  predetti
fondi regionali e dei consorzi di garanzia  collettiva  fidi  di  cui
all'art. 155, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 1993,  n.
385. 
    I commi 4 e  seguenti  dell'art.  155  cit.  cosi'  descrivono  i
consorzi di garanzia collettiva fidi o «Confidi»: 
    «4.  I  confidi,  anche  di  secondo  grado,  sono  iscritti   in
un'apposita sezione dell'elenco  previsto  dall'art.  106,  comma  1.
L'iscrizione  nella  sezione  non  abilita  a  effettuare  le   altre
operazioni riservate agli intermediari finanziari iscritti nel citato
elenco. A essi non si  applica  il  titolo  V  del  presente  decreto
legislativo. 
    4-bis. Il Ministro dell'economia  e  delle  finanze,  sentita  la
Banca d'Italia, determina i criteri oggettivi, riferibili  al  volume
di attivita' finanziaria e ai mezzi patrimoniali, in  base  ai  quali
sono individuati i confidi che sono tenuti  a  chiedere  l'iscrizione
nell'elenco  speciale  previsto  dall'art.  107.  La  Banca  d'Italia
stabilisce, con proprio provvedimento, gli elementi  da  prendere  in
considerazione per il calcolo del volume di attivita'  finanziaria  e
dei mezzi  patrimoniali.  Per  l'iscrizione  nell'elenco  speciale  i
confidi devono adottare una delle forme societarie previste dall'art.
106, comma 3. 
    4-ter. I confidi iscritti nell'elenco speciale esercitano in  via
prevalente l'attivita' di garanzia collettiva dei fidi. 
    4-quater.  I  confidi  iscritti  nell'elenco   speciale   possono
svolgere, prevalentemente nei confronti delle imprese  consorziate  o
socie, le seguenti attivita': 
        a) prestazione  di  garanzie  a  favore  dell'amministrazione
finanziaria dello Stato, al  fine  dell'esecuzione  dei  rimborsi  di
imposte alle imprese consorziate o socie; 
        b) gestione,  ai  sensi  dell'art.  47,  comma  2,  di  fondi
pubblici di agevolazione; 
        c) stipula, ai sensi dell'art. 47, comma 3, di contratti  con
le banche assegnatarie di fondi pubblici di garanzia per disciplinare
i rapporti con le imprese consorziate o socie, al fine di facilitarne
la fruizione.». 
    Vi e' dunque una situazione  di  concorrenza  nel  mercato  delle
garanzie  fidi  tra  il  Fondo  di  garanzia  istituito   presso   il
Mediocredito centrale e i Confidi. (1) 
    Le  indicazioni  procedurali  per  l'adozione  della   menzionata
deliberazione  da  parte  della  Conferenza  Unificata   sono   state
individuate nella seduta del 16 gennaio 2001 con l'atto di repertorio
n. 486 allo scopo  di  assicurare,  tra  l'altro,  omogeneita'  nella
valutazione dei sistemi di  garanzia  operanti  a  livello  locale  e
parita' di trattamento tra le PMI operanti sul territorio nazionale. 
    L'art. 2 del citato atto della  Conferenza  Unificata  stabilisce
che la regione interessata presenti apposita richiesta  correlata  da
una relazione tecnica descrittiva delle caratteristiche  del  sistema
di garanzia operante  sul  proprio  territorio,  sulla  cui  base  la
Conferenza valuta l'adozione della deliberazione di cui all'art.  18,
comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. 
    La previsione autorizzativa di cui al comma 1 dell'art. 83  della
legge regionale in esame, nella parte in cui circoscrive l'intervento
in controgaranzia del Fondo di  Garanzia  del  Mediocredito  Centrale
alle sole garanzie rilasciate dai Confidi aventi  sede  operativa  in
Veneto appare illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, comma 1, della Costituzione; articolo 3
e articolo 120, comma 1, articolo 117, comma 2, lettera e) Cost. 
    Con numerose pronunce la Autorita' garante  della  Concorrenza  e
del  Mercato,  in  casi  analoghi,  ha  evidenziato  le   conseguenze
anticoncorrenziali derivanti dalla previsione per legge e/o per  atto
amministrativo attuativo  di  disposizioni  di  legge  regionale,  di
vincoli  a  carattere  territoriale  imposti  ai  Confidi   ai   fini
dell'accesso a contributi pubblici (AS732 del 19 luglio  2010,  AS920
del 20 marzo 2012, AS 1090 del 28 ottobre 2013; da ultimo AS1190  del
18 maggio 2015 in Bollettino AGCM n. 17 del 18 maggio  2015,  ove  si
legge: «La richiesta che il  numero  minimo  di  imprese  consorziate
necessario per partecipare  all'attribuzione  dei  fondi  abbia  sede
legale e/o unita' locali nella provincia di Padova,  invece,  rischia
di contrastare il naturale e efficiente processo  di  aggregazione  a
livello nazionale impedendo a un confidi efficiente, che pero'  operi
prevalentemente in un diverso ambito territoriale e  che  quindi  non
disponga di  500  imprese  consorziate  aventi  unita'  operative  in
provincia di Padova, di partecipare alla ripartizione dei fondi. Tale
requisito  potrebbe  al  contrario  favorire  una  compartimentazione
addirittura provinciale recando un grave problema concorrenziale. 
    L'Autorita' ritiene, pertanto, che la deliberazione della  Giunta
n. 206/2014 e l'Avviso Pubblico della CCIAA di Padova  integrino  una
violazione dei principi a tutela della concorrenza  nella  misura  in
cui contemplano limiti all'accesso ai fondi basati  su  requisiti  di
natura  regolamentare,  finanziaria  e  geografica  che  appaiono  in
contrasto con l'art. 1, comma 55, legge  27  dicembre  2013,  n.  147
(Legge di stabilita'  2014)  e  consentono  ai  confidi  vigilati  di
beneficiare di un ingiustificato vantaggio concorrenziale, vietato ai
sensi degli artt. 49, 56 e 106 del TFUE».). 
    Piu' precisamente, con riguardo al requisito  della  sede  legale
nella regione, l'Autorita' ha espresso una  valutazione  negativa  in
termini di impatto sulla  concorrenza  nel  mercato  di  riferimento,
limitando tale requisito, di fatto, l'accesso al  mercato  geografico
di riferimento di Confidi nuovi o attivi su altri territori. 
    Tale  valutazione  negativa  e'  ritenuta  parimenti  applicabile
all'ipotesi in cui il requisito territoriale riguardi, come nel  caso
di specie, la sede operativa posto  che  essa  rappresenta  il  luogo
deputato o stabilmente utilizzato per  l'accentramento  dei  rapporti
interni e con i terzi in vista del compimento degli  affari  e  della
propulsione   dell'attivita'   del   Confidi   e   dunque   la   sede
commercialmente piu' attiva. 
    Permarebbe, infatti, anche in quest'ultima ipotesi  l'assenza  di
giustificazione e l'idoneita' a  produrre  una  compartimentazione  a
livello di mercato dei Confidi limitata agli ambiti regionali.  Nelle
dette pronunce l'Autorita' oltre a  porre  l'accento  sul  potenziale
pregiudizio  alla  concorrenza  di  tali  requisiti  territoriali  ne
evidenzia  il  contrasto  con   l'ordinamento   comunitario   e,   in
particolare, con gli obiettivi di liberalizzazione  perseguiti  dagli
articoli 56 e  49  106  del  TFUE  disciplinanti  rispettivamente  la
liberta' di stabilimento  e  libera  prestazione  di  servizi,  e  la
rimozione delle  posizioni  di  esclusiva  o,  comunque,  di  diritti
speciali in capo alle imprese,  come  i  Confidi,  incaricate  di  un
servizio di interesse economico  generale,  ma  non  necessarie  allo
svolgimento della loro missione. 
    E' con riferimento a tale questione che la norma appare,  allora,
come  chiarito  nelle  citate  delibere   dell'Autorita'   antitrust,
incostituzionale  per  contrasto  con  l'art.  117,  comma  1,  della
Costituzione che, com'e'  noto,  impone  il  rispetto  da  parte  del
legislatore  statale  e  di  quello  regionale  dei  vincoli   appena
richiamati,  derivanti  dall'ordinamento  comunitario  nonche'  degli
obblighi internazionali. 
    Piu'  in  generale,  poi,  codesta   Corte   costituzionale   con
riferimento a discriminazioni tra imprese effettuate sulla base di un
mero  elemento  di  localizzazione  territoriale,  ha   ripetutamente
ritenuto il contrasto delle medesime con il principio di  uguaglianza
di cui all'art. 3 Cost., nonche' con la previsione di cui l'art. 120,
comma 1, Cost. secondo cui la Regione non puo' adottare provvedimenti
che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone
e delle cose tra le regioni ne' limitare l'esercizio del  diritto  al
lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. 
    Da  tale  ultimo  principio,  piu'  volte  ritenuto   applicabile
all'esercizio di attivita'  professionali  ed  economiche,  discende,
secondo la Corte, il divieto per i legislatori regionali di frapporre
barriere di carattere protezionistico alla prestazione,  nel  proprio
ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte
di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio  nazionale,  in
difetto di una giustificazione ragionevole. E' evidente che le  norme
qui  in  esame  realizzano  una  ingiustificata  discriminazione  fra
imprese sulla base di un elemento territoriale che contrasta  con  il
principio  di  libera  concorrenza   di   cui   all'art.   41   della
Costituzione. 
    L'applicazione del limite territoriale determina  un  trattamento
differenziato ratione loci a danno dei soggetti non  localizzati  nel
territorio regionale, in violazione del limite generale del  rispetto
della Costituzione nonche' degli obblighi internazionali. 
    Inoltre,  viola  il  principio  di  parita'  di  trattamento   di
situazioni  identiche  e  della  uniformita'  di  disciplina   e   di
trattamento nei confronti  degli  operatori  economici  su  tutto  il
territorio nazionale. 
    Infine, in  punto  di  competenza,  le  disposizioni  contestate,
introducendo  criteri  preferenziali  per  le  imprese  presenti  nel
territorio regionale, invadono la  competenza  esclusiva  statale  in
tema di tutela della concorrenza ex art. 117,  comma  2,  lettera  e)
della Costituzione.  Preferenze  territoriali  nell'erogazione  dello
specifico aiuto pubblico costituito dalla controgaranzia del Fondo di
garanzia presso il Mediocredito  centrale  si  traducono  infatti  in
forme di compartimentazione dei mercati, cioe' in norme di  immediato
impatto anticoncorrenziale, che  solo  al  legislatore  statale,  ove
ricorrano validi presupposti, puo' essere consentito di introdurre. 
    All'impatto  anticoncorrenziale  immediato  della  previsione  in
esame, che tocca il mercato  delle  garanzie  fidi,  discriminando  i
Confidi non aventi sede operativa  in  Veneto,  fa  poi  seguito,  si
osserva in chiusura, un non meno rilevante impatto anticoncorrenziale
mediato, consistente nell'indebito favore nell'accesso al credito che
viene cosi' riservato alle imprese operanti in Veneto. 
    Il fondo regionale ex lege regionale n. 19/2004 individua  tra  i
propri beneficiari le sole PMI le cui  iniziative  sono  ubicate  nel
territorio della regione Veneto.  A  loro  volta,  i  Confidi  veneti
prestano  normalmente,  per  statuto,  garanzie  solo  a  favore   di
consorziati stabiliti in tale territorio. 
    E' evidente come in tal modo l'indebito rafforzamento del sistema
delle garanzie localizzato nel  territorio  veneto  crei  una  doppia
distorsione concorrenziale tra le imprese interessate alle  garanzie.
Da un lato, esso favorisce nell'accesso al credito le imprese le  cui
iniziative sono ubicate nel  territorio  veneto  rispetto  alle  loro
concorrenti  che  abbiano  ubicato  iniziative  analoghe   in   altri
territori regionali, anche appartenenti al medesimo bacino economico.
Dall'altro, esso determina una potenziale distorsione nelle decisioni
delle  imprese  circa  la  localizzazione  delle  proprie  iniziative
economiche, incoraggiando la localizzazione  in  Veneto  a  discapito
della localizzazione in altri territori,  cosi'  deformando  mediante
l'intervento pubblico le dinamiche allocative di mercato. 
    Anche  sotto  questo  profilo,  appaiono  dunque  nette  sia   la
violazione del principio sostanziale di concorrenza,  sia,  comunque,
l'invasione della competenza legislativa  esclusiva  dello  Stato  in
materia di concorrenza. 
    L'art. 111 della legge regionale in esame dispone in  materia  di
impianti  energetici  e  delle  condizioni  per  l'autorizzazione  di
impianti energetici a biomassa, a biogas e  gas  di  discarica  e  di
processi di depurazione. 
    Esso prevede: «1. Al fine di contemperare il ricorso  all'uso  di
fonti energetiche rinnovabili con le esigenze di tutela della  salute
umana, di protezione dell'ambiente e  di  tutela  del  paesaggio,  di
contenimento del consumo di suolo,  di  preservazione  delle  risorse
naturalistiche, relativamente agli impianti  energetici  a  biomassa,
agli impianti energetici a biogas e gas di discarica e di processi di
depurazione di potenzialita' uguale o superiore a 999 kW elettrici si
applicano le disposizioni di cui al presente articolo. 
    2. Tutti i  manufatti  che  costituiscono  gli  impianti  per  la
produzione di energia  alimentati  da  biogas  e  da  biomasse  quali
digestore, vasca di caricamento delle biomasse, vasca  di  stoccaggio
dell'effluente/concimaia, impianti di  combustione  o  gassificazione
della biomassa per la cogenerazione di energia  elettrica  e  calore,
devono essere collocati ad una distanza pari a: 
        a) per gli impianti sopra i 1.000 kW elettrici di potenza: 
          1) distanza minima reciproca rispetto alle residenze civili
sparse: 150 metri; 
          2) distanza minima reciproca rispetto alle residenze civili
concentrate (centri abitati): 300 metri; 
        b) per gli impianti sopra i 3.000 kW elettrici di potenza: 
          1) distanza minima reciproca rispetto alle residenze civili
sparse: 300 metri; 
          2) distanza minima reciproca rispetto alle residenze civili
concentrate (centri abitati): 500 metri. 
    3.  I  manufatti  e  le  installazioni  relativi  agli   impianti
energetici di cui al  comma  1  possono  essere  autorizzati  qualora
conformi alle disposizioni stabilite per gli elementi costituenti  la
rete ecologica, come individuata e disciplinata nei piani urbanistici
approvati o adottati e in regime di salvaguardia ai  sensi  dell'art.
29 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 "Norme per il  governo
del territorio e in materia di paesaggio" e dell'art.  12,  comma  3,
del decreto del Presidente della Repubblica 6  giugno  2001,  n.  380
"Testo  unico  delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in
materia edilizia". Qualora la  realizzazione  di  tali  manufatti  ed
installazioni  sia  condizionata  all'esecuzione  di  interventi   di
mitigazione, compensazione e di riequilibrio ecologico e  ambientale,
l'esercizio degli impianti  e'  subordinato  al  completamento  degli
interventi  predetti,  ovvero  alla  presenza  di  adeguate  garanzie
finanziarie per la loro realizzazione. 
    4.  In  assenza  di  piani  urbanistici  con   individuazione   e
disciplina degli elementi della rete ecologica,  le  disposizioni  di
cui al comma 3 si  applicano  con  riferimento  alla  rete  ecologica
individuata e normata nei piani gerarchicamente sovraordinati. 
    5.  I  manufatti  e  le  installazioni  relativi  agli   impianti
energetici di cui al  comma  1  possono  essere  autorizzati  qualora
conformi alle prescrizioni contenute negli elaborati  di  valutazione
ambientale strategica e pareri connessi relativi al piano  energetico
regionale, al piano regionale di tutela e risanamento  dell'atmosfera
e, ove presenti, ai piani energetici comunali. 
    6. La Giunta regionale, al fine di  predisporre  le  linee  guida
regionali per l'autorizzazione degli  impianti  alimentati  da  fonti
rinnovabili, ai sensi del  decreto  ministeriale  10  settembre  2010
"Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da  fonti
rinnovabili", avvia attivita' di studio  per  definire  le  ulteriori
misure atte a garantire  il  rispetto  delle  esigenze  pubbliche  di
tutela, prevenzione e preservazione di cui al comma 1. 
    7. Sino all'entrata in vigore delle linee guida regionali di  cui
al comma 6, gli impianti  energetici  di  cui  al  comma  1,  e  loro
ampliamenti,   possono   essere   autorizzati   in   zona    agricola
esclusivamente qualora richiesti dall'imprenditore agricolo a  titolo
principale. 
    8. La Giunta regionale e' autorizzata  ad  emanare  provvedimenti
esplicativi  e  di  indirizzo  in   merito   all'applicazione   delle
disposizioni di cui al presente articolo. 
    9. Le norme di cui al presente articolo  non  si  applicano  agli
impianti di cui al comma  1  a  servizio  di  opere  pubbliche  o  di
pubblica utilita' e agli ampliamenti di quelli  gia'  esistenti  alla
data di entrata in vigore della presente legge». 
    Le disposizioni di tale norma della legge regionale in esame sono
riconducibili, ai sensi dell'art. 117, comma 3  Cost.  alla  potesta'
legislativa  concorrente  in  materia  di  «produzione,  trasporto  e
distribuzione nazionale dell'energia» i cui principi fondamentali  in
materia  di  regimi  autorizzativi   sono   contenuti   nel   decreto
legislativo 29 dicembre 2003,  n.  387  (attuazione  della  direttiva
2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia  elettrica  prodotta
da   fonti    energetiche    rinnovabili    nel    mercato    interno
dell'elettricita') e nel decreto legislativo  3  marzo  2011,  n.  28
(attuazione della  direttiva  2009/28/CE  sulla  promozione  dell'uso
dell'energia  da  fonti  rinnovabili)  (cfr.  Corte   costituzionale,
sentenza n. 275/2012). 
    I citati  regimi  abilitativi  e  i  relativi  procedimenti  sono
articolati nell'ambito delle linee guida nazionali di cui al  decreto
interministeriale 10 settembre 2010  (Gazzetta  Ufficiale  18  agosto
2010, n. 219) in attuazione del comma 10, dell'art.  12,  del  citato
decreto legislativo n. 387/2003 e richiamate nel decreto  legislativo
n. 28/2011. 
    L'art.  12,  comma  10,  del  decreto  legislativo  n.  387/2003,
stabilisce che tali  linee  guida  sono  volte,  in  particolare,  ad
assicurare un corretto inserimento degli impianti nel  paesaggio.  In
attuazione di tali linee guida, le  Regioni  possono  procedere  alla
indicazione  di  aree  e  siti  non  idonei  alla  installazione   di
specifiche tipologie di impianti. 
    Questo complesso normativo costituisce la  disciplina  interposta
che  funge  da  parametro  della  legittimita'  costituzionale  della
disposizione in commento. 
    Cio' premesso, l'art. 111, commi  2,  3,  4,  5,  7  e  8  appare
illegittimo per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, comma 3, Cost., relativo alla  potesta'
legislativa  concorrente  in  materia  di  «produzione,  trasporto  e
distribuzione nazionale dell'energia» e connesse norme interposte. 
    A) L'art. 111,  comma  2  stabilisce  le  distanze  minime  degli
impianti a biomassa, a biogas e gas di discarica  e  di  processi  di
depurazione (di potenza superiore ai 1.000 e ai  3.000  kW)  rispetto
alle residenze civili sparse e concentrate. 
    Tali disposizioni nella parte  in  cui  impongono  l'obbligo  del
rispetto di date distanze per la  localizzazione  degli  impianti  in
questione appaiono incostituzionali  per  contrasto  con  l'art.  12,
comma 10, del decreto legislativo n. 387/2003 e con il paragrafo  1.2
delle citate linee guida. 
    La normativa statale, come ha avuto modo  di  chiarire  la  Corte
costituzionale con la sentenza n. 13/2014, consente alle Regioni solo
di individuare «le aree e i siti non idonei»  alla  installazione  di
impianti di produzione di energia rinnovabile, ma non di porre limiti
generali, valevoli sull'intero  territorio  regionale,  specie  nella
forma  di  distanze  minime,  perche'  cio'  contrasterebbe  con   il
principio  fondamentale  di  derivazione   comunitaria   di   massima
diffusione delle fonti di energia rinnovabili. 
    La citata normativa statale implica sempre una  valutazione  caso
per caso delle condizioni di eventuale inidoneita', e non consente di
presumere iuris et de iure l'inidoneita' degli spazi  compresi  nelle
distanze minime fissate dal comma  2  qui  impugnato.  Si  rinvia  in
proposito, richiamandone i contenuti anche  nel  presente  paragrafo,
all'illustrazione dell'art. 17 delle linee guida che sara' fatta  nel
successivo paragrafo B). 
    E' vero che il comma 1 del medesimo art. 111 motiva l'adozione di
dette misure «Al fine di contemperare il  ricorso  all'uso  di  fonti
energetiche rinnovabili con le esigenze di tutela della salute umana,
...» e che il territorio della regione Veneto e'  compreso  nell'area
del Bacino padano dove piu' rilevanti sono i problemi di inquinamento
dovuti al frequente superamento dei limiti  delle  concentrazioni  di
polveri sottili, rispetto ai quali gli impianti in questione  possono
indubitabilmente contribuire. 
    Tuttavia,  proprio  perche'  l'interesse  pubblico  alla  massima
diffusione degli impianti a fonte rinnovabile puo' recedere di fronte
alle prospettate esigenze di tutela della salute,  cio'  conferma  la
necessita' di un motivato approccio «caso per  caso»,  non  potendosi
certo ritenere  ne'  che  il  formale  rispetto  di  talune  distanze
assicuri di per se'  dal  rischio  per  la  salute  pubblica  che  la
concentrazione di polveri sottili o  altri  fattori  critici  possono
comportare; ne' che il mancato rispetto di tali distanze  rappresenti
di per se' un rischio per la salute. 
    B) L'art. 111, commi 3, 4 e  5,  subordina  l'autorizzazione  dei
citati impianti alla loro conformita'  «alle  disposizioni  stabilite
per gli elementi costituenti la rete ecologica,  come  individuata  e
disciplinata nei piani urbanistici approvati o adottati e  in  regime
di salvaguardia» (comma 3, primo periodo) o, in assenza,  «nei  piani
gerarchicamente  sovraordinati»  (comma  4)   ovvero   ancora   «alle
prescrizioni contenute  negli  elaborati  di  valutazione  ambientale
strategica e pareri connessi relativi al piano energetico  regionale,
al piano regionale di tutela  e  risanamento  dell'atmosfera  e,  ove
presenti, ai piani energetici comunali» (comma 5). 
    Anche tali disposizioni, ad eccezione della parte del comma 5 che
fa  riferimento  alle  prescrizioni  contenute  negli  elaborati   di
valutazione ambientale strategica  e  pareri  connessi  relativi  «al
piano regionale di tutela  e  risanamento  dell'atmosfera»,  appaiono
incostituzionali alla  luce  dell'art.  12,  comma  10,  del  decreto
legislativo n. 387/2003 il quale stabilisce che in  attuazione  delle
linee guida (poi  emanate  con  il  citato  decreto  ministeriale  10
settembre 2010) le Regioni possono procedere alla indicazione di aree
e siti non idonei  alla  installazione  di  specifiche  tipologie  di
impianti. 
    Le disposizioni regionali in esame, ponendo  alla  localizzazione
degli impianti energetici da fonte rinnovabile  generici  vincoli  di
conformita' pianificatoria, eludono la normativa di  cui  alle  linee
guida le quali stabiliscono che le Regioni  e  le  Province  autonome
possono porre limitazioni e divieti in atti di tipo programmatorio  o
pianificatorio per l'installazione di specifiche tipologie e impianti
alimentati a fonti rinnovabili ed esclusivamente nell'ambito e con le
modalita' di cui al paragrafo 17 (punto 1.2). 
    Il paragrafo  17.1  stabilisce  che  l'individuazione  della  non
idoneita' dell'area  e'  operata  dalle  Regioni,  nel  rispetto  dei
criteri di cui all'allegato 3 delle medesime linee guida,  attraverso
un'apposita istruttoria  avente  ad  oggetto  la  ricognizione  delle
disposizioni volte alla  tutela  dell'ambiente,  del  paesaggio,  del
patrimonio  storico  e  artistico,  che  identificano  obiettivi   di
protezione non compatibili con l'insediamento, in  determinate  aree,
di  specifiche  tipologie  e/o  dimensioni  di  impianti,   i   quali
determinerebbero,  pertanto,  una  elevata  probabilita'   di   esito
negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione. 
    L'allegato 3 stabilisce  poi  che  l'area  non  idonea  non  puo'
riguardare   «porzioni   significative   del   territorio   o    zone
genericamente soggette a tutela dell'ambiente, del  paesaggio  e  del
patrimonio storico-artistico, ne'  tradursi  nell'identificazione  di
fasce di rispetto di dimensioni  non  giustificate  da  specifiche  e
motivate esigenze di tutela». Gli esiti di  tale  istruttoria  devono
contenere in relazione a ciascuna area individuata come non idonea la
descrizione delle incompatibilita' riscontrate con gli  obiettivi  di
protezione individuati nelle disposizioni esaminate. 
    In base al  paragrafo  17.2  le  Regioni  inoltre  conciliano  le
politiche di tutela dell'ambiente  e  del  paesaggio  con  quelle  di
sviluppo e valorizzazione delle energie rinnovabili  attraverso  atti
di programmazione congruenti con la quota  minima  di  produzione  di
energia da fonti rinnovabili loro assegnata (cd.  Burden  sharing  di
cui al decreto ministeriale 15 marzo 2012) assicurando  uno  sviluppo
equilibrato delle diverse fonti. Le aree  non  idonee  sono,  dunque,
individuate dalle Regioni nell'ambito dell'atto di programmazione con
cui  sono  definite  le  misure  e  gli   interventi   necessari   al
raggiungimento degli obiettivi di burden sharing. 
    La normativa regionale contenuta  nei  commi  in  esame  si  pone
dunque in contrasto con il descritto processo di individuazione delle
aree non idonee  che  pone  il  principio  di  contemperamento  delle
esigenze di tutela ambientale, paesaggistica, ecc. con  le  politiche
di raggiungimento degli obiettivi di  consumo  di  energia  da  fonte
rinnovabile sul consumo lordo. L'assenza  di  qualsivoglia  specifica
valutazione da parte della regione e' peraltro confermata dal comma 6
dell'art. 111 il quale prevede l'avvio di  attivita'  di  studio  per
definire le (ulteriori) misure atte a  garantire  il  rispetto  delle
esigenze pubbliche di tutela, prevenzione e preservazione. 
    E' evidente come il generico rinvio, per  di  piu'  senza  alcuna
indicazione di criteri, al  parametro  «aperto»  della  «conformita'»
degli impianti in questione  ai  diversi  livelli  di  programmazione
territoriale, essenzialmente urbanistica, menzionati  nei  commi  qui
impugnati,  si  traduca  nella  vanificazione   dello   specifico   e
vincolante procedimento di  individuazione  delle  aree  non  idonee,
appena descritto. 
    Proprio perche' in materia sussiste una fondamentale esigenza  di
contemperare l'interesse alla  massimizzazione  della  produzione  di
energia da fonte rinnovabile con il complesso  degli  interessi  alla
tutela del paesaggio, dell'ambiente, della salute, il procedimento di
individuazione delle aree non idonee, costituendo  la  sede  di  tale
contemperamento, si pone come  un  passaggio  imprescindibile;  e  le
disposizioni di  legge  e  delle  linee  guida  che  lo  disciplinano
costituiscono  principi  fondamentali  della   materia   «produzione,
trasporto e distribuzione nazionale  dell'energia»  di  cui  all'art.
117, comma 3, Cost. 
    Con riguardo al valore di norma interposta delle linee  guida  va
ricordato che codesta  Corte  costituzionale  ha  affermato  che,  in
ambito  tecnico  (qual'e'  quello   di   specie)   le   linee   guida
costituiscono  «il  completamento  del  principio   contenuto   nella
disposizione legislativa» e che in detto campo tecnico esse  «vengono
ad essere un corpo unico  con  la  disposizione  legislativa  che  li
prevede e che ad essi (gli atti  di  formazione  secondaria,  n.d.r.)
affida il compito di individuare le specifiche caratteristiche  della
fattispecie tecnica» (sentenza Corte cost. n. 11 del  2014).  In  tal
senso, i criteri tecnici per l'individuazione delle aree e  siti  non
idonei  alla  installazione  di   impianti   a   fonte   rinnovabile,
specificamente  delegati   alle   linee   guida,   rappresentano   il
completamento tecnico della normativa primaria  che  ad  esse  rinvia
(art. 12, comma 10, decreto legislativo n. 387 cit.). 
    In piu',  la  stessa  normativa  regionale  di  cui  al  comma  5
contrasta con il paragrafo 14.5 delle citate linee guida in  base  al
quale il superamento di eventuali limitazioni di  tipo  programmatico
contenute nel Piano Energetico regionale  o  delle  quote  minime  di
incremento dell'energia elettrica da fonti rinnovabili  non  preclude
di per se' l'avvio e la conclusione favorevole  del  procedimento  di
autorizzazione. 
    Cio' alla stregua del  principio  di  procedimentalizzazione  in,
base al quale e' nel procedimento  amministrativo  di  autorizzazione
che  devono  emergere  le  ragioni  ostative  alla  realizzazione  ed
esercizio degli impianti PER. 
    C)  L'art.  111,  comma  7,  della  legge  regionale  in   esame,
stabilisce  che  «Sino  all'entrata  in  vigore  delle  linee   guida
regionali di cui al comma 6, gli impianti energetici di cui al  comma
1, e loro ampliamenti, possono essere autorizzati  in  zona  agricola
esclusivamente qualora richiesti dall'imprenditore agricolo a  titolo
principale». Tale disposizione eccede la competenza della Regione  in
materia  di  «produzione.   Trasporto   e   distribuzione   nazionale
dell'energia» di cui all'art. 117, comma 3, della Costituzione e cio'
per contrasto con la normativa statale di  principio  in  materia  di
fonti rinnovabili. 
    La disposizione regionale  in  parola  contrasta  infatti  con  i
principi fondamentali  di  cui  all'art.  1,  comma  1,  del  decreto
legislativo n. 79/1999 secondo cui,  in  specifica  attuazione  della
Direttiva  96/92/CE  (anch'essa,  quindi,  violata  dal   legislatore
regionale), «Le attivita' di produzione, importazione,  esportazione,
acquisto e vendita di energia  elettrica  sono  libere  nel  rispetto
degli obblighi di servizio pubblico contenuti nelle disposizioni  del
presente decreto». 
    Tale  principio  implica  che  a  tale  attivita'  si  accede  in
condizioni di uguaglianza,  senza  discriminazioni  nelle  modalita',
condizioni e termini per il suo esercizio. La disposizione regionale,
dunque, risulta affetta da incostituzionalita'  nella  parte  in  cui
consente, contrariamente a quanto previsto dalla  normativa  statale,
soltanto a specifici soggetti (gli  imprenditori  agricoli  a  titolo
principale) di poter essere eventualmente autorizzati a  costruire  o
ampliare gli impianti in parola in zone agricole. 
    Tale disposizione contrasta  quindi  anche  con  l'art.  3  della
Costituzione ponendo una ingiustificata discriminazione tra  soggetti
che possono assumere l'iniziativa economica di produzione di  energia
da fonti rinnovabili. 
    D) Per tutte le considerazioni di cui ai paragrafi che precedono,
anche il comma  8  dell'art.  111  appare  incostituzionale,  in  via
derivata, laddove prevede che «La Giunta regionale e' autorizzata  ad
emanare  provvedimenti  esplicativi  e   di   indirizzo   in   merito
all'applicazione delle disposizioni di cui al presente art.». 
    L'art. 6, nei commi da  1  a  5  prevede:  «1.  E'  istituito  il
Servizio regionale di vigilanza. 
    2. La Giunta regionale, ai sensi dell'art. 2,  comma  2,  lettera
b), della legge regionale 31 dicembre 2012, n.  54  "legge  regionale
per l'ordinamento e le  attribuzioni  delle  strutture  della  Giunta
regionale in attuazione della legge regionale  statutaria  17  aprile
2012, n. 1 "Statuto del Veneto" individua  la  struttura  di  cui  al
comma 1 e ne determina le relative competenze. 
    3. In particolare spettano al Servizio regionale di vigilanza  le
attivita' di controllo e di vigilanza: 
        a) correlate alle funzioni non fondamentali  conferite  dalla
Regione alle province e alla Citta' metropolitana di Venezia, di  cui
all'art. 2, comma 1, della legge regionale 29 ottobre 2015, n. 19; 
        b) relative alla tutela e salvaguardia della fauna  selvatica
e all'attivita' di prelievo venatorio di cui alla legge  11  febbraio
1992, n. 157 "Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma
e per il prelievo venatorio" e alla legge regionale 9 dicembre  1993,
n. 50 "Norme per  la  protezione  della  fauna  selvatica  e  per  il
prelievo venatorio" nonche' della fauna ittica e  della  pesca  nelle
acque interne di cui alla legge  regionale  28  aprile  1998,  n.  19
"Norme per la tutela  delle  risorse  idrobiologiche  e  della  fauna
ittica e per la disciplina dell'esercizio  della  pesca  nelle  acque
interne e marittime interne della  Regione  Veneto"  ricadenti  nelle
funzioni non fondamentali conferite dalla  Regione  alle  province  e
alla Citta' metropolitana di Venezia, di  cui  all'art.  2,  comma  1
della legge regionale 29 ottobre 2015, n. 19; 
        c) relative alle competenze di cui all'art.  57  della  legge
regionale 31 ottobre 1980, n. 88 "Legge generale per  gli  interventi
nel settore primario". 
    4. Il personale addetto alle  attivita'  di  polizia  provinciale
correlate alle funzioni di cui al comma  3,  lettere  a)  e  b)  gia'
inserito, ai sensi dell'art. 9, comma 7,  della  legge  regionale  29
ottobre 2015, n. 19, nella dotazione organica delle province e  della
Citta' metropolitana di  Venezia  viene  trasferito  nella  dotazione
organica  della  Regione  e  assegnato  al  Servizio   regionale   di
vigilanza. 
    5. Al personale di  cui  al  comma  4  sono  garantite  tutte  le
indennita' e il trattamento economico gia' maturati ed  in  godimento
nell'Amministrazione di provenienza e sono conservate  le  qualifiche
di cui sono titolari.». 
    Il comma 5 prevede, come si vede, che al personale  addetto  alle
attivita' di polizia provinciale ricollocato presso la  Regione  sono
garantite  tutte  le  indennita'  e  il  trattamento  economico  gia'
maturati e in godimento e sono conservate le qualifiche  di  cui  era
gia' titolare. 
    La disposizione appare illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera h) Cost. 
    Il mantenimento delle qualifiche previste per il personale  della
polizia provinciale trasferito al servizio  regionale  di  vigilanza,
cosi'  come  disciplinato  dal  comma  in  esame  comporta  anche  il
mantenimento la qualifica di agente di polizia giudiziaria. 
    In tal modo, la norma invade la competenza statale  esclusiva  in
materia di «ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della  polizia
amministrativa locale» di cui all' art.  117,  comma  2,  lettera  h)
Cost. 
    Lo Stato ha infatti  esercitato  tale  competenza  esclusiva  nel
senso di escludere che il personale delle regioni possa rivestire  la
qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. 
    Cio' risulta dalla  legge  7  marzo  1986,  n.  65  (Legge-quadro
sull'ordinamento della polizia municipale), e in  particolare  l'art.
5, giusta il quale «1. Il personale che svolge  servizio  di  polizia
municipale, nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e  nei
limiti delle proprie attribuzioni, esercita anche: 
        a) funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine  la
qualita' di agente di polizia giudiziaria, riferita agli operatori, o
di ufficiale di polizia giudiziaria,  riferita  ai  responsabili  del
servizio o del Corpo e agli addetti al coordinamento e al  controllo,
ai sensi dell'art. 221, terzo comma, del codice di procedura  penale»
tenuto conto che il vigente ordinamento non contempla  che  personale
regionale  possa  svolgere  le  funzioni  di   polizia   giudiziaria,
rivestendo a tal fine la qualita' di agente di  polizia  giudiziaria,
cosi' come previsto per il personale che svolge servizio  di  polizia
municipale"; e dall'art. 57, comma 2, lettera b)  c.p.p.,  giusta  il
quale «sono agenti  di  polizia  giudiziaria:  b)  le  guardie  delle
province e dei comuni quando sono in servizio». 
    Nessuna di queste disposizioni menziona personale alle dipendenze
delle regioni. 
    La legge regionale, nel  riorganizzare  i  servizi  di  vigilanza
regionali anche mediante il  trasferimento  di  parti  del  personale
della polizia provinciale o municipale, non puo'  quindi  operare  in
modo da attribuire a tale personale, divenuto  a  tutti  gli  effetti
personale regionale, la  suddetta  qualifica  di  agente  di  polizia
giudiziaria. 
    D'altra parte, non vi e' dubbio che nella materia di legislazione
esclusiva in questione rientri anche l'attribuzione delle  qualifiche
di ufficiale e agente di polizia giudiziaria.  Il  possesso  di  tali
qualifiche e' infatti essenziale per lo svolgimento delle funzioni di
tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, sicche' l'attribuzione
di  tali  qualifiche  costituisce  parte  integrante  della  relativa
disciplina di fonte statale. 
    L'art. 20 dispone: «1.  All'art.  12  della  legge  regionale  28
novembre 2014, n. 37, dopo il comma 3 e' aggiunto il seguente: 
        "3-bis. Ai- fini del trattamento di quiescenza e previdenza i
dirigenti e dipendenti dell'Agenzia, mantengono l'iscrizione all'INPS
Gestione Dipendenti Pubblici - ex Gestione INPDAP - ex Cassa Pensioni
Dipendenti Enti Locali".». 
    La legge regionale n. 37/2014 ha istituito l'Agenzia  veneta  per
l'innovazione nel settore primario. 
    Ai sensi dell'art.  2  di  questa  legge,  «1.  L'Agenzia  svolge
attivita'  di  supporto  alla  Giunta  regionale  nell'ambito   delle
politiche  che  riguardano  i   settori   agricolo,   agroalimentare,
forestale e della pesca; inoltre svolge le seguenti funzioni: 
        a)  ricerca  applicata  e  sperimentazione   finalizzate   al
collaudo e alla diffusione  in  ambito  regionale  delle  innovazioni
tecnologiche e organizzative volte  a  migliorare  la  competitivita'
delle  imprese  e  delle  filiere   produttive,   la   sostenibilita'
ambientale, nei comparti agricolo, agroalimentare, forestale e  delle
pesca; 
        b) diffusione, supporto e trasferimento al sistema produttivo
delle innovazioni  tecnologiche,  organizzative,  di  processo  e  di
prodotto, ivi compresi i processi di valorizzazione e  certificazione
della qualita', nonche' di diversificazione delle attivita', volti  a
migliorare  la  competitivita'  delle  imprese  e  la  sostenibilita'
ambientale nei comparti, agricolo, agroalimentare, forestale e  della
pesca, anche tramite l'avvalimento di  strutture  produttive  private
rappresentative  delle  diverse  realta'  produttive  del  territorio
regionale; 
        c) salvaguardia  e  tutela  delle  biodiversita'  vegetali  e
animali di interesse agrario, naturalistico e ittico nonche' gestione
del demanio forestale regionale sulla base delle linee  di  indirizzo
approvate dalla Giunta regionale, sentita la  competente  commissione
consiliare; 
        c-bis) censire  il  patrimonio  ambientale  costituito  dalla
fauna selvatica, studiarne lo stato, l'evoluzione e i rapporti con le
altre componenti ambientali, anche in funzione della  predisposizione
del piano faunistico-venatorio regionale, ivi compresa la espressione
dei pareri tecnico-scientifici richiesti; 
        d) raccordo fra strutture di ricerca ed attivita'  didattiche
e sperimentali degli istituti  di  indirizzo  agrario,  presenti  sul
territorio regionale, al fine di trasferire e testare la  domanda  di
innovazione proveniente dagli operatori». 
    L'art.  12,  nei  primi  tre  commi,  prevede  che  «1.  Con   la
deliberazione con cui la Giunta regionale impartisce le direttive cui
l'Agenzia deve attenersi nello svolgimento delle proprie attivita'  e
gli indirizzi in materia di organizzazione,  e'  definito  il  quadro
generale dell'assetto strutturale e organizzativo dell'Agenzia. 
    2. Il direttore, entro sessanta  giorni  dalla  approvazione  del
provvedimento di cui al comma 1, provvede ad adottare il  regolamento
di organizzazione e a definire l'assetto  strutturale  e  propone  la
dotazione organica, nei limiti definiti dalla Giunta regionale. 
    3. Ai dirigenti e dipendenti dell'Agenzia si applica il Contratto
collettivo nazionale  di  lavoro  delle  aziende  municipalizzate  di
igiene ambientale, nel  rispetto  dei  vincoli  e  delle  limitazioni
contenute nell'art. 13». 
    L'art. 20 qui impugnato, come  visto,  aggiunge  il  comma  3-bis
all'art. 12 della legge regionale n. 37 del 2014  disponendo  che  ai
fini del  trattamento  di  quiescenza  e  previdenza  i  dirigenti  e
dipendenti dell'Agenzia, mantengano  l'iscrizione  all'INPS  Gestione
Dipendenti  Pubblici  -  ex  Gestione  INPDAP  -  ex  Cassa  Pensioni
Dipendenti Enti Locali. 
    La disposizione appare illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, comma 2, lettera o) Cost. 
    La materia della previdenza sociale e' riservata alla  competenza
esclusiva dello Stato  ed  e'  quindi  regolamentata  soltanto  dalla
normativa nazionale. 
    La disposizione in esame  incide  direttamente  sulla  disciplina
della  previdenza  sociale  poiche'  prevede  che  il  personale   in
questione, benche' inquadrato nella contrattazione  collettiva  delle
aziende municipalizzate di igiene ambientale,  cioe'  come  personale
soggetto all'iscrizione alla gestione ordinaria Inps, mantenga invece
l'iscrizione alla speciale gestione Inps per i  dipendenti  pubblici,
gia' iscritti  all'Inpdap  e  alla  Cassa  pensioni  dipendenti  enti
locali. 
    In tal modo la norma impugnata  dispone  in  modo  diretto  sulle
modalita'  di  iscrizione  previdenziale  e  sugli   oneri   che   il
trattamento previdenziale di tali dipendenti  comporta  sul  bilancio
dell'Inps. 
    Evidente e', di conseguenza, l'invasione della competenza statale
esclusiva ex art. 117, comma 2, lettera o) Cost. 
Articolo 29, commi 3 e 4 
    Queste disposizioni prevedono: 
    «3. Al fine  del  conseguimento  dell'obiettivo  di  contenimento
della spesa di cui all'art. 2, comma  71,  della  legge  23  dicembre
2009, n. 191 "Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria  2010)"  ed  all'art.  17,
comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011,  n.  98,  convertito  dalla
legge  15  luglio  2011,  n.  111  "Disposizioni   urgenti   per   la
stabilizzazione finanziaria", con effetto  dal  1°  gennaio  2017  in
presenza di riorganizzazioni dell'area  tecnico-amministrativa  degli
enti del Servizio  sanitario  regionale  derivanti  dall'applicazione
della legge regionale 25 ottobre 2016, n. 19  "Istituzione  dell'ente
di governante della sanita' regionale veneta denominato 'Azienda  per
il governo della sanita' della Regione del Veneto  -  Azienda  Zero'.
Disposizioni per la  individuazione  dei  nuovi  ambiti  territoriali
delle Aziende ULSS" i fondi per  la  contrattazione  integrativa  del
personale   dirigenziale   dei   ruoli   professionale,   tecnico   e
amministrativo sono permanentemente ridotti di  un  importo  pari  ai
risparmi  derivanti  dalla  diminuzione  delle  strutture   complesse
operata in attuazione di detti processi  di  riorganizzazione,  anche
laddove non abbiano comportato riduzione del personale in servizio. 
    4. I  risparmi  conseguiti  dagli  enti  del  Servizio  sanitario
regionale ai sensi del comma 3  possono  essere  destinati  in  quota
parte dalla Regione alla costituzione e integrazione dei fondi per la
contrattazione integrativa del personale dell'azienda  costituita  ai
sensi dell'art. 1 della legge regionale 25 ottobre 2016,  n.  19,  in
relazione alla  dotazione  organica  dell'azienda  predetta  e  delle
funzioni alla stessa trasferite dagli  enti  del  Servizio  sanitario
regionale.». 
    In sostanza, il comma 3 dell'art. 29 prevede che in  presenza  di
riorganizzazioni  dell'area  tecnico-amministrativa  degli  enti  del
Servizio sanitario regionale derivanti dall'istituzione dell'«Azienda
per il governo della sanita' della Regione del Veneto - Azienda Zero»
i fondi per la contrattazione integrativa del personale  dirigenziale
dei   ruoli   professionale,   tecnico    e    amministrativo    sono
permanentemente ridotti di un  importo  pari  ai  risparmi  derivanti
dalla diminuzione delle strutture complesse operata in attuazione  di
detti  processi  di  riorganizzazione,  anche  laddove  non   abbiano
comportato riduzione del personale in servizio. 
    Il successivo comma 4 dispone che  i  risparmi  conseguiti  dagli
enti del Servizio sanitario regionale, ai sensi del precedente comma,
possono  essere  destinati  in  quota  parte   dalla   Regione   alla
costituzione  e  integrazione  dei  fondi   per   la   contrattazione
integrativa del personale della predetta Azienda  in  relazione  alla
dotazione organica e delle funzioni alla stessa trasferite dagli enti
del Servizio sanitario regionale. 
    La disposizione in esame appare illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, terzo comma e secondo comma, lettera l)
Cost. 
    Le suddette previsioni non recano espressamente il riferimento al
limite  percentuale  previsto,  per  detta  tipologia  di   risparmi,
dall'art. 16, commi 4 e 5, del decreto-legge n. 98/2011, secondo  cui
le  economie  derivanti  da  spese  di  riordino  e  ristrutturazione
amministrativa possono  essere  utilizzate  annualmente  nell'importo
massimo del 50% per la contrattazione integrativa. 
    Quest'ultima previsione  costituisce  un  principio  generale  di
coordinamento della finanza pubblica, in quanto mira  a  contemperare
le esigenze di contenimento della spesa pubblica,  che  implicano  il
definitivo consolidamento  dei  risparmi  di  spesa  derivanti  dalle
ristrutturazioni, con le esigenze, pure meritevoli di considerazione,
dell'incentivazione   del   personale   tramite   la   contrattazione
integrativa. 
    Nessuna pubblica amministrazione puo' quindi derogare al suddetto
limite quantitativo di destinazione  dei  risparmi  al  finanziamento
della contrattazione integrativa. 
    Pertanto, il suddetto comma 4 si pone in contrasto sia con l'art.
117, terzo comma, della Costituzione,  in  materia  di  coordinamento
della finanza pubblica; sia, comunquem con l'art. 117, secondo comma,
lettera l), della Costituzione che riserva alla competenza  esclusiva
dello Stato l'ordinamento civile e, quindi,  i  rapporti  di  diritto
privato regolabili dal codice civile (contratti collettivi). 
    E'  infatti  nella  contrattazione  collettiva  integrativa   che
debbono trovare definitiva quantificazione le  risorse  destinate  al
finanziamento dei relativi contratti, con la previsione  delle  fonti
da cui trarle, a cominciare dai risparmi di spesa di cui all'art. 16,
commi 4 e 5, decreto-legge n. 98/2011. 
Articolo 30, commi 1 e 2. 
    Questa disposizione prevede: 
        «1. Dopo il comma 3 dell'art.  4  della  legge  regionale  14
settembre 1994, n. 56, sono aggiunti i seguenti: 
          "3-bis. Ai professori e ricercatori  universitari  inseriti
in assistenza  e'  riconosciuto  il  trattamento  economico  previsto
dall'art. 6 del decreto legislativo  n.  517/1999,  dovendo  pertanto
essere  garantita,  a  carico  del  Servizio   sanitario   regionale,
l'equiparazione  della   retribuzione   complessiva   tra   personale
universitario e personale del Servizio sanitario nazionale,  mediante
l'attribuzione di  un'eventuale  indennita'  integrativa  determinata
nella misura necessaria ad assicurare al personale  universitario  un
trattamento economico complessivo non inferiore a  quello  attribuito
al personale del Servizio sanitario nazionale di pari  anzianita'  ed
incarico. 
          3-ter. La Regione, direttamente  o  per  il  tramite  delle
Aziende ospedaliere di Padova  e  Verona,  puo'  assumere,  ai  sensi
dell'art. 18, comma 3, della legge 30 dicembre 2010,  n.  240,  oneri
per la chiamata di professori ai sensi dell'art. 18, comma  1,  della
predetta legge n. 240 del 2010,  limitatamente  ai  dipendenti  delle
Aziende  ospedaliere  di  Padova  e  Verona  muniti  di  abilitazione
all'insegnamento universitario.». 
    2. Agli oneri derivanti dall'applicazione del  presente  articolo
si fa fronte con le risorse del Fondo  Sanitario  regionale  allocate
alla  Missione  13  "Tutela  della  salute"  Programma  01  "Servizio
sanitario  regionale  -  finanziamento  ordinario  corrente  per   la
garanzia  dei  LEA"  Titolo  1  "Spese  correnti"  del  bilancio   di
previsione 2017-2019.». 
    La disposizione, come si vede, e' finalizzata  a  riconoscere  ai
professori  e  ricercatori  universitari,  che   svolgono   attivita'
assistenziale all'interno delle aziende ospedaliero-universitarie, un
trattamento   economico   che   garantisca   l'equiparazione    della
retribuzione complessiva tra personale universitario e personale  del
Servizio sanitario nazionale, mediante l'attribuzione di un'eventuale
indennita' integrativa, a carico del  Servizio  sanitario  regionale,
determinata  nella  misura  necessaria  ad  assicurare  al  personale
universitario un trattamento economico complessivo  non  inferiore  a
quello attribuito al personale del servizio  Sanitario  nazionale  di
pari anzianita' ed incarico. 
    La norma appare illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione  dell'articolo  117,  secondo  comma,  lettera  l),  della
Costituzione e dell'art. 81 Cost. 
    Diversamente da quanto stabilito nel comma in esame, l'art. 6 del
decreto legislativo n. 517/1997, superando le disposizioni  dell'art.
102 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382/1980  volte  a
garantire l'equiparazione economica  tra  personale  universitario  e
personale del  Servizio  sanitario  nazionale,  ha  disposto  che  ai
professori  e  ricercatori  universitari,  che   svolgono   attivita'
assistenziale,  oltre  al  trattamento  economico  a   carico   delle
rispettive universita',  debbano  essere  corrisposti  da  parte  del
Servizio sanitario nazionale: 
        1. un  trattamento  aggiuntivo  graduato  in  relazione  alle
responsabilita' connesse ai diversi tipi di incarico; 
        2.  un  trattamento  aggiuntivo  graduato  in  relazione   ai
risultati  ottenuti  nell'attivita'   assistenziale   e   gestionale,
valutati  secondo   parametri   di   efficacia,   appropriatezza   ed
efficienza,   nonche'   all'efficacia   nella   realizzazione   della
integrazione tra attivita' assistenziale, didattica e di ricerca; 
        3.  ove  spettanti,  i  compensi  legati   alle   particolari
condizioni di lavoro. 
    Detti  emolumenti  devono  essere  erogati   nei   limiti   delle
disponibilita' del fondo di riferimento e, comunque, nei limiti delle
risorse da attribuire ai sensi dell'art. 102, comma  2,  del  decreto
del Presidente della Repubblica n. 382/1980. 
    Pertanto la disposizione in esame, disponendo in maniera difforme
a quanto previsto dalla legislazione statale vigente relativamente ai
trattamenti economici riguardanti i rapporti di lavoro del  personale
dipendente, contrasta con l'art.  117,  secondo  comma,  lettera  l),
della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello  Stato
l'ordinamento  civile  e,  quindi,  i  rapporti  di  diritto  privato
regolabili dal codice civile (contratti collettivi). 
    Essa, infatti, modifica unilateralmente la  parte  economica  del
rapporto di lavoro dei medici interessati, ripristinando il regime di
equiparazione rigida tra livelli retributivi del personale  sanitario
e del personale universitario adibito al servizio sanitario;  laddove
la normativa statale di riferimento,  a  cui  l'autonomia  collettiva
deve uniformarsi, prevede un trattamento aggiuntivo  parametrato  non
ai  livelli  retributivi  del  personale   sanitario,   bensi'   alle
responsabilita', ai risultati, alle particolari condizioni di lavoro.
Cio', allo scopo di tenere conto anche dal punto di vista retributivo
della specificita' del ruolo, anche in ambito sanitario,  svolto  dal
personale   universitario   medico,   evitando   ogni   appiattimento
retributivo rispetto a categorie professionali non omogenee. 
    Inoltre, l'art. 30, comma 1, consentendo l'erogazione di compensi
che  potrebbero  risultare  superiori   a   quelli   previsti   dalla
legislazione vigente, e' suscettibile  di  determinare  oneri  per  i
quali la copertura indicata al comma 2 potrebbe non risultare idonea,
con conseguente contrasto con l'art. 81 della Costituzione. Le  spese
in questione non sono infatti minimamente quantificate, e  la  stessa
effettivita' della copertura indicata dal  comma  2  appare  incerta,
poiche' porta  l'onere  in  questione  a  gravare  sul  finanziamento
ordinario dei  livelli  essenziali  di  assistenza,  in  aggiunta  al
coacervo  delle  gravose  spese  correnti  gia'  gravanti   su   tale
essenziale voce contabile. 
    L'art. 31, comma  1  reca  «Modifiche  all'art.  40  della  legge
regionale   14   settembre   1994,   n.   55   "Norme    sull'assetto
programmatorio, contabile, gestionale e  di  controllo  delle  unita'
locali socio sanitarie e delle aziende ospedaliere in attuazione  del
decreto  legislativo  30  dicembre  1992,  n.  502  'Riordino   della
disciplina in materia sanitaria', cosi' come modificato  dal  decreto
legislativo 7 dicembre 1993, n. 517". 
    L'art. 31 comma 1, nel modificare l'art. 40 cit., riguardante  il
Collegio dei revisori delle Aziende  sanitarie  locali,  prevede  nel
nuovo comma 5 dell'art. 40  che  "i  componenti  del  Collegio  hanno
diritto al rimborso delle sole spese vive e documentate, per  effetto
del loro trasferimento in diverse sedi aziendali nell'esercizio delle
loro funzioni.  Non  sono  previsti  rimborsi  per  spese  di  vitto,
alloggio e di  viaggio  per  il  trasferimento  tra  la  residenza  o
domicilio del componente e la sede legale dell'Azienda sanitaria".». 
    La norma appare illegittima per il seguente 
 
                               Motivo 
 
Violazione dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione 
    La ratio della norma e' volta  alla  riduzione  dei  costi  degli
apparati amministrativi e al contenimento delle spese  per  missioni;
tuttavia  va  osservato   che   il   rappresentante   del   Ministero
dell'economia e delle finanze, in seno  ai  collegi  sindacali  delle
aziende sanitarie, svolge il compito di  controllo  e  vigilanza  dei
conti pubblici ed e', generalmente, un Dirigente (soggetto al  regime
retributivo della onnicomprensivita') che  soggiace  alla  disciplina
primaria  sul  trattamento  di  missione  dei  pubblici   dipendenti,
regolata dall'art. 26 della legge 18 dicembre 1973, n. 836,  e  dalla
legge 26 luglio 1978, n. 417 e successive modifiche ed integrazioni. 
    Detti compiti di vigilanza, attribuiti al Ministero dell'economia
e delle finanze, anche mediante l'operato dei  propri  rappresentanti
in seno ai Collegi sindacali, sono regolati dalla legge n.  196/2009.
In particolare, l'art. 16 dispone che: «1. Al fine di dare attuazione
alle prioritarie  esigenze  di  controllo  e  di  monitoraggio  degli
andamenti della finanza pubblica di cui all'art. 14, funzionali  alla
tutela dell'unita' economica della Repubblica, ove non gia'  prevista
dalla  normativa  vigente,  e'   assicurata   la   presenza   di   un
rappresentante  del  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze  nei
collegi di revisione o sindacali delle amministrazioni pubbliche, con
esclusione degli enti e  organismi  pubblici  territoriali  e,  fatto
salvo  quanto  previsto  dall'art.  3-ter,  comma  3,   del   decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 502,  degli  enti  ed  organismi  da
questi ultimi vigilati, fermo restando il numero dei revisori  e  dei
componenti del collegio. 2. I  collegi  di  cui  al  comma  1  devono
riferire, nei  verbali  relativi  alle  verifiche  effettuate,  circa
l'osservanza degli adempimenti previsti dalla  presente  legge  e  da
direttive emanate dalle amministrazioni vigilanti». 
    Cio' premesso, l'individuazione delle  spese  rimborsabili  nelle
«sole spese vive e documentate, per effetto del loro trasferimento in
diverse  sedi  aziendali  nell'esercizio  delle  loro  funzioni»  non
permette ai componenti del collegio dei revisori l'assolvimento della
primaria funzione di controllo della spesa pubblica. 
    Si evidenzia, altresi', che, ai sensi  dell'art.  2  del  decreto
legislativo  30  giugno  2011,  n.  123,   in   capo   al   Ministero
dell'economia e finanze  sono  attribuiti  compiti  di  controllo  di
regolarita' amministrativa e contabile,  anche  mediante  l'attivita'
dei Collegi di revisione  e  sindacali,  al  fine  di  assicurare  la
legittimita' e proficuita' della spesa. Ancora, ai sensi dell'art. 20
dello stesso decreto  legislativo  n.  123/2011,  i  Collegi  di  cui
trattasi provvedono  agli  altri  compiti  ad  essi  demandati  dalla
normativa vigente, compreso il monitoraggio della spesa pubblica. 
    Inoltre, non puo' non evidenziarsi che  la  previsione  impugnata
compromette l'autonomia delle attivita' di vigilanza del collegio con
particolare riguardo ai componenti fuori  sede  e  stride  anche  con
l'obbligo  di  partecipazione  a  tutte  le  attivita'  di   verifica
pianificate dallo stesso organo di controllo, potendo far venire meno
il principio di collegialita' del collegio. 
    Pertanto, il contingentamento delle spese,  cosi'  come  regolato
nella legge regionale risulta non solo in contrasto con  le  funzioni
di controllo in capo al Ministero dell'economia  e  delle  finanze  -
tenendo altresi' presente  che,  laddove  il  rappresentante  sia  un
dirigente dello stesso,  si  applicherebbe  l'onnicomprensivita'  del
trattamento  retributivo,  per  cui  non  sarebbe  destinatario   del
compenso previsto - ma e' anche limitativo dell'attivita' connessa ai
doveri  e  alle  conseguenti  responsabilita'  in  capo  ai   Collegi
sindacali, in tutti quei casi in cui le Amministrazioni, titolari del
potere di designazione, optino, in base a valutazioni  discrezionali,
per un componente sindaco non residente nel  luogo  in  cui  ha  sede
l'ente. 
    Per queste ragioni il comma 1 del predetto articolo  si  pone  in
contrasto  con  l'art.  117,   terzo   comma,   della   Costituzione,
segnatamente nella parte  relativa  alla  materia  del  coordinamento
della finanza pubblica, ravvisandosi,  nella  sostanza,  elementi  di
disarmonia con  la  normativa  statale  in  materia  di  vigilanza  e
controllo sulla spesa pubblica. 
    La compresenza di componenti  statali  e  regionali  nei  collegi
sindacali  in  questione  costituisce  un  essenziale  meccanismo  di
coordinamento finanziario nel  campo  della  spesa  sanitaria,  e  ne
rappresenta   quindi   un   principio   fondamentale.   Misure    che
irrazionalmente compromettano il  funzionamento  di  tali  organi  si
pongono quindi in contrasto con tale principio. 

(1) Tutte le PMI (secondo la definizione europea e cioe'  le  imprese
    che vanno dalla ditta  individuale  alla  societa'  con  max  250
    dipendenti, un fatturato di max 50 mln di euro, max 43 milioni in
    attivo    sullo    Stato    Patrimoniale)    «economicamente    e
    finanziariamente sane» possono usufruire  dei  fondi  accantonati
    dal Ministero del Tesoro e assegnati in gestione al Medio Credito
    Centrale in Roma per ottenere garanzie a  copertura  dei  crediti
    che ottengono  dal  sistema  bancario.  Tali  garanzie  hanno  la
    caratteristica di essere a prima  richiesta  e,  per  le  banche,
    vengono conteggiate a «ponderazione zero» il  che  significa  che
    per la quota coperta dalla garanzie  non  occorre  che  la  banca
    accantoni patrimonio a copertura dell'eventuale perdita.  Infatti
    e' lo Stato pagatore di «ultima istanza» e quindi si  fa  garante
    della solvibilita' del sistema della PMI.  Questa  garanzia  puo'
    essere richiesta in forma diretta dalla Banca stessa  al  momento
    in  cui  ritiene  di   affidare   l'impresa.   Sotto   forma   di
    controgaranzia se la banca e' gia' garantita da  un  Confidi  che
    provvede a sua volta a farsi garantire  dal  Fondo.  Oppure  come
    cogaranzia quando il  Confidi  e  il  Fondo  stesso  intervengono
    congiuntamente a coprire il rischio della Banca. E' evidente  che
    il «peso» di  tali  garanzie  rende  piu'  agevole  l'accesso  al
    credito da parte dell'impresa e concorre a  determinare  un  piu'
    vantaggioso  costo  del  credito  bancario.  Ovviamente   possono
    accedere a tale garanzia le PMI  che  ottengano  una  valutazione
    positiva la quale viene assegnata secondo parametri definiti  dal
    gestore del Fondo stesso. La garanzia copre dal  60  al  70%  del
    credito concesso ed e' finalizzata sia per investimenti  che  per
    liquidita' e/o partecipazioni di capitale. Le  imprese  femminili
    sono avvantaggiate sia nell'intensita' di aiuto che nel costo che
    si   deve   riconoscere   al   gestore   del    fondo    all'atto
    dell'ottenimento della garanzia. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Tutto cio'  premesso,  il  Presidente  del  Consiglio  ricorre  a
codesta  Corte  costituzionale   affinche'   voglia   dichiarare   la
illegittimita' costituzionale dei seguenti articoli:  art.  33,  art.
34, commi 3 e 4, art. 63, comma 7, art. 68 comma 1, art. 79 comma  1,
art. 95 commi 2, 4, 5, art. 83, art. 111 commi 2, 3, 4, 5, 7, 8, art.
6, comma 5, art. 20, art. 29 commi 3 e 4, art. 30 comma 1,  art.  31,
comma 1 della legge della Regione Veneto n. 30 del 30 dicembre 2016. 
    Si  produce  per  estratto  copia  conforme  della  delibera  del
Consiglio dei ministri del 23 febbraio 2017 completa di relazione. 
        Roma, addi' 28 febbraio 2017 
 
                   L'Avvocato dello Stato: Aiello