N. 53 SENTENZA 7 febbraio - 8 marzo 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Esecuzione penale - Disciplina  del  concorso  formale  e  del  reato
  continuato - Pluralita' di condanne  intervenute  per  il  medesimo
  reato permanente, in relazione a distinte frazioni  della  condotta
  (nella specie, reato di violazione  degli  obblighi  di  assistenza
  familiare) - Poteri del giudice dell'esecuzione. 
- Codice di procedura penale, art. 671. 
-   
(GU n.11 del 14-3-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  671  del
codice di procedura  penale,  promosso  dal  Tribunale  ordinario  di
Chieti, sezione distaccata  di  Ortona,  nel  procedimento  penale  a
carico di R. C., con ordinanza del 9 novembre 2016,  iscritta  al  n.
107 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 7 febbraio  2018  il  Giudice
relatore Franco Modugno. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 9 novembre 2016, il Tribunale ordinario  di
Chieti, sezione distaccata di Ortona, ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3 e  24  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 671 del codice di procedura  penale,  «nella
parte  in  cui  non  prevede,  in  caso  di  pluralita'  di  condanne
intervenute per il medesimo reato permanente in relazione a  distinte
frazioni della condotta, il potere del [giudice  dell'esecuzione]  di
rideterminare una pena unica, in applicazione degli artt. 132  e  133
c.p., che tenga  conto  dell'intero  fatto  storico  accertato  nelle
plurime  sentenze  irrevocabili,  e  di  assumere  le  determinazioni
conseguenti  in  tema  di  concessione  o  revoca  della  sospensione
condizionale, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p.». 
    1.1.- Il giudice a quo riferisce di essere investito, in qualita'
di giudice dell'esecuzione, dell'istanza proposta  dal  difensore  di
una persona nei  cui  confronti  erano  state  emesse  dal  Tribunale
ordinario di Chieti tre sentenze definitive di condanna per il  reato
di violazione  degli  obblighi  di  assistenza  familiare,  aggravata
dall'aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori  (art.
570, secondo comma, del codice penale): la prima del 17 maggio  2012,
divenuta esecutiva il 28 giugno 2016, recante condanna alla  pena  di
sei mesi di reclusione ed euro 300 di multa  per  fatti  commessi  da
marzo a settembre 2008; la  seconda  del  21  giugno  2012,  divenuta
esecutiva il 12 maggio 2015, recante condanna alla pena di  sei  mesi
di reclusione ed euro 300 di multa per fatti commessi da ottobre 2008
a marzo 2009; la terza del 10 aprile 2014, divenuta esecutiva  il  28
giugno 2016, recante condanna alla pena di sei mesi di reclusione per
fatti commessi da agosto 2009 a marzo 2010. 
    Con l'istanza in questione, il difensore aveva  chiesto,  in  via
principale, che - riconosciuto che le tre condanne si riferivano a un
unico reato di natura permanente e, dunque, al medesimo fatto - fosse
ordinata,  ai  sensi  degli  artt.  649  e  669  cod.   proc.   pen.,
l'esecuzione della sola sentenza di condanna emessa per prima (quella
del 17 maggio 2012); in via subordinata, che  venisse  applicata,  ai
sensi  dell'art.  671  cod.  proc.  pen.,  la  disciplina  del  reato
continuato, con conseguente rideterminazione della  pena  complessiva
da espiare. 
    1.2.- Ad avviso del rimettente, l'istanza  si  fonderebbe  su  un
presupposto corretto - l'unicita' del reato permanente per  il  quale
e' stata riportata una pluralita'  di  condanne  -  e  risponderebbe,
altresi', all'innegabile interesse del condannato a evitare il cumulo
delle pene irrogate dalle singole sentenze. 
    Cio'  nondimeno,  ne'  la  richiesta   principale,   ne'   quella
subordinata, potrebbero essere accolte. 
    Quanto alla prima -  prescindendo  dal  rilievo  che  l'ipotetico
riconoscimento dell'esistenza di una pluralita' di  condanne  per  il
medesimo fatto determinerebbe, ai sensi dell'art. 669, comma 1,  cod.
proc. pen., l'eseguibilita', non gia' della sentenza piu' remota,  ma
di quella con cui e' stata pronunciata la  condanna  meno  grave  (e,
cioe', di quella emessa il 10 aprile 2014, che, a parita' delle  pene
detentive, non ha  applicato,  sia  pure  erroneamente,  alcuna  pena
pecuniaria) - l'accoglimento della  richiesta  principale  rimarrebbe
precluso, in ogni caso, dal consolidato  indirizzo  giurisprudenziale
che limita l'applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 649  e
669 cod. proc. pen., in tema di divieto di un secondo giudizio  e  di
pluralita' di sentenze  per  il  medesimo  fatto,  ai  soli  casi  di
identita' del fatto storico oggetto dell'imputazione:  identita'  non
ravvisabile nella fattispecie in esame. Secondo quanto chiarito dalla
giurisprudenza  di  legittimita',  infatti,  nell'ipotesi  del  reato
permanente, il divieto di un secondo giudizio riguarda esclusivamente
la condotta delineata nell'imputazione  e  accertata  dalla  sentenza
definitiva, e non anche la prosecuzione della stessa  condotta  o  la
sua ripresa in epoca successiva, che si traduce in un «fatto storico»
diverso, non coperto da giudicato, per  il  quale  non  vi  e'  alcun
impedimento a procedere. 
    Se,  dunque,  nel  caso  in  esame  sono   stati   legittimamente
instaurati e definiti due ulteriori giudizi relativi alle condotte di
violazione degli obblighi di assistenza familiare successive a quelle
oggetto del primo giudizio, ne  deriverebbe  che  non  si  tratta  di
condanne «per il medesimo fatto», come richiede l'art. 669 cod. proc.
pen., ma solo di condanne per  il  medesimo  reato,  in  relazione  a
condotte frazionate e distinte tra loro. 
    Sarebbe evidente, d'altra parte, che la commisurazione della pena
operata da ciascuna delle tre sentenze di condanna  ha  tenuto  conto
solo delle condotte accertate nei singoli  giudizi,  mentre  l'offesa
complessivamente arrecata dal delitto deriva  dall'effetto  congiunto
di tutte le condotte. Conseguentemente, il problema  prospettato  dal
ricorrente non potrebbe essere risolto dichiarando eseguibile la sola
condanna meno grave, proprio perche' la stessa non ha considerato  le
condotte esaminate negli  altri  giudizi,  che,  aggravando  l'offesa
penalmente  rilevante,  renderebbero  necessario   rideterminare   la
sanzione secondo tutti i parametri previsti dall'art. 133 cod.  pen.,
e in particolare di quello della gravita' del  reato  desumibile  dal
tempo e da ogni modalita' dell'azione. 
    1.3.-  Neppure,  peraltro,  potrebbe  essere  accolta   l'istanza
subordinata di rideterminazione della pena  ai  sensi  dell'art.  671
cod. proc. pen., in applicazione dell'istituto  della  continuazione.
La disposizione richiamata non  sarebbe,  infatti,  applicabile  alla
fattispecie in esame ne' in via diretta, ne' in via analogica. 
    Quanto  all'applicazione  diretta,  nessuna  interruzione   della
permanenza si sarebbe verificata nel corso delle condotte incriminate
nei tre giudizi. Secondo la costante giurisprudenza di  legittimita',
infatti, il  delitto  di  violazione  degli  obblighi  di  assistenza
familiare, di cui all'art. 570, secondo comma, numero 2), cod.  pen.,
e' reato permanente, che non puo' essere scomposto in una  pluralita'
di reati omogenei, essendo unico e identico il bene  leso  nel  corso
della durata  dell'omissione,  salvo  il  caso  di  cessazione  della
permanenza, che si verifica con l'adempimento dell'obbligo  eluso  o,
in difetto, con la pronuncia della sentenza di primo grado. 
    Nella specie, la prima sentenza di  primo  grado,  emessa  il  17
maggio 2012, e' posteriore all'ultima delle condotte  contestate  nei
tre  giudizi  e,  dunque,  inidonea   a   determinare   il   fenomeno
interruttivo. 
    Ne' sarebbe prospettabile l'ipotesi  dell'adempimento  intermedio
dell'obbligo  eluso,  avuto  riguardo  all'esistenza  di   uno   iato
temporale tra condotte oggetto delle  prime  due  condanne  e  quelle
oggetto della terza, stante l'omessa  incriminazione  delle  condotte
nel  periodo  da  aprile  a  luglio  2009  (ipotesi  che  renderebbe,
peraltro, reato autonomo le sole condotte oggetto della condanna  del
10 aprile 2014, commesse da  agosto  2009  a  marzo  2010,  lasciando
impregiudicata  la  questione  dell'unificazione  delle   altre   due
condanne, relative a periodi  privi  di  soluzioni  di  continuita').
Detta  ipotesi   andrebbe,   comunque   sia,   scartata   alla   luce
dell'accertamento compiuto  dal  giudice  della  cognizione  in  tale
ultima sentenza, vincolante per  il  giudice  dell'esecuzione.  Nella
motivazione  della  pronuncia  -  basata,  in  assenza  di  qualsiasi
prospettazione alternativa della  difesa,  sulla  sola  testimonianza
della persona offesa - si afferma, infatti,  che  quest'ultima  aveva
riferito di non aver ricevuto  nulla  dall'imputato  «a  seguito  del
decreto del Presidente del Tribunale  di  Napoli  del  6.03.2008,  il
quale  aveva  previsto  l'obbligo,  a   carico   del   medesimo,   di
corresponsione mensile, a titolo di mantenimento, della  somma  di  €
600, escluse le spese di natura straordinaria». 
    In mancanza di interruzioni  della  permanenza  nei  tre  periodi
incriminati, sarebbe  dunque  impossibile  configurare  come  delitto
autonomo  le  condotte  oggetto  dei  giudizi  successivi  al  primo,
presupposto  imprescindibile  per   la   valutazione   unitaria   del
trattamento penale  attraverso  l'istituto  della  continuazione,  ai
sensi dell'art. 671 cod. proc. pen. 
    Tale  valutazione  unitaria  non  sarebbe   praticabile   neppure
attraverso   l'applicazione   analogica   in   bonam   partem   della
disposizione ora citata. Il cumulo giuridico delle pene, previsto nel
caso  della  continuazione,  non  collimerebbe,   infatti,   con   la
necessita' di riparametrare la  pena  secondo  lo  schema  del  reato
unico, sia pure  diversamente  valutato  per  effetto  della  diversa
(cioe' protratta e piu' grave) configurazione del fatto  storico  che
deriva dall'esame complessivo  di  tutte  le  sentenze  di  condanna:
operazione che imporrebbe un nuovo ricorso ai parametri di  cui  agli
artt. 132 e 133 cod.  pen.  da  parte  del  giudice  dell'esecuzione,
sostitutivo di quello effettuato dai  giudici  della  cognizione  sui
distinti frammenti della condotta oggetto dei rispettivi giudizi. 
    Una simile attivita' non sarebbe, peraltro, preclusa dal  vincolo
di intangibilita' del giudicato, ne'  esorbiterebbe  dai  poteri  del
giudice  dell'esecuzione,  come  dimostrerebbe  l'analogo   principio
affermato dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione  nella
sentenza 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107, con  riguardo  alla
dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  che  modifichi  il
trattamento sanzionatorio della fattispecie penale. 
    1.4.- In  simile  situazione,  verrebbe  quindi  a  configurarsi,
rispetto all'istanza difensiva, un vuoto di tutela giurisdizionale di
dubbia compatibilita' con gli artt. 3 e 24 Cost. 
    Il reo avrebbe, infatti, diritto a una valutazione unitaria delle
condotte oggetto delle plurime sentenze di condanna, la quale, da  un
lato, eviti il cumulo delle pene  irrogate  in  relazione  a  singole
frazioni di un unico reato permanente  e,  dall'altro,  commisuri  la
sanzione all'effettiva e complessiva offesa  arrecata  con  tutte  le
condotte  oggetto  dei  singoli  giudizi.  La  pronuncia  di  plurime
sentenze di condanna in relazione a un unico  reato  deriverebbe,  in
effetti, da circostanze occasionali e indipendenti dalle  scelte  del
reo, riconducibili essenzialmente alle modalita' e  ai  tempi  con  i
quali sono stati esercitati il diritto di querela e  l'azione  penale
per le singole  frazioni  della  condotta  contestata,  nonche'  alla
mancata riunione dei procedimenti penali instaurati. Il cumulo  delle
pene inflitte con dette sentenze, quindi,  non  solo  non  troverebbe
alcuna giustificazione razionale,  ma  implicherebbe  un  trattamento
deteriore  dell'ipotesi   considerata   anche   rispetto   ai   casi,
disciplinati dall'art. 671 cod. proc. pen., della pluralita' di reati
avvinti dal concorso formale o dall'esecuzione del  medesimo  disegno
criminoso: casi che non potrebbero essere ritenuti meno gravi. 
    Il dubbio di  legittimita'  costituzionale  risulterebbe  inoltre
acuito nell'ipotesi - estranea alla vicenda oggetto  del  giudizio  a
quo, nella quale nessun beneficio e' stato  concesso  all'interessato
in  ragione  dei  suoi   precedenti   penali,   ma,   comunque   sia,
configurabile - in cui siano state  emesse,  per  il  medesimo  reato
permanente, in relazione a condotte distinte, piu'  condanne  a  pene
condizionalmente sospese. In tal caso, infatti, in assenza del potere
di unificazione delle condanne da parte del giudice  dell'esecuzione,
l'interessato si troverebbe esposto non solo al cumulo delle pene, ma
anche alla revoca delle sospensioni condizionali gia' concesse, senza
la possibilita' di beneficiare di una rivalutazione analoga a  quella
prevista dall'art. 671, comma 3, cod. proc. pen. 
    1.5.-  Alla  luce  di  cio',  il  rimettente  ritiene  necessario
sollecitare  l'intervento  della  Corte   costituzionale,   affinche'
verifichi la legittimita' dell'art. 671 cod. proc. pen., «nella parte
in cui non prevede, in caso di pluralita' di condanne intervenute per
il medesimo reato permanente in relazione a distinte  frazioni  della
condotta, il potere del G.E. di  rideterminare  una  pena  unica,  in
applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., che tenga conto  dell'intero
fatto storico accertato nelle plurime  sentenze  irrevocabili,  e  di
assumere le determinazioni  conseguenti  in  tema  di  concessione  o
revoca della sospensione condizionale, ai sensi degli artt. 163 e 164
c.p.». 
    La disposizione censurata - pur non  potendo  essere  attualmente
utilizzata  allo  scopo  -  sarebbe,  a  ogni   modo,   quella   piu'
rispondente, «per analogia del  fondamento  che  la  sostiene»,  alla
realizzazione dell'interesse  del  reo  alla  rivalutazione  in  sede
esecutiva  del  trattamento  sanzionatorio  complessivo  nell'ipotesi
considerata. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo  che  le  questioni  siano   dichiarate   inammissibili   o
infondate. 
    Ad  avviso  dell'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  giudice
rimettente si sarebbe limitato ad affermare l'astratta  inadeguatezza
della  disciplina  codicistica  vigente  a  regolare  la  fattispecie
sottoposta al suo vaglio, senza illustrare i fatti  concreti  oggetto
del procedimento a quo e la consequenziale soluzione da  adottare  in
esso, impedendo cosi' il necessario controllo sulla  rilevanza  delle
questioni. 
    La rilevanza andrebbe,  in  ogni  caso,  certamente  esclusa  con
riferimento alla censura riguardante la  necessita'  che  il  giudice
dell'esecuzione assuma determinazioni in ordine  alla  concessione  o
alla revoca della sospensione condizionale della pena, posto che, per
affermazione dello stesso  rimettente,  nella  specie  non  e'  stato
concesso  alcun  beneficio   in   ragione   dei   precedenti   penali
dell'istante. 
    Il giudice a quo si  sarebbe,  inoltre,  limitato  ad  evocare  i
principi costituzionali che assume  violati  dalla  norma  censurata,
senza fornire alcuna motivazione al riguardo. 
    Sotto diverso profilo,  l'individuazione  della  norma  censurata
risulterebbe  «del  tutto  errata»,  posto  che,  secondo  la  stessa
prospettazione del giudice a quo, l'art. 671 cod. proc.  pen.  regola
una ipotesi - l'applicazione in sede esecutiva della  disciplina  del
concorso formale e del reato continuato - affatto diversa  da  quella
di cui si discute nel procedimento principale. 
    Da ultimo, il rimettente avrebbe invocato una pronuncia  additiva
che  implica  una  soluzione  non  costituzionalmente  obbligata.  Le
questioni sollevate mirano, infatti, ad introdurre una disciplina del
reato permanente nella fase esecutiva: materia che rientrerebbe nella
discrezionalita' esclusiva del legislatore, con  la  conseguenza  che
l'intervento   auspicato   eccederebbe   i   poteri    della    Corte
costituzionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale  ordinario  di  Chieti,  sezione  distaccata  di
Ortona, dubita della legittimita' costituzionale  dell'art.  671  del
codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede, in  caso
di  pluralita'  di  condanne  intervenute  per  il   medesimo   reato
permanente in relazione a distinte frazioni della condotta, il potere
del [giudice dell'esecuzione] di rideterminare  una  pena  unica,  in
applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., che tenga conto  dell'intero
fatto storico accertato nelle plurime  sentenze  irrevocabili,  e  di
assumere le determinazioni  conseguenti  in  tema  di  concessione  o
revoca della sospensione condizionale, ai sensi degli artt. 163 e 164
c.p.». 
    Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt.
3 e 24 della Costituzione, lasciando privo di tutela  giurisdizionale
l'interesse del  reo  ad  una  valutazione  unitaria  delle  condotte
oggetto delle plurime sentenze di condanna, la  quale,  da  un  lato,
eviti il cumulo delle pene irrogate in relazione a un unico reato  e,
dall'altro, commisuri la sanzione all'effettiva e complessiva  offesa
arrecata con tutte le condotte oggetto dei singoli giudizi. 
    La pluralita' di condanne  per  distinte  frazioni  del  medesimo
reato permanente - suscettibile di determinare anche la revoca  della
sospensione condizionale della pena  eventualmente  concessa  con  le
prime di esse - deriverebbe, infatti, da  circostanze  occasionali  e
indipendenti dalle scelte del reo. In assenza del potere del  giudice
dell'esecuzione  di  rideterminare  unitariamente  la   pena   e   di
rivalutare la sussistenza dei  presupposti  per  la  fruizione  della
sospensione  condizionale,  il  condannato   si   troverebbe   quindi
sottoposto ad un  trattamento  sanzionatorio  irrazionale,  deteriore
anche rispetto a quello previsto dallo stesso  art.  671  cod.  proc.
pen. per le ipotesi - non meno gravi - del soggetto giudicato in modo
separato per plurimi reati  avvinti  dal  concorso  formale  o  dalla
continuazione. 
    2.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha   eccepito
l'inammissibilita' delle questioni  sotto  plurimi  profili.  Nessuna
delle eccezioni e', tuttavia, fondata. 
    Contrariamente a quanto assume l'Avvocatura generale dello Stato,
il giudice a quo ha descritto in modo adeguato  la  vicenda  concreta
sottoposta al suo  esame,  riferendo  che  il  soggetto  istante  nel
giudizio principale ha riportato tre sentenze definitive di  condanna
per fatti suscettibili di essere  configurati  come  porzioni  di  un
unico  reato  permanente:   donde   la   rilevanza   della   invocata
declaratoria di illegittimita' costituzionale. 
    L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in secondo luogo, il
difetto di rilevanza delle questioni, nella parte in  cui  mirano  ad
attribuire  al  giudice  dell'esecuzione  il   potere   di   assumere
determinazioni  in  ordine  alla  concessione  o  alla  revoca  della
sospensione condizionale della pena, posto che, nel caso di specie  -
per affermazione dello stesso rimettente - il condannato istante  non
ha fruito di alcun beneficio, in quanto gravato da precedenti  penali
ostativi. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, va  tuttavia
osservato che, se il giudice  dell'esecuzione  venisse  abilitato  da
questa Corte  a  rideterminare  la  pena  del  reato  permanente,  in
conformita' a quanto richiesto anzitutto dal rimettente, il potere di
provvedere    sulla    sospensione     condizionale     discenderebbe
automaticamente dall'innesto della  pronuncia  additiva  sul  tessuto
dell'art. 671 cod. proc. pen., che al comma 3  prevede  tale  potere:
prospettiva nella  quale  la  porzione  del  petitum  considerata  si
presenta, non gia' inammissibile per difetto di  rilevanza  nel  caso
concreto, quanto piuttosto superflua, perche' volta ad esplicitare un
effetto comunque sia  conseguente  all'accoglimento  della  richiesta
primaria del giudice a quo. 
    Insussistente  si  rivela,  altresi',   l'eccepito   difetto   di
motivazione  sulla  non  manifesta  infondatezza.  Il  rimettente  ha
denunciato, in effetti, cumulativamente la violazione degli artt. 3 e
24 Cost., senza svolgere argomentazioni  distinte  a  sostegno  della
denuncia in rapporto a ciascuno dei due  parametri.  Peraltro,  dalla
motivazione  dell'ordinanza  di  rimessione   risultano   agevolmente
ricavabili le ragioni dei vulnera  costituzionali  ventilati.  Quanto
all'art. 3 Cost., il rimettente ha posto in evidenza, per  un  verso,
come  il  (presunto)  cumulo  delle  pene  conseguente  alle  plurime
condanne per il medesimo  reato  permanente,  dipendente  da  fattori
puramente   causali,   porrebbe   il    condannato    in    posizione
irragionevolmente deteriore  rispetto  a  quella  dell'autore  di  un
identico fatto giudicato unitariamente;  per  altro  verso,  come  il
trattamento  riservato  alla  fattispecie  in  esame   risulti   meno
favorevole anche rispetto a quello dell'autore di piu' reati  avvinti
dal concorso formale o dalla continuazione,  il  quale  puo'  fruire,
comunque sia, di un cumulo giuridico (anziche' materiale) delle pene,
in forza della norma denunciata. Quanto all'art.  24  Cost.,  la  sua
violazione risulta collegata dal giudice a quo al  «vuoto  di  tutela
giurisdizionale»  dell'interesse  del  condannato  ad  ottenere   una
valutazione unitaria delle condotte oggetto delle plurime sentenze di
condanna. 
    L'Avvocatura generale dello  Stato  eccepisce,  ancora,  l'errata
individuazione della norma censurata (aberratio ictus), posto  che  -
secondo la stessa prospettazione del giudice a quo - l'art. 671  cod.
proc. pen.  regola  ipotesi  (il  concorso  formale  di  reati  e  la
continuazione) diverse da quella oggetto del giudizio principale.  Il
rimettente giustifica, tuttavia, la "scelta" della norma attinta  con
il rilievo che - pur trattandosi, a suo avviso, di  disposizione  non
applicabile al caso in questione - essa risponde «alla medesima ratio
della pronuncia additiva invocata».  E,  in  effetti,  la  disciplina
recata  dall'art.  671  cod.  proc.  pen.  e'  certamente  la   "piu'
prossima", per obiettivi e struttura,  a  quella  che  il  rimettente
reputa costituzionalmente necessario  introdurre  rispetto  al  reato
permanente, mirando anch'essa ad una rideterminazione unitaria  della
pena allorche' contingenti vicende processuali  abbiano  impedito  di
applicare gli istituti del concorso formale e del reato continuato in
sede cognitiva: il che giustifica la sua sottoposizione  a  scrutinio
sotto il profilo considerato (per analoga  fattispecie,  sentenza  n.
113 del 2011). Non si vede, d'altro canto - ne' la stessa  Avvocatura
generale  dello  Stato  la  indica  -  quale  altra  disposizione  il
rimettente avrebbe dovuto censurare. 
    Neppure, infine, puo' ritenersi che il rimettente abbia  invocato
una pronuncia additiva in  assenza  di  soluzione  costituzionalmente
obbligata. Proprio la  presenza  di  una  disposizione  quale  quella
dell'art. 671 cod. proc.  pen.  fa  si'  che,  laddove  si  riconosca
l'esigenza costituzionale di ricomporre l'unita' del reato permanente
frantumata in sede cognitiva, la rideterminazione unitaria della pena
da  parte  del  giudice  dell'esecuzione  si  presenti  come  l'unica
soluzione coerente in una cornice di sistema. L'automatica estensione
alla fattispecie considerata, nei limiti della compatibilita',  delle
previsioni relative all'applicazione in sede esecutiva degli istituti
del concorso formale e della  continuazione  varrebbe,  altresi',  ad
evitare   ogni   possibile   vuoto    di    disciplina    conseguente
all'accoglimento del petitum del rimettente (e cio'  anche  per  quel
che concerne l'individuazione  dei  limiti  dell'introducendo  potere
discrezionale  del  giudice   dell'esecuzione,   in   rapporto   alle
statuizioni adottate in sede  cognitiva:  limiti  che  risulterebbero
desumibili dal disposto dell'art. 671, comma 2,  cod.  proc.  pen.  e
dell'art. 187 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, recante
«Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie  del  codice  di
procedura penale»). 
    3.- Nel merito, le questioni non sono, tuttavia, fondate. 
    Il quesito di costituzionalita' sottoposto a questa  Corte  evoca
una  tematica  complessa  e  spigolosa:  la  difficolta',  cioe',  di
coniugare la configurazione teorica del reato permanente, come  reato
unico  a  consumazione  prolungata  nel  tempo,   con   una   realta'
giudiziaria che conosce ampiamente - e spesso "esige"  -  giudizi  di
cognizione frazionati su singoli segmenti  temporali  della  condotta
illecita. 
    Per communis opinio, il reato permanente -  figura  richiamata  a
determinati effetti, ma non definita, tanto dal codice  penale  (art.
158), quanto dal codice di procedura penale (artt. 8 e 382, comma  2)
- si caratterizza come illecito di durata, nel quale l'offesa al bene
protetto,  diversamente  che  nella  figura  antitetica   del   reato
istantaneo,  non  si  esaurisce  nel  momento  stesso  in  cui  viene
prodotta, ma si protrae nel tempo per  effetto  del  perdurare  della
condotta volontaria del reo, esaurendosi, sul piano  della  rilevanza
penale, soltanto con la cessazione di quest'ultima. 
    La giurisprudenza  -  salvo  sporadiche  eccezioni  -  ha  sempre
riconosciuto al reato permanente natura unitaria, scartando l'opposta
teoria pluralistica. La prosecuzione nel tempo della condotta,  oltre
il momento iniziale nel quale sono stati posti in  essere  tutti  gli
elementi costitutivi del singolo reato, non da' luogo a tante  offese
- e, dunque, a tanti reati -  quanti  sono  i  "momenti"  di  cui  si
compone la  permanenza:  unica  e'  la  condotta,  unica  e  medesima
l'offesa, unico dunque il reato.  Unica  dovrebbe  essere,  pertanto,
anche  la  pena  inflitta  per  l'illecito  globalmente  considerato.
Concezione, questa, che appare riflessa  nella  previsione  dell'art.
158 cod. pen., in forza della quale la prescrizione decorre,  per  il
reato permanente, solo dal momento in cui e' cessata la permanenza. 
    Di fatto, tuttavia, puo' accadere che il reato  permanente  venga
giudicato in modo frazionato, con  riferimento  a  distinti  segmenti
temporali della condotta antigiuridica,  dando  cosi'  luogo  ad  una
pluralita' di giudicati di condanna. Si tratta di una  evenienza  che
puo' dipendere - e di consueto dipende - da fattori in se' del  tutto
"fisiologici". 
    Per un verso, infatti, e' ovvio che - essendo il reato permanente
gia' perfetto con la realizzazione di tutti gli elementi tipici della
fattispecie - l'azione  penale  puo'  essere  promossa  anche  se  la
permanenza e' ancora in corso  (diversamente,  la  protrazione  della
condotta antigiuridica sottrarrebbe il reo alla punizione). Ma in una
simile  ipotesi  la  condanna  puo'  riguardare,   comunque   sia   -
altrettanto ovviamente - solo la  condotta  ad  essa  anteriore,  non
essendo concepibile una condanna per il futuro. Di  conseguenza,  ove
il reo persista nell'illecito anche dopo la condanna,  potra'  essere
necessario instaurare un ulteriore procedimento  penale  al  fine  di
reprimere  la  condotta  successiva.  Si  tratta   di   ipotesi   non
infrequente nei procedimenti per reati di  tipo  associativo  (e,  in
particolare, di associazione  mafiosa),  nei  quali  l'azione  penale
viene spesso esercitata quando il sodalizio criminoso  e'  ancora  in
attivita',  mentre  la  protrazione  della  condotta  tipica  non  e'
preclusa - per consolidata giurisprudenza - nemmeno  dallo  stato  di
detenzione dell'associato. Anche l'autore di un  reato  permanente  a
carattere omissivo (quale quello di cui si  discute  nel  giudizio  a
quo) puo', d'altronde, persistere nella  sua  inazione  antidoverosa,
malgrado il processo gia' instaurato nei suoi confronti. 
    Per altro verso, puo' anche accadere che  il  pubblico  ministero
acquisisca in modo graduale la  prova  della  commissione  del  reato
permanente da parte del soggetto: dapprima, cioe', in relazione ad un
certo periodo di  tempo  -  limitatamente  al  quale  viene,  quindi,
inizialmente promossa l'azione penale - e poi in relazione  ad  altri
periodi, anteriori o  successivi,  per  i  quali  vengono  instaurati
ulteriori giudizi. 
    Proprio a questa seconda fenomenologia  appare,  nella  sostanza,
ascrivibile  la  vicenda  oggetto  del  giudizio  a  quo.  La  figura
criminosa  che  viene  in  rilievo  nella  specie  e'  quella   della
violazione   degli   obblighi   di   assistenza   familiare,    nella
sottofattispecie dell'omessa prestazione dei mezzi di sussistenza  ai
discendenti di eta' minore, prevista dall'art.  570,  secondo  comma,
numero 2), cod. pen. Tale ipotesi delittuosa si connota, in base a un
consolidato  indirizzo  giurisprudenziale,  come  reato   di   natura
permanente, la  cui  consumazione  si  protrae  per  tutto  il  tempo
dell'inadempimento volontario dell'obbligo, cessando  -  laddove  non
intervenga il fenomeno della cosiddetta interruzione giudiziale della
permanenza, sul quale si portera' l'attenzione piu' avanti - solo nel
momento in cui l'obbligo stesso viene assolto (ex plurimis, Corte  di
cassazione, sezione sesta penale,  sentenza  22-28  luglio  2015,  n.
33220; sezione sesta penale, sentenza 4-19 dicembre 2013, n.  51499).
In accordo con i postulati  della  teoria  unitaria,  il  delitto  in
questione non puo' essere, quindi, in linea di  principio,  scomposto
in una pluralita' di  reati  omogenei,  corrispondenti  alle  singole
violazioni (Corte di cassazione, sezione sesta  penale,  sentenza  20
ottobre-13 novembre 2015, n. 45462). 
    Nel  caso  di  specie,  tuttavia  -  secondo  quanto  si   evince
dall'ordinanza di rimessione -  e'  avvenuto  che,  a  seguito  della
presentazione  di  plurime  denunce-querele  da  parte  del   coniuge
separato, un soggetto  rimasto  continuativamente  inadempiente  agli
obblighi di assistenza familiare sia stato sottoposto a tre  distinti
procedimenti penali in rapporto a singole  frazioni  del  periodo  di
inadempienza: procedimenti conclusisi  con  altrettante  sentenze  di
condanna, divenute definitive. 
    4.-  Cio'  premesso,  il  rimettente  pone  a  fondamento   delle
questioni sollevate un duplice presupposto interpretativo: e,  cioe',
che nel caso considerato - e negli altri consimili -  non  troverebbe
applicazione ne' la disciplina degli artt. 649 e 669 cod. proc. pen.,
in tema di divieto di un secondo giudizio e di pluralita' di condanne
per un medesimo fatto, ne' quella dell'art. 671 cod. proc.  pen.,  in
tema di riconoscimento della  continuazione  in  executivis.  Con  la
conseguenza  -  reputata  costituzionalmente  inaccettabile   -   che
l'interessato si troverebbe esposto al cumulo  materiale  delle  pene
inflittegli (cumulo che, nel caso  di  specie,  porterebbe  anche  al
superamento della  pena  edittale  massima  prevista  dall'art.  570,
secondo comma, cod. pen.). 
    Quanto al primo dei due presupposti,  il  citato  art.  649  cod.
proc. pen. enuncia il noto principio del ne bis in  idem,  stabilendo
che «[l]'imputato prosciolto o  condannato  con  sentenza  o  decreto
penale divenuti irrevocabili non puo' essere di  nuovo  sottoposto  a
procedimento penale per il medesimo fatto, neppure  se  questo  viene
diversamente considerato per  il  titolo,  per  il  grado  o  per  le
circostanze». Ove,  cio'  nonostante,  venga  di  nuovo  iniziato  il
procedimento penale,  il  giudice  deve  farlo  prontamente  cessare,
pronunciando sentenza di proscioglimento o di non luogo  a  procedere
in ogni stato e grado del giudizio. 
    L'art. 669 cod. proc. pen. si occupa, a sua  volta,  dell'ipotesi
in cui il meccanismo non abbia in concreto funzionato, e siano  state
quindi pronunciate piu' sentenze di  condanna  divenute  irrevocabili
contro la stessa persona per il medesimo  fatto.  In  tal  caso,  «il
giudice ordina l'esecuzione della sentenza con cui si  pronuncio'  la
condanna piu' grave, revocando le altre» (salve le regole particolari
stabilite dai commi 2 e seguenti  per  i  casi  in  cui  siano  state
inflitte pene diverse). 
    In qual modo il principio del ne bis in idem  interagisca  con  i
reati permanenti e' uno degli  interrogativi  "storici"  generati  da
tale categoria di reati. Al riguardo, la giurisprudenza  ha  respinto
in modo compatto la tesi  sostenuta  da  una  parte  della  dottrina,
secondo la quale, una volta riconosciuta la natura unitaria del reato
permanente,  il  suddetto  principio  dovrebbe  precludere  un  nuovo
giudizio - e, dunque, la possibilita' di applicare una ulteriore pena
- per la condotta tipica posteriore a quella che ha gia' dato luogo a
un giudicato di condanna, posto che la diversa connotazione temporale
del  fatto  -  e,  in  particolare,  la  sua  dilatazione  sul  piano
cronologico - non ne scalfirebbe l'identita' agli  effetti  dell'art.
649 cod. proc. pen. 
    Come ricorda il rimettente,  la  giurisprudenza  di  legittimita'
appare salda nel ritenere, in senso contrario, che, con  riguardo  al
reato permanente, il divieto di un secondo giudizio riguarda soltanto
la condotta posta in essere nel periodo indicato  nell'imputazione  e
accertata con la sentenza irrevocabile, e non anche la prosecuzione o
la ripresa della  stessa  condotta  in  epoca  successiva,  la  quale
integra un "fatto storico" diverso, non coperto dal giudicato, per il
quale non vi e' alcun impedimento a procedere (tra le molte, Corte di
cassazione, sezione sesta penale, sentenza 5 marzo-15 maggio 2015, n.
20315; sezione terza penale, sentenza 21 aprile-11  maggio  2015,  n.
19354; sezione seconda penale, sentenza 12 luglio-13 settembre  2011,
n. 33838). Cio' in quanto l'identita' del fatto,  rilevante  ai  fini
dell'operativita' del principio  del  ne  bis  in  idem,  sussiste  -
secondo un radicato principio giurisprudenziale - solo quando vi  sia
corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del  reato,
considerato in tutti i suoi elementi costitutivi  (condotta,  evento,
nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di  luogo  e
di persona (per tutte, Corte di  cassazione,  sezioni  unite  penali,
sentenza 28 giugno-28 settembre 2005, n. 34655; nel senso che  l'art.
649 cod. proc. pen. "viva" nei termini ora indicati si e', del resto,
gia' espressa piu' volte questa Corte: sentenze n. 200 del 2016 e  n.
129 del 2008). Nel caso considerato, per contro, le condotte  oggetto
dei due giudizi successivi al primo  sono  chiaramente  distinte  sul
piano "storico". 
    In questa prospettiva, al fine di stabilire per quale porzione il
reato permanente deve ritenersi coperto dal giudicato, e  dunque  non
ulteriormente giudicabile (con conseguente operativita', in  caso  di
inosservanza del divieto, del  regime  previsto  dall'art.  669  cod.
proc. pen.), occorre tenere conto  delle  modalita'  di  formulazione
dell'imputazione. Nei reati permanenti l'accusa puo' essere, infatti,
contestata all'imputato in  due  modi:  la  cosiddetta  contestazione
"chiusa" e la cosiddetta contestazione "aperta". 
    La contestazione si  definisce  "chiusa"  allorche'  il  capo  di
imputazione individui con  precisione  la  durata  della  permanenza,
specificando, in particolare, la data finale dell'attivita' criminosa
contestata. In simile evenienza - sempre alla luce delle  indicazioni
della giurisprudenza di legittimita'  -  il  giudice  e'  chiamato  a
pronunciarsi  esclusivamente  sul  periodo  contestato,  senza  poter
conoscere della eventuale protrazione della condotta criminosa  oltre
la data indicata nel capo di imputazione, a meno che  tale  ulteriore
attivita' formi oggetto di una contestazione suppletiva del  pubblico
ministero ai sensi dell'art. 516 cod. proc. pen. 
    Si e' invece al cospetto di una contestazione "aperta" quando nel
capo di imputazione il pubblico ministero indichi  esclusivamente  la
data iniziale della permanenza, o la data  dell'accertamento,  e  non
anche quella finale: cio', sul  presupposto  che  la  permanenza  sia
ancora in corso al momento di esercizio dell'azione penale.  In  tale
evenienza - secondo la  giurisprudenza  largamente  prevalente  -  la
protrazione della condotta nel  corso  del  processo  deve  ritenersi
compresa nella contestazione, con la conseguenza che il giudice  puo'
pronunciarsi su di essa senza necessita' di contestazioni  suppletive
da parte del titolare dell'azione  penale.  La  vis  espansiva  della
contestazione alla condotta successiva incontra, peraltro, un  limite
ultimo, rappresentato dalla pronuncia della sentenza di primo  grado.
Tale   sentenza   cristallizza,   infatti,   in    modo    definitivo
l'imputazione, la quale non puo' piu' essere modificata nei gradi  di
impugnazione, impedendo cosi' che, in quel  processo,  possa  formare
oggetto  di  accertamento  giudiziale  e  di  sanzione  una   realta'
fenomenica successiva (Corte di  cassazione,  sezioni  unite  penali,
sentenza 13 luglio-22 ottobre 1998, n. 11021; sezioni  unite  penali,
sentenza 11-26 novembre 1994, n. 11930; nonche', piu' di recente, tra
le altre, sezione seconda penale, sentenza 20 aprile-19 maggio  2016,
n. 20798). 
    Da cio' deriva, per quanto qui interessa, che lo sbarramento  del
ne bis in idem opera, nel caso di contestazione di tipo "chiuso", con
riguardo alla condotta posta in essere nel periodo indicato nel  capo
di imputazione (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza
20 aprile-19 maggio 2016, n. 20798; sezione prima penale, sentenza  7
giugno-22  luglio  2013,  n.  31479),  salvo,  s'intende,   che   sia
intervenuta una contestazione suppletiva; nel caso  di  contestazione
di tipo "aperto", in rapporto alla  condotta  realizzata  dalla  data
iniziale indicata nel capo di imputazione a  quella  della  pronuncia
della sentenza di primo grado (Corte di cassazione,  sezione  seconda
penale, sentenza 22 marzo-14 giugno 2012,  n.  23695;  sezione  sesta
penale, sentenza 4 ottobre-29 novembre 2000, n. 12302). 
    Le conclusioni  giurisprudenziali  ora  ricordate  rispondono  ad
esigenze pratiche evidenti  e  difficilmente  eludibili.  Per  quanto
attiene alla ritenuta  possibilita'  di  procedere  per  la  condotta
successiva alla sentenza di primo grado, e' palese che, se cosi'  non
fosse,  detta   sentenza   si   tradurrebbe   in   un   inaccettabile
"salvacondotto" per chi intenda continuare a violare la legge penale.
E cio' quantunque si discuta di condotta che non  avrebbe  potuto  in
nessun caso essere giudicata nel processo gia' definito. 
    Quanto, poi, alla  possibilita'  di  procedere  per  la  condotta
successiva alla data finale della contestazione  "chiusa",  ancorche'
anteriore alla pronuncia della sentenza di primo grado (condotta  che
pure, in linea teorica, avrebbe  potuto  essere  giudicata  con  tale
sentenza,  ove  il  pubblico  ministero  avesse   proceduto   a   una
contestazione suppletiva), si reputa egualmente illogico che  il  reo
possa godere di una  "franchigia  penale"  riguardo  alla  perdurante
condotta illecita per il mero fatto  che  l'accertamento  giudiziario
abbia riguardato solo un  segmento  temporale  del  reato  (Corte  di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22  luglio  2013,
n. 31479). Come gia' accennato, la  frammentazione  delle  iniziative
giudiziali nell'ipotesi considerata puo' dipendere  -  e  solitamente
dipende - dal fatto che il pubblico ministero ha acquisito  in  tempi
diversi la prova della responsabilita' dell'agente  con  riguardo  ai
singoli segmenti temporali. 
    Alla luce di quanto esposto, si deve  quindi  concludere  che  il
primo presupposto ermeneutico del rimettente - ossia l'impossibilita'
di ravvisare nella vicenda oggetto del giudizio a quo l'ipotesi della
pluralita' di sentenze  di  condanna  per  il  medesimo  fatto  -  e'
corretto,  perche'  conforme  al   "diritto   vivente"   di   matrice
giurisprudenziale. Nella specie, infatti, tutte e tre le sentenze  di
condanna per violazione degli obblighi di assistenza  familiare  sono
state pronunciate in relazione  a  contestazioni  di  tipo  "chiuso",
attinenti a periodi di tempo  diversi  e  non  sovrapposti  tra  loro
(rispettivamente, da marzo a settembre 2008, da ottobre 2008 a  marzo
2009 e da agosto 2009 a marzo 2010). Dunque,  in  base  ai  ricordati
orientamenti della giurisprudenza  di  legittimita',  non  sussisteva
alcuna preclusione al promovimento dei giudizi successivi  al  primo,
ancorche'  relativi  a  segmenti  della   condotta   cronologicamente
antecedenti alla prima sentenza  di  condanna  di  primo  grado,  poi
divenuta definitiva (sentenza pronunciata solo il 17 maggio 2012). 
    5.-  Il  discorso  e'  diverso  quanto  al  secondo   presupposto
interpretativo,  relativo  alla   pretesa   inapplicabilita',   nella
fattispecie considerata, dell'art. 671 cod. proc. pen.:  disposizione
in forza della quale, quando siano state pronunciate piu' sentenze  o
decreti penali irrevocabili in procedimenti distinti contro la stessa
persona, il giudice dell'esecuzione puo' applicare,  su  istanza  del
condannato o  del  pubblico  ministero  -  laddove  ne  sussistano  i
presupposti - la disciplina del reato continuato (oltre a quella  del
concorso formale di reati),  sempre  che  la  stessa  non  sia  stata
esclusa dal giudice della cognizione. 
    Al  riguardo,  il  rimettente  osserva   che   l'istituto   della
continuazione postula che l'agente abbia commesso una  pluralita'  di
reati distinti, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Nella
specie, si sarebbe invece al cospetto di un unico  reato  permanente,
giudicato "per tranche" in sede cognitiva. 
    Il  giudice  a  quo  si  mostra  consapevole   dell'esigenza   di
confrontarsi, a questo proposito, con il  fenomeno  della  cosiddetta
interruzione  giudiziale  della  permanenza:  ossia  con  l'indirizzo
giurisprudenziale,  ampiamente  consolidato,  secondo  il  quale   la
permanenza puo' cessare,  oltre  che  per  cause  "naturalistiche"  -
l'esaurirsi della condotta tipica  -  anche  per  cause  giudiziarie,
connesse alle modalita' di accertamento dell'illecito, che frantumano
l'unita'  del  reato  permanente,  facendo  si'  che  la  protrazione
successiva della condotta integri un reato distinto e  autonomo,  pur
se omologo. 
    Il Tribunale teatino non pone in discussione la validita' di tale
risalente  costruzione  giurisprudenziale.  Nega,  tuttavia,  che  il
fenomeno si sia verificato nella fattispecie sottoposta al suo esame.
Rileva,  infatti,  che  per  costante  giurisprudenza  l'interruzione
giudiziale della permanenza si verifica  solo  per  effetto  -  e  al
momento - della sentenza di primo grado. Nel caso di  specie  -  come
gia' ricordato poc'anzi  -  la  prima  sentenza  di  primo  grado  e'
posteriore all'ultima delle condotte giudicate nei tre  processi.  Di
conseguenza, l'unitarieta' del reato  permanente  non  sarebbe  stata
spezzata. 
    Il giudice a quo  aggiunge  che  l'applicazione  del  regime  del
cumulo giuridico delle pene, nei termini delineati dall'art. 81  cod.
pen., prevista nel caso del reato  continuato,  «non  collim[erebbe]»
neppure con l'esigenza, che emerge nella specie, «di riparametrare la
pena secondo lo schema del reato unico», tenendo conto del  complesso
delle condotte separatamente giudicate in sede cognitiva. 
    Sul punto, va rilevato che e' ben vero che in  numerose  pronunce
la giurisprudenza di legittimita' ha individuato in  modo  indistinto
il fattore di interruzione giudiziale della permanenza nella sentenza
di primo grado. In numerose altre ha precisato, pero', che una simile
affermazione va riferita al caso in cui la  contestazione  del  reato
sia stata formulata in forma  "aperta":  ipotesi  nella  quale,  come
detto, il giudicato copre anche la protrazione della condotta fino al
momento della pronuncia di detta sentenza (tra  le  molte,  Corte  di
cassazione, sezione terza  penale,  sentenza  5  luglio-21  settembre
2017, n. 43173; sezione seconda penale, sentenza  1°  marzo-6  giugno
2016, n. 23343; sezione sesta  penale,  sentenza  3  ottobre  2013-20
marzo 2014, n. 13085). 
    In ulteriori decisioni, la Corte di cassazione e', per  converso,
chiara nell'affermare che, in caso di contestazione "chiusa",  e'  la
data finale indicata nel capo di imputazione a segnare  -  una  volta
che sul fatto sia intervenuto l'accertamento processuale definitivo -
il momento nel quale si determina  la  frantumazione  della  condotta
criminosa, che imprime alla condotta successiva  i  connotati  di  un
distinto reato (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7
giugno-22 luglio 2013, n.  31479;  nonche'  sezione  seconda  penale,
sentenza 20 aprile-19 maggio 2016, n. 20798). 
    Occorre, in effetti, considerare che l'istituto dell'interruzione
giudiziale della permanenza e' stato elaborato, sin da tempi  remoti,
dalla giurisprudenza in precipuo collegamento con la problematica cui
si e' fatto riferimento in  precedenza:  ossia  proprio  al  fine  di
giustificare, sul piano teorico, la possibilita' di giudicare in modo
separato  singoli  segmenti  temporali  del  reato  permanente  senza
incorrere nella violazione del  divieto  di  bis  in  idem,  evitando
effetti di "immunita' penale". In questa ottica, e' del tutto  logico
che le meccaniche operative del fenomeno dell'interruzione giudiziale
vadano di pari passo con quelle del ne bis in idem, rimanendo percio'
collegate  alle  modalita'  di  formulazione  ("chiusa"  o  "aperta")
dell'accusa,  nei  termini  dianzi  ricordati.  Sarebbe,  del  resto,
singolare, se non anche contraddittorio, che - cosi' come mostra,  in
sostanza, di ritenere il giudice  a  quo  -  un  segmento  del  reato
permanente debba essere considerato fatto diverso e autonomo, ai fini
dell'esclusione dell'operativita' del ne bis  in  idem,  malgrado  il
principio di unitarieta' di tale categoria di reati, e, al contrario,
porzione del  fatto  gia'  giudicato  -  in  nome  di  quello  stesso
principio - quando si tratti di stabilire se si sia al cospetto di un
reato unico o di una  pluralita'  di  reati.  Se  si  riconosce  alle
modalita' dell'accertamento giudiziario (fattore di tipo processuale)
la capacita' di frantumare l'unita' sostanziale del reato  permanente
- in risposta alle esigenze pratiche cui si e' fatto cenno, giudicate
ineludibili - cio' non puo' non valere su entrambi i versanti. 
    In siffatto ordine d'idee, l'interruzione della  permanenza  deve
ritenersi intervenuta anche nel caso  oggetto  del  giudizio  a  quo:
discutendosi di contestazioni "chiuse", non rileva, in contrario,  il
fatto che la prima sentenza di primo grado sia successiva all'intiero
periodo cui si riferiscono le tre condanne. 
    Superando iniziali esitazioni, la giurisprudenza di  legittimita'
appare, d'altro canto, ormai costante nel ritenere che, nel  caso  di
interruzione giudiziale della permanenza, e' bene applicabile ai vari
segmenti di condotta autonomamente giudicati la disciplina del  reato
continuato, anche in sede esecutiva  (Corte  di  cassazione,  sezione
seconda penale, sentenza  12  luglio-13  settembre  2011,  n.  33838;
sezione prima penale, sentenza 19 maggio-25 ottobre 2011,  n.  38486;
sezione prima penale, sentenza  3  marzo-8  aprile  2009,  n.  15133;
sezione prima penale,  sentenza  17  novembre-20  dicembre  2005,  n.
46576). L'identita' del disegno criminoso,  richiesta  dall'art.  81,
secondo comma, cod. pen. al fine di cementare i vari fatti di  reato,
e' d'altronde facilmente riscontrabile nella determinazione  volitiva
che  sorregge  le  singole  porzioni  temporali   di   una   condotta
antigiuridica omogenea,  dipanatasi  nel  tempo  senza  soluzione  di
continuita', quale quella integrativa del reato permanente. 
    Al riguardo, la Corte di cassazione ha  posto  specificamente  in
risalto come  l'operazione  considerata  -  ossia  l'applicazione  in
executivis della  disciplina  del  reato  continuato  -  consenta  di
ripristinare anche quella pena per tutto il periodo di  perpetrazione
del fatto di reato che sarebbe stata irrogata in modo unitario  se  i
segmenti temporali del reato permanente fossero stati oggetto  di  un
unico processo  di  cognizione  (in  questo  senso,  con  particolare
riguardo al caso di  contestazione  "chiusa",  Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22 luglio 2013, n. 31479). 
    Tutto cio' porta a concludere che - contrariamente a quanto opina
il giudice a quo -  la  previsione  dell'art.  671  cod.  proc.  pen.
risulta pianamente riferibile anche all'ipotesi in discussione. 
    6.- Alla luce di quanto precede, le  questioni  vanno  dichiarate
non fondate per erroneita' del presupposto interpretativo concernente
l'asserita inapplicabilita', nel caso considerato,  della  disciplina
recata dall'art. 671 cod. proc.  pen.:  erroneita'  cui  consegue  il
venir meno dei dubbi di costituzionalita' prospettati dal  giudice  a
quo, legati all'asserita, indefettibile operativita' del  regime  del
cumulo materiale delle pene. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art.  671  del  codice  di  procedura   penale   sollevate,   in
riferimento agli artt. 3  e  24  della  Costituzione,  dal  Tribunale
ordinario di Chieti, sezione distaccata di  Ortona,  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2018. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria l'8 marzo 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA