N. 5 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 novembre 2017

Ordinanza  del  30  novembre  2017   della   Commissione   tributaria
provinciale di Milano sul ricorso proposto da Gatti  Maurizio  contro
Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Milano. 
 
Spese   processuali   -   Liquidazione   giudiziale   dei    compensi
  professionali - Abrogazione delle tariffe professionali. 
- Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni  urgenti  per  la
  concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitivita'),
  convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo  2012,  n.  27,
  art. 9, comma 1. 
(GU n.5 del 31-1-2018 )
 
           LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MILANO 
                              Sezione 7 
 
    Riunita con l'intervento dei signori: 
        Mainini Elisabetta - Presidente; 
        Bertolo Roberto - Relatore; 
        Salvo Michele - Giudice, 
    ha  emesso  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  n.   5934/2016
depositato il 17 ottobre 2016,  avverso  avviso  di  liquidazione  n.
2015/006/DI/000010587/0/001 registro n.  2015  contro  Agenzia  delle
entrate - Direzione provinciale di Milano,  proposto  dal  ricorrente
Gatti Maurizio presso proprio studio, via Santa Matia  Valle,  2/A  -
20100 Milano. 
 
            Premessa in fatto e svolgimento del giudizio 
 
    Con ricorso-reclamo il  ricorrente  ha  impugnato  un  avviso  di
liquidazione  col  quale  e'  stato  accertato  l'omesso   versamento
dell'imposta  principale  di  registro  dovuta  su  atto  giudiziario
costituito da decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo emesso in
data 20 febbraio 2015 dal Giudice  di  pace  di  Milano,  su  ricorso
dell'istante dott. Gatti Maurizio contro la  F.G.  srl;  le  pronunce
giudiziali contenute nel decreto sono state pertanto assoggettate,  a
vario titolo, ad  imposta  di  registro  nella  misura  liquidata  in
complessivi € 807,00. 
    Non essendo stato versato detto importo l'Ufficio notificava alle
parti del procedimento monitorio avviso di liquidazione  del  tributo
posto a carico di entrambe in solido. 
    Il ricorso avverso l'avviso  di  liquidazione  e'  affidato  alle
seguenti premesse e correlati motivi: 
        avendo il Giudice di pace  posto  a  carico  del  soccombente
l'onere di pagamento delle spese legali, tra le quali  va  annoverata
anche l'imposta di registro, l'Agenzia avrebbe  dovuto  intraprendere
razione  di  riscossione  dell'imposta  nei  confronti  del  soggetto
dichiarato dal Giudice tenuto al pagamento delle spese. 
    Non vengono sollevate questioni afferenti all'entita' del tributo
ed all'applicazione di piu' voci di tariffa. 
    L'Agenzia si e' costituita in giudizio rilevando che l'imposta di
registro e' imposta d'atto che tassa,  nel  caso  di  specie,  l'atto
giudiziario costituito dall'ingiunzione di pagamento del  Giudice  di
pace di Milano; 
    Deduce che in tema di registrazione  degli  atti  giudiziari,  ai
sensi dell'art. 57, comma 1, del Testo unico di registro  (d.P.R.  n.
131/1986) le parti in causa sono tenute in solido  al  pagamento  del
tributo, salvo rivalsa nel rapporto interno. 
    Con memoria ex art. 32, comma 2, d.lgs. n. 546/1992 il ricorrente
assume che sotto il profilo  privatistico  la  parte  soccombente  e'
tenuta al pagamento di tutte le  spese  del  processo  salvo  che  il
giudice abbia  disposto  diversamente,  circostanza  che  non  si  e'
verificata nell'ispecie,  di  talche'  non  si  potrebbe  prescindere
dall'esito della lite. 
    La norma tributaria non potrebbe pertanto  sovrapporsi  a  quella
civilistica. All'udienza odierna  la  Commissione  ha  trattenuto  in
decisione il ricorso. 
 
                       Motivi della decisione 
 
    Il ricorso e' infondato e va respinto. 
    Parti in causa, nel procedimento  per  ingiunzione  di  pagamento
avanti al Giudice di pace di Milano, che ha condotto  alla  pronuncia
del decreto ingiuntivo sottoposto ad imposizione, sono stati tanto la
parte convenuta, resistente quanto il ricorrente, il  quale  peraltro
ha intrapreso il procedimento  e  come  tale  deve,  come  si  dira',
iniziare a sopportare le spese di lite, salvo rivalsa  nei  confronti
dell'avversario, eventualmente  dichiarato  soccombente,  secondo  le
norme  afferenti   la   solidarieta'   dell'obbligazione   pecuniaria
stabilite nel corpo del codice civile. 
    Pertanto,  come  parte  del  giudizio,   esso   ricorrente   deve
rispondere del tributo di  registro,  salvo  regresso  nei  confronti
della societa' ingiunta. 
    Peraltro va evidenziato che il ricorrente ha  dato  atto  che  la
societa'  debitrice  ha  successivamente  alla   notifica   dell'atto
giudiziario provveduto al pagamento di capitale,  interessi  e  spese
elencati nell'ano di precetto. 
    Nel predetto atto di intimazione  viene  espressamente  indicata,
quale voce di pagamento intimata,  ancorche'  non  indicata  nel  suo
preciso ammontare, anche la «tassa  di  registro»  recte  imposta  di
registro. Puo' fondatamente ritenersi che l'importo  esatto  non  sia
stato indicato perche' alla  data  di  redazione  del  precetto  tale
importo era del tutto sconosciuto, atteso che - anche per  esperienza
diretta di questo relatore - l'Agenzia delle entrate, stante la  mole
di lavoro che deve  smaltire  a  Milano,  impiega  diversi  mesi  per
liquidare le imposte sugli atti giudiziari. 
    Non e' dato  conoscere  se  in  sede  di  pagamento  la  societa'
debitrice  abbia  provveduto  a  rifondere  anche  il  tributo,   ove
quantificato «a parte» ossia in sede stragiudiziale, o  esecutiva,  a
seguito  di  pagamento  spontaneo   o   di   accesso   dell'Ufficiale
Giudiziario incaricato  di  tentare  il  pignoramento,  di  pagamento
effettivo. 
    In ogni caso pero', anche se non indicata nell'atto di  precetto,
l'imposta  deve  essere  rifusa,  se  del  caso  mediante   ulteriore
intimazione (precetto) ed esecuzione forzata ad hoc. 
    Il ricorrente avrebbe pertanto dovuto o indicare l'esatto importo
dell'imposta nell'atto di precetto 26 marzo 2015, attendendo tempi  e
liquidazione  operata  dall'Ufficio,  ovvero  procedere  in   seguito
separatamente per il recupero forzato di detto importo. 
    Nel rapporto diretto con le  parti  del  procedimento  monitorio,
l'Agenzia delle entrate  ha  invece  facolta'  di  escutere  l'uno  o
l'altro dei debitori solidali, senza che il ricorrente possa eccepire
alcun beneficum excussionis,  che  non  trova  fondamento  in  alcuna
disposizione di legge tributaria, essendo previsto in  casi  speciali
non suscettibili di applicazione analogica (come in  tema  di  debiti
dei soci delle societa' di persone) ma che anzi va escluso  anche  in
forza della considerazione che chi agisce in giudizio  e'  tenuto  ad
anticipare ogni spesa occorrente per il procedimento (e quindi  anche
il tributo di registro) salvo  regresso  nei  confronti  della  parte
convenuta o resistente che risultera' soccombente e quindi  tenuta  a
sopportare il carico definitivo  delle  spese,  spese  che  includono
anche l'imposta di registro. 
    Il ricorso deve pertanto essere reietto. 
    Quanto al regolamento delle spese,  esse  vanno  poste  a  carico
della parte ritenuta soccombente, ossia del ricorrente,  e  a  favore
dell'Agenzia delle entrate. 
    Dovendo  provvedere  alla  liquidazione  di  tali  spese,  questa
Commissione e' chiamata ad applicare anzitutto  il  disposto  di  cui
all'art. 15 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il quale,  al  comma
2-sexies,  dispone  che  nella  liquidazione   a   favore   dell'ente
impositore, dell'agente della riscossione  e  dei  soggetti  iscritti
nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15  dicembre
1997, n. 446, se assistiti da  propri  funzionari,  si  applicano  le
disposizioni  per  la  liquidazione  del  compenso   spettante   agli
avvocati,  con  la  riduzione  del  venti  per   cento   dell'importo
complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante  iscrizione
a ruolo a titolo definitivo dopo  il  passaggio  in  giudicato  della
sentenza. 
    Nel  procedimento  in  oggetto   l'Ente   impositore,   ovverosia
l'Agenzia delle entrate, regolarmente costituitasi, e'  assistita  da
un proprio funzionario. 
    Ora avviene che il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (c.d. decreto-legge
sulle liberalizzazioni), convertito, con modificazioni, in  legge  24
marzo 2012,  n.  27,  all'art.  9  («Disposizioni  sulle  professioni
regolamentate») al comma 1, ha  cosi'  disposto:  «Sono  abrogate  le
tariffe delle professioni regolamentate nel sistema  ordinistico.»  e
al comma secondo del medesimo articolo dispone  che  «ferma  restando
l'abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di
un  organo  giurisdizionale,  il  compenso  del   professionista   e'
determinato con riferimento a parametri  stabiliti  con  decreto  del
Ministro vigilante». 
    La   questione   e'   dunque   rilevante   sotto    il    profilo
dell'applicabilita' di tale norma alla fattispecie. 
    Ritiene  questa  Commissione  di  dover  sottoporre  alla   Corte
costituzionale lo scrutinio di legittimita' costituzionale  dell'art.
9 del d.l.  24  gennaio  2012,  n.  1,  nonche',  per  illegittimita'
derivata, della legge 24 marzo 2012, n.  27,  di  conversione  e,  di
conseguenza di ogni altra normativa di settore  -  quali  l'art.  13,
comma 6,  della  legge  31  dicembre  2012,  n.  247,  e  il  decreto
ministeriale  10  marzo  2014,  n.  55  -  che  abbia  fatto  seguito
all'intervenuta abrogazione  introducendo  altre  diverse  specie  di
tariffari, nonche' ogni altra normativa derivata dal vizio originario
che qui si censura. 
    Ad avviso della Commissione la norma confligge col  principio  di
cui  all'art.  77  Cost.  che  subordina   l'esercizio   del   potere
legislativo da parte dell'Esecutivo alla ricorrenza dei requisiti  di
necessita' ed urgenza, che nel caso di specie non ricorrono entrambi,
neppure essendo richiamato il primo  (quello  della  necessita')  nel
preambolo del decreto-legge in esame. 
    Emblematico     dell'eccessiva     frettolosita'     e     quindi
dell'approssimazione con la quale e'  stata  concepita  la  norma  e'
l'incipit del decreto (contenuto nel preambolo che  deve  fondare  la
giustificazione del corretto  esercizio  del  potere  legislativo  da
parte  dell'Esecutivo)  il  quale  recita:   «Il   Presidente   della
Repubblica, visti gli articoli 77 e 87 della  Costituzione;  ritenuta
la straordinarieta' ed urgenza di emanare disposizioni  per  favorire
la crescita economica e la competitivita' del Paese (sic.),  al  fine
di  allinearla  a   quella   dei   maggiori   partners   europei   ed
internazionali, anche attraverso l'introduzione di misure volte  alla
modernizzazione ed  allo  sviluppo  delle  infrastrutture  nazionali,
all'implementazione  della  concorrenza  dei  mercati,  nonche'  alla
facilitazione dell'accesso dei giovani nel mondo dell'impresa...». 
    Il presupposto per la legittima promulgazione di un decreto-legge
non e'  solo  quelle  della  straordinarieta'  (del  caso)  e  quello
dell'urgenza bensi' soprattutto requisito della necessita'. 
    Un evento puo' essere straordinario, ossia eccezionale,  insolito
e urgente, ma non per questo necessario. A meno di ipotizzare che  il
legislatore  sia  un  illetterato,  che  confonde  straordinario  con
necessario, devesi ritenere che l'estensore del  decreto-legge  abbia
inteso ben distinguere l'attributo «straordinario» e  la  nozione  di
necessita', perfettamente intuendo che i  provvedimenti  vergati  (di
getto) non fossero «necessari»  al  Paese  ma  soltanto  straordinari
(oltre che, asseritamente, urgenti), e si sia quindi intenzionalmente
astenuto dall'usare l'impropria qualifica di necessari. 
    D'altro canto nel preambolo in esame non vi e'  alcuno  specifico
riferimento, al di la' di fumose e generiche petizioni di  principio,
al caso che ci occupa, ossia ad una assunta necessita' di  risolvere,
attraverso  la  norma  incriminata,  un   «problema»   di   carattere
«nazionale» che non possa essere risolto con legge ordinaria,  e  che
potrebbe trovare soluzione, quantomeno ad avviso e  nell'intendimento
dell'Esecutivo, nella norma in esame. 
    Le tariffe professionali forensi (che questa commissione  sarebbe
oggi chiamata ad applicare nello  specifico,  se  non  fossero  state
abolite - invero per sostituirle con altri parametri, che trovano  la
loro  origine  nell'abrogazione  delle  prime,   che   pertanto   non
potrebbero   essere   applicate   se    non    ritenendo    infondata
l'incostituzionalita' dell'abrogazione delle tariffe originarie) sono
in vigore,  salvi  gli  adeguatamenti  disposti,  periodicamente  con
decreti ministeriali, a far tempo dall'entrata in vigore della  legge
13 giugno  1942,  n.  794  (intitolata  «Onorari  di  avvocato  e  di
Procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile»). 
    Esse hanno svolto egregiamente la propria funzione  nell'arco  di
ben 70 anni senza che abbiano prestato il fianco a censure e critiche
che ne abbiano intaccato la validita'. 
    Cio' che  piu'  rileva  e'  che  esse  hanno  anche  resistito  a
tentativi indirizzati a censurarne la  pretesa  incongruenza  con  la
normativa  comunitaria:  va  infatti  rammentato  che  a  seguito  di
ordinanza del Pretore di Pinerolo che aveva  chiesto  alla  Corte  di
Giustizia europea  una  pronuncia  pregiudiziale  di  interpretazione
della norma di cui all'art. 85  dell'allora  trattato  CE,  la  Corte
lussemburghese - con sentenza 19 febbraio 2002 in causa C-35/99 -  ha
statuito che «Pertanto. non si puo' ritenere che  lo  Stato  italiano
abbia delegato ad operatori privati la  responsabilita'  di  prendere
decisioni di intervento nel settore economico, il  che  porterebbe  a
privare del suo carattere pubblico la normativa di cui trattasi nella
causa principale. Per i  motivi  esposti  ai  punti  41  e  42  della
presente sentenza: non gli si puo' neanche contestare di imporre o di
favorire la conclusione di intese in  contrasto  con  l'art.  85  del
Trattato di rafforzare  gli  effetti.  Occorre  quindi  risolvere  le
questioni pregiudiziali nel  senso  che  gli  articoli  5  e  85  del
Trattato non ostano all'adozione da parte di uno Stato membro di  una
misura legislativa o regolamentare che approvi,  sulla  base  di'  un
progetto stabilito da un ordine professionale  forense,  una  tariffa
che fissa dei minimi  e  dei  massimi  per  gli  onorari  dei  membri
dell'ordine, qualora tale misura statale sia adottata nell'ambito  di
un procedimento come quello previsto dalla normativa italiana.». 
    Dunque la normativa soppressa, in tema di tariffe  professionali,
quantomeno in ambito forense non confligge con le regole della libera
concorrenza che, ricordiamo, l'acquis communeautaire tutela, col fine
precipuamente  (se  non  esclusivamente)  economico  di  favorire  la
riduzione dei prezzi. 
    Dunque  il  preteso  favor  per  la  crescita  economica   e   la
competitivita' del  Paese  e'  invocato  a  sproposito  con  riguardo
all'abolizione delle tariffe professionali, per nulla necessaria. 
    Del resto non si vede come possa «favorire la crescita  economica
e la competitivita' del Paese, al fine di  allinearla  a  quella  dei
maggiori  partners  europei  ed  internazionali,   anche   attraverso
l'introduzione di misure volte alla modernizzazione ed allo  sviluppo
delle   infrastrutture   (quali?    quelle    forensi?)    nazionali,
all'implementazione (termine ormai  abusato,  impropriamente  mutuato
dal linguaggio informatico) della concorrenza  dei  mercati  (endiadi
che contiene un evidente pleonasmo, non potendo  esserci  concorrenza
se  non  nell'ambito  di  un  mercato),  nonche'  alla  facilitazione
dell'accesso dei giovani nel mondo dell'impresa la  norma  della  cui
legittimita' si dubita. 
    La crescita economica di un Paese dipende (ancora) dalla bilancia
dei pagamenti (ossia dalla differenza tra i valori delle esportazioni
e delle importazioni) e non certo dall'esistenza di un tariffario che
serve unicamente (per quanto qui rileva) a  circoscrivere  la  misura
del rimborso che la parte soccombente deve alla parte vittoriosa:  il
trasferimento  di  ricchezza  dalla  parte   soccombente   a   quella
vincitrice in causa rappresenta dunque una partita di  giro  che  non
influenza affatto l'incremento della ricchezza delle nazioni. Poiche'
il numero dei ricorsi accolti dalle Commissioni tributarie e',  sulla
base dei dati pubblicati dall'Istat, pressoche' equivalente a  quello
dei ricorsi respinti, la somma delle spese  liquidate  a  favore  dei
privati ricorrenti equivale  a  quella  delle  spese  riconosciute  a
favore dell'Erario, con conseguente compensazione e partita  di  giro
che  non  rappresenta  un  arricchimento  ne'  dell'Erario  ne'   dei
contribuenti. 
    In effetti l'unica incidenza della  c.d.  liberalizzazione  delle
tariffe si riverbera,  ma  in  senso  negativo,  senza  contropartita
assiologica o economica, sul reddito  delle  categorie  professionali
incise  dal   provvedimento   censurato,   concretizzandosi   in   un
depauperamento  del   professionista   (ragioniere,   commercialista,
geometra, consulente del lavoro o avvocato) che  abbia  assistito  il
contribuente  nel  giudizio  tributario,   senza   che   tale   minor
locupletazione possa incidere sull'economia nazionale, men  che  meno
sulla libera concorrenza professionale, ed anzi finisce per  incidere
sui consumi, riducendo la capacita' d'acquisto del  reddito  prodotto
in sede professionale. 
    Nel caso, che  ci  occupa,  della  liquidazione  delle  spese  di
giudizio,  l'abolizione  delle  tariffe   previgenti,   e   la   loro
sostituzione, di fatto, con altri parametri (che in realta' non fanno
che ricalcare confusamente e semplicisticamente le  vecchie  tariffe)
non costituisce affatto una liberalizzazione  in  quanto  il  Giudice
chiamato a liquidare le spese non e' equiparabile ad  un'impresa  che
agisce in un regime  di  libero  mercato  e  non  si  trova  a  dover
concorrere con chicchessia: non e' quindi in grado di influenzare  in
alcun modo l'economia nazionale. 
    Un istituto che si reggeva da anni, e che ha resistito anche alle
ben piu'  gravi  emergenze  del  periodo  bellico,  e'  stato  dunque
cancellato con un vero e proprio, spregiudicato, colpo di spugna  mai
preceduto da alcun pubblico dibattito, ad opera di un  Governo  sorto
per  sopperire  ad  altre  emergenze,  di  ben  piu'  ampio   respiro
finanziario ed economico, la cui legittimazione,  peraltro  di  fatto
discussa, ha avuto necessariamente vita breve, essendo  stato  alfine
sostituito da un esecutivo su base rappresentativa. 
    L'Esecutivo che  avrebbe  dovuto  fronteggiare  le  emergenze  di
natura finanziaria ed economica ha dunque travalicato l'ambito  ed  i
confini che ne avevano suggerito la nascita,  ponendo  mano,  con  lo
strumento del decreto-legge, ad una riforma istituzionale che esulava
dai suoi compiti, circoscritti e ben delineati. 
    Ma v'e' di piu': il c.d. decreto  sulle  liberalizzazioni  e'  il
tipico decreto omnibus nel quale sono costipati i provvedimenti  piu'
disparati e che  serve  per  veicolare  spregiudicatamente  qualsiasi
novita' legislativa surrettiziamente introdotta dal potere  esecutivo
per  perseguire  finalita'  frutto  di   isolate   e   personalissime
intuizioni, precedentemente mai oggetto di  dibattito  democratico  e
quindi non avvertite come effettivamente necessarie. 
    Nel coacervo  di  norme  originato  dal  decreto  in  oggetto  si
intravedono materie di ogni tipo, per taluna delle  quali  forse,  ma
non certo  per  tutte  allo  stesso  modo  (sarebbe  una  coincidenza
veramente unica!), possono ravvisarsi i  requisiti  di  necessita'  e
urgenza. 
    La   Corte   costituzionale   ha   severamente    ammonito    che
«l'utilizzazione  del  decreto-legge  non   puo'   essere   sostenuta
dall'apodittica esistenza delle ragioni di necessita' e  di  urgenza,
ne' puo' esaurirsi nella  constatazione  della  ragionevolezza  della
disciplina che e' stata introdotta». Occorre invece riscontrare se le
affermate ragioni di necessita' e urgenza siano riferibili a tutte le
norme contenute nel decreto. Nel caso preso in esame  dalla  Corte  -
considerato che nel preambolo di quello oggetto del  sindacato  della
Corte, i requisiti previsti dall'art. 77  Cost.  erano  invocati  per
emanare disposizioni in tema di enti locali, ha  concluso  che  nulla
risultava dal preambolo o dal contenuto  degli  articoli  che  avesse
attinenza con i requisiti prescritti,  nell'ispecie,  per  concorrere
alla carica di sindaco, dichiarando l'incostituzionalita' della norma
censurata. 
    Si confronti in dottrina Marongiu ne «Lo Statuto dei diritti  del
contribuente», Giappichelli ed. Torino, anno 2010. 
    Per quanto concerne il problema se la legge di conversione di  un
decreto-legge possa rivestire efficacia  riparatrice  dell'originario
vizio di forma (e  sostanza)  dei  decreti  privi  dei  requisiti  di
necessita' e/o urgenza, dopo un primo orientamento che  ammetteva  la
conversione  (sanante)  ad  opera   della   successiva   legge,   dei
decreti-legge ancorche' privi dei  requisiti  previsti  dall'art.  77
Cost., e' invalso un nuovo orientamento del Giudice  delle  leggi  il
quale, con varie ordinanze e sentenze, fra le quali  Corte  cost.  27
gennaio 1995, n. 19 e Cost. 23 maggio 2007, 171, ha stabilito, con la
prima, che «il  difetto  dei  requisiti  del  caso  straordinario  di
necessita' e urgenza, anche una volta intervenuta la conversione  ...
si traduce in un  vizio  in  procedendo  della  relativa  legge  onde
l'esistenza dei centrati requisiti puo' essere oggetto  di  scrutinio
di costituzionalita'» e con la seconda: «affermare che  la  legge  di
conversione sana in ogni caso  i  vizi  del  decreto  significherebbe
attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare
il riparto costituzionale  delle  competenze  del  Parlamento  e  del
Governo quanto alla produzione delle norme primarie ... (di tal  che)
... occorre verificare ... se risulti evidente o meno la carenza  del
requisito della straordinarieta' del caso di necessita'  e  d'urgenza
cui provvedere». 
    Nessuna efficacia «sanante» puo' pertanto essere attribuita  alla
legge di conversione di un decreto-legge invalido. 
    La Commissione tributaria provinciale di Milano, sezione settima, 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza; 
    Rimette alla Corte costituzionale la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 1,  del  decreto-legge  24  gennaio
2012, n. 1, convertito, con modificazioni, in legge 24 marzo 2012  n.
27, («Disposizioni sulle professioni regolamentate»),  per  contrasto
con l'art. 77 della Costituzione,  nella  parte  in  cui,  senza  che
ricorresse ne' fosse stato invocato nel preambolo  o  successivamente
nel corpo della norma il  requisito  della  necessita'  previsto  dal
citato art. 77, ha introdotto nell'ordinamento giuridico la  seguente
norma: «Sono abrogate le tariffe delle professioni regolomentate  nel
sistema ordinistico», nei sensi di cui in motivazione, atteso che  il
presupposto per la legittima promulgazione di un decreto-legge non e'
solo quello della straordinarieta' e quello dell' urgenza ma anche il
requisito della necessita'; 
    Sospende il giudizio e  dispone  l'immediata  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che, a cura della Segreteria, la  presente  ordinanza  sia
notificata alle parti e al Presidente del Consiglio  dei  ministri  e
sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
    Cosi' deciso in Milano, oggi addi' 16 novembre 2017. 
 
                       Il Presidente: Mainini 
 
 
                                        Il Giudice estensore: Bertolo