N. 24 SENTENZA 10 gennaio - 9 febbraio 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Magistrati - Allineamento stipendiale per i vincitori di concorso per
  esami previsto dal nono comma dell'art. 4 della legge  n.  425  del
  984 - Abrogazione, con norma d'interpretazione autentica, di  detta
  disposizione dalla data di entrata in vigore del d.l.  n.  333  del
  1992 - Perdita di efficacia dei provvedimenti e delle decisioni  di
  autorita' giurisdizionali adottati in  difformita'  dalla  predetta
  interpretazione. 
- Legge 23 dicembre  2000,  n.  388,  recante  «Disposizioni  per  la
  formazione del bilancio annuale e pluriennale  dello  Stato  (legge
  finanziaria 2001)», art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo. 
-   
(GU n.7 del 14-2-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma 4,
penultimo e ultimo periodo, della legge 23  dicembre  2000,  n.  388,
recante «Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale  e
pluriennale dello  Stato  (legge  finanziaria  2001)»,  promossi  dal
Consiglio di Stato, adunanza plenaria, con ordinanza  del  14  luglio
2015 e dal Consiglio di Stato, sezione quarta, con  ordinanza  dell'8
febbraio 2017, iscritte, rispettivamente,  al  n.  231  del  registro
ordinanze 2015 e al n. 52 del registro ordinanze  2017  e  pubblicate
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  45,  prima   serie
speciale, dell'anno 2015 e n. 16,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2017. 
    Visti gli atti di costituzione di G. S. e altri  (fuori  termine,
nel giudizio promosso con l'ordinanza iscritta al n. 52 del  registro
ordinanze 2017), nonche' gli atti di intervento  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    udito nella udienza pubblica del 9  gennaio  e  nella  camera  di
consiglio del 10 gennaio 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis; 
    uditi l'avvocato Pietro Quinto per G. S.  e  altri  e  l'avvocato
dello Stato Chiarina Aiello  per  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 14 luglio 2015 (reg. ord. n. 231 del 2015),
l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha sollevato questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma  4,  della  legge  23
dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)»,
in riferimento  agli  articoli  3,  97  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, quest'ultimo in relazione  agli  artt.  6  e  13  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    La norma e' censurata nella parte in cui prevede che  «[i]l  nono
comma dell'articolo 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425,  si  intende
abrogato dalla data di entrata in vigore del [...]  decreto-legge  n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  359  del
1992, e perdono ogni efficacia i  provvedimenti  e  le  decisioni  di
autorita'  giurisdizionali  comunque  adottati  difformemente   dalla
predetta  interpretazione  dopo  la   data   suindicata»   (penultimo
periodo), e che «[i]n ogni caso non sono dovuti e non possono  essere
eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti»
(ultimo periodo). 
    L'abrogato art. 4, nono comma, della legge 6 agosto 1984, n.  425
(Disposizioni  relative  al  trattamento  economico  dei  magistrati)
stabiliva che: «[...] per il personale che ha conseguito la nomina  a
magistrato di corte d'appello o a magistrato di corte di cassazione a
seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4  gennaio  1963,
n. 1, e successive modificazioni e integrazioni,  l'anzianita'  viene
determinata in misura pari a quella  riconosciuta  al  magistrato  di
pari qualifica con maggiore anzianita' effettiva  che  lo  segue  nel
ruolo». 
    1.1.- Le questioni sono sorte nel corso  del  giudizio  d'appello
avverso  la  sentenza  con  la  quale  il  Tribunale   amministrativo
regionale per il Lazio  ha  respinto  il  ricorso  proposto  da  nove
consiglieri di Stato - vincitori di  concorso  -  per  l'annullamento
della nota emessa il 3 febbraio 2003 dal Presidente del Consiglio dei
ministri. 
    Con tale nota erano state respinte le istanze di esecuzione delle
decisioni adottate dal Presidente della Repubblica  il  27  settembre
1999, di  accoglimento  dei  ricorsi  straordinari  presentati  dagli
stessi consiglieri di Stato per ottenere,  a  titolo  di  adeguamento
stipendiale ai sensi dell'art. 4, nono comma, della legge n. 425  del
1984, il maggiore trattamento economico riconosciuto ai magistrati di
pari qualifica che li seguono nel ruolo. 
    Il rimettente ricorda che in precedenza gli  interessati  avevano
presentato ricorso in ottemperanza allo stesso Consiglio di Stato per
l'esecuzione delle decisioni del Presidente della Repubblica,  ma  la
sentenza di accoglimento era stata  successivamente  annullata  dalle
sezioni unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione. 
    Riferisce inoltre che il TAR Lazio, nel  corso  del  giudizio  di
primo grado, aveva sollevato questione di legittimita' costituzionale
dello stesso art. 50, comma 4,  della  legge  n.  388  del  2000,  in
relazione agli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 Cost.,  in  quanto,  nello
stabilire l'abrogazione retroattiva dell'art. 4,  nono  comma,  della
legge n. 425 del 1984, la disposizione avrebbe inciso sulle posizioni
individuali gia' riconosciute da decisioni definitive di accoglimento
di ricorsi  straordinari  al  Presidente  della  Repubblica.  Con  la
sentenza n. 282 del 2005, questa Corte ha dichiarato non  fondata  la
questione, sul presupposto che le decisioni adottate con decreto  del
Presidente della Repubblica in  sede  di  ricorso  straordinario  non
hanno la natura ne' gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale  e
che, pertanto, non vale  per  esse  la  salvezza  del  giudicato  che
costituisce il limite invalicabile  all'efficacia  retroattiva  delle
norme di interpretazione autentica. 
    1.2.- Premessa un'ampia trattazione dei principi che regolano  il
controllo di  legittimita'  costituzionale  delle  norme  interne  in
contrasto con la CEDU, il giudice a quo deduce che  la  questione  e'
rilevante,  in  quanto  l'effetto  preclusivo  prodotto  dalla  norma
censurata   costituisce   l'unica   ragione   del   diniego   opposto
dall'amministrazione alle richieste dei ricorrenti e  l'unico  motivo
posto a fondamento della decisione sfavorevole resa dal TAR Lazio. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a  quo  deduce
che le sopravvenute modifiche  legislative  introdotte  dall'art.  69
della legge 18 giugno 2009,  n.  69  (Disposizioni  per  lo  sviluppo
economico, la semplificazione, la competitivita' nonche'  in  materia
di processo civile) - sulla legittimazione del Consiglio di  Stato  a
sollevare questioni  incidentali  di  costituzionalita'  in  sede  di
parere sul ricorso straordinario e sulla soppressione del potere  del
Governo di discostarsi da tale parere - e dall'art. 7, comma  8,  del
codice del processo amministrativo (Allegato 1 al decreto legislativo
2 luglio 2010, n. 104, recante  «Attuazione  dell'articolo  44  della
legge 18 giugno 2009,  n.  69,  recante  delega  al  governo  per  il
riordino del processo  amministrativo»)  -  in  forza  del  quale  il
ricorso  straordinario  e'  ammissibile  solo  per  le   controversie
devolute alla giurisdizione  amministrativa  -  hanno  attribuito  al
decreto presidenziale la natura sostanziale di decisione di giustizia
caratterizzata dall'intangibilita' propria del giudicato,  in  quanto
il provvedimento finale sul ricorso straordinario  sarebbe  meramente
dichiarativo di un giudizio formulato in modo compiuto  e  definitivo
da un organo giurisdizionale operante nel rispetto delle  regole  del
contraddittorio, in posizione di terzieta' e di indipendenza. 
    Lo ius superveniens, tuttavia,  non  varrebbe  ad  attribuire  la
stessa  natura  sostanziale  di  giudicato  alle  decisioni  rese  in
precedenza, in un contesto normativo in cui esse,  pur  esibendo  nel
loro nucleo essenziale la connotazione di  statuizioni  di  carattere
giustiziale,  non  potevano  ancora  considerarsi  espressione  della
funzione giurisdizionale, nel significato pregnante degli artt.  102,
primo comma, e 103, primo comma, Cost. La decisione  invero  non  era
riconducibile  in  via  esclusiva  ad  un'autorita'  giurisdizionale,
essendo   prevista   la   concorrente    paternita'    dell'autorita'
amministrativa, sia pure attraverso l'aggravamento procedurale  della
sottoposizione all'approvazione del Consiglio dei ministri, da  parte
del ministro competente, della eventuale proposta difforme dal parere
del Consiglio di Stato. Ne' rileverebbe che, nel caso concreto,  tale
parere non sia stato disatteso  dal  Governo,  in  quanto  la  natura
giurisdizionale o non  di  una  decisione  deve  essere  valutata  in
astratto, secondo il «paradigma normativo  di  riferimento»,  che  in
epoca anteriore alle menzionate riforme  non  attribuiva  al  giudice
amministrativo  il  potere  di   decidere   in   via   esclusiva   la
controversia. Neppure gioverebbe a sostegno della tesi della  portata
di giudicato delle decisioni  rese  sui  ricorsi  straordinari  prima
della riforma l'orientamento giurisprudenziale che ammette anche  per
esse il giudizio di ottemperanza ex art.  112  cod.  proc.  amm.,  in
quanto l'equiparazione di tali decisioni  alle  sentenze  passate  in
giudicato opera ai  soli  fini  dell'esperibilita'  del  giudizio  di
ottemperanza,  in  applicazione  del  principio  tempus  regit  actum
sotteso al disposto dell'art. 5 del codice di procedura civile. 
    1.3.- Dopo avere riassunto le motivazioni della  citata  sentenza
n. 282 del 2005 e avere escluso, per le ragioni appena  esposte,  che
l'art. 50, comma  4,  della  legge  n.  388  del  2000  possa  essere
interpretato nel senso di escludere dalla sua sfera  di  applicazione
retroattiva le precedenti decisioni rese sui ricorsi straordinari, il
rimettente osserva che secondo gli artt. 6  e  13  della  CEDU,  come
interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, le  decisioni
amministrative irrevocabili espressione  di  «judicial  review»  sono
«equated to a Court decision» e, in  quanto  tali,  non  solo  devono
essere  suscettibili  di   attuazione   coattiva,   ma   sono   anche
«caratterizzate dall'intangibilita'» da parte di norme retroattive, a
tutela dell'affidamento legittimo dei singoli. 
    La norma in esame, avente natura di legge provvedimento diretta a
vanificare  decisioni  definitive,  anche  se   non   stricto   sensu
giurisdizionali, sarebbe pertanto in contrasto con parametri  diversi
da quelli invocati dal giudice di primo grado -  la  cui  lesione  e'
stata esclusa dalla sentenza n. 282 del 2005  -  e  segnatamente  con
l'art. 117, primo comma, Cost., per il tramite degli  artt.  6  e  13
della CEDU, in quanto la decisione sul ricorso  straordinario,  anche
nella conformazione anteriore alle novelle del 2009 e  del  2010,  e'
caratterizzata  dalla   irrevocabilita',   dall'immodificabilita'   e
dall'insindacabilita' a opera di ogni altra autorita'  amministrativa
e giurisdizionale, come ha riconosciuto anche la Corte  di  giustizia
dell'Unione europea, chiamata a esaminare il  diverso  profilo  della
legittimazione del Consiglio di Stato a chiedere, nella procedura  di
ricorso straordinario, una pronuncia pregiudiziale interpretativa (e'
citata la sentenza della Corte di giustizia delle Comunita'  europee,
sezione quinta, 16 ottobre 1997, nelle cause  riunite  da  C-69/96  a
C-79/96, Garofoli e altri). 
    Risulterebbero dunque non manifestamente  infondati  i  dubbi  di
legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma 4, penultimo e ultimo
periodo, della legge n.  388  del  2000,  nella  parte  in  cui  tali
disposizioni  prevedono  «la  vanificazione   degli   effetti   della
decisione  definitiva  di  giustizia   che,   secondo   i   parametri
convenzionali, va equiparata  a  una  decisione  giurisdizionale  dal
punto di vista dell'effettivita' e della pienezza della tutela  oltre
che  dell'intangibilita'  dell'affidamento  ragionevole  e  legittimo
assicurato dall'esito del giudizio». 
    1.4.- Ad avviso del giudice a quo, la norma  in  esame  contrasta
inoltre con gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si tratterebbe  di  una
legge-provvedimento  che  incide  in  via  retroattiva  e  in   senso
sfavorevole sulle posizioni consolidatesi per  effetto  di  decisioni
irreversibili, cosi' arrecando un vulnus ai danni dei ricorrenti  nel
processo principale, in  mancanza  di  idonee  ragioni  di  interesse
generale che giustifichino tale sacrificio. 
    2.- Con atti depositati in cancelleria il 20  e  il  30  novembre
2015, si sono costituiti otto dei nove ricorrenti nel giudizio a quo. 
    In via principale, le parti chiedono che questa Corte adotti  una
sentenza interpretativa di  rigetto,  nel  senso  che  le  denunciate
disposizioni dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del  2000  non
si applicherebbero alle  «decisioni  irrevocabili  insuscettibili  di
impugnazione   presso   qualsiasi   autorita'    giurisdizionale    o
amministrativa», e quindi anche alle decisioni del 27 settembre  1999
rese sui ricorsi straordinari da essi proposti  al  Presidente  della
Repubblica. 
    La richiesta si fonda sulla tesi  della  "revisione"  retroattiva
che il legislatore, in attuazione della VI  disposizione  transitoria
della Costituzione, avrebbe operato con gli artt. 69 della  legge  n.
69 del 2009 e 7, comma 8, cod. proc. amm.,  riconoscendo  al  decreto
decisorio   dei   ricorsi   straordinari   la   natura   di   rimedio
giurisdizionale che esso gia' possedeva.  Tale  "revisione"  ex  tunc
dell'istituto, secondo le parti, si desumerebbe dal "diritto vivente"
espresso in numerosissime sentenze pronunciate  sia  dalla  Corte  di
cassazione che dal Consiglio di Stato tra  il  2011  e  il  2015,  le
quali, riconoscendo il rimedio dell'ottemperanza per l'esecuzione  di
decisioni di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica o al
Presidente della Regione Siciliana rese  prima  delle  riforme  degli
anni 2009-2010 su conformi  pareri  del  Consiglio  di  Stato  o  del
Consiglio di  giustizia  amministrativa  per  la  Regione  Siciliana,
renderebbero non piu'  contestabile  la  natura  giurisdizionale  del
rimedio e l'esistenza di  un  «giudicato»  anche  con  riguardo  alle
predette decisioni. 
    Ad avviso delle parti, pertanto, la precedente  sentenza  n.  282
del 2005 sarebbe «superata»,  alla  luce  delle  riforme  degli  anni
2009-2010,  mentre  l'impostazione  assunta   dal   giudice   a   quo
nell'ordinanza di rimessione, oltre a  essere  in  conflitto  con  il
menzionato  orientamento  giurisprudenziale,  contrasterebbe  con  il
divieto di costituire nuovi giudici speciali ex art. 102 Cost. e  con
la VI disposizione  transitoria  della  Costituzione  (e'  citata  la
sentenza n. 287 del 1974, sul riconoscimento  ex  tunc  della  natura
giurisdizionale delle commissioni  tributarie  dopo  la  riforma  del
contenzioso tributario del 1972). 
    Inoltre, questa Corte, anche se in diversa materia, avrebbe  gia'
qualificato come giudicato una decisione resa prima delle riforme  su
conforme parere del Consiglio di Stato (e' citata l'ordinanza  n.  57
del  2015)  e  avrebbe  ancora  ritenuto  ammissibile  la   questione
sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa  per  la  Regione
Siciliana in sede di parere su un ricorso straordinario al Presidente
della Regione Siciliana (e' citata la sentenza n. 265 del 2013). 
    Qualora questa Corte  non  ritenesse  di  interpretare  la  norma
censurata nel senso di fare salvi, per effetto  delle  riforme  degli
anni 2009-2010, anche i decreti decisori dei ricorsi straordinari, in
quanto dotati ex tunc di una  forza  equiparabile  al  giudicato,  le
parti chiedono che essa sollevi davanti  a  se  stessa  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 112 cod. proc. amm. e dell'art.
15  del  d.P.R.  24  novembre  1971,  n.  1199  (Semplificazione  dei
procedimenti  in  materia  di  ricorsi  amministrativi)  in  rapporto
all'art. 395, numero 5), cod. proc. civ., per  contrasto,  il  primo,
con gli artt. 3, 102 e 117 Cost. e con la VI disposizione transitoria
della Costituzione e, il secondo, per contrasto con gli artt.  2,  3,
24 e 117 Cost. 
    In via subordinata, le medesime parti chiedono che siano  accolte
le questioni sollevate dal  giudice  a  quo,  aderendo  alle  ragioni
esposte   nell'ordinanza   di   rimessione   con   riferimento   alla
giurisprudenza della  Corte  EDU  in  tema  di  intangibilita'  delle
decisioni  amministrative  irrevocabili  espressione   di   «judicial
review» e osservando, tra l'altro, che la stessa Corte di Strasburgo,
con la sentenza 1° luglio 2014, Guadagno e altri contro Italia, in un
caso di cosiddetto  "galleggiamento"  di  magistrati  amministrativi,
avrebbe gia' dichiarato che l'art. 50, comma 4, della  legge  n.  388
del 2000 ha  violato  l'art.  6,  paragrafo  1,  della  CEDU,  avendo
influito sull'esito di giudizi pendenti nei quali era parte lo Stato,
in assenza  di  motivi  imperativi  di  interesse  generale.  Infine,
sarebbero condivisibili anche le censure  ex  artt.  3  e  97  Cost.,
trattandosi  di  una  legge-provvedimento  retroattiva,  che  avrebbe
introdotto una discriminazione  ai  soli  danni  dei  ricorrenti  nel
processo principale, destinati a subire l'inefficacia delle decisioni
definitive assunte a loro favore. 
    3.- Con atto depositato il 1° dicembre  2015  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  che  ha  concluso  per
l'inammissibilita'   o   l'infondatezza,   anche   manifesta,   delle
questioni. 
    In primo luogo, i precedenti della Corte  di  Strasburgo  evocati
dal giudice a quo non sarebbero pertinenti, sicche'  mancherebbe  una
consolidata  interpretazione  dell'art.  6  della  CEDU   nel   senso
prospettato nell'ordinanza di rimessione, di insanabile contrasto tra
la norma interna e la Convenzione dei diritti dell'uomo. Da  qui,  ad
avviso  dell'intervenuto,  l'insufficiente  motivazione   sulla   non
manifesta infondatezza o, comunque, la manifesta  infondatezza  della
questione riferita all'art. 117, primo comma, Cost. 
    In  ogni  caso,  non   sussisterebbe   violazione   dei   diritti
riconosciuti dalla CEDU, in quanto gli interessati  avrebbero  scelto
liberamente   un   mezzo   di   tutela   alternativo   alla    tutela
giurisdizionale, cosi' esponendosi a interventi  normativi  incidenti
sull'eseguibilita' della  decisione  sul  ricorso  straordinario.  La
retroattivita' della norma deriverebbe dalla sua natura di  legge  di
interpretazione autentica, la cui legittimita' si dovrebbe  rinvenire
nel fine perseguito dal legislatore di ribadire una  incompatibilita'
sistematica gia' realizzatasi, in ordine alla  vigenza  dell'art.  4,
nono comma, della legge n. 425 del 1984, per effetto dell'abrogazione
dell'istituto dell'allineamento stipendiale, gia' disposto  dall'art.
2, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure  urgenti
per  il  risanamento  della  finanza   pubblica),   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359. 
    L'Avvocatura generale  dello  Stato  ricorda,  altresi',  che  un
precedente  intervento  retroattivo  su  quest'ultima   disposizione,
operato con l'art. 7, comma 7, del decreto-legge 19  settembre  1992,
n. 384 (Misure urgenti in materia di  previdenza,  di  sanita'  e  di
pubblico impiego,  nonche'  disposizioni  fiscali),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438,  e'  gia'  stato
considerato da questa Corte immune da  censure  attinenti  a  profili
analoghi a quelli ora proposti dal giudice a quo, con la sentenza  n.
6 del 1994, della  quale  riporta  ampi  stralci.  Le  considerazioni
svolte  nella  sentenza,  dovrebbero  valere  con  piu'   forza   con
riferimento alla norma censurata, che sarebbe nuovamente  intervenuta
a interpretare il  complesso  delle  norme  relative  al  superamento
dell'allineamento   stipendiale   «a   fronte    delle    persistenti
disapplicazioni di cui tali chiare previsioni  continuavano  talvolta
ad  essere  oggetto  nella  prassi  [...],  con   grave   pregiudizio
dell'eguaglianza e della finanza pubblica». 
    Il divieto di dare esecuzione a sentenze, purche' non passate  in
giudicato, o a provvedimenti amministrativi,  comprese  le  decisioni
sui  ricorsi   straordinari,   che   avessero   comunque   attribuito
allineamenti stipendiali,  sarebbe  pertanto  diretto  a  evitare  il
perpetuarsi  delle  diseguaglianze  insite   nel   meccanismo,   gia'
censurate da questa Corte nella citata sentenza  n.  6  del  1994,  e
costituirebbe un coerente e razionale  completamento  dell'intervento
normativo del 1992, che il legislatore sarebbe  stato  «costretto»  a
reiterare nel 2000. 
    Pertanto, la norma censurata non avrebbe leso  l'affidamento  dei
ricorrenti nel processo principale, i  quali  nel  1992  non  avevano
ancora intrapreso alcun procedimento inteso a rivendicare il maggiore
trattamento stipendiale. In ogni caso, non  vi  sarebbe  lesione  del
loro diritto a un giusto processo, avendo  essi  gia'  goduto  di  un
primo giudizio di legittimita' costituzionale, che secondo la  stessa
giurisprudenza della Corte EDU rappresenterebbe  una  circostanza  di
per se' sufficiente a escludere la privazione di garanzie processuali
ad opera di una legge sopravvenuta. 
    Infine, non sussisterebbe la lesione degli artt. 3  e  97  Cost.,
non potendosi parlare di  legge-provvedimento,  in  quanto  la  norma
censurata detterebbe una  disciplina  generale  relativa  a  tutti  i
provvedimenti che  avessero  fatto  applicazione  dell'art.  4,  nono
comma,  della   legge   n.   425   del   1984   in   senso   difforme
dall'interpretazione voluta dal legislatore, prevedendo la  loro  non
eseguibilita' per incensurabili ragioni di finanza pubblica. 
    4.- Con successiva memoria, depositata il 22  novembre  2016,  le
parti  costituite  hanno  replicato  alle  deduzioni  difensive   del
Presidente del Consiglio dei ministri. 
    Sull'asserita  irrilevanza  delle   sentenze   della   Corte   di
Strasburgo indicate nell'ordinanza di rimessione, si precisa che  con
quei richiami giurisprudenziali (ai  quali  la  memoria  aggiunge  la
citazione  di  ulteriori  decisioni)  l'adunanza   plenaria   avrebbe
evidenziato che in molti Paesi europei le controversie sono decise da
autorita' che, anche se non fanno parte degli ordini giurisdizionali,
dirimono  per  legge  controversie,  con  decisioni   aventi   «piena
equiparazione» al giudicato. 
    Si ribadisce altresi' il rilievo, ritenuto decisivo dalle  parti,
della sentenza resa dalla Corte EDU nel caso Guadagno  e  altri,  che
avrebbe gia' statuito in ordine al contrasto tra la norma censurata e
l'art.  6  della  CEDU,  nonche'  la  richiesta   di   una   sentenza
interpretativa di rigetto che, riconoscendo che  la  "revisione"  del
ricorso  straordinario  ha  avuto  natura   dichiarativa-ricognitiva,
ravvisi la non applicabilita' della  norma  censurata  in  danno  dei
ricorrenti nel processo principale. 
    Viene poi  contestata  l'assimilazione  del  caso  riguardante  i
ricorrenti a quello di un ordinario allineamento (o "galleggiamento")
stipendiale, trattandosi invece dell'applicazione di una disposizione
legislativa basata sul "merito" dei consiglieri di Stato vincitori di
concorso, avente funzione premiale. E  ancora  si  contesta  la  tesi
secondo cui  l'art.  50,  comma  4,  costituirebbe  un  completamento
sistematico della previsione del 1992, soppressiva dell'istituto  del
"galleggiamento", in quanto la scelta del legislatore  del  2000  era
nel senso di ridurre i vantaggi economici dei consiglieri di Stato  -
pur conservando il  relativo  concorso  -  salvo  il  rispetto  delle
posizioni consolidate da decisioni irrevocabili. 
    Infine, le parti  costituite  contestano  l'assunto  secondo  cui
nessuno, tranne i  beneficiari  di  sentenze  passate  in  giudicato,
avrebbe   potuto   vantare   "diritti    quesiti"    all'allineamento
stipendiale, in quanto, in  assenza  di  oscillazioni  interpretative
della norma interpretata, le uniche decisioni  irrevocabili  «equated
to a Court decision» e fondate sull'art. 4, nono comma,  della  legge
n. 425 del 1984 erano quelle riguardanti i nove consiglieri di  Stato
interessati, che la disposizione interpretativa  censurata,  operando
quale legge provvedimento, avrebbe inteso privare di efficacia. 
    5.- Con ulteriore memoria, depositata il  21  novembre  2017,  le
parti hanno nuovamente illustrato le proprie  difese  e  ribadito  le
richieste gia' presentate nei precedenti atti. 
    6.- Con ordinanza dell'8 febbraio  2017  (reg.  ord.  n.  52  del
2017), il Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 50,  comma  4,  penultimo  e
ultimo periodo, della legge n. 388  del  2000,  in  riferimento  agli
artt. 3, 24, 97, 111 e  117,  primo  comma,  Cost.,  quest'ultimo  in
relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU. Il  rimettente  dubita  della
conformita' a Costituzione  delle  stesse  disposizioni  oggetto  del
giudizio promosso con l'ordinanza iscritta al n. 231  reg.  ord.  del
2015. 
    Le questioni sono sorte nel corso del  giudizio  di  ottemperanza
promosso dagli stessi consiglieri di Stato vincitori di concorso  per
ottenere l'esecuzione delle medesime decisioni adottate a loro favore
dal Presidente della Repubblica il  27  settembre  1999  sui  ricorsi
straordinari. 
    Il giudice a quo riassume la complessa vicenda processuale, nella
quale gli interessati avevano gia' proposto ricorso in  ottemperanza,
accolto dal Consiglio di Stato con sentenza poi annullata per difetto
di giurisdizione dalle sezioni unite della  Corte  di  cassazione,  e
ricorda che con una  precedente  ordinanza  l'adunanza  plenaria  del
Consiglio di Stato ha  sollevato  questioni  relative  alle  medesime
disposizioni nel  diverso  giudizio  attinente  all'impugnazione  del
diniego di esecuzione dei decreti del 27 settembre 1999. 
    Ad  avviso  del  rimettente,  il  ricorso  in   ottemperanza   e'
ammissibile, ex art. 112 cod. proc. amm., anche per le decisioni rese
su ricorsi straordinari prima della  riforma  del  2009,  sulla  base
dell'indirizzo manifestato dall'adunanza  plenaria  nella  menzionata
ordinanza di rimessione, ma tale ammissibilita',  secondo  lo  stesso
condivisibile indirizzo, non comporterebbe l'attribuzione ex  tunc  a
quelle decisioni del carattere  giurisdizionale,  come  sostengono  i
ricorrenti, perche'  «l'ottemperabilita`  di  una  decisione  e`  una
qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di  un
giudicato resistente al potere della legge». 
    6.1.-  Dopo  avere  respinto  le  eccezioni   di   illegittimita'
costituzionale proposte dai ricorrenti in riferimento a parametri o a
censure diversi da quelli poi indicati,  il  giudice  a  quo  ritiene
rilevante e non manifestamente infondato  il  dubbio  concernente  la
violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. e  ripropone,  altresi',  le
questioni  gia'  sollevate  dall'adunanza  plenaria  con  l'ordinanza
citata, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117,  primo  comma,  Cost.,
quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU. 
    Le questioni sarebbero rilevanti, in quanto «[i]l soddisfacimento
della pretesa dell'odierna  parte  ricorrente  [...]  trova  ostacolo
nella permanente  vigenza  degli  ultimi  due  periodi  del  comma  4
dell'art. 50 della legge 388/2000». 
    6.2.- Secondo il rimettente, la norma  censurata  violerebbe  gli
artt.  3,  24  e  111  Cost.  «nella  parte   in   cui»,   stabilendo
l'abrogazione retroattiva dell'art. 4, nono comma, della legge n. 425
del 1984 e prevedendo che tale  abrogazione  possa  travolgere  anche
posizioni individuali gia' riconosciute da  decisioni  definitive  di
accoglimento di ricorsi straordinari al Presidente della  Repubblica,
avrebbe  inciso,  in  assenza  di  motivi  imperativi  di   interesse
generale, sulle controversie pendenti che erano state intraprese  per
ottenere  l'esecuzione  delle  suddette  decisioni  definitive,   con
conseguente lesione del diritto di difesa e del principio di  parita'
delle parti. 
    Il giudice a quo osserva che le decisioni  del  Presidente  della
Repubblica avevano definito in senso favorevole ai ricorrenti la lite
concernente la spettanza del bene della vita a cui essi aspiravano  e
che al momento della pubblicazione dell'art. 50, comma 4, della legge
n.  388  del  2000  la  controversia  relativa   alla   «cogenza   ed
eseguibilita' dei detti decreti era ancora in corso, in  quanto,  nel
permanente  rifiuto  dell'Amministrazione   di   conformarvisi,   gli
originari ricorrenti avevano proposto un ricorso per l'esecuzione del
giudicato, accolto dal Consiglio  di  Stato  (Cons.  Stato  Sez.  IV,
15-12-2000,  n.  6697)  e  soltanto  successivamente   la   decisione
favorevole da quest'ultimo adottata  era  stata  annullata  da  parte
della Suprema Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione (Cass.
civ. Sez. Unite, 18 dicembre 2001, n. 15978)». 
    La norma censurata violerebbe il principio di parita' delle parti
di cui all'art. 111 Cost., perche' avrebbe  immesso  nell'ordinamento
una fattispecie di ius singolare, dettando una disposizione di tenore
coincidente   con   la   tesi   propugnata   da   una   delle   parti
(l'amministrazione), con il conseguente  sbilanciamento  fra  le  due
posizioni in gioco (e' citata la sentenza n. 186 del 2013). 
    Il denunciato contrasto deriverebbe anche  dall'applicazione  dei
principi previsti all'art. 6 della CEDU, in materia di equo processo.
Il rimettente richiama al riguardo la giurisprudenza della  Corte  di
Strasburgo sull'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione
della giustizia ad opera di leggi retroattive al fine di  influenzare
l'esito giudiziario di una controversia, invocando in particolare  la
citata sentenza 1° luglio 2014, Guadagno e altri contro Italia. 
    6.3.- Quanto alla violazione degli  artt.  3,  97  e  117,  primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU,
il  giudice  a  quo  richiama,  dichiarando   di   condividerle,   le
considerazioni espresse dall'adunanza plenaria, aggiungendo  che  per
effetto  dell'introduzione   della   norma   censurata   si   sarebbe
«inverata», sia pure solo con riferimento al trattamento stipendiale,
una condizione analoga a quella gia' reputata in contrasto con l'art.
97 Cost. dalla sentenza n. 269 del 1988, sulla «posposizione in ruolo
degli avvocati dello Stato vincitori di  concorso  rispetto  agli  ex
Procuratori capo dello Stato inseriti tra gli avvocati  alla  seconda
classe di stipendio». 
    7.- Con atto depositato il 17 maggio 2017, fuori termine, si sono
costituiti otto dei nove ricorrenti nel processo principale, i  quali
il  21  novembre  2017  hanno   altresi'   depositato   una   memoria
illustrativa. 
    8.- Con atto depositato  il  9  maggio  2017  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  che  ha  concluso  per
l'inammissibilita' o, comunque, per l'infondatezza delle questioni. 
    In via preliminare, l'interveniente eccepisce  l'inammissibilita'
per difetto di motivazione sulla rilevanza, osservando che un'analoga
azione di ottemperanza, diretta a ottenere l'esecuzione degli  stessi
decreti  decisori  dei  ricorsi  straordinari,  e'  stata  dichiarata
inammissibile dalle sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione  per
difetto di giurisdizione. Il rimettente non svolge sul  punto  alcuna
considerazione, mentre avrebbe invece  dovuto  giustificare  in  modo
adeguato  la  rilevanza  della  questione.  La  medesima  azione   di
ottemperanza sarebbe invero preclusa dal giudicato sussistente  inter
partes, sorto per effetto delle sentenze delle  sezioni  unite,  come
era gia' stato eccepito nel corso del giudizio a quo. 
    Nel merito, l'interveniente  ripropone  argomentazioni  difensive
analoghe  a  quelle  dedotte  nel  giudizio  promosso   dall'adunanza
plenaria e,  sulle  censure  specificamente  sollevate  dalla  quarta
sezione  del  Consiglio  di  Stato,  osserva  che  il   giudizio   di
ottemperanza non potrebbe «ambire alla illustrata  intangibilita'  da
interventi legislativi in corso di procedimento»,  qualora  abbia  ad
oggetto  l'esecuzione  di  una  decisione  emessa  all'esito  di   un
procedimento  amministrativo  come  quello  che  sfocia  nei  decreti
decisori dei ricorsi straordinari, che non tende alla  formazione  di
un giudicato. Cio' dimostrerebbe la non pertinenza del richiamo  alla
sentenza resa dalla Corte EDU nel caso Guadagno, in cui si  discuteva
dell'applicazione dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del  2000
a  sentenze  di  organi   giurisdizionali   passate   in   giudicato,
ricognitive  del  diritto  all'allineamento  stipendiale.   Da   qui,
l'asserita contraddittorieta'  dell'ordinanza  di  rimessione,  nella
quale sarebbe piu' volte affermato che nella fattispecie non si verte
in materia di procedimenti giurisdizionali. 
    Inoltre,  l'Avvocatura  ribadisce  che  la  norma  censurata  non
costituirebbe una disposizione isolata, estemporanea e imprevedibile,
reiterando il precedente intervento retroattivo di  cui  all'art.  7,
comma 7, del d.l. n. 384  del  1992,  come  convertito,  al  fine  di
ristabilire  l'uguaglianza  del   trattamento   retributivo   tra   i
magistrati  e  l'incompatibilita'   sistemica   dei   meccanismi   di
allineamento stipendiale con la disciplina  di  tale  trattamento,  a
fronte dell'insorgenza di prassi disapplicative dello stesso art.  7,
comma 7. 
    La  norma  censurata,  pertanto,  non  avrebbe  pregiudicato   il
principio  di  parita'  delle  armi,  parita'  che   semmai   avrebbe
contribuito a ristabilire, e non lederebbe alcun affidamento, che  il
chiaro disposto del citato art. 7, comma 7, avrebbe escluso  sin  dal
1992. 
    Infine,  l'intervento  retroattivo  sarebbe  sorretto  da  valide
ragioni di interesse pubblico, vale a dire «la tutela degli equilibri
di finanza pubblica rispetto a meccanismi retributivi suscettibili di
innescare processi di incremento retributivo casuali, non prevedibili
e non controllabili [...] e la  tutela  dell'eguaglianza  retributiva
tra dipendenti pubblici preposti a mansioni analoghe e in possesso di
anzianita' paragonabili». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- L'adunanza plenaria  del  Consiglio  di  Stato  dubita  della
legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma  4,  della  legge  23
dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)»,
in  riferimento  agli  artt.  3,  97  e  117,  primo   comma,   della
Costituzione, quest'ultimo in relazione  agli  artt.  6  e  13  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    La norma e' censurata nella parte in cui prevede che  «[i]l  nono
comma dell'articolo 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425,  si  intende
abrogato dalla data di entrata in vigore del [...]  decreto-legge  n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  359  del
1992, e perdono ogni efficacia i  provvedimenti  e  le  decisioni  di
autorita'  giurisdizionali  comunque  adottati  difformemente   dalla
predetta  interpretazione  dopo  la   data   suindicata»   (penultimo
periodo), e che «[i]n ogni caso non sono dovuti e non possono  essere
eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti»
(ultimo periodo). 
    L'abrogato art. 4, nono comma, della legge 6 agosto 1984, n.  425
(Disposizioni  relative  al  trattamento  economico  dei  magistrati)
stabiliva che: «[...] per il personale che ha conseguito la nomina  a
magistrato di corte d'appello o a magistrato di corte di cassazione a
seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4  gennaio  1963,
n. 1, e successive modificazioni e integrazioni,  l'anzianita'  viene
determinata in misura pari a quella  riconosciuta  al  magistrato  di
pari qualifica con maggiore anzianita' effettiva  che  lo  segue  nel
ruolo». 
    Le questioni sono sorte nel corso del giudizio d'appello  avverso
la sentenza con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il
Lazio ha respinto il ricorso proposto da alcuni consiglieri di  Stato
- vincitori di concorso - per l'annullamento della nota emessa  il  3
febbraio 2003 dal Presidente del Consiglio dei ministri. 
    Con tale nota erano state respinte le istanze di esecuzione delle
decisioni adottate dal Presidente della Repubblica  il  27  settembre
1999, di  accoglimento  dei  ricorsi  straordinari  presentati  dagli
stessi consiglieri di Stato per ottenere,  a  titolo  di  adeguamento
stipendiale ai sensi dell'art. 4, nono comma, della legge n. 425  del
1984, il maggiore trattamento economico riconosciuto ai magistrati di
pari qualifica che li seguono nel ruolo. 
    Il rimettente riferisce che nel corso del giudizio di primo grado
il TAR Lazio aveva sollevato questione di legittimita' costituzionale
dello stesso art. 50, comma 4,  della  legge  n.  388  del  2000,  in
relazione agli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 Cost.,  in  quanto,  nello
stabilire l'abrogazione retroattiva dell'art. 4,  nono  comma,  della
legge n. 425 del 1984, la disposizione avrebbe inciso sulle posizioni
individuali gia' riconosciute da decisioni definitive di accoglimento
di ricorsi  straordinari  al  Presidente  della  Repubblica.  Con  la
sentenza n. 282 del 2005, questa Corte ha dichiarato non  fondata  la
questione sul presupposto che le decisioni adottate con  decreto  del
Presidente della Repubblica in  sede  di  ricorso  straordinario  non
hanno la natura ne' gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale  e
che,  pertanto,  non  vale  per  esse  la  salvezza   del   giudicato
costituente il limite invalicabile  all'efficacia  retroattiva  delle
norme di interpretazione autentica. 
    Le questioni sarebbero rilevanti, in quanto l'effetto  preclusivo
prodotto dalla norma  censurata  costituirebbe  l'unica  ragione  del
diniego opposto dall'amministrazione alle richieste dei ricorrenti  e
l'unico motivo posto a fondamento della  decisione  sfavorevole  resa
dal TAR Lazio. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a  quo  deduce
che le sopravvenute modifiche  legislative  introdotte  dall'art.  69
della legge 18 giugno 2009,  n.  69  (Disposizioni  per  lo  sviluppo
economico, la semplificazione, la competitivita' nonche'  in  materia
di processo civile) - sulla legittimazione del Consiglio di  Stato  a
sollevare questioni  incidentali  di  costituzionalita'  in  sede  di
parere sul ricorso straordinario e sulla soppressione del potere  del
Governo di discostarsi da tale parere - e dall'art. 7, comma  8,  del
codice del processo amministrativo (Allegato 1 al decreto legislativo
2 luglio 2010, n. 104, recante  «Attuazione  dell'articolo  44  della
legge 18 giugno 2009,  n.  69,  recante  delega  al  governo  per  il
riordino del processo  amministrativo»)  -  in  forza  del  quale  il
ricorso  straordinario  e'  ammissibile  solo  per  le   controversie
devolute alla giurisdizione  amministrativa  -  hanno  attribuito  al
decreto presidenziale la natura sostanziale di decisione di giustizia
caratterizzata dall'intangibilita' propria del giudicato,  in  quanto
il provvedimento finale sul ricorso straordinario  sarebbe  meramente
dichiarativo di un giudizio formulato in modo compiuto  e  definitivo
da un organo giurisdizionale, operante nel rispetto delle regole  del
contraddittorio e in posizione di terzieta' e di indipendenza. 
    Lo ius superveniens, tuttavia,  non  varrebbe  ad  attribuire  la
stessa  natura  sostanziale  di  giudicato  alle  decisioni  rese  in
precedenza, in un contesto normativo in cui esse,  pur  esibendo  nel
loro nucleo essenziale la connotazione di  statuizioni  di  carattere
giustiziale, non potevano ancora essere considerate espressione della
funzione giurisdizionale nel significato pregnante degli  artt.  102,
primo comma, e 103, primo comma, Cost. La decisione  invero  non  era
riconducibile  in  via  esclusiva  ad  un'autorita'  giurisdizionale,
essendo   prevista   la   concorrente    paternita'    dell'autorita'
amministrativa, sia pure attraverso l'aggravamento procedurale  della
sottoposizione all'approvazione del Consiglio dei ministri, da  parte
del ministro competente, della eventuale proposta difforme dal parere
del Consiglio di Stato. 
    Il rimettente osserva che, tuttavia, secondo gli  artt.  6  e  13
della  CEDU,  come  interpretati  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, le decisioni amministrative  irrevocabili  espressione  di
«judicial review» sono «equated to a Court  decision»  e,  in  quanto
tali, non solo devono essere suscettibili di attuazione coattiva,  ma
sono anche «caratterizzate dall'intangibilita'»  da  parte  di  norme
retroattive a tutela dell'affidamento legittimo dei singoli. 
    La norma in esame sarebbe pertanto  in  contrasto  con  parametri
diversi da quelli invocati dal  giudice  di  primo  grado  -  la  cui
lesione e' stata esclusa dalla sentenza di questa Corte  n.  282  del
2005 - e segnatamente con l'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  per  il
tramite degli artt. 6 e 13 della CEDU, in  quanto  la  decisione  sul
ricorso  straordinario,  anche  nella  conformazione  anteriore  alle
novelle del 2009 e del 2010, e' caratterizzata dalla irrevocabilita',
dall'immodificabilita' e dall'insindacabilita' a opera di ogni  altra
autorita' amministrativa e giurisdizionale. 
    Risulterebbero dunque non manifestamente  infondati  i  dubbi  di
legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma 4, penultimo e ultimo
periodo, della  legge  n.  388  del  2000,  nella  parte  in  cui  le
disposizioni in esso  contenute  prevedono  «la  vanificazione  degli
effetti della  decisione  definitiva  di  giustizia  che,  secondo  i
parametri   convenzionali,   va   equiparata    a    una    decisione
giurisdizionale dal punto di vista dell'effettivita' e della pienezza
della   tutela   oltre   che   dell'intangibilita'   dell'affidamento
ragionevole e legittimo assicurato dall'esito del giudizio». 
    Ad avviso del giudice a quo, la  norma  in  esame  contrasterebbe
inoltre con gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si tratterebbe  di  una
legge  provvedimento  che  incide  in  via  retroattiva  e  in  senso
sfavorevole sulle posizioni consolidatesi per  effetto  di  decisioni
irreversibili, cosi' arrecando un vulnus ai danni dei ricorrenti  nel
processo principale  in  mancanza  di  idonee  ragioni  di  interesse
generale che giustifichino tale sacrificio. 
    2.- La quarta sezione del Consiglio di Stato dubita a  sua  volta
della legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma 4, penultimo  e
ultimo periodo, della legge n. 388  del  2000,  in  riferimento  agli
artt. 3, 24, 97, 111 e  117,  primo  comma,  Cost.,  quest'ultimo  in
relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU. 
    Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio di  ottemperanza
promosso dagli stessi consiglieri di Stato per ottenere  l'esecuzione
delle medesime decisioni adottate a loro favore dal Presidente  della
Repubblica il 27 settembre 1999 sui ricorsi straordinari. 
    Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 3,
24 e  111  Cost.  «nella  parte  in  cui»,  stabilendo  l'abrogazione
retroattiva dell'art. 4, nono comma, della legge n. 425  del  1984  e
prevedendo che tale  abrogazione  possa  travolgere  anche  posizioni
individuali gia' riconosciute da decisioni definitive di accoglimento
di ricorsi  straordinari  al  Presidente  della  Repubblica,  avrebbe
inciso, in assenza di motivi imperativi di interesse generale,  sulle
controversie  pendenti  che  erano  state  intraprese  per   ottenere
l'esecuzione delle ricordate decisioni  definitive,  con  conseguente
lesione del diritto di difesa e del principio di parita' delle parti. 
    Il giudice a quo osserva che le decisioni  del  Presidente  della
Repubblica avevano definito la lite in senso favorevole ai ricorrenti
e che al momento della pubblicazione dell'art.  50,  comma  4,  della
legge n. 388 del 2000  la  controversia  relativa  alla  «cogenza  ed
eseguibilita' dei detti decreti era ancora in corso, in  quanto,  nel
permanente  rifiuto  dell'Amministrazione   di   conformarvisi,   gli
originari ricorrenti avevano proposto un ricorso per l'esecuzione del
giudicato, accolto dal Consiglio  di  Stato  (Cons.  Stato  Sez.  IV,
15-12-2000,  n.  6697),  e  soltanto  successivamente  la   decisione
favorevole da quest'ultimo adottata  era  stata  annullata  da  parte
della Suprema Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione (Cass.
civ. Sez. Unite, 18 dicembre 2001, n. 15978)». 
    La norma censurata violerebbe  dunque  il  principio  di  parita'
delle parti di  cui  all'art.  111  Cost.,  perche'  avrebbe  immesso
nell'ordinamento una  fattispecie  di  ius  singolare,  dettando  una
disposizione di tenore coincidente con  la  tesi  propugnata  da  una
delle parti (l'amministrazione), con  il  conseguente  sbilanciamento
fra le due posizioni in gioco. 
    Il denunciato contrasto deriverebbe anche  dall'applicazione  dei
principi previsti all'art. 6 della CEDU in materia di equo  processo.
Il rimettente richiama in proposito la giurisprudenza della Corte  di
Strasburgo sull'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione
della giustizia a opera di leggi retroattive al fine  di  influenzare
l'esito giudiziario di una controversia, e invoca in  particolare  la
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo  1°  luglio  2004,
Guadagno e altri contro Italia. 
    Quanto alla violazione degli artt. 3,  97  e  117,  primo  comma,
Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e  13  della  CEDU,  il
giudice a  quo  richiama  le  considerazioni  espresse  dall'adunanza
plenaria, aggiungendo che per effetto dell'introduzione  della  norma
censurata si sarebbe «inverata», sia pure  solo  con  riferimento  al
trattamento  stipendiale,  una  condizione  analoga  a  quella   gia'
reputata in contrasto con l'art. 97 Cost. dalla sentenza n.  269  del
1988. 
    3.- I giudizi vanno riuniti  per  essere  definiti  con  un'unica
pronuncia, avendo a oggetto questioni relative alla  medesima  norma,
censurata in riferimento a parametri in larga parte coincidenti. 
    4.-  L'eccezione  di  inammissibilita'  proposta  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato  per  insufficiente  motivazione   sulla   non
manifesta  infondatezza  della  questione   sollevata   dall'adunanza
plenaria in riferimento all'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  non  e'
accoglibile. 
    Il  rimettente  ha  esposto  in  modo  adeguato  le  ragioni  del
lamentato  contrasto  fra  la  norma   denunciata   e   i   parametri
convenzionali  evocati,  mentre  la  eccepita  non   pertinenza   dei
precedenti della Corte di Strasburgo citati a sostegno della  censura
puo' riguardare semmai solo il merito della questione. 
    4.1.- Nel merito, tuttavia, le questioni sollevate  dall'adunanza
plenaria non sono fondate. 
    4.1.1.- Va disatteso,  in  primo  luogo,  l'assunto  delle  parti
secondo il quale la norma censurata dovrebbe essere interpretata  nel
senso  che  essa  farebbe  salve,  oltre  alle  sentenze  passate  in
giudicato, anche le decisioni rese anteriormente alla sua entrata  in
vigore sui ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica. 
    Questa Corte ha costantemente ritenuto che, nel regime  anteriore
alle riforme introdotte dalla legge n. 69 del 2009 e dal  codice  del
processo amministrativo approvato con il d.lgs. n. 104 del  2010,  il
ricorso straordinario al Presidente della  Repubblica  avesse  natura
amministrativa, anche se peculiare, trattandosi di un rimedio diretto
ad assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una  controversia
in sede amministrativa. In quel contesto era dunque da escludere  che
la conclusione del relativo procedimento  amministrativo  presentasse
la natura o gli  effetti  degli  atti  di  tipo  giurisdizionale  (ex
plurimis, sentenze n. 254 del 2004 e n. 298 del  1986,  ordinanze  n.
357 del 2004, n. 301 e n. 56 del 2001). 
    L'orientamento e' confermato anche  dalla  sentenza  n.  282  del
2005, resa  sulla  questione  di  legittimita'  costituzionale  dello
stesso art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, che  era  stata
sollevata dal giudice di primo grado nella controversia ora  pendente
in appello davanti al rimettente. In essa questa  Corte,  dopo  avere
qualificato  la   norma   censurata   come   legge   retroattiva   di
interpretazione autentica, ha escluso che  tale  portata  retroattiva
possa riguardare gli effetti di sentenze passate in giudicato  basate
su un'interpretazione in ordine alla vigenza del nono comma dell'art.
4 della legge  n.  425  del  1984  difforme  da  quella  imposta  dal
legislatore. Ha tuttavia parimenti  escluso,  sul  presupposto  della
natura amministrativa del ricorso straordinario, che la sua decisione
avesse  natura  ed  effetti  equivalenti  a  un  giudicato,  con   la
conseguenza che «[l]a salvezza del giudicato formatosi  anteriormente
alla data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di  interpretazione
autentica non e' anche la  salvezza  delle  decisioni  adottate,  nel
regime  dell'alternativita',  con  decreto   del   Presidente   della
Repubblica in sede di ricorso straordinario». 
    D'altro  canto,  la  trasformazione  dell'istituto  del   ricorso
straordinario al Presidente della  Repubblica  in  conseguenza  delle
modifiche introdotte dalla legge n. 69 del  2009  -  che  hanno  reso
vincolante il parere del Consiglio di Stato e hanno consentito che in
quella   sede   vengano   sollevate   questioni    di    legittimita'
costituzionale  -  non  costituisce  una  ragione   sufficiente   per
discostarsi qui dalle conclusioni della  sentenza  n.  282  del  2005
sulla natura delle decisioni rese sui  ricorsi  amministrativi  prima
dell'entrata in vigore della norma censurata. 
    Le ricordate modifiche hanno trasformato il ricorso straordinario
da antico ricorso amministrativo «in  un  rimedio  giustiziale  [...]
sostanzialmente assimilabile ad un  "giudizio",  quantomeno  ai  fini
dell'applicazione dell'art. 1 della legge  cost.  n.  1  del  1948  e
dell'art. 23 della legge n. 87 del 1953», sicche' l'istituto ha perso
la propria «connotazione puramente amministrativa ed  ha  assunto  la
qualita' di rimedio giustiziale amministrativo,  con  caratteristiche
strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle  tipiche  del
processo amministrativo» (sentenza n.  73  del  2014).  Non  si  puo'
tuttavia   ritenere   che   tale   trasformazione   abbia   efficacia
retroattiva, nel senso di incidere sulla natura e sulla portata delle
decisioni di ricorsi straordinari gia' prese in precedenza, le  quali
continuano a presentare la natura e la forza (non di  giudicato)  che
l'ordinamento conferiva ad esse nel momento in  cui  furono  assunte,
come  hanno  conformemente  concluso  sia  l'adunanza  plenaria   del
Consiglio di Stato  (nell'ordinanza  che  ha  sollevato  la  presente
questione) che le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 6
settembre 2013, n. 20569). Ne' depongono nel  senso  sostenuto  dalle
parti  i  numerosi  precedenti  che  hanno  ammesso  il  giudizio  di
ottemperanza  anche  per  l'esecuzione  di   decisioni   su   ricorsi
straordinari rese prima delle riforme legislative. In casi  siffatti,
invero, l'operativita' delle riforme non riguarda  la  portata  delle
decisioni, ma e' affermata ai soli fini del riconoscimento, in  forza
di  una  legge  sopravvenuta,   della   giurisdizione   del   giudice
amministrativo adito  in  sede  di  ottemperanza,  e  cio'  in  piena
applicazione del principio tempus regit actum sotteso all'art. 5  del
codice di procedura civile (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni
unite, sentenza 28 gennaio 2011, n. 2065). Il  punto  e'  esattamente
colto anche dall'adunanza plenaria nell'ordinanza di rimessione,  la'
dove,  negando  l'effetto  retroattivo  di  «giurisdizionalizzazione»
delle decisioni gia'  adottate  in  vigenza  del  precedente  regime,
afferma  che  «[...]  l'ottemperabilita'  di  una  decisione  e'  una
qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di  un
giudicato resistente al potere della legge». 
    4.1.2.- Neppure puo' essere accolta la richiesta delle parti  che
questa Corte sollevi davanti a se stessa  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 112 cod.  proc.  amm.  e  dell'art.  15  del
d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in
materia di ricorsi amministrativi), in rapporto all'art. 395,  numero
5), cod. proc. civ., per contrasto, il primo, con gli artt. 3, 102  e
117 Cost. e con la VI disposizione transitoria della Costituzione, e,
il secondo, con gli artt. 2, 3, 24 e 117 Cost. 
    La possibilita' che questa Corte sollevi in via  incidentale  una
questione  davanti  a  se'  si  da'  solo  allorche'   dubiti   della
legittimita'  costituzionale  di  una  norma,   diversa   da   quella
impugnata, che sia chiamata necessariamente  ad  applicare  nell'iter
logico per arrivare alla decisione sulla questione che  le  e'  stata
sottoposta: in altri termini, si deve trattare di una  questione  che
si presenti pregiudiziale alla definizione della questione principale
e strumentale rispetto alla decisione da emanare (sentenze n. 122 del
1976, n. 195 del 1972  e  n.  68  del  1961).  Tali  presupposti  non
sussistono nel caso in esame, giacche',  per  definire  la  questione
sollevata dal rimettente attinente alla violazione,  da  parte  della
norma  di  interpretazione   autentica   censurata,   dei   parametri
convenzionali in tema di equo processo, non si deve fare applicazione
di nessuna delle due norme sulle quali le  parti  chiedono  a  questa
Corte di sollevare questione di legittimita' costituzionale, ossia la
disposizione sul giudizio di ottemperanza  e  la  disposizione  sulla
revocazione dei decreti che decidono i  ricorsi  straordinari  per  i
motivi previsti all'art. 395, n. 5), cod. proc. civ. 
    4.2.- Pur negando, come visto, che  alla  decisione  sul  ricorso
straordinario al Presidente  della  Repubblica  assunta  prima  delle
modifiche normative introdotte  negli  anni  2009-2010  possa  essere
riconosciuto valore di pronuncia giurisdizionale, l'adunanza plenaria
del Consiglio di Stato ritiene nondimeno che a tale tipo di pronuncia
essa sia equiparabile, anche nel regime anteriore a  tali  modifiche,
cio' che consentirebbe di ricondurla alla sfera di applicazione degli
artt. 6 e 13 della CEDU come interpretati dalla Corte di Strasburgo. 
    In altri termini, il  rimettente  sostiene  che  quella  che  nel
diritto interno resta pur sempre  una  decisione  amministrativa  non
giurisdizionale   presenterebbe   purtuttavia,   nella    prospettiva
convenzionale, i caratteri di una  decisione  giudiziale,  in  quanto
tale equiparabile alla decisione di un giudice,  con  la  conseguenza
che, non diversamente dal giudicato, anch'essa sarebbe  «intangibile»
da parte di leggi retroattive,  pena  la  violazione  dei  richiamati
parametri convenzionali come interpretati dalla giurisprudenza  della
Corte di Strasburgo. 
    4.2.1.- A sostegno del proprio assunto il giudice a quo  richiama
innanzitutto, come precedenti rilevanti della Corte EDU, le  sentenze
16 novembre 2006, Mužević contro Croazia;  27  aprile  2004,  Gorraiz
Lizarraga e altri contro Spagna;  27  luglio  2004,  Romashov  contro
Ucraina; 28 ottobre 1999, Zielinski  e  Pradal  &  Gonzalez  e  altri
contro Francia (grande camera); 19 marzo 1997, Hornsby contro Grecia. 
    Si tratta tuttavia di sentenze che  -  con  l'eccezione  di  una,
Romashov contro  Ucraina,  su  cui  si  ritornera'  fra  poco  -  non
risultano pertinenti, in quanto, pur attenendo all'applicazione della
tutela convenzionale in materia  di  equo  processo,  non  riguardano
ipotesi di decisioni amministrative che la Corte di Strasburgo  abbia
equiparato, in virtu'  di  loro  particolari  caratteri,  a  pronunce
giurisdizionali, e fanno riferimento a ipotesi nelle quali non era in
discussione la natura giurisdizionale, per provenienza  giudiziale  o
per espressa assegnazione di tale carattere da parte dell'ordinamento
interno, della decisione, ma solo i suoi effetti o la sua esecuzione.
Cosi' e' nei casi: Mužević contro Croazia, ove si fa riferimento a un
titolo  esecutivo  di  formazione  giudiziale,  i  cui  effetti  sono
espressamente equiparati dalla legislazione dello Stato contraente  a
quelli di una sentenza passata in giudicato; Hornsby  contro  Grecia,
riguardante il giudicato di una corte amministrativa la cui natura di
decisione giurisdizionale non era in discussione; Zielinsky e  Pradal
& Gonzalez e  altri  contro  Francia,  in  tema  decisioni  autorita'
giurisdizionali, passate in giudicato,  fatte  salve  dall'intervento
legislativo; Gorraiz Lizarraga e altri contro Spagna, riguardante una
legge che, pur influendo sull'esito di una controversia pendente, non
aveva tuttavia impedito successivi interventi giurisdizionali. 
    L'unico caso, fra quelli citati dal  rimettente,  in  cui  si  fa
questione dell'applicabilita' a un  atto  emesso  da  un  organo  non
giurisdizionale delle regole convenzionali in tema di  equo  processo
e'  quello  deciso  con  la  sentenza  Romashov  contro  Ucraina.  La
pronuncia, al pari di altre rese su casi analoghi (Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  sentenza  8  novembre  2005,  Bukhovets   contro
Ucraina;  sentenza  20  settembre  2005,  Trykhlib  contro   Ucraina;
sentenza 19 aprile 2005, Dolgov contro Ucraina), puo'  effettivamente
avere rilievo in questa sede, giacche' in essa la Corte EDU  affronta
il  problema  della  riconducibilita'  alla  sfera  di   applicazione
dell'art. 6 della CEDU di una  decisione  proveniente  da  un  organo
denominato   «labour   disputes   commission»,    di    natura    non
giurisdizionale, problema che si era posto in relazione  al  ritardo,
giudicato  eccessivo,  nella  sua  esecuzione  (si   trattava   della
pronuncia di condanna di una societa' mineraria  sotto  il  controllo
statale al pagamento di retribuzioni arretrate in  favore  di  un  ex
dipendente).    La    Corte    EDU    perviene    alla    conclusione
dell'equiparabilita' della decisione in  questione  a  una  pronuncia
giurisdizionale (con la conseguenza  che  lo  Stato  viene  giudicato
responsabile  per  la  sua  mancata  esecuzione:  paragrafo  41)   in
considerazione dei  tre  seguenti  caratteri  del  suo  regime  nella
normativa  nazionale  ucraina:  il  ricorso  alla  «labour   disputes
commission» e' obbligatorio  per  la  soluzione  di  controversie  in
materia di rapporti  di  lavoro  (art.  224  del  codice  del  lavoro
ucraino);  la  decisione  della  commissione  puo'  essere  appellata
davanti a una corte (art. 228); per la  sua  esecuzione  e'  comunque
possibile procedere giudizialmente (art. 230). 
    Il caso appena esposto (cosi' come  gli  altri  analoghi  oggetto
delle sentenze della Corte EDU menzionate da ultimo)  si  differenzia
tuttavia da quello oggetto del presente giudizio  quantomeno  per  un
aspetto decisivo ai fini della vicenda in esame.  Mentre  il  ricorso
alla commissione ucraina e' obbligatorio per la  risoluzione  di  una
controversia  in  materia  di  rapporto   di   lavoro,   il   ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica e', come  noto,  rimedio
alternativo al ricorso  giurisdizionale  al  giudice  amministrativo,
spettando al ricorrente di scegliere liberamente fra l'una e  l'altra
via, con l'unica conseguenza che una volta scelta  una  non  e'  piu'
possibile intraprendere l'altra, e  salva  restando  naturalmente  la
facolta' dei controinteressati di chiedere la trasposizione  in  sede
giurisdizionale del ricorso straordinario eventualmente prescelto dal
ricorrente. 
    4.2.2.- Del  resto,  che  dalla  giurisprudenza  della  Corte  di
Strasburgo si traggano conclusioni negative sulla riferibilita'  alla
decisione del ricorso straordinario delle garanzie  convenzionali  in
tema di equo processo - e piu'  precisamente  sul  riconoscimento  ad
essa del valore di giudicato ai fini della sua salvezza di  fronte  a
sopravvenute previsioni retroattive - e'  confermato  dalle  pronunce
nelle quali la stessa Corte si e'  direttamente  occupata  di  questo
particolare rimedio. Cio' e' avvenuto in tre occasioni, e in  due  in
particolare  proprio  con  specifico  riferimento   alla   previsione
dell'art. 6 della CEDU. 
    Nella decisione 28 settembre 1999,  Nardella  contro  Italia,  la
Corte  EDU  ricostruisce  la  disciplina  dell'istituto  del  ricorso
straordinario come rimedio speciale ed esclude che esso - del ritardo
nella cui decisione il ricorrente si doleva  nel  caso  di  specie  -
ricada nell'ambito di applicazione della Convenzione. Per  la  stessa
ragione osserva che il ricorso al  Presidente  della  Repubblica  non
rientra fra quelli che devono essere esperiti previamente al  ricorso
ex art. 35 della Convenzione stessa. Cio' premesso,  nella  pronuncia
e' sottolineato come, optando per il  gravame  speciale  del  ricorso
straordinario, il ricorrente  (che  pure  e'  stato  informato  della
possibilita' di proporre il ricorso  giurisdizionale),  sceglie  esso
stesso di esperire un  rimedio  che  si  pone  fuori  dall'ambito  di
applicazione dell'art. 6 della Convenzione. 
    Sulla base dei medesimi argomenti e richiamando il caso Nardella,
nella decisione 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia, la  Corte
EDU ha  dichiarato  irricevibile  un  ricorso  proposto  a  essa  dal
ricorrente che  aveva  preventivamente  esposto  le  sue  ragioni  in
lettere al Presidente della Repubblica. La  Corte  osserva  che  tali
lettere,  anche  a  volerle  considerare  equivalenti  a  un  rimedio
straordinario, non ricadono  comunque  nella  sfera  di  applicazione
dell'art. 35 della Convenzione. 
    Particolarmente significativo e' che alle stesse  conclusioni  la
Corte di Strasburgo pervenga nella sentenza 2 aprile 2013,  Tarantino
e altri contro Italia, successiva quindi alla riforma del 2009,  dove
ribadisce che la parte ricorrente, «presentando un  appello  speciale
al  Presidente  della  Repubblica  nel  2007,  non  ha   avviato   un
procedimento contenzioso del  tipo  descritto  all'articolo  6  della
Convenzione (si veda Nardella c. Italia  (dec.),  n.  45814/99,  CEDU
1999-VII, e Nasalli Rocca (dec.), sopra citata), e che, pertanto,  la
disposizione non e' applicabile» (paragrafo 62). 
    4.2.3.- Conviene sottolineare, infine, che non e'  pertinente  il
riferimento operato dalle parti costituite alla  sentenza  1°  luglio
2014, Guadagno e altri  contro  Italia,  con  cui  la  Corte  EDU  ha
ritenuto che vi sia  stata  violazione  dell'art.  6  della  CEDU  in
conseguenza dell'intervento del legislatore con la legge n.  388  del
2000, e in particolare con l'art. 50 qui censurato, nel corso di  una
controversia promossa da alcuni consiglieri di Stato che,  anch'essi,
chiedevano il riconoscimento  del  medesimo  diritto  al  trattamento
stipendiale piu' elevato assegnato  ad  altri  consiglieri  di  Stato
aventi minore anzianita'. 
    La rilevanza della pronuncia ai fini che qui interessano e'  solo
apparente. Sebbene infatti si trattasse  anche  in  quel  caso  della
richiesta di applicazione  dello  stesso  meccanismo  di  adeguamento
stipendiale poi eliminato con la normativa oggetto della disposizione
di  interpretazione  autentica  qui  censurata,  la  controversia  si
svolgeva davanti all'autorita' giudiziaria nell'ambito di un processo
amministrativo. 
    Per questa ragione, nella sua sentenza  la  Corte  di  Strasburgo
pone giustamente la questione nei termini della  possibile  ingerenza
del potere  legislativo  nell'amministrazione  della  giustizia  allo
scopo di influenzare la conclusione giudiziaria di una  controversia,
e conclude osservando che a tale ingerenza si oppongono «il principio
della preminenza del diritto e la nozione di  processo  equo  sanciti
dall'articolo 6 [...], salvo imperiosi motivi di  interesse  generale
[...]» (paragrafo 28; nello stesso senso, ex plurimis, Corte  europea
dei diritti dell'uomo, sentenza  24  giugno  2014,  Azienda  agricola
Silverfunghi sas e altri contro  Italia;  sentenza  15  aprile  2014,
Stefanetti e altri contro Italia; sentenza 11 dicembre 2012, De  Rosa
contro Italia;  sentenza  14  febbraio  2012,  Arras  contro  Italia;
sentenza 7 giugno 2011, Agrati  contro  Italia;  sentenza  31  maggio
2011, Maggio contro Italia). 
    Diverso e' invece il caso in esame,  nel  quale  gli  interessati
hanno proposto la loro richiesta non mediante un'azione  giudiziaria,
ma  attraverso  un  rimedio  di  carattere  amministrativo,  con   la
conseguenza che, come visto, la controversia  che  ne  e'  sorta  non
presenta natura  tale  da  poter  essere  ricondotta  alla  sfera  di
applicazione della tutela convenzionale in materia di  equo  processo
ex art. 6 della CEDU. 
    Cio' chiarito, e' comunque il caso  di  segnalare,  con  riguardo
alla possibile esistenza di motivi imperativi di  interesse  generale
idonei a giustificare la retroattivita' della  norma  qui  censurata,
che nella stessa  pronuncia  la  Corte  EDU  non  ne  ha  escluso  la
possibile sussistenza, ma si e' limitata a notare come il Governo non
avesse «neanche tentato di spiegar[li]» e avesse indicato soltanto la
necessita'  di  eliminare  la   disparita'   di   trattamento   nelle
retribuzioni dei magistrati. 
    Piu'  precisamente,  davanti   alla   Corte   di   Strasburgo   a
giustificazione dell'intervento legislativo non e' stato  prospettato
- come invece si  sarebbe  potuto  -  l'intento  del  legislatore  di
chiarire che, come questa Corte ha gia' avuto modo di affermare nella
piu'  volte  citata  sentenza  n.   282   del   2005,   l'abrogazione
dell'istituto    dell'allineamento    stipendiale    disposta     dal
decreto-legge  11  luglio  1992,  n.  333  (Misure  urgenti  per   il
risanamento della finanza pubblica), convertito,  con  modificazioni,
dalla  legge  8  agosto  1992,  n.  359,   rendeva   sistematicamente
incompatibile la vigenza dell'art. 4, nono comma, della legge n.  425
del  1984  sul  conseguimento,  da  parte  dei  magistrati   ordinari
vincitori del concorso per la nomina a magistrato di corte  d'appello
o di cassazione, della maggiore anzianita' dei colleghi posposti  nel
ruolo. Sarebbe cosi' emerso lo scopo perseguito dal  legislatore,  di
ristabilire, mediante  l'intervento  retroattivo,  un'interpretazione
piu' aderente alla sua originaria volonta',  ponendo  rimedio  a  una
possibile  imperfezione  tecnica  della  norma  che  aveva   abrogato
l'istituto dell'allineamento stipendiale (Corte europea  dei  diritti
dell'uomo, sentenza 23 ottobre 1997, National &  Provincial  Building
Society,  Leeds  Permanent  Building  Society  e  Yorkshire  Building
Society contro Regno Unito; sentenza 27  maggio  2004,  Ogis-Institut
Stanislas, Ogec St. Pie X  e  Blanche  De  Castille  e  altri  contro
Francia), e perseguendo dunque finalita' perequative e a tutela della
certezza del diritto  e  dell'eguaglianza  dei  cittadini,  cioe'  di
principi di preminente interesse  costituzionale,  che  costituiscono
altrettanti motivi imperativi di interesse generale secondo la  Corte
EDU. 
    4.2.4.- In conclusione  la  questione  sollevata  in  riferimento
all'art. 117, primo comma, Cost. non e' fondata. 
    4.3.- Secondo il giudice rimettente l'art.  50,  comma  4,  della
legge n. 388 del 2000 si porrebbe in contrasto anche con gli artt.  3
e 97 Cost., trattandosi di legge-provvedimento diretta a incidere  in
via retroattiva su posizioni consolidatesi  a  seguito  di  decisioni
irreversibili, i cui effetti sarebbero stati cancellati in assenza di
idonee  ragioni  di  interesse  generale,  con  la  conseguenza   che
sarebbero cosi' violati il principio di eguaglianza e il canone della
ragionevolezza. 
    La dedotta violazione degli  artt.  3  e  97  Cost.  puo'  essere
considerata una censura unica:  la  previsione  tratterebbe  in  modo
discriminatorio i suoi destinatari (art. 3  Cost.)  e,  al  contempo,
lederebbe il canone di imparzialita' della pubblica  amministrazione,
che, nell'applicarla, sarebbe chiamata a perseguire un  interesse  di
parte e non generale (art. 97 Cost.). 
    Il rimettente, affermando la natura di legge provvedimento  della
disposizione censurata, prende le mosse  da  un  erroneo  presupposto
ricostruttivo. 
    La fattispecie della legge-provvedimento ricorre quando  con  una
previsione di contenuto particolare e concreto si incide su un numero
limitato di destinatari, attraendo alla sfera legislativa  quanto  e'
normalmente  affidato  all'autorita'  amministrativa  (ex   plurimis,
sentenze n. 114 del 2017  e  n.  214  del  2016).  La  portata  e  il
contenuto specifico della disposizione censurata, tuttavia, escludono
che nel caso in esame si ricada nell'ambito di questa definizione. 
    Come gia' affermato da questa Corte con la sentenza  n.  282  del
2005, l'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del  2000  contiene  una
norma di interpretazione autentica, consistente nel riconoscimento di
un'incompatibilita' sistematica tra due leggi che si  sono  succedute
nel tempo. Piu' precisamente essa da' conto del fatto che  «il  venir
meno, a partire dalla data di entrata in vigore del decreto-legge  n.
333 del 1992, dell'istituto del riallineamento stipendiale,  riguarda
anche la norma dell'art. 4, nono comma, della legge n. 425 del  1984,
che prevedeva una particolare forma di allineamento stipendiale per i
magistrati (di appello e) di cassazione  vincitori  di  concorso  per
esami, stabilendo che l'anzianita' di questi ultimi fosse determinata
"in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica
con maggiore anzianita' effettiva che lo segue nel ruolo"». 
    A corollario dell'interpretazione cosi' fornita,  viene  altresi'
stabilito  che,  per  effetto  del  riconoscimento   dell'intervenuta
abrogazione dell'allineamento stipendiale, «perdono ogni efficacia  i
provvedimenti e le decisioni di autorita'  giurisdizionali»  comunque
adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data di
entrata in vigore del d.l. n. 333 del 1992, come  convertito,  e  non
sono dovuti ne' possono essere eseguiti  pagamenti  «sulla  base  dei
predetti decisioni o provvedimenti». 
    Ne consegue  che,  sul  piano  soggettivo,  i  destinatari  della
disposizione appena citata non sono affatto «determinati o di  numero
limitato», se non altro perche'  la  norma  offre  un'interpretazione
destinata a valere non solo nei riguardi di coloro  che,  al  momento
della  sua  entrata  in  vigore,  avevano  rapporti  controversi  con
l'amministrazione, ma nei confronti di tutti  coloro  che,  anche  in
futuro, si trovassero nella stessa  situazione.  L'esistenza  di  una
lite in corso - in particolare di quella che coinvolge  i  ricorrenti
nel giudizio a quo - e il rilievo  della  disposizione  in  questione
nella sua definizione costituiscono in questo contesto «evenienze  di
mero fatto, non influenti per circoscrivere la produzione di  effetti
esclusivamente nei confronti  dei  ricorrenti  nel  giudizio  a  quo»
(sentenza n.  214  del  2016).  Per  le  stesse  ragioni,  sul  piano
oggettivo,   l'impugnata   disposizione   non   presenta    contenuto
particolare e  concreto,  ma  detta,  al  contrario,  una  regola  di
carattere astratto, destinata a risolvere in via generale l'antinomia
tra corpi disciplinari succedutesi nel tempo. 
    Sotto un diverso profilo, la semplice considerazione che la legge
di interpretazione autentica si muove esclusivamente sul piano  delle
fonti normative - con l'imposizione di uno dei  significati  compresi
fra le possibilita' di senso  ragionevolmente  ascrivibili  al  testo
della disposizione interpretata - conduce a negare che,  adottandola,
il legislatore abbia avocato a  se'  una  determinazione  normalmente
affidata all'autorita' amministrativa. 
    Esclusa dunque  la  natura  di  legge-provvedimento  della  norma
impugnata - e con essa la necessita' del vaglio di  costituzionalita'
riservato a questi atti - si deve concludere  per  l'infondatezza  di
tutte le censure basate su tale erroneo assunto. 
    5.- Passando all'esame dell'ordinanza della  quarta  sezione  del
Consiglio di Stato, va preliminarmente dichiarata  l'inammissibilita'
della costituzione delle parti, in quanto avvenuta fuori termine. 
    L'ordinanza di rimessione, la cui ultima  notifica  risale  all'8
febbraio 2017, e' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 16 del
19  aprile  2017,  sicche'  il  termine  di  venti  giorni   per   la
costituzione in giudizio delle parti ex art. 25 della legge 11  marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale),  computato  ai  sensi  dell'art.   3   delle   Norme
integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale,  scadeva
il 9 maggio 2017, mentre i ricorrenti nel processo principale si sono
costituiti in giudizio solo il 17 maggio 2017. 
    Secondo la costante giurisprudenza  costituzionale,  «il  termine
fissato  dall'art.  3  delle  norme  integrative  con  riguardo  alla
costituzione delle parti del giudizio a quo ha  natura  perentoria  e
dalla sua violazione  consegue,  in  via  preliminare  e  assorbente,
l'inammissibilita' degli atti di costituzione depositati oltre la sua
scadenza (ex plurimis, sentenze n. 236 e 27 del 2015, n. 364 e n. 303
del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009; ordinanze n. 11 del 2010, n.  100
del 2009 e n. 124 del 2008)» (sentenza n. 219 del 2016). 
    5.1.- Le questioni sollevate dalla quarta sezione  del  Consiglio
di Stato, nell'ambito del giudizio di ottemperanza  proposto  davanti
ad essa per l'esecuzione delle decisioni  dei  ricorsi  straordinari,
sono inammissibili. 
    Come visto, lo stesso rimettente riferisce che i  ricorrenti  nel
giudizio a quo avevano  in  precedenza  gia'  presentato  ricorso  in
ottemperanza al Consiglio di  Stato  per  l'esecuzione  delle  stesse
decisioni del Presidente della Repubblica, ottenendo a suo tempo  una
sentenza favorevole, e che tale sentenza e' stata poi annullata dalle
sezioni unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione. 
    Non vi e' dubbio, quindi,  che  la  riproposizione  in  un  nuovo
giudizio, da parte dei medesimi ricorrenti, della  stessa  azione  di
ottemperanza trova un ostacolo insormontabile  nella  preclusione  da
giudicato, che il Presidente del Consiglio dei  ministri  afferma  di
avere eccepito nel giudizio a quo e che sarebbe  comunque  rilevabile
d'ufficio. L'evidenza di tale preclusione esclude la rilevanza  delle
questioni. 
    Deve  essere  dunque  dichiarata  la  loro  inammissibilita'  per
difetto di rilevanza. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1) dichiara inammissibile la costituzione di G. S.  e  altri  nel
giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma 4,  della
legge  23  dicembre  2000,  n.  388,  recante  «Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale  e  pluriennale  dello  Stato  (legge
finanziaria 2001)», promosso dal Consiglio di Stato, sezione  quarta,
con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 50, comma 4, della legge n.  388  del  2000,
sollevate dal Consiglio di Stato, sezione quarta, in riferimento agli
artt. 3,  24,  97,  111  e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, con  l'ordinanza  indicata
in epigrafe; 
    3)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 50, comma 4, della legge n.  388  del  2000,
sollevate  dall'adunanza  plenaria  del  Consiglio   di   Stato,   in
riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost.,  quest'ultimo
in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, con  l'ordinanza  indicata
in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2018. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                     Daria de PRETIS, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA