N. 13 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 ottobre 2017

Ordinanza del 2  ottobre  2017 della  Corte  d'appello  di  Roma  nel
procedimento civile promosso  da  Telecom  Italia  spa  contro  Fiore
Alfonso.. 
 
Lavoro - Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda -  Inefficacia,
  nullita',  inopponibilita'  della  cessione  di  ramo  d'azienda  -
  Inottemperanza  del  datore  di  lavoro   cedente   all'ordine   di
  ripristino del rapporto di lavoro - Disciplina della mora credendi. 
- Codice civile, combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217. 
(GU n.6 del 7-2-2018 )
 
                     LA CORTE D'APPELLO DI ROMA 
                           sezione lavoro 
 
    composta dai sigg.ri Magistrati: 
        dott. Francescopaolo Panariello, Presidente rel.; 
        dott. Maria Loredana Viva, consigliere; 
        dott. Fabrizio Riga, consigliere, 
    pronunziando in grado di  appello  in  funzione  di  giudice  del
lavoro, all'udienza del giorno 2 ottobre 2017 ha emesso  la  seguente
ordinanza nella causa  d'appello  tra  Telecom  Italia  spa  e  Fiore
Alfonso. 
    Rilevato che  la  societa'  appellante  ha  proposto  opposizione
avverso il decreto ingiuntivo  emesso  dal  Tribunale  di'  Roma,  in
funzione di giudice del lavoro, su  istanza  dell'odierno  appellato,
con cui e' stato intimato il pagamento della  somma  ivi  indicata  a
titolo  di  retribuzioni  maturate   e   non   pagate   nel   periodo
gennaio-dicembre  2011,  in  virtu'  di   precedente   sentenza   del
31/01/2007, pronunziala dal Tribunale di Roma, con  cui  erano  stati
dichiarati  illegittimi  i   provvedimenti   di   trasferimento   dei
lavoratori (fra cui l'odierno appellato) da Telecom Italia  spa  alla
HP DCS srl e per l'effetto Telecom Italia spa  era  stata  condannata
alla  loro  reintegrazione  in  servizio  nelle   medesime   mansioni
precedentemente svolte o in altre equivalenti; 
    - tra i motivi di opposizione  Telecom  Italia  spa  ha  eccepito
l'insussistenza del credito, posto che il  lavoratore,  nello  stesso
periodo rivendicato, era stato  regolarmente  retribuito  da  HP  DCS
S.r.l. (cessionaria del ramo d'azienda), sicche' il riconoscimento di
un ulteriore credito retributivo avrebbe determinato un'inammissibile
duplicazione di retribuzione, senza alcuna giustificazione legata  ad
una prestazione lavorativa, che era stata resa solo in favore  di  HP
DCS S.r.l. e non di essa Telecom Italia spa; 
    - gli stessi motivi sono stati reiterati in appello, con  cui  la
societa' si duole che  il  Tribunale,  nei  rigettare  l'opposizione,
abbia erroneamente ritenuto sussistente un obbligo  retributivo,  pur
in mancanza della prestazione lavorativa; 
    - Telecom Italia spa assume che, sulla base del «diritto vivente»
espresso dalla Suprema  Corte  di  Cassazione,  in  caso  di  mancata
riassunzione del dipendente a seguito  della  sentenza  con  cui  sia
stata dichiarata inefficace la cessione del ramo  d'azienda  ex  art.
2112 c.c. residua  soltanto  un'obbligazione  avente  ad  oggetto  il
risarcimento del danno e non gia' la retribuzione: 
    - la societa' deduce, altresi', che nessun danno avrebbe sofferto
l'appellato. in quanto  -  nel  periodo  al  quale  si  riferisce  il
provvedimento monitorio - ha regolarmente percepito  la  retribuzione
dalla societa' cessionaria del ramo d'azienda. 
    Tutto cio' rilevato, 
 
                               Osserva 
 
    1. Va preliminarmente ricordato che Telecom  Italia  spa  non  ha
adempiuto la precedente pronunzia del Tribunale di Roma del 2007, con
cui e' stato ordinato di reintegrare l'odierno  appellato  nelle  sue
mansioni  espletale   precedentemente   al   disposto   trasferimento
d'azienda e non ha ripristinato i rapporti con  i  dipendenti  a  suo
tempo ceduti, che  hanno  comunque  offerto  le  proprie  prestazioni
lavorative. 
    Come si ricava dagli atti. la predetta sentenza del 2007 e' stata
dapprima confermata  da  questa  Corte  d'Appello  con  sentenza  del
03/05/2011 ed infine e' passata in giudicato a seguito  di  Cass.  n.
13617/2014. 
    2. Fin dalla propria sentenza  del  18/11/2014,  n.  8776  (nella
causa  Telecom  Italia  spa  c/Piscopo  Luigi),   questa   Corte   ha
evidenziato che e' vero che il lavoro subordinato, nella nozione data
dall'art. 2094 c.c., ha prestazioni legate (sia sul  piano  genetico,
che su quello funzionale) da un nesso di corrispettivita'.  Pertanto,
e' vero che secondo la disciplina  generale  del  contratto  e  delle
obbligazioni, se viene meno una prestazione, viene meno pure  l'altra
per difetto di giustificazione causale. 
    La deroga a questa regola generale e'  certo  possibile,  purche'
espressamente  prevista  dal  legislatore,  in  quanto  ha  carattere
eccezionale (costituendo, appunto, eccezione alla regola). 
    Si tratta di fattispecie in cui la prestazione  lavorativa  manca
per fatti e vicende  che  interessano  esclusivamente  la  sfera  del
lavoratore (infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, etc.) e  che
coinvolgono interessi e valori tutelati dalla  Costituzione,  proprio
per questo, dunque, meritevoli di particolare protezione. 
    Sul rapporto di lavoro  subordinato  possono  incidere,  inoltre,
fatti e vicende che interessino la sfera  produttiva  del  datore  di
lavoro (cassa integrazione  guadagni),  ma  in  tal  caso  vi  e'  un
intervento pubblico in funzione integrativa del contratto, perche' si
tratta di fatti e vicende (le cc.dd.  cause  integrabili)  in  nessun
modo imputabili a responsabilita' (neppure oggettiva) del  datore  di
lavoro, 
    Ma e' altresi' vero che tutto cio' non rileva nel caso in  esame,
in cui la disciplina applicatile e' quella della moro credendi. 
    Infatti, a  seguito  della  sentenza  con  cui  viene  dichiarata
l'illegittimita' del trasferimento d'azienda con i connessi  rapporti
di lavoro (secondo Cass. 06/07/2016, n. 13791 si tratterebbe  di  una
vera e propria azione di nullita' ex art. 1418 c.c. per contrasto con
norme imperative), questi devono ritenersi ricostituiti - ex  tunc  -
alle dipendenze del cedente (id est Telecom Italia spa) sul piano dei
vinculum iuris. Se di fatto, invece, il rapporto di  lavoro  continua
con il cessionario, si e' al cospetto  di  una  fattispecie  c.d.  di
fatto rilevante ex art. 2126 c.c., che tuttavia,  proprio  in  quanto
solo di' fatto, non e' idonea ad  incidere  in  senso  giuridicamente
ostativo sugli effetti ripristinatoti della sentenza e,  quindi,  sul
rapporto  di  lavoro  (c.d.  di  diritto)  che  quella  sentenza   ha
ricostituito alle dipendenze del cedente. 
    Pertanto, al lavoratore (ceduto) va certo riconosciuto il diritto
alla retribuzione nei confronti  del  cessionario  in  ragione  della
prestazione lavorativa di fatto resa, perche' in  tal  senso  dispone
l'art. 2126 c.c. Questo non implica, pero', la  perdita  del  diritto
alla retribuzione nei confronti del cedente per i periodi  successivi
alla sentenza medesima,  in  quanto  nei  confronti  del  cedente  il
vincolo giuridico  e'  stato  ormai  formalmente  ricostituito  dalla
stessa sentenza e vi  e'  stata  offerta  di  prestazioni  lavorative
(fatto, questo, pacifico), da ritenersi  comunque  integrata  -  come
costituzione in mora - dalla notifica del ricorso che, a  suo  tempo,
introdusse il giudizio conclusosi con  la  sentenza  di  accertamento
dell'illegittimita' (rectius dell'inefficacia o dell'inapponibilita')
del trasferimento di ramo d'azienda. 
    A questo riguardo va precisato che, nella controversia in  esame,
oggetto  del  decreto  ingiuntivo  sono  le   retribuzioni   maturate
dall'odierno appellato per un periodo successivo  alla  sentenza  del
Tribunale di Roma dell'anno 2007,  con  cui  erano  stati  dichiarati
illegittimi i provvedimenti di trasferimento dei lavoratori  alla  HP
DCS  sri  e  Telecom  Italia  spa  era  stata  condannata  alla  loro
reintegrazione in servizio nelle medesime mansioni svolte o in  altre
equivalenti. 
    D'altro  canto,   contrariamente   alla   tesi   della   societa'
appellante, non puo' essere invocata la giurisprudenza sul  contratto
a termine e sulla  non  retribuibilita'  dei  cc.dd.  intervalli  non
lavorati. In quel caso, infatti, il risarcimento del danno  rilevante
e' pur sempre quello riferito al periodo anteriore alla  sentenza  di
accertamento  della  nullita'.  Anzi,  quella  stessa  giurisprudenza
postula che, dopo la sentenza con cui la clausola del termine  finale
sia dichiarata  nulla,  l'obbligo  a  carico  del  datore  di  lavoro
acquisti natura retributiva e non piu' risarcitoria (in tali  termini
v. espressamente C. Cost. n. 303/2011 sull'art. 32  L.  n.  183/2010;
Cass. n. 1412/2012; Cass. n.19295/2014). 
    E allora, proprio dagli insegnamenti  di'  quella  giurisprudenza
puo'  ricavarsi  il  seguente  principio  di  diritto:  nel  caso  di
trasferimento d'azienda (o di un suo  ramo)  dichiarato  illegittimo.
inefficace o comunque non opponibile ai lavoratori ceduti  (e  quindi
trasferiti alle dipendenze del  cessionario),  il  loro  rapporto  di
lavoro viene  ricostituito  ex  tunc  alle  dipendenze  del  cedente;
tuttavia, il diritto del lavoratore ceduto nei confronti del  cedente
per il periodo intercorrente fra la cessione dell'azienda  (o  di  un
suo ramo) e  la  sentenza  (di  merito)  di  accertamento  della  sua
illegittimita' o inopponibilita' ha natura risarcitoria,  mentre  per
il  periodo  successivo  alla  sentenza  medesima   acquista   natura
retributiva, come tale insensibile  ad  eventuali  guadagni  ottenuti
aliunde, anche sub specie di retribuzioni corrisposte dal cessionario
in qualita' di datore di lavoro c.d. di fatto ex art. 2126 c.c. 
    Orbene, quello che si configura a carico  del  cedente  (dopo  la
sentenza predetta) e' un obbligo retributivo (oltre che eventualmente
risarcitorio per gli eventuali danni patiti dal lavoratore,  come  ad
esempio una minore retribuzione percepita presso il cessionario).  Ne
consegue che non rileva  l'aliunde  perceptum,  espressione  di  quel
criterio della  compensatio  lucri  cum  damno  applicabile  solo  ai
diversi fini della quantificazione del danno risarcibile, in  omaggio
al principio  dell'integrale  riparazione  del  danno  senza  iniusta
locupletatio  da  parte  del  danneggiato  (cfr.  ex   multis   Cass.
02/03/2010, n. 4950; Cass. sez. un. 25/11/2008 n. 28056). 
    Infatti, tale criterio - all'evidenza - non e'  applicabile  alla
diversa fattispecie dell'obbligazione  retributiva,  la  quale  trova
esclusivo titolo nell'originario rapporto di lavoro (c.d. di diritto)
e nella sentenza che lo ha ricostituito come vinculum iuris. 
    Neppure puo' essere invocata quella giurisprudenza (citata  dalla
societa'  appellante:  Cass.  17/07/2008,  n.  19740)  sulla   natura
risarcitoria e non retributiva  della  responsabilita'  gravante  sul
datore di lavoro cedente nel  caso  di  accertata  illegittimita'  (o
inopponibilita') della cessione del ramo d'azienda.  Come  si  evince
chiaramente  dalla  relativa  motivazione,  in  quella  pronunzia  la
Suprema Corte -  dopo  aver  correttamente  escluso  l'applicabilita'
della speciale disciplina risarcitoria  di  cui  all'art.  18  L.  n.
300/1970  -  riferisce   l'obbligo   risarcitorio   (regolato   dalla
disciplina  generale  delle  obbligazioni  e  della   responsabilita'
contrattuale) al periodo che va dalla  cessione  del  ramo  d'azienda
alla sentenza che ne accerta l'illegittimita'. Ma nulla dice  per  il
periodo successivo, per il quale,  dunque,  va  affermata  la  natura
retributiva dell'obbligo a carico del datore di lavoro,  il  quale  -
nonostante la sentenza  ripristinatoria  dei  vinculum  iuris  -  non
ricostituisca (sul piano fattuale) i rapporti di lavoro: imputet sibi
se dovra' sopportare il peso economico delle retribuzioni (di cui  e'
debitore) senza aver ricevuto la prestazione lavorativa corrispettiva
(artt. 1206 e 1207 c.c.). 
    Risulta evidente, infatti, che in tal caso sussiste pur sempre la
corrispettivita' fra le prestazioni, proprio in  quanto  ricostituita
dalla sentenza,  con  la  peculiarita'  che  una  delle  due  (quella
lavorativa), pur disponibile. non viene eseguita per  fatto  (rifiuto
ingiustificato dopo la sentenza di merito) imputabile  esclusivamente
all'altra parte del rapporto (ossia al datore di lavoro). 
    3. La difesa della societa' invoca recenti sentenze della Suprema
Corte di Cassazione, nelle quali il principio di diritto risulta cosi
affermato: «Qualora sia dichiarata nulla la cessione di  un  ramo  di
azienda, ai lavoratori passati alle dipendenze del cessionorio, e  da
questi regolarmente retribuiti, non spetta - in carenza di  prova  di
un danno risarcibile ex art.  1218  cod  civ.  -  alcun  risarcimento
poiche' il rapporto di lavoro  e'  proseguito,  sebbene  soltanto  di
fatto, con il cessionario e non si e' realizzato alcun allontanamento
dal posto di lavoro, con conseguente esclusione della tutela  di  cui
all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n.  300,  "ratione  temporis"
applicabile»  (Cass.  26/06/2014,  n.  14542;  Cass.  14/07/2014,  n.
16096). 
    Dall'esame delle relative motivazioni (identiche)  si  evince  il
richiamo espresso al principio  di  diritto  affermato  da  Cass.  n.
17/07/2008, n. 19740 (sopra vista), che, a sua volta, in  motivazione
cosi argomentava: «E', invece, fondato il sesto motivo di ricorso. La
soc Ansaldo Energia con l'ultimo motivo di appello  avevo  contestato
la pronunzia del giudice di primo grado  che  l'aveva  condannato  al
pagamento delle differenze retributive e al risarcimento del danno ex
art.  18  dello  Statuto  dei  lavoratori  nella  misura  di   cinque
mensilita', evidenziando che la dipendente non aveva perso  il  posto
di lavoro, ma aveva solo cambiato datore  in  applicazione  dell'art.
2112 c.c , non traendone alcun pregiudizio economico. Il  giudice  di
appello, pur affermando correttamente che la nullita' della  cessione
del rapporto di lavoro comporto la prosecuzione dello stesso in  capo
alla soc. Ansaldo nella posizione lavorativa precedentemente occupata
dall'attrice, rigettando in toto l'impugnazione non ha modificato  la
pronunzia del primo giudice che aveva condannata la soc.  cedente  al
risarcimento del danno  nella  misura  di  cinque  mensilita'  ed  al
pagamento  delle  retribuzioni  omesse  fino  alla  reintegra.  Nella
specie, invece, il rapporto della lavoratrice e' proseguito  (seppure
solo di fatto) con la societa' acquirente del ramo  di  azienda,  con
conservazione per la stessa di tutti i diritti derivanti. Ne consegue
che, essendo pacifica la continuazione dell'attivita'  lavorativa  ed
il godimento della retribuzione, ai lavoratori ceduti non e' derivato
alcun  danno  da  licenziamento  illegittimo,  non  essendoci   stato
allontanamento dal posto di  lavoro.  Conseguentemente  i  lavoratori
avrebbero  potuto  richiedere   il   risarcimento   del   danno   per
l'illegittima cessione  del  rapporto  di  lavoro  secondo  le  norme
codicistiche sull'illecito contrattuale (art. 1218 e ss. c.c.) e  non
gia' secondo la disciplina speciale posta dall'art. 18 dello  Statuto
dei lavoratori (v. Cass, 6.3.98 n. 2521) Non  essendo  stata  fornita
prova  di  danno,  neppure  sotto  il  profilo  della  perdita  delle
retribuzioni (o di parte di esse), il motivo deve ritenersi fondato e
deve essere accolto». 
    4.  Nella  pronunzia  dell'anno  2008,  appena  ricordata,  viene
affrontato il profilo relativo al contenuto dei poteri  decisori  del
giudice  investito  della  controversia  relativa  alla  nullita'  (o
inefficacia)  della  cessione  d'azienda  (o  di  un  suo  ramo)  nei
confronti dei lavoratori ceduti senza il loro consenso. 
    Si evidenzia  che  dall'illecito  allontanamento  dei  lavoratori
dall'azienda del cedente deriva un diritto al risarcimento del danno. 
    Si precisa cbe questo  diritto  e'  disciplinato  dall'art.  1218
c.c., non potendo essere applicato  il  regime  dell'art.  18  L.  n.
300/1970, poiche' - contrariamente a quanto postula questa norma - il
rapporto di lavoro  non  si  e'  estinto,  ma  e'  proseguito  (senza
soluzione di continuita') alle dipendenze del cessionario, risultando
mutato soltanto il soggetto datore di lavoro. 
    Si conclude dunque nel senso che,  qualora  il  lavoratore  abbia
percepito  la  retribuzione  presso  il  cessionario,   il   giudice,
investito della controversia relativa alla cessione  d'azienda,  deve
rigettare la domanda risarcitoria per insussistenza del danno,  salvo
che il trattamento retributivo percepito  dal  lavoratore  presso  il
cessionario sia stato inferiore a quello che sarebbe stato  percepito
presso il cedente, in tal caso essendo il danno risarcibile pari alla
relativa differenza fra i due trattamenti economici. 
    Tutto questo ragionamento e' articolato - va ribadito - assumendo
come «punto di vista» quello del giudice investito della controversia
relativa alla cessione d'azienda (o di un suo ramo) avvenuta ai sensi
dell'art. 2112 c.c. 
    5. Il caso in esame riguarda, invece, il diverso «punto di vista»
del giudice chiamato a  decidere  (ex  post)  sulle  conseguenze  che
derivano dalla sentenza con cui e' stata  gia'  dichiarata  nulla  (o
inefficace) la cessione di' ramo d'azienda ed e'  stata  ordinata  al
cedente  la  riammissione  in  servizio  e/o  la  reintegrazione  dei
lavoratori nelle mansioni svolte prima della cessione medesima. 
    Va subito detto cbe, non trovando applicazione l'art.  18  L.  n.
300/1970  (v.  Cass.  sopra  cit.),  questa  norma  non  puo'  essere
utilizzata come fondamento normativo  della  tesi,  secondo  cui  per
tutto il periodo (sia per quello anteriore alla sentenza dichiarativa
della  nullita'  o  inefficacia  della  cessione,  sia   per   quello
successivo alla predetta sentenza e fino  all'effettiva  riammissione
dei  lavoratori  in  servizio  presso  il  cedente)  il  diritto  dei
lavoratori  illegittimamente  ceduti  avrebbe  natura  giuridica   di
risarcimento dell'eventuale danno patito. 
    L'art. 18 L. n. 300/1970 rappresenta, infatti, un regime speciale
e derogatorio rispetto al diritto comune delle obbligazioni, in  tali
termini espressamente novellato dalla legge n. 108/1990, e quindi non
puo' essere applicato fuori dai casi  espressamente  considerati  dal
legislatore (art. 14 disp.prel.c.c). 
    6. E' significativo il fatto  che  prima  di  tale  novella,  non
essendo stata qualificata dal legislatore  la  natura  giuridica  del
previsto diritto del lavoratore alle retribuzioni  dal  licenziamento
all'effettiva reintegrazione, era consolidato  in  giurisprudenza  il
principio secondo cui occorresse distinguere - proprio sulla base del
diritto  comune  delle  obbligazioni  -  il  periodo  anteriore  alla
sentenza (ossia quello dal licenziamento alla sentenza che ne  avesse
accertato l'illegittimita' con pronunzia di annullamento) dal periodo
successivo  alla  medesima.  E  si   era   riconosciuta   la   natura
risarcitoria del diritto relativo al primo  periodo,  mentre  si  era
affermata la diversa natura retributiva di quello relativo al secondo
periodo. Cio' sulla  base  del  fatto  che,  in  relazione  al  primo
periodo, quelle conseguenze  derivavano  dall'illecito  commesso  dal
datore di lavoro, il quale aveva estinto il  rapporto  di  lavoro  in
modo illegittimo; in relazione al  secondo  periodo.  invece,  quelle
conseguenze  derivavano  dalla  sentenza   di   reintegrazione,   che
ricostituiva  il  vinculum  iuris  fra  le  parti,  con   conseguente
riespansione della lex contractus. 
    Questa distinzione era tanto rilevante che, in  caso  di  riforma
della sentenza di reintegrazione  e  di  accertata  legittimita'  del
licenziamento  nei  successivi  gradi  di   giudizio,   gli   effetti
ripristinatori  avrebbero  comportato  l'obbligo  del  lavoratore  di
restituire solo quanto ricevuto in relazione al primo periodo, atteso
cbe il licenziamento non sarebbe stato piu' qualificabile come «fatto
illecito», ma non  pure  quanto  ricevuto  in  relazione  al  secondo
periodo - pur non lavorato - dal momento che  la  ricostituzione  del
vinculum iuris e della lex contractus (ad opera  della  sentenza  poi
riformata) sarebbe rimasta ferma  ai  sensi  dell'art.  2126  c.c.  E
quindi il datore di lavoro, qualora dopo la sentenza di' primo  grado
di reintegrazione non avesse effettivamente in  concreto  reintegrato
il lavoratore, sarebbe ugualmente rimasto debitore delle retribuzioni
maturate dalla sentenza di primo grado fino a quella  di  riforma  e,
qualora le avesse  gia'  pagate,  non  avrebbe  potuto  chiederne  la
restituzione (Cass,  n.  1905/1983;  Cass.  n.  3103/1986;  Cass.  n.
5562/1989;  Cass.  n.  3552/1992;  Cass.  n.  11731/1997;  Cass.   n.
7267/1998; Cass. n. 13854/1999). 
    Tutto cio'  -  va  ribadito  -  in  assenza  di  indicazioni  del
legislatore  (nell'originaria  formulazione  dell'art.   18   L.   n.
300/1970)  sulla  natura  giuridica  del   diritto   del   lavoratore
illegittimamente  licenziato  alla  tutela  patrimoniale  e,  quindi,
applicando le regole del diritto comune delle obbligazioni. 
    7. Proprio per modificare questo regime  il  legislatore  e'  poi
intervenuto con la legge n. 108/1990, dichiarando  espressamente  che
le conseguenze patrimoniali sono soltanto  quelle  risarcitorie  (sia
pure parametrate alle retribuzioni perdute) per entrambi  i  periodi.
Tanto e' vero cbe solo a seguito di  questa  novella  legislativa  e'
mutato    l'orientamento    giurisprudenziale    sulle    conseguenze
restiruttorie    dell'eventuale    riforma    della    sentenza    di
reintegrazione,  nel  senso  che  il  lavoratore  -  oggi  -   dovra'
restituire tutto quanto percepito (sempre che non sia stato di  fatto
reintegrato, altrimenti trovando applicazione l'art. 2126  c.c.),  da
qualificare in termini di danno,  da  risarcire  in  presenza  di  un
illecito (id est  il  licenziamento  ritenuto  illegittimo  in  primo
grado) e da escludere, invece, in presenza di un fatto lecito,  quale
il licenziamento ritenuto ab origine legittimo nei  successivi  gradi
di giudizio (Cass. n. 4943/2003; Cass. n. 7543/2006;  Cass.  ord.  n.
15251/2014). 
    8. Dunque, proprio dalla modifica dell'art. 18 L. cit. sul  punto
da parte del legislatore del 1990, si  ricava  a  contrario  che,  in
mancanza di  norme  derogatorie  rispetto  al  diritto  comune  delle
obbligazioni, e' quest'ultimo il regime giuridico da applicare. 
    9. Ebbene, nella cessione di ramo  d'azienda  ritenuta  nulla  (o
inefficace o inopponibile) nei confronti del lavoratore l'illegittimo
allontanamento di questi  dall'azienda  del  cedente  costituisce  un
fatto illecito fonte di  danno  risarcibile  in  relazione  al  primo
periodo, ossia quello che va dalla cessione (che  ha  determinato  il
predetto allontanamento illecito) alla sentenza  cbe  ne  accerti  la
nullita' (o l'inefficacia o l' inopponibilita' al lavoratore). 
    Una volta intervenuta questa sentenza pero' - e a maggior ragione
nel caso, come quello in esame, in cui il giudice non si sia limitato
alla declaratoria di nullita' (o di inefficacia o di inopponibilita')
della cessione, ma abbia pure ordinato la  riammissione  in  servizio
e/o la reintegrazione dei lavoratori nelle originarie mansioni a  cui
erano adibiti presso l'azienda del cedente - il  rapporto  di  lavoro
con il cedente viene ricostituito come vinculum iuris, nel senso  che
viene ripristinato il vigore  della  lex  contractus  e,  quindi,  la
corrispettivita' fra le prestazioni (lavorativa e retributiva). 
    Ne consegue che da questo rapporto di  lavora  cosi  ricostituito
discenderanno gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti  e,
con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare  la  retribuzione,
ovviamente anche nel caso di mora credendi, ossia di  mancanza  della
prestazione lavorativa determinata dal suo rifiuta ingiustificato  di
riceverla. 
    Il rifiuto, se puo' dirsi «giustificato», prima  della  sentenza,
in conseguenza della cessione. in ordine alla quale  non  sia  ancora
intervenuto l'accertamento giurisdizionale, e' invece per definizione
«ingiustificato» dopo  la  sentenza  che  abbia  ormai  accertato  la
nullita'  (o  l'inefficacia  o  l'inopponibiIita')   della   cessione
medesima ed  abbia  ordinato  la  riammissione  in  servizio  e/o  la
reintegrazione nelle originarie mansioni. 
    10. Una conferma di questa ricostruzione si ricava proprio  dalla
disciplina  delle  conseguenze   patrimoniali   della   sentenza   di
accertamento  della  nullita'  del  termine  finale  apposto  ad   un
contratto di lavoro subordinato. 
    Anche in tal caso, prima della riforma  introdotta  dalla  L.  n.
183/2010, si riteneva applicabile il regime del diritto comune  delle
obbligazioni e, pertanto, si riteneva risarcibile il danno pari  alle
retribuzioni perdute a decorrere dalla costituzione  in  mora  (anche
anteriore  all'instaurazione  del  giudizio)   fino   alla   sentenza
dichiarativa della nullita' (ex multis Cass. n. 15827/2003; Cass.  n.
12333/2009), con possibilita'  di  detrarre  l'aliunde  perceptum  in
applicazione del criterio della compensatio lucri cum damno. 
    E' poi intervenuto il legislatore (art. 32 L.  n.  183/2010)  per
dettare un regime speciale, derogatorio di quello del diritto  comune
delle obbligazioni. Ma la deroga e' stata espressamente  limitata  al
periodo (c.d. intermedio) che va  dalla  scadenza  del  termine  (poi
accertato come) nullo fino alla sentenza dichiarativa della nullita',
stabilendo non soltanto che quello del lavoratore e'  un  diritto  al
risarcimento del danno, ma altresi che questo va  liquidato  in  modo
forfettario (senza possibilita' di detrarre piu' l'aliunde perceptum)
ed omnicomprensivo entro limiti massimi normativamente imposti (Cass.
n. 19295/2014). 
    Argomentando per esclusione,  resta  affidato  al  regime  comune
delle obbligazioni il periodo successivo alla  sentenza  dichiarativa
della nullita' del termine finale: il lavoratore avra'  diritto  alle
retribuzioni derivanti dal  rapporto  di  lavoro  «ricostituito»  dal
giudice che abbia accertato e dichiarato la nullita'  della  clausola
relativa al termine finale originariamente apposta  al  contratto  di
lavoro subordinato (in termini Cass. n. 19295 cit.). 
    11. Ed allora, pure nel caso  di  cessione  illegittima  di  ramo
d'azienda, in mancanza  di  norme  derogatorie  rispetto  al  diritto
comune delle obbligazioni, non resta che ribadire la  diversa  natura
dei diritti  dei  lavoratori  ceduti  in  relazione  ai  due  periodi
considerati:  diritto  al  risarcimento  del   danno   per   illecito
allontanamento dal posto di lavoro presso il cedente in relazione  al
primo periodo, che va dalla cessione alla sentenza che ne accerti  la
nullita' (o l'inefficacia o l'inopponibilita') e ordini al cedente la
riammissione in servizio e/o la reintegrazione dei  lavoratori  nelle
originarie mansioni; diritto alle retribuzioni  per  il  ricostituito
vinculum iuris in relazione al secondo periodo, che va dalla sentenza
dichiarativa della nullita' (o inefficacia)  della  cessione  in  poi
(fino all'effettivo ripristino de facto del  rapporto  di  lavoro  da
parte del cedente), anche - ed ovviamente nel caso in cui  il  datore
di lavoro rifiuti,  in  modo  ormai  ingiustificato,  la  prestazione
lavorativa offerta (art. 1207 c.c.). 
    12. In senso contrario viene invocata dalla  societa'  appellante
la circostanza, secondo cui, pur non avendo essa cedente  ottemperato
alla  sentenza  dichiarativa  della  nullita'  della  cessione  e  di
condanna al ripristino del rapporto di  lavoro,  i  lavoratori  hanno
continuato a lavorare  presso  il  cessionario  ed  banno  continuato
percio' a percepire la relativa retribuzione. 
    Questa circostanza e' solo parzialmente rilevante. 
    Il rapporto di lavoro presso il cedente viene ricostituito  dalla
sentenza si' a posteriori, ma pur sempre ex tunc, dal momento che  la
sentenza si limita ad accertare l'inesistenza delle condizioni e  dei
presupposti  richiesti  dall'art.  2112  c.c.  per  la  cessione  del
contratto  di  lavoro  senza  il  consenso  del  lavoratore   ceduto,
altrimenti necessario ex art. 1406 c.c. 
    Ne derivano due conseguenze: il rapporto di  lavoro  de  iure  e'
ricostituito alle dipendenze del cedente e quello con il  cessionario
deve ritenersi instaurato - e proseguito - ai  sensi  dell'art.  2126
c.c., per cui per tutto il periodo di esecuzione di  questo  rapporto
c.d. di fatto il lavoratore ha diritto di ricevere ia retribuzione. 
    Ora, poiche' - come si e' detto - in relazione al primo  periodo,
nei confronti del cedente, il diritto del lavoratore illegittimamente
ceduto senza  il  suo  consenso  ha  natura  risarcitoria  (derivante
dall'illecito allontanamento  dall'azienda  del  cedente),  opera  il
correttivo della compensatio lucri cum damno. Pertanto  nulla  spetta
al lavoratore - in relazione a questo primo periodo  -  se  il  danno
patito (retribuzioni perdute presso il  cedente)  risulti  totalmente
«neutralizzato» dal lucro ottenuto aliunde, ossia dalle  retribuzioni
percepite presso il cessionario. 
    Diversamente, poiche' in relazione al secondo periodo il  diritto
del lavoratore ha  natura  retributiva,  derivante  dai  rapporto  di
lavoro de iure ricostituito dalla sentenza che ha dichiarato nulla (o
inefficace) la cessione nei suoi confronti,  il  correttivo  predetto
non  puo'  piu'  operare,  in  quanto  incompatibile  con  il  regime
giuridico del diritto comune delle  obbligazioni,  ossia  della  mora
credendi, discendente dalla ricostituita  lex  contractus.  E  questa
incompatibilita' deriva dal fatto cbe il rifiuto (perdurante dopo  la
sentenza)  di  ricevere  le  prestazioni  lavorative  del  dipendente
illegittimamente ceduto deve dirsi ingiustificato per definizione (v.
sopra), Quindi, le obbligazioni del datore di lavoro restano intatte:
imputet sibi se dovra' pagare le retribuzioni senza aver ottenuto  la
prestazione lavorativa, che e' mancata esclusivamente per  fatto  suo
proprio (del cedente), senza che il vincolo di corrispettivita' possa
dirsi venuto giuridicamente meno. 
    13, Ad avviso di questa Corte, solo la illustrata distinzione fra
i due periodi consente di indurre  il  cedente  ad  ottemperare  alla
sentenza dichiarativa della nullita' (o inefficacia)  della  cessione
d'azienda (o di un suo ramo) e, quindi, di assicurare  l'effettivita'
della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.). 
    Altrimenti, il rischio e' che il cedente resti inottemperante  ad
libitum (specialmente qualora vi siano precisi accordi in  tal  senso
intercorsi  con  il  cessionario),  non   solo   dopo   la   sentenza
dicbiarativa della nullita' (o inefficacia) della cessione con ordine
di   ripristino   dei   rapporti   di   lavoro   con   i   dipendenti
illegittimamente ceduti, ma addirittura  dopo  il  suo  passaggio  in
giudicato. Il cedente, infatti, potrebbe confidare nel  fatto  che  i
lavoratori,  illegittimamente  (anche  per   giudicato)   ceduti   al
cessionario, continuino a percepire da quest'ultimo la  retribuzione,
certo  cbe  allora  non  andra'  incontro   ad   alcuna   conseguenza
risarcitoria, perche' «neutralizzata» senza  limiti  temporali  dalla
sopra vista compensatio lucri cum damno. 
    Questa conseguenza e' da rifiutare per due ragioni. 
    In primo luogo si  finirebbe  per  rendere  inutile  l'azione  di
accertamento della nullita' (o inefficacia o  inopponibilita')  della
cessione, con  un  palese  vulnus  dell'art.  24  Cost.,  perche'  ne
discenderebbe l'insussistenza - per definizione - di un interesse  ad
agire del lavoratore, vista la (nient'affatto remota) probabilita' di
non ritornare mai piu' «in concreto» alle dipendenze del cedente e di
non  poter  pretendere  da  quest'ultimo  le   retribuzioni.   Questa
conseguenza sarebbe in  contrasto  con  il  «diritto  vivente»  nella
stessa Suprema Corte, secondo cui,  invece,  un  interesse  ad  agire
sussiste pur sempre (Cass. 16/06/2014, n. 13637; Cass. 15/04/2014, n.
8756), da apprezzare proprio rispetto ai crediti maturati nel periodo
successivo alla cessione del ramo d'azienda, di cui  si  contesti  la
validita' (o l'efficacia). 
    In secondo luogo si  finirebbe  per  realizzare  un'inammissibile
alterazione  dei  fini  per  i  quali  -  nel  diritto  comune  delle
obbligazioni - e' stato elaborato  il  correttivo  della  compensatio
lucri cum damno. E cio' sotto due profili: 
        a)  quel  correttivo  attiene  al  principio   dell'integrale
riparazione del danno (id est senza iniusta locupletatio da parte del
danneggiato) e trova applicazione in tutti i casi in cui un  profitto
venga si' tratto dal danneggiato,  ma  senza  alcun  apporto  elusivo
causalmente  riconducibile  al  danneggiante,  ispirato  al  fine  di
sottrarsi (in tal modo) alle conseguenze  risarcitorie  dell'illecito
commesso. Invece nel caso in esame, pure sulla base di  specifici  ed
appositi  accordi  fra  cedente  e   cessionario,   potrebbe   essere
preordinatamente realizzata la  violazione  (ossia  l'inottemperanza)
della sentenza (anche passata in giudicato)  senza  limiti  temporali
(ad libitum) per quanto sopra detto. Ammettere anche in tal  caso  la
compensatio significherebbe, quindi, legittimare un comportamento  (o
un accordo dal contenuto) illecito in un  duplice  senso:  sul  piano
processuale perche' volto ad eludere (se non proprio  a  violare)  un
provvedimento giurisdizionale (anche con dignita' di giudicato);  sul
piano  sostanziale  perche'  volto  a  procrastinare  sine   die   le
conseguenze di una cessione, che invece  -  non  applicandosi  l'art.
2112  c.c.  -  secondo  il  diritto  comune  del  contratto  e  delle
obbligazioni non e' idonea a produrre alcun effetto nei confronti del
contraente ceduto, in  quanto  per  perfezionarsi  e  divenire  cosi'
efficace avrebbe richiesto il consenso pure  di  quest'ultimo,  ossia
del lavoratore (art. 1406 c.c.), consenso che invece e' mancato; 
        b) quel correttivo attiene  al  potere  di  liquidazione  del
danno che spetta al giudice investito della cognizione  dell'illecito
e, dunque, per definizione opera limitatamente al periodo che va  dal
giorno  dell'illecito  alla   sentenza   cbe   lo   accerti   e   cbe
contestualmente  liquidi  il  danno  risarcibile.  Successivamente  a
quella pronunzia, invece.  il  debito,  trasformatosi  da  debito  di
valore in debito di valuta (Cass. n. 9648/1996; Cass.  n.  4983/2004;
Cass. n. 10839/2007), resta assoggettato al regime giuridico  proprio
delle obbligazioni pecuniarie, rispetto all'adempimento  delle  quali
diviene del tutto estraneo il correttivo della  compensatio.  Aderire
alla tesi della societa'. invece, implica che questo correttivo operi
pure per il periodo successivo  alla  sentenza  che  abbia  accertato
l'illecito e liquidato il danno, cio' che - per  quanto  detto  -  e'
inammissibile. poiche' del tutto estraneo alla sua ratio. 
    14.  Alla  luce  di  tutte  queste  considerazioni,  allora,   le
pronunzie della Suprema Corte di  Cessazione,  sopra  ricordate  (nn.
14542/2014 e 16096/2014), vanno certamente condivise in relazione  al
primo periodo, ma non pure in relazione al secondo, per il  quale  il
lavoratore  illegittimamente  ceduto,  per  effetto  della   sentenza
ripristinatoria della lex  contractus,  ossia  del  suo  rapporto  di
lavoro de iure con  il  cedente.  ha  diritto  all'adempimento  delle
obbligazioni cbe da quel rapporto (e da quella lex) discendono, prima
fra tutte la retribuzione, che - come tale - resta  insensibile  agli
eventuali redditi dal medesimo lavoratore aliunde conseguiti. 
    15. La soluzione preferita da questa Corte,  infine,  e'  l'unica
conforme  a  Costituzione,  in  quanto  idonea  a  rappresentare  una
coazione - sia pure  soltanto  indiretta  -  verso  il  cedente,  per
indurlo ad ottemperare alla sentenza che abbia  dichiarato  nulla  (o
inefficace) la cessione d'azienda (o di un suo ramo), specie  laddove
passata in giudicato, in tal modo assicurando alla  parte  vittoriosa
tutte le utilita' cbe la  tutela  giurisdizionale  puo'  offrire,  in
ossequio agli artt. 24 e 111 Cost. e al principio di  «effettivita'»,
evincibile dai precetti costituzionali 
    16. Nonostante l'articolato convincimento  di  questa  Corte  nei
termini sopra riportati - corrispondente al contenuto  di  molteplici
sentenze gia' pubblicate - l'orientamento  cbe  si  e'  ulteriormente
affermato presso la Suprema Corte di  Cassazione  e'  rimasto  quello
sopra  ricordato  e  si  sta  ormai  via  via   consolidando   (Cass.
09/09/2014, n. 18955; Cass. 02/04/2015, n.  6755),  tanto  da  essere
ulteriormente  ribadito  nella  forma   semplificata   dell'ordinanza
(Cass., ord.  05/12/2016.  n.  24817;  Cass.,  ord..  30/05/2016,  n.
11095). 
    Tuttavia, questo  orientamento  -  che  puo'  dirsi  abbia  ormai
raggiunto un livello di consolidamento presso  la  Suprema  Corte  di
Cassazione tale, da integrare il «diritto vivente» - non tiene  conto
di quanto affermato dalla stessa Suprema Corte: 
        a) in tema di interesse ad agire del lavoratore coinvolto  in
un trasferimento d'azienda (o di ramo d'azienda). In particolare,  si
e' affermato che «In tema di trasferimento d'azienda,  il  lavoratore
ha interesse ad accertare in giudizio la  non  ravvisabilita'  di  un
ramo d'azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento,  e,
quindi, in difetto del suo consenso, l'inefficacia nei suoi confronti
del trasferimento stesso, non essendo  per  lui  indifferente,  quale
creditore della prestazione retributiva, il mutamento  della  persona
del debitore-datore di lavoro, che puo' offrire garanzie piu' o  meno
ampie di tutela dei suoi diritti. Tale interesse non viene  meno  ne'
per lo svolgimento, in via di mero fatto, di  prestazioni  lavorative
per il cessionario, che non integra accettazione della  cessione  del
contratto di' lavoro, ne' per  effetto  dell'eventuale  conciliazione
intercorsa tra lavoratore e cessionario all'esito  del  licenziamento
del primo, ne', in genere, in conseguenza  delle  vicende  risolutive
del rapporto con il cessionario»  (Cass.  16/06/2014,  n.  13617;  in
termini v. altresi' Cass. n. 8756/2014). 
    Orbene, questo interesse verrebbe  certamente  meno,  qualora  si
consentisse al cedente di impedire sine die ai lavoratori  ceduti  di
tornare alle sue dipendenze; 
        b) in tema di conseguenze della sentenza  dichiarativa  della
nullita' del termine finale per il periodo successivo  alla  sentenza
medesima. In particolare si e' affermato che «ln tema di risarcimento
del danno nei casi di conversione del contratto  di  lavoro  o  tempo
determinato, l'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010,  commisura
l'indennita'  dovuta  all'ultima  retribuzione  globale   di   fatto,
riferendosi al danno subito dal lavoratore, ossia alla perdita  della
retribuzione (ed accessori) per essere stato allontanato dal  proprio
posto nel periodo compreso tra  l'allontanamento  e  la  sentenza  di
merito» Cass. 10/07/2015, n. 14461; in termini v. altresi'  Cass.  n.
151/2015;  Cass.  n.  19295/2014),  affermando,  cosi',   la   natura
retributiva del diritto del dipendente successivamente alla  sentenza
di merito: 
        c) in tema di  struttura  necessariamente  trilaterale  della
cessione del contratto (anche di lavoro subordinato). in particolare,
si e' affermato che «Ai sensi dell'art. 1406 cod.  civ.  la  cessione
del contratto, che realizza un negozio plurilaterale,  si  perfeziona
con l'accordo  di  tutti  gli  interessati  (cedente,  cessionario  e
ceduto)» (Cass. 16/03/2007, n. 6157: Cass. 6349/2001;  cfr.  altresi'
Cass. n. 14442/2016, che fa applicazione del predetto principio in un
singolare caso di simulazione di una cessione  di  ramo  di  azienda,
dissimulante la cessione di un contratto  di  locazione  immobiliare;
cfr. ancora Cass. n. 5439/2006,  che  fa  applicazione  del  predetto
principio in tema di litisconsorzio).  Pertanto,  qualora  manchi  il
consenso di uno dei tre contraenti necessari, la  cessione  non  puo'
dirsi perfezionata e quindi  e'  per  definizione  inefficace,  ossia
inidonea ad incidere sulle originarie obbligazioni  delle  parti  del
contratto originario «oggetto della cessione non perfezionatasi). 
    17.  Con  riferimento  -  quale  tertium  compararionis  -   alla
declaratoria di nullita' del termine  finale,  il  predetto  «diritto
vivente» presso la Suprema  Corte  di  Cassazione  non  tiene  conto,
altresi', di quanto argomentato dalla  Corte  Costituzionale  con  la
nota sentenza n.  303/2011  relativa  all'art.  32  L.  n.  183/2010:
«Omissis... Quanto poi alla denunziata insufficienza del  trattamento
forfetario  previsto  dalle  disposizioni  censurate,  la  Corte   di
cassazione  rimettente  ritiene  che  l'indennita'   onnicornprensiva
prevista  dall'art.  32,  commi  5  e  6  della  legge  citata.   non
ipotizzabile come aggiuntiva al risarcimento dovuto secondo le regole
di diritto comune, assorba l'intero pregiudizio subito dal lavoratore
a causa dell'illegittima opposizione  del  termine  al  contratto  di
lavoro, dal giorno dell'interruzione del  rapporto  fino  al  momento
dell'effettiva riammissione in servizio. Donde l'effetto a suo avviso
perverso di indurre il datore a persistere nell'inadempimento,  anche
sottraendosi  all'esecuzione  della  condanna,  non  suscettibile  di
esecuzione in forma specifica, con indefinita dilatazione  del  danno
ed abnorme sproporzione dell'indennita' rispetto ad esso. 
    Un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della  novella,
pero', induce a ritenere che il danno forfetizzato dall'indennita' in
esame copre soltanto il periodo cosiddetto «intermedio», quello cioe'
che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza  che  accerta
la nullita' di esso e dichiara la conversione del rapporto. 
    A partire dalla sentenza con cui il giudice,  rilevato  il  vizio
della pattuizione del termine, converte il contratto  di  lavoro  che
prevedeva  una  scadenza  in  un  contratto   di   lavoro   a   tempo
indeterminato,  e'  da  ritenere  che  il  datore   di   lavoro   sia
indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e
a corrispondergli, in ogni caso, le  retribuzioni  dovute,  anche  in
ipotesi di mancata riammissione effettiva. 
    Diversamente opinando, la tutela fondamentale  della  conversione
del rapporto in lavoro a tempo  indeterminato  sarebbe  completamente
svuotata. Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l'accertamento
giudiziale del rapporto o tempo indeterminato, potesse  limitarsi  al
versamento  di  una  somma  compresa  tra  2,5  e  12  mensilita'  di
retribuzione, non subirebbe alcun  deterrente  idoneo  ad  indurlo  a
riprendere  il  prestatore  a  lavorare   con   se'   E   lo   stesso
riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da  parte  del
giudice sarebbe posto nel nulla. 
    Cosi intesa la  norma  censurata,  cade  l'ipotesi  di  paventata
sproporzione dell'indennita' di cui all'art. 32. commi 5 e  6,  della
legge citata, rispetto alla denunziata  esigenza  di  ristoro  di  un
danno destinato  a  crescere  con  il  decorso  del  tempo,  sino  ad
attingere valori non esattamente prevedibili...Omissis». 
    Si tratta di argomenti  che,  per  assoluta  identita'  di  ratio
valgono anche in tema di conseguenze della  sentenza  con  cui  viene
dichiarata l'inefficacia (o la nullita' per mancanza  del  necessario
consenso di uno dei  contraenti)  della  cessione  del  contratto  di
lavoro subordinato, una volta esclusa l'applicabilita' 2112 c.c.  per
difetto degli elementi costitutivi della relativa  fattispecie  (come
nel caso in esame). 
    18. Il   trasferimento   di'   ramo   d'azienda   con    connesso
trasferimento del rapporto di lavoro subordinato rientra  nell'ambito
applicativo della cessione del contratto (art. 1406 c.c.), che  viene
dichiarata inefficace o nulla proprio perche'  -  in  mancanza  degli
elementi costitutivi  della  fattispecie  prevista  2112  c.c.  -  e'
mancato il necessario consenso di uno dei necessari contraenti, ossia
quello ceduto (altrimenti non necessario ex art. 2112 c.c.). 
    Orbene, va ricordato che nei rapporti  fra  contraente  ceduto  e
cedente, quest'ultimo  e'  liberato  delle  sue  obbligazioni  (nella
specie di natura retributiva)  solo  se  e  nel  momento  in  cui  la
cessione (del contratto) diviene efficace nei  confronti  del  ceduto
(art. 1408, co. 1^ c.c.). 
    Ne consegue  che  se  la  cessione  (sia  pure  all'esito  di  un
accertamento giurisdizionale ex post) risulti non essere mai divenuta
efficace, in quanto e' mancato il necessario consenso del  contraente
ceduto (ossia del lavoratore), il cedente (ossia l'originario  datore
di lavoro, nella specie Telecom  Italia  spa)  non  potra'  ritenersi
liberato dall'obbligo retributivo. 
    Tuttavia. trattandosi di rapporto di durata. per il  periodo  che
va dalla cessione.  poi  risultata  e  dichiarata  inefficace,  e  la
sentenza  di  merito  che  abbia  poi  accertato  e  dichiarato  tale
inefficacia, l'obbligo retributivo viene meno in omaggio al principio
di  corrispettivita'  delle  prestazioni:  essendo   mancata   quella
lavorativa, viene meno pure quella retributiva  (come,  altresi',  in
caso di nullita' del termine finale apposto al  contratto  di  lavoro
subordinato  negli  intervalli  non  lavorati  fino   alla   sentenza
dichiarativa della nullita': v. supra) e residua  soltanto  un  fatto
illecito - ossia l'allontanamento  dal  posto  di  lavoro  presso  il
cedente - fonte di un'obbligazione risarcitoria per l'eventuale danno
patito dal dipendente. 
    Invece, per il periodo successivo alla sentenza (di  merito)  che
abbia accertato  l'inefficacia  del  trasferimento  d'azienda.  viene
ricostituita la lex  contractus  e,  quindi,  viene  ripristinata  la
corrispettivita' fra le prestazioni cui  sono  obbligati  il  cedente
(originario datore di lavoro) e il ceduto (il lavoratore).  E  dunque
il  dipendente  ha  l'obbligo  di  riprendere   a   lavorare   presso
l'originario datare di lavoro (cedente) e quest'ultimo  ha  l'obbligo
di pagare la retribuzione. 
    Se  la  prima  obbligazione  non  viene  adempiuta  a  causa  del
persistente rifiuto del cedente di riceverla, trova  applicazione  la
disciplina della mora credendi (art.  1206  c.c.):  a  tal  fine,  la
necessaria intimazione a ricevere la prestazione (art. 1217 c.c.)  va
individuata (in mancanza  di  atti  stragiudiziali  anteriori)  nella
notifica  del  ricorso   introduttivo   del   giudizio   volto   alla
declaratoria di inefficacia (o inopponibilita') del trasferimento  di
ramo d'azienda. Ed allora, a seguito  della  sentenza  conclusiva  di
tale giudizio, il creditore della prestazione lavorativa  non  potra'
piu' opporre alcun motivo legittimo per  continuare  a  rifiutare  la
prestazione medesima (art. 1206 c.c.). 
    Secondo  il  diritto  comune  delle  obbligazioni,  inoltre,   il
creditore in mora (ossia il datore di lavoro cedente) resta tenuto in
primo luogo  ad  adempiere  la  propria  prestazione  (principalmente
quella retributiva) ed inoltre a risarcire l'eventuale  danno  patito
dalla  controparte  (ossia  dal  lavoratore)  a   causa   di   questo
comportamento (art. 1207 c.c.). 
    19. Il diverso «diritto vivente», rappresentato  dal  consolidato
ed ormai reiterato orientamento della  Suprema  Corte  di  Cassazione
sopra ricordato, non puo' certo essere trascurato, in  ossequio  alla
funzione nomofilattica istituzionalmente  assegnato  dall'ordinamento
giudiziario ai giudici di legittimita' (art. 65 r.d. n. 12/1941). 
    Cio', tuttavia, non esclude, anzi  impone  il  dovere  di  questa
Corte di affrontare, allora, il  problema  della  compatibilita'  del
predetto «diritto vivente» con principi e norme costituzionali. 
    In particolare, il principio di diritto  espresso  dalla  Suprema
Corte di Cassazione  si  traduce  in  un'ambivalente  interpretazione
della  disciplina  della  moro  credendi,  risultante  dal  combinato
disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c.: 
        - o nel  senso  della  sua  inapplicabilita'  in  favore  dei
dipendenti del cedente in un trasferimento di ramo d'azienda  per  il
periodo successivo alla sentenza di  merito  che  l'abbia  dichiarato
nullo,  inefficace  o  inopponibile,  persistendo  solo  un   obbligo
risarcitorio da inadempimento (art. 1218 c.c.): 
        - ovvero nel senso di limitare il suo contenuto precettivo ed
i suoi effetti al solo obbligo risarcitorio (da mora  credendi:  art.
1207 c.c.) in capo al datore di lavoro  cedente,  per  gli  eventuali
danni patiti dai dipendenti (interessati dalla cessione)  sia  per il
periodo anteriore, sia per quello  successivo  (e  ad  libitum)  alla
sentenza  di  merito  che  abbia  dichiarato  nullo,   inefficace   o
inopponibile il trasferimento medesimo. 
    Orbene, ad avviso di questa Corte, in entrambi i casi la predetta
disciplina  -   cosi'   come   risultante   da   questa   ambivalente
interpretazione - sarebbe in contrasto: 
        a) con  l'art.  3  Cost.  a  causa  della  ingiustificata  ed
irragionevole disparita' di trattamento che verrebbe realizzata: 
- sia rispetto alla disciplina della mora credendi in tutte le  altre
obbligazioni relative a rapporti contrattuali diversi  da  quelli  di
lavoro subordinato. 
- sia rispetto alla disciplina delle conseguenze che  -  in  tema  di
nullita'  del  termine  finale  apposto  al   contratto   di   lavoro
subordinato - derivano dalla  sentenza  (di  merito)  con  cui  venga
dichiarata  la  nullita'  del  termine  medesimo.  per   il   periodo
successivo alla sentenza medesima; 
        b) con l'art.  24  Cost.,  atteso  che  la  possibilita'  ivi
riconosciuta a tutti di agire in giudizio per la tutela di diritti ed
interessi postula che quest'ultima  consenta  di  trarne  un'utilita'
pratica giuridicamente apprezzabile (c d. effettivita'  della  tutela
giurisdizionale). Ed invece questa «effettivita'» sarebbe vanificata: 
- sia perche' al  cedente  verrebbe  consentito  (mediante  specifici
accordi con il cessionario) di sottrarsi ad  libitium  alla  sentenza
(ancbe passata in giudicato) con cui sia stata dicbiarata la nullita'
o  l'inefficacia  o  l'inopponibilita'  del  trasferimento  di   ramo
d'azienda nei confronti del lavoratore, 
- sia perche' - e di conseguenza -  verrebbe  eliminato  «in  radice»
l'interesse concreto ad agire in giudizio in capo ai  dipendenti  del
datore  di  lavoro  cedente,  vista   l'inutilita'   della   sentenza
quand'anche favorevole, sicche' la possibilita' di agire in  giudizio
si tradurrebbe in un «vuoto simulacro»; 
        c) con l'art. 111 Cost.,  laddove  prevede  la  garanzia  del
«giusto processo», in quanto la «giustizia» ovvero la «giustezza» del
processo e' strettamente e  propriamente  determinata  dal  grado  di
«effettivita'» della tutela che quel processo e' (o dovrebbe  essere)
istituzionalmente in grado di offrire a chi agisce in giudizio; 
        d) con l'art. 117 Cost.  per  violazione  dell'art.  6  della
C.E.D.U., che prevede il «diritto ad un  processo  equo»:  tale  puo'
dirsi solo quello cbe consenta di ottenere la tutela  specifica  (ove
giuridicamente possibile) e comunque  piu'  idonea  a  conseguire  la
concreta utilita' che l'ordinamento riconosce sul piano  del  diritto
sostanziale, in omaggio  al  carattere  prettamente  strumentale  dei
rimedi processuali rispetto alle situazioni giuridiche soggettive  da
tutelare. 
    20. Le predette questioni sono «rilevanti», in quanto dalla  loro
soluzione dipende l'esito dell'appello di Telecom Italia spa: qualora
il «diritto vivente» fosse riconosciuto conforme a  Costituzione,  il
gravame  dovrebbe  essere  accolto,  con   conseguente   accoglimento
(integrale) dell'opposizione avverso  il  decreto  ingiuntivo  a  suo
tempo ottenuto dall'appellato. 
    Le  medesime  questioni   sono   altresi'   «non   manifestamente
infondate» per tutte le ragioni sopra esposte ed illustrate. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge n. 83/1957, 
        a) dichiara  rilevanti  e  non  manifestamente  infondate  le
questioni di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli
artt. 1206, 1207 e 1217 c.c. per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e
117 Cost.; 
        b) dispone l'immediata trasmissione  di  tutti  gli  atti  di
causa alla Corte Costituzionale; 
        c) sospende il giudizio in corso; 
        d) dispone che a cura della cancelleria la presente ordinanza
sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei
Ministri, nonche' comunicata  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento. 
 
                   Il Presidente est.:  Panariello