N. 77 SENTENZA 7 marzo - 19 aprile 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Procedimento civile ‒ Spese processuali ‒ Casi in cui il giudice puo'
  disporne la compensazione. 
- Codice di procedura civile, art. 92, secondo comma, come modificato
  dall'art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014,  n.  132  (Misure
  urgenti di degiurisdizionalizzazione ed  altri  interventi  per  la
  definizione  dell'arretrato  in  materia   di   processo   civile),
  convertito, con modificazioni, nella legge  10  novembre  2014,  n.
  162. 
-   
(GU n.17 del 26-4-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 92,  secondo
comma, del codice di procedura civile, come modificato  dall'art.  13
del decreto-legge 12  settembre  2014,  n.  132  (Misure  urgenti  di
degiurisdizionalizzazione ed  altri  interventi  per  la  definizione
dell'arretrato  in  materia  di  processo  civile),  convertito,  con
modificazioni, nella legge 10 novembre 2014,  n.  162,  promossi  dal
Tribunale ordinario di Torino in funzione di giudice del lavoro,  con
ordinanza del 30 gennaio 2016 e dal  Tribunale  ordinario  di  Reggio
Emilia in funzione di  giudice  del  lavoro,  con  ordinanza  del  28
febbraio 2017,  iscritte  rispettivamente  al  n.  132  del  registro
ordinanze 2016 e al n. 86 del registro ordinanze  2017  e  pubblicate
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  28,  prima   serie
speciale, dell'anno 2016 e n. 25,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2017. 
    Visti gli atti di costituzione di Antonio Benedetto,  della  REAR
societa' cooperativa a rl, di Elvira Rasulova, nonche'  gli  atti  di
intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e   della
Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL); 
    udito nella udienza pubblica del 7 marzo 2018 il Giudice relatore
Giovanni Amoroso; 
    uditi gli avvocati Alberto Piccinini e Amos Andreoni  per  Elvira
Rasulova, Vincenzo Martino e Amos  Andreoni  per  Antonio  Benedetto,
Giorgio Frus per la REAR societa' cooperativa a rl e l'avvocato dello
Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Torino ed il Tribunale ordinario di
Reggio Emilia, entrambi in funzione di giudice  del  lavoro,  con  le
ordinanze rispettivamente del 30 gennaio 2016 e del 28 febbraio 2017,
iscritte al n. 132 del  2016  e  al  n.  86  del  2017  del  registro
ordinanze, hanno sollevato questioni di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 92, secondo comma, del  codice  di  procedura  civile,  nel
testo  modificato  dall'art.  13,  comma  1,  del  decreto-legge   12
settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti  di  degiurisdizionalizzazione
ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in  materia  di
processo civile),  convertito,  con  modificazioni,  nella  legge  10
novembre 2014,  n.  162;  disposizione  questa  che  prevede  che  il
giudice, se vi e' soccombenza reciproca ovvero nel caso  di  assoluta
novita' della questione trattata  o  mutamento  della  giurisprudenza
rispetto a questioni dirimenti,  puo'  compensare  le  spese  tra  le
parti, parzialmente o per intero. 
    Le ordinanze fanno  riferimento  a  plurimi  parametri  in  parte
coincidenti. Il Tribunale ordinario di Torino richiama gli  artt.  3,
primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione;
il Tribunale ordinario di Reggio Emilia deduce gli artt. 3,  primo  e
secondo comma, 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111 Cost., nonche' gli
artt. 21 e  47  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e  adattata  a
Strasburgo il 12 dicembre  2007,  e  gli  artt.  6,  13  e  14  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.  848,  questi
ultimi come parametri interposti per il tramite dell'art. 117,  primo
comma, Cost. 
    Entrambi i giudici rimettenti incentrano i dubbi di  legittimita'
costituzionale della disposizione censurata sulla mancata previsione,
in caso di soccombenza totale, del potere del giudice  di  compensare
le spese di lite tra le parti anche  in  casi  ulteriori  rispetto  a
quelli ivi previsti.  Il  solo  Tribunale  di  Reggio  Emilia  deduce
altresi' la mancata considerazione  del  lavoratore  ricorrente  come
parte   "debole"   del   rapporto   controverso   al    fine    della
regolamentazione delle spese processuali. 
    2.- In particolare, il Tribunale ordinario di Torino e' investito
del  ricorso  proposto  da  un  socio  lavoratore  di  una   societa'
cooperativa, con mansioni di addetto al  controllo  ingressi  e  alla
viabilita', avente ad oggetto,  in  via  principale,  la  domanda  di
ricalcolo retributivo in base ad un contratto collettivo  diverso  da
quello applicato dalla datrice di lavoro, con  conseguente  richiesta
di condanna della societa' resistente  al  pagamento  delle  relative
differenze retributive; in via subordinata, il ricorso ha ad  oggetto
la domanda di condanna della societa' resistente al  pagamento  delle
integrazioni contrattuali delle indennita'  legali  di  infortunio  e
malattia computate con riferimento al contratto collettivo  applicato
dalla societa'. 
    A fondamento della domanda  il  socio  lavoratore  ricorrente  ha
dedotto che la societa' aveva  fatto  applicazione  di  un  contratto
collettivo sottoscritto da organizzazioni datoriali e  sindacali  non
sufficientemente rappresentative ed ha quindi chiesto l'applicazione,
ai fini della verifica della congruita' retributiva, di altro diverso
contratto collettivo, gia' utilizzato in vertenze similari. 
    La societa' si e' costituita  ed  ha  chiesto  il  rigetto  delle
domande indicando, sempre ai fini del giudizio  di  congruita'  della
retribuzione, quale termine di  raffronto,  un  contratto  collettivo
ulteriormente diverso da quello invocato dal ricorrente. Quanto  alla
domanda subordinata, la  resistente  ha  osservato  che  l'esclusione
dell'integrazione contrattuale delle indennita' legali di malattia  e
di infortunio aveva fatto seguito ad una delibera assembleare del  20
giugno 2011, approvata per garantire la sopravvivenza della  societa'
messa in stato di crisi, in conformita' all'art. 6, comma 1,  lettere
d) ed e),  della  legge  3  aprile  2001,  n.  142  (Revisione  della
legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento
alla posizione del socio lavoratore). 
    Cio' premesso,  il  rimettente,  dopo  aver  disposto  consulenza
contabile, ha rigettato entrambe le domande con sentenza  qualificata
"non  definitiva"  e,  con  separata  ordinanza,   ha   disposto   la
prosecuzione del giudizio per la definizione  del  regolamento  delle
spese  di  lite;  all'esito  di  discussione  orale   ha   sollevato,
d'ufficio, questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  92,
secondo comma, cod. proc. civ., nel  testo  novellato  dall'art.  13,
comma 1, del citato d.l. n. 132 del 2014, quale convertito in legge. 
    Ad  avviso  del  rimettente  si  configurerebbe   la   violazione
dell'art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo  del  principio  di
ragionevolezza, in quanto sussisterebbe una sproporzione tra il  fine
perseguito - quello di «disincentivare l'abuso del processo» -  e  lo
strumento normativo utilizzato, consistito nella «limitazione estrema
ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione» delle  spese  di
lite. Mentre il testo, come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n.
69 (Disposizioni per lo sviluppo economico,  la  semplificazione,  la
competitivita' nonche' in materia di processo civile), era gia'  «del
tutto  sufficiente  a  scongiurare  eventuali  abusi,  da  parte  del
giudice, nell'uso dello strumento della compensazione contenendo essa
gia' una regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata». 
    Il medesimo parametro sarebbe poi violato -  secondo  il  giudice
rimettente - sotto il profilo del  principio  di  eguaglianza,  avuto
riguardo alle situazioni contemplate dalla norma  raffrontate,  quali
tertia  comparationis,  con  quelle  escluse,  di  pari  gravita'  ed
eccezionalita', individuate dalla giurisprudenza di legittimita'. 
    Il tribunale rimettente deduce altresi' la  violazione  dell'art.
24, primo comma, Cost., in  quanto  la  riduzione  delle  ipotesi  di
compensazione soltanto a  due  (oltre  a  quella  tradizionale  della
soccombenza reciproca) «tende [...] a scoraggiare  in  modo  indebito
l'esercizio dei diritti in  sede  giudiziaria,  divenendo  cosi'  uno
strumento deflattivo (e punitivo) incongruo» nelle ipotesi in cui  la
condotta della parte, poi risultata soccombente, non integra casi  di
abuso del processo, ma sia improntata a correttezza, prudenza e buona
fede. 
    Parimenti sarebbe violato l'art. 111, primo comma,  Cost.,  sotto
il  profilo  del  principio  del  giusto  processo,  in   quanto   la
disposizione censurata, consentendo la compensazione  nei  soli  casi
indicati,  «limita  il  potere  -  dovere  del  giudice  di   rendere
giustizia, anche in ordine al regolamento delle  spese  di  lite,  in
modo appropriato al caso concreto». 
    3.-  Nel  giudizio  incidentale  di  legittimita'  costituzionale
promosso dal Tribunale ordinario di  Torino  si  sono  costituite  le
parti del giudizio a quo, che hanno depositato memorie. 
    Il lavoratore socio ha aderito alle censure mosse  dall'ordinanza
di rimessione, ribadendo cio' con successiva  memoria  e  concludendo
per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale  dell'art.  92,
secondo comma, cod. proc. civ. 
    La societa' resistente ha rilevato  in  via  preliminare  che  la
regolamentazione delle spese di lite non e' suscettibile di  autonomo
distinto giudizio, richiamando a tal proposito l'ordinanza n. 314 del
2008 di questa Corte. Nel  merito  sottolinea  come  la  disposizione
censurata non costituisca uno «strumento punitivo incongruo», essendo
ragionevole porre, di regola, i costi del processo a carico di  colui
che lo ha attivato  con  esito  negativo,  e  limitare  la  possibile
compensazione delle spese di lite ad ipotesi tassativamente previste,
stante il carattere eccezionale delle medesime. 
    E'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio   dei   ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
concludendo per l'inammissibilita' o l'infondatezza  della  sollevata
questione di legittimita' costituzionale. In  particolare  la  difesa
dell'interveniente afferma la ragionevolezza della individuazione  da
parte del legislatore, nell'esercizio dell'ampia discrezionalita'  di
cui egli  gode  in  materia  processuale,  di  ipotesi  specifiche  e
tassative che giustifichino la compensazione delle spese di lite.  Si
tratterebbe di una scelta che non entra in collisione con i parametri
costituzionali che il giudice rimettente assume essere violati e  che
integrerebbe il giusto mezzo per conseguire la finalita' deflativa al
fine di «disincentivare» l'abuso del processo. 
    E' intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale  italiana
del lavoro (CGIL), concludendo per  l'ammissibilita'  dell'intervento
e, nel merito, per la dichiarazione di illegittimita'  costituzionale
della censurata disposizione. 
    4.- Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia e' investito  di  una
controversia avente  ad  oggetto  l'impugnazione  del  licenziamento,
azionata mediante ricorso proposto ai sensi dell'art.1,  commi  48  e
seguenti, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in  materia
di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). Si
tratta  di  una  lavoratrice  che  ha  impugnato   il   licenziamento
intimatole in data  30  novembre  2015  dalla  Italservizi  srl  (poi
Agriservice MO srl in liquidazione) con decorrenza  dal  31  dicembre
2015. 
    In particolare la lavoratrice ha agito nei confronti di  numerosi
convenuti (Burani Interfood spa, Servizi Commerciali  Integrati  srl,
Agriservice MO  srl  e  Burani  Stefano  Luigi  personalmente  ed  in
proprio), affermando l'esistenza «di un unico centro  di  imputazione
giuridica o gruppo d'imprese e la contemporanea  utilizzazione  della
prestazione lavorativa  da  parte  di  tutti  i  convenuti»,  sicche'
l'intervenuto licenziamento era da porre nel nulla nei  confronti  di
ognuno dei soggetti chiamati in causa. 
    Si e' costituita, tra le altre parti, la  Burani  Interfood  spa,
che ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilita'  del  ricorso
essendo intervenuta il 25 gennaio 2016 la revoca del licenziamento da
parte della Agriservice MO srl (successivamente in liquidazione). 
    All'esito  della  prima  fase  del  procedimento  (a   cognizione
sommaria)   il   rimettente   ha    pronunciato    un'ordinanza    di
inammissibilita' del ricorso per carenza di interesse ad agire  della
ricorrente per mancanza del licenziamento e, in merito alle spese  di
lite, ha condannato la lavoratrice al rimborso  di  quelle  sostenute
dalla attuale (almeno formalmente) datrice di lavoro  Agriservice  MO
srl in liquidazione, mentre le ha  compensate  con  riferimento  alle
altre parti convenute. 
    Nei confronti del capo dell'ordinanza relativo alla  liquidazione
delle spese della fase sommaria, la  sola  Burani  Interfood  spa  ha
proposto opposizione per la mancanza dei presupposti richiesti a  tal
fine dall'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. e per l'assenza  di
motivazione in merito alla disposta compensazione per le altre parti,
censurando  infine  la  disparita'  di  trattamento   rispetto   alla
Agriservice MO srl. 
    Nel giudizio di opposizione si e' costituita la  lavoratrice  per
contestare in  fatto  e  in  diritto  l'opposizione  e  ha  sollevato
eccezione di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  92,  secondo
comma, cod. proc. civ., evidenziando come  un'interpretazione  rigida
di tale disposizione determinerebbe  un'illegittima  riduzione  della
discrezionalita' del giudice nella valutazione degli elementi  idonei
a giustificare la compensazione delle spese di lite. 
    Anche il Tribunale ordinario di Reggio Emilia chiede  alla  Corte
di dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art.  92,  secondo
comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall'art. 13,  comma  1,
del d.l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella  legge
n. 162 del 2014, nella parte in cui - nelle  cause  di  lavoro  o  di
previdenza, nelle quali l'attore in primo grado e'  quasi  sempre  il
lavoratore - non prevede il potere del giudice di valutare  «i  gravi
ed eccezionali motivi» per compensare le spese di lite. 
    Ad avviso del rimettente si configurerebbe  la  violazione  degli
artt. 3, primo e  secondo  comma,  24  e  111  Cost.,  in  quanto  la
disposizione censurata  «priva  irragionevolmente  il  Giudice  della
essenziale funzione  di  giustizia,  ovvero  quella  di  adeguare  la
pronunzia  alle  peculiarita'  del  modello   processuale   ed   alle
condizioni personali e circostanze concrete del caso di specie»;  da'
luogo  alla  manifesta  violazione  del  principio   di   uguaglianza
sostanziale «che  esigerebbe  un  trattamento  differenziato,  ma  di
vantaggio,  per  il  soggetto  piu'  debole  e  costretto  ad   agire
giudizialmente»   per   vedere   accertata    l'illegittimita'    del
provvedimento datoriale, trattandosi, di regola, di  «controversie  a
"controprova"»; «esercita di fatto  una  gravissima  limitazione  del
diritto all'effettivita' dell'accesso alla  giustizia  in  danno  del
lavoratore», gia' gravato dagli oneri economici, non detraibili,  del
pagamento del contributo unificato,  dell'anticipazione  delle  spese
legali e dell'IVA; limita il  diritto  all'effettivita'  dell'accesso
alla  giustizia  «in  termini  di  pesante   "deterrenza"   in   modo
proporzionalmente (e vieppiu' irragionevolmente) maggiore per  quanto
minore  sia  la  capacita'  economica  del   lavoratore»;   colpisce,
irragionevolmente, anche la parte incolpevole che  non  ha  «abusato»
del processo o che non ha invocato diritti,  «che  a  priori,  sapeva
essere inesistenti». 
    Inoltre, sempre ad avviso del rimettente, sarebbero  violati  gli
artt. 25, primo comma, 102 e 104 Cost., in quanto l'intervenuto  d.l.
n. 132 del 2014 costituirebbe un'ingerenza del potere legislativo  su
quello giudiziario  comprimendo  oltremodo  la  discrezionalita'  del
giudice. 
    Il tribunale rimettente deduce poi la violazione  dell'art.  117,
primo  comma,  Cost.  in  relazione  all'art.  47  CDFUE  che   esige
l'effettivita' del diritto d'azione e di  accesso  alla  giustizia  e
l'equita' del processo, «quest'ultima irragionevolmente lesa  da  una
sanzione  che  colpisce  una  parte  che  non  ha   "responsabilita'"
processuale (nelle cause "a controprova")»; nonche' in relazione agli
artt. 6 e 13 CEDU, in rapporto al «diritto all'equo processo»  ed  al
diritto ad un «ricorso effettivo», in quanto  la  modifica  dell'art.
92,  secondo  comma,  cod.  proc.  civ.  in   chiave   specificamente
deflativa, rappresenta un mezzo sproporzionato  rispetto  allo  scopo
perseguito. 
    Altresi' sarebbero violati gli artt.  14  CEDU  e  21  CDFUE,  in
relazione al principio di non discriminazione, derivante dal  divieto
per  il  giudice  di  tener  conto  della  condizione  personale  del
lavoratore, «cosi' pregiudicandone il diritto di  azione  proprio  in
ragione della limitata capacita' economica, anche  a  prescindere  da
ragioni di "colpevolezza processuale"». 
    Il rimettente poi  osserva  che  nel  processo  del  lavoro  sono
frequenti le controversie cosiddette "a controprova", nel  senso  che
il lavoratore deve introdurle non disponendo  di  tutti  i  dati  che
incidono sulla legittimita', o meno, del provvedimento datoriale  che
egli ha gia' subito e di  cui  chiede  al  giudice  il  controllo  di
legittimita', da operare appunto  all'esito  dell'assolvimento  della
prova da parte del datore di lavoro convenuto in giudizio. 
    Con  specifico  riferimento  alle  controversie  di  lavoro,   il
rimettente deduce inoltre che il lavoratore, per introdurre la  causa
in primo grado, deve, di regola,  sostenere  l'onere  del  contributo
unificato, l'anticipazione delle spese legali e spesso di quelle  per
conteggi, oltre all'IVA sulla prestazione dei professionisti; e tutti
questi oneri, come pure quello eventuale delle spese di  soccombenza,
non sono detraibili. Al  contrario,  il  datore,  di  regola,  potra'
recuperare l'IVA sulle prestazioni  del  difensore  e  detrarra'  dal
reddito la relativa parcella, come le spese di eventuale soccombenza. 
    In riferimento al principio di non discriminazione sancito  nella
CEDU, il rimettente osserva come la discriminazione vietata dall'art.
14 della Convenzione consista nel trattare in modo differente,  salvo
una giustificazione  obiettiva  e  ragionevole,  le  persone  che  si
trovano in situazioni simili o analoghe  e  che  una  distinzione  e'
discriminatoria se non persegua uno scopo legittimo o se non sussiste
un rapporto di ragionevole proporzionalita' tra i mezzi  impiegati  e
lo scopo che si e' prefissata. 
    Quanto alla rilevanza della sollevata questione  di  legittimita'
costituzionale, il giudice a quo pone in rilievo che la  lavoratrice,
originaria  ricorrente  nel  procedimento  per   l'impugnazione   del
licenziamento, e' convenuta in opposizione, dalla societa' cui non e'
stato ritenuto riconducibile il licenziamento, per essere  condannata
alla  rifusione  delle  spese  processuali  sia  della   prima   fase
(sommaria), sia di  quella  attuale  di  opposizione;  il  rimettente
afferma che la vicenda riveste una  peculiarita'  oggettiva  tale  da
rendere difficile una ricostruzione in fatto degli avvenimenti, per i
numerosi passaggi subiti dal lavoratore  da  una  societa'  all'altra
nonche' per la  necessita'  di  procedere  alla  ricostruzione  delle
trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in forza  delle  quali
le plurime aziende coinvolte,  tra  loro  collegate  di  fatto  o  in
diritto, hanno cambiato  nome,  assetto  e  composizione  societaria,
ceduto  rami  d'azienda  ed  effettuato  altre  intricate   modifiche
interne. 
    5.- Nel giudizio incidentale si  e'  costituita  la  lavoratrice,
depositando anche memoria, ed ha concluso  per  la  fondatezza  della
questione. 
    E'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio   dei   ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
concludendo per l'inammissibilita' o l'infondatezza  della  sollevata
questione    di    legittimita'     costituzionale.     La     difesa
dell'interveniente svolge sostanzialmente le medesime  argomentazioni
gia'  prospettate  nell'altro  giudizio  incidentale,  deducendo,  in
particolare, che nell'ambito di controversie in  materia  di  lavoro,
dove una delle  parti  in  causa  potrebbe  risultare  economicamente
svantaggiata  rispetto  all'altra,  l'indicazione   tassativa   delle
ipotesi in cui e' possibile procedere alla compensazione delle  spese
di lite non determina un effetto preclusivo del ricorso  alla  tutela
giurisdizionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 30 gennaio 2016, iscritta  al  n.  132  del
registro  ordinanze  2016,  il  Tribunale  ordinario  di  Torino,  in
funzione di giudice del lavoro, ha  sollevato,  in  riferimento  agli
artt. 3, primo comma, 24, primo comma,  e  111,  primo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  92,
secondo comma, del codice di procedura civile, nel  testo  modificato
dall'art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre  2014,  n.  132
(Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi  per
la  definizione  dell'arretrato  in  materia  di  processo   civile),
convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n.  162,
nella parte in cui non consente, in caso di  soccombenza  totale,  la
compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi  ed
eccezionali ragioni, analoghe a quelle  indicate  in  modo  tassativo
dalla disposizione stessa, ossia l'«assoluta novita' della  questione
trattata»  e  il  «mutamento  della  giurisprudenza   rispetto   alle
questioni dirimenti». 
    La questione e' stata sollevata nel corso di un  giudizio  civile
promosso da un socio lavoratore  di  una  societa'  cooperativa,  per
ottenere la condanna di quest'ultima al pagamento  di  differenze  di
compenso per l'attivita' svolta calcolate sulla  base  delle  tariffe
del contratto collettivo ritenute applicabili ai sensi  dell'art.  3,
comma  1,  della  legge  3  aprile  2001,  n.  142  (Revisione  della
legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento
alla posizione del socio lavoratore), e dell'art.  7,  comma  4,  del
decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di  termini  previsti
da  disposizioni  legislative  e  disposizioni  urgenti  in   materia
finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 28  febbraio
2008, n. 31. In via subordinata lo stesso ricorrente aveva chiesto il
riconoscimento  di  un'integrazione  contrattuale  delle   indennita'
previste in caso di infortunio e di malattia. 
    Il  tribunale,  pronunciandosi  nell'instaurato   contraddittorio
delle parti, ha rigettato, con sentenza qualificata "non definitiva",
sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha  disposto  la
prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua,
concernente il regolamento delle spese di  lite.  In  tale  sede,  ha
sollevato  d'ufficio  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 92, secondo comma, cod.  proc.  civ.,  con  riferimento  ai
parametri suddetti ritenendo che la limitazione a  due  sole  ipotesi
tassative della possibilita' per il giudice di compensare le spese di
lite in caso di soccombenza totale  sia  contraria  al  principio  di
ragionevolezza e di eguaglianza, nonche' a quello del giusto processo
e comporti un'eccessiva remora a  far  valere  i  propri  diritti  in
giudizio. 
    Secondo il tribunale  rimettente,  nella  specie,  l'esito  della
lite, sfavorevole al lavoratore,  e'  dipeso  da  elementi  di  fatto
nuovi, non previsti ne' prevedibili: da una parte una  contrattazione
collettiva  utilizzata  parametricamente   dal   consulente   tecnico
d'ufficio per calcolare le  rivendicate  differenze  retributive,  la
quale era diversa sia da quella  applicata  dalla  societa',  sia  da
quella allegata dal lavoratore a sostegno della sua pretesa;  d'altra
parte  una  non  conosciuta  delibera  della   societa'   che   aveva
(legittimamente) sospeso l'erogazione del trattamento integrativo  di
malattia e di infortunio, parimenti rivendicato dal lavoratore. 
    2.- Con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritta  al  n.  86  del
registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia,  in
funzione di giudice del lavoro, ha sollevato  analoghe  questioni  di
legittimita'  costituzionale   della   medesima   disposizione,   per
contrasto con gli artt. 3, primo  e  secondo  comma;  24;  25,  primo
comma; 102; 104 e 111 Cost.; nonche' degli artt. 21 e 47 della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea  (CDFUE),  proclamata  a
Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007,
e  degli  artt.  6,  13  e  14  della  Convenzione  europea  per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge  4  agosto  1955,  n.  848,  questi  ultimi  come
parametri interposti per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost. 
    La questione e' stata sollevata nel corso di una controversia  di
lavoro avente ad oggetto l'impugnativa di un licenziamento,  promossa
con il rito di cui all'art. 1, comma 48, della legge 28 giugno  2012,
n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del  lavoro  in
una prospettiva di crescita), da una lavoratrice  nei  confronti  non
solo della societa' che aveva intimato il licenziamento, ma anche  di
altre societa', sull'asserito  presupposto  di  un  unico  centro  di
imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la contemporanea
utilizzazione della prestazione  lavorativa  da  parte  di  tutte  le
societa' convenute. La fase sommaria si concludeva  con  un'ordinanza
di inammissibilita' del ricorso per  essere  stato  il  licenziamento
revocato. Quanto alle  spese  di  lite  il  tribunale  condannava  la
lavoratrice al pagamento delle spese nei confronti della societa' che
aveva formalmente intimato -  e  poi  revocato  -  il  licenziamento;
invece le compensava tra la lavoratrice e le altre societa' convenute
in giudizio. Avverso questa ordinanza proponeva opposizione una  sola
di queste ultime societa', dolendosi della compensazione delle  spese
di  lite  e  chiedendo  la  condanna  della  lavoratrice,  originaria
ricorrente, al pagamento  delle  stesse.  Quest'ultima  ha  resistito
all'opposizione    eccependo,    tra    l'altro,     l'illegittimita'
costituzionale  dell'art.  92,  secondo  comma,  cod.   proc.   civ.;
eccezione che il  giudice  dell'opposizione  ha  accolto  promuovendo
l'incidente  di  legittimita'  costituzionale  con   riferimento   ai
parametri sopra indicati e muovendo censure  analoghe  a  quelle  del
Tribunale di Torino, nonche' lamentando che non venga in  rilievo  la
posizione  del  lavoratore  quale   parte   "debole"   del   rapporto
controverso. 
    Secondo il tribunale rimettente l'utilizzazione delle prestazioni
lavorative da parte non solo della societa'  datrice  di  lavoro,  ma
anche di altre societa', aveva creato l'apparenza di un unico  centro
di  imputazione  del  rapporto  di  lavoro  con   conseguente   grave
incertezza in ordine  a  chi  fosse  il  reale  datore;  sicche'  non
ingiustificata appariva l'evocazione in giudizio delle varie societa'
interessate. 
    3.- Le questioni di legittimita'  costituzionale,  sollevate  dal
Tribunale ordinario di Torino e dal  Tribunale  ordinario  di  Reggio
Emilia,  sono  in  larga  parte  sovrapponibili  e  quindi  si  rende
opportuna  la  loro  trattazione  congiunta  mediante  riunione   dei
giudizi. 
    4.-  Va  preliminarmente  considerato   che   nel   giudizio   di
legittimita' costituzionale originato  dall'ordinanza  di  rimessione
del giudice del lavoro di Torino  e'  intervenuta  ad  adiuvandum  la
Confederazione generale italiana del  lavoro  (CGIL),  aderendo  alle
argomentazioni contenute nell'ordinanza  di  rimessione  e  chiedendo
l'accoglimento   della   prospettata   questione   di    legittimita'
costituzionale. 
    L'Avvocatura generale dello Stato  e  la  difesa  della  societa'
costituita hanno eccepito l'inammissibilita' di tale intervento. 
    L'intervento e' inammissibile. 
    La costante giurisprudenza di questa  Corte  (tra  le  tante,  le
ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017, n. 237 e n.  82  del
2013, n. 272 del 2012, n. 349 del 2007, n. 279 del 2006 e n. 291  del
2001) e' nel senso che la partecipazione al giudizio  incidentale  di
legittimita' costituzionale e' circoscritta, di norma, alle parti del
giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e,
nel caso di legge regionale, al  Presidente  della  Giunta  regionale
(artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale). 
    A tale  disciplina  e'  possibile  derogare  -  senza  venire  in
contrasto   con   il   carattere   incidentale   del   giudizio    di
costituzionalita' - soltanto a favore di  soggetti  terzi  che  siano
titolari di un  interesse  qualificato,  immediatamente  inerente  al
rapporto  sostanziale  dedotto  in  giudizio  e   non   semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura.   Pertanto,   l'incidenza   sulla    posizione    soggettiva
dell'interveniente deve derivare non gia', come per  tutte  le  altre
situazioni sostanziali disciplinate  dalla  disposizione  denunciata,
dalla pronuncia della Corte sulla legittimita'  costituzionale  della
legge stessa, ma dall'immediato effetto che la pronuncia della  Corte
produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo. 
    Nella specie - essendo la  CGIL  titolare  non  di  un  interesse
direttamente  riconducibile  all'oggetto  del  giudizio   principale,
bensi' di un mero indiretto, e piu' generale, interesse connesso agli
scopi  statutari   della   tutela   degli   interessi   economici   e
professionali degli iscritti - il suo intervento in  questo  giudizio
deve essere dichiarato inammissibile. 
    5.- Ancora in via preliminare l'Avvocatura generale  dello  Stato
ha  sollevato  eccezione  di  inammissibilita'  delle  questioni   di
legittimita' costituzionale per mancata  interpretazione  adeguatrice
della disposizione censurata. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Entrambi i giudici rimettenti hanno, con motivazione  plausibile,
escluso  la  possibilita'  di   interpretazione   adeguatrice   della
disposizione censurata osservando che il recente ripetuto  intervento
del legislatore sulla disposizione censurata, di cui si dira'  oltre,
mostra chiaramente che  si  e'  inteso  restringere  sempre  piu'  la
discrezionalita' del giudice della controversia fino  a  definire  le
sole ipotesi che facoltizzano il  giudice,  in  caso  di  soccombenza
totale, a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite;  ipotesi
che quindi sono tassative: la soccombenza reciproca ovvero l'assoluta
novita' della questione trattata o il mutamento della  giurisprudenza
rispetto  alle  questioni  dirimenti.  Non  e'   possibile   pertanto
estendere in via interpretativa tale facolta' del  giudice  ad  altre
ipotesi che parimenti consentano  la  compensazione  delle  spese  di
lite. 
    Tanto  e'  sufficiente  per   ritenere   l'ammissibilita'   della
questione, anche in ragione  della  piu'  recente  giurisprudenza  di
questa Corte che ha affermato che, se e' vero che  le  leggi  non  si
dichiarano costituzionalmente illegittime «perche' e' possibile darne
interpretazioni  incostituzionali  (e  qualche  giudice  ritenga   di
darne)»,  cio'  pero'  non  significa  che  «ove  sia  improbabile  o
difficile    prospettarne    un'interpretazione    costituzionalmente
orientata, la questione  non  debba  essere  scrutinata  nel  merito»
(sentenza n. 42 del 2017; nello stesso  senso,  sentenza  n.  83  del
2017). 
    6.-  L'Avvocatura  generale  dello  Stato  ha  inoltre   eccepito
l'inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale per
insufficiente descrizione della fattispecie. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Entrambi i giudici rimettenti hanno  descritto  in  dettaglio  la
fattispecie al loro  esame  nei  termini  sopra  riportati  ed  hanno
chiaramente evidenziato la necessita'  di  applicare  nei  giudizi  a
quibus  la  disposizione  censurata  in  ordine  alla   quale   hanno
motivatamente   argomentato   i   loro    dubbi    di    legittimita'
costituzionale. 
    Le sollevate questioni di legittimita' costituzionale sono quindi
ammissibili, sotto l'indicato profilo, e sussiste  altresi'  la  loro
rilevanza. 
    7.-  C'e'  poi  un   ulteriore,   piu'   delicato,   profilo   di
ammissibilita' concernente le  questioni  oggetto  dell'ordinanza  di
rimessione del  Tribunale  ordinario  di  Torino,  che  -  come  gia'
rilevato - ha deciso  con  sentenza,  qualificata  "non  definitiva",
tutto il merito della causa ed ha riservato solo la  decisione  sulle
spese di lite, in riferimento alla quale, con distinta ordinanza,  ha
posto la  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  92,
secondo comma, cod. proc. civ. 
    Deve rilevarsi al riguardo che questa Corte nell'ordinanza n. 395
del 2004 ha affermato che la regolamentazione delle spese, in  quanto
accessoria alla decisione  di  merito,  non  e'  suscettibile  di  un
autonomo giudizio. 
    La citata ordinanza ha riguardato una situazione analoga:  quella
di un giudice rimettente (di  primo  grado)  che,  nel  censurare  il
medesimo art. 92, secondo comma, cod.  proc.  civ.,  aveva  parimenti
deciso, con sentenza, il merito della causa disponendo con  ordinanza
la sospensione del processo limitatamente alla  pronuncia  accessoria
sulle spese legali,  perche',  ritenendo  di  dover  fare  uso  della
facolta' di compensarle, ai sensi della citata disposizione nel testo
originario, dubitava della legittimita' costituzionale di tale norma,
«cosi' come interpretata dalla giurisprudenza  pressoche'  univoca  e
costante della Suprema Corte», secondo cui non vi era  alcun  obbligo
di motivare il capo  della  sentenza  col  quale  fosse  disposta  la
compensazione  delle  spese  «per  giusti  motivi»,  trattandosi   di
statuizione  discrezionale,   assistita   da   una   presunzione   di
conformita' a diritto. 
    Questa Corte ha dichiarato la  manifesta  inammissibilita'  della
questione per difetto  di  rilevanza,  affermando  che  «il  "diritto
vivente"  in  questione  [...]   si   risolve   in   una   regola   -
insindacabilita' della compensazione delle spese non motivata - della
quale e' diretto destinatario il giudice  dell'impugnazione,  e  solo
indirettamente  il  giudice  munito  del  potere  (discrezionale)  di
disporre la compensazione delle spese del giudizio da lui  definito».
Sicche'  il  canone  dell'insindacabilita'  della  motivazione  della
compensazione  delle  spese  di  lite,   all'epoca   ritenuta   dalla
giurisprudenza di legittimita', costituiva regola di giudizio per  il
giudice dell'impugnazione, legittimato  in  ipotesi  a  sollevare  la
relativa questione di legittimita' costituzionale, ma non gia' per un
giudice di primo grado, quale era il  giudice  rimettente.  Da  cio',
l'inammissibilita'  manifesta   della   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    La  Corte  pero'  ha  poi  aggiunto  -  seppur  senza  che   cio'
costituisse, o concorresse a costituire,  la  ratio  decidendi  della
pronuncia di inammissibilita' - che il  giudice  rimettente  comunque
«aveva consumato il suo potere decisorio».  In  ragione  di  cio'  si
potrebbe ora sostenere che anche il  Tribunale  ordinario  di  Torino
abbia esaurito il suo potere decisorio dopo  essersi  pronunciato  su
tutto il merito della causa, di talche' la questione di  legittimita'
costituzione sarebbe, sotto tale profilo, inammissibile. 
    8.- In realta', la questione e' ammissibile  anche  sotto  questo
profilo. 
    Nel processo civile una  sentenza  non  definitiva  e'  possibile
allorche' il giudice di primo grado - qual e' il rimettente Tribunale
ordinario di Torino - limiti  la  sua  decisione  alla  questione  di
giurisdizione, o a questioni pregiudiziali o preliminari di merito, o
anche  solo  ad  alcune  questioni  di  merito  impartendo   distinti
provvedimenti per  l'ulteriore  istruzione  della  causa  (art.  279,
secondo comma, cod. proc. civ.). Il giudice infatti puo' limitare  la
decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse  soltanto  non
sia  necessaria  un'ulteriore  istruzione  e  sempre  che   la   loro
«sollecita definizione» sia di «interesse apprezzabile» per la  parte
che ne abbia fatto istanza  (art.  277,  secondo  comma,  cod.  proc.
civ.). 
    Ma se  il  giudice  decide  totalmente  il  merito  della  causa,
accogliendo o  rigettando  tutte  le  domande,  emette  una  sentenza
definitiva, alla quale si accompagna  la  pronuncia  sulle  spese  di
lite, che - come gia' rilevato da questa Corte (nell'ordinanza n. 314
del 2008, richiamata dalla difesa della  societa'  costituita)  -  ha
«natura accessoria» rispetto alla decisione sul merito. Non  di  meno
pero' la decisione sulle spese di lite ha una sua distinta  autonomia
nella misura in cui e' possibile l'impugnativa di  questo  solo  capo
della sentenza definitiva sicche', in tale evenienza, il giudizio  di
impugnazione   e'   destinato   ad   avere   ad   oggetto   la   sola
regolamentazione delle spese di lite. 
    Questo legame di accessorieta' della pronuncia sulle  spese  alla
sentenza che decida tutte  le  questioni  di  merito  non  e'  quindi
indissolubile e, in particolare, e' recessivo allorche' il giudice  -
come  il  Tribunale  ordinario  di  Torino  -  abbia  un  dubbio  non
manifestamente infondato in ordine  soltanto  alla  disposizione  che
governa le spese di lite e di cui egli debba fare applicazione. 
    Il principio della ragionevole durata  del  processo  (art.  111,
secondo comma, Cost.), coniugato con  il  favor  per  l'incidente  di
legittimita' costituzionale - il quale  preclude  che  alcun  giudice
possa fare applicazione  di  una  disposizione  di  legge  della  cui
legittimita' costituzionale dubiti - suggerisce che non sia ritardata
la decisione del merito della causa rispondendo  cio'  all'«interesse
apprezzabile» delle parti  alla  «sollecita  definizione»  di  quanto
possa  essere  deciso  senza  fare  applicazione  della  disposizione
indubbiata (ex art. 277, secondo  comma,  citato).  Del  resto,  come
argomento a fortiori, puo' richiamarsi la  giurisprudenza  di  questa
Corte che ha ritenuto, al fine dell'ammissibilita' della questione di
legittimita' costituzionale, che  il  potere  decisorio  del  giudice
rimettente non venga meno neppure quando  egli  abbia,  al  contempo,
adottato la misura cautelare richiesta da una parte e,  con  separato
provvedimento, abbia sospeso il giudizio cautelare investendo  questa
Corte con incidente  di  legittimita'  costituzionale  proprio  sulla
disposizione di cui abbia fatto applicazione provvisoria e temporanea
(ex plurimis, sentenze n. 83 del 2013, n. 236 del 2010, n. 351  e  n.
161 del 2008; ordinanza n. 25 del 2006). 
    Si ha quindi che, nella specie,  non  erroneamente  il  Tribunale
ordinario di Torino non ha sacrificato l'interesse delle  parti  alla
sollecita decisione del merito - segnatamente, di tutto il  merito  -
della  causa  ed  ha  legittimamente  limitato  la  sospensione   del
giudizio, obbligatoria ex art. 23,  secondo  comma,  della  legge  11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte  costituzionale),  a  quanto  strettamente  necessario  per  la
decisione della questione di legittimita' costituzionale. 
    La pur imprecisa qualificazione, ad opera dello stesso tribunale,
della sentenza che ha  deciso  tutto  il  merito  della  causa,  come
pronuncia "non definitiva" anziche' "definitiva"  ex  art.  279  cod.
proc.  civ.,  rileva  al  fine  non  gia'  dell'ammissibilita'  della
questione   di   legittimita'   costituzionale,   ma    del    regime
dell'impugnazione di tale pronuncia quanto alla possibilita',  o  no,
della riserva facoltativa d'appello ex art. 340 cod. proc. civ. 
    9.-  Nel  merito  la  questione,  sollevata  congiuntamente   dal
Tribunale ordinario di Torino e dal  Tribunale  ordinario  di  Reggio
Emilia, e' fondata. 
    10.- La regolamentazione delle  spese  processuali  nel  giudizio
civile risponde alla regola generale victus victori fissata dall'art.
91, primo comma, cod. proc. civ.  nella  parte  in  cui  -  ripetendo
l'analoga prescrizione dell'art. 370,  primo  comma,  del  codice  di
procedura civile del 1865 - prevede che «il giudice, con la  sentenza
che chiude il processo davanti a lui, condanna la  parte  soccombente
al rimborso delle spese  a  favore  dell'altra  parte  e  ne  liquida
l'ammontare insieme con gli onorari di difesa». Quindi la soccombenza
si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento  delle  spese  di
lite. L'alea del processo grava sulla parte  soccombente  perche'  e'
quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o  contrastando,
il diritto  della  parte  vittoriosa  ovvero  azionando  una  pretesa
rivelatasi  insussistente.  E'  giusto,  secondo  un   principio   di
responsabilita', che chi e' risultato  essere  nel  torto  si  faccia
carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba
essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte  ha  in  proposito
affermato che «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha
reso necessaria l'attivita' del giudice ed ha  occasionato  le  spese
del suo svolgimento» (sentenza n. 135 del 1987). 
    La  regolamentazione  delle  spese  di  lite  e'  processualmente
accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale
ed e' anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della
tutela  giurisdizionale  come  diritto  costituzionalmente  garantito
(art. 24 Cost.). Il  «normale  complemento»  dell'accoglimento  della
domanda - ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986)  -  e'
costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle  competenze
in favore della parte vittoriosa. 
    Ma non e' una regola assoluta proprio in  ragione  del  carattere
accessorio della pronuncia sulle spese di  lite,  come  emerge  dalla
giurisprudenza  di  questa  Corte  che  ha  esaminato  un'ipotesi  di
contenzioso - il processo tributario prima della riforma del  1992  -
in cui non era affatto prevista la regolamentazione  delle  spese  di
lite si' che la parte soccombente non  ne  sopportava  l'onere  e  la
parte vittoriosa non ne era ristorata. Ha  infatti  affermato  questa
Corte (sentenza n. 196 del 1982) che «l'istituto della  condanna  del
soccombente nel pagamento delle spese ha bensi'  carattere  generale,
ma non e' assoluto e inderogabile»: come e' consentito al giudice  di
compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le condizioni  di
cui al secondo comma  dell'art.  92  cod.  proc.  civ.  (disposizione
attualmente censurata),  cosi'  rientra  nella  discrezionalita'  del
legislatore modulare l'applicazione della regola generale secondo cui
alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna  al  pagamento
delle spese di lite. Analogamente, con  riferimento  al  giudizio  di
opposizione a sanzioni amministrative, questa Corte (ordinanza n. 117
del 1999) ha ribadito che «l'istituto della condanna del  soccombente
al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere  generale,
non ha portata assoluta ed  inderogabile,  potendosene  profilare  la
derogabilita' sia su iniziativa del  giudice  del  singolo  processo,
quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod.  proc.
civ., sia  per  previsione  di  legge  -  con  riguardo  al  tipo  di
procedimento  -  in  presenza  di  elementi  che   giustifichino   la
diversificazione dalla regola generale». Parimenti e' stata  ritenuta
non illegittima una regola di settore che, all'opposto, escludeva  in
ogni caso  la  compensazione  delle  spese  di  lite  in  ipotesi  di
accoglimento della domanda di risarcimento del danno  esercitata  nel
processo penale dalla parte  offesa  costituitasi  parte  civile  nel
regime precedente la riforma del codice di procedura penale del  1987
(sentenza n. 222 del 1985). 
    Ampia quindi e' la discrezionalita' di cui  gode  il  legislatore
nel dettare norme processuali (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2012,
n. 446 del 2007 e n. 158 del 2003) e segnatamente  nel  regolamentare
le spese di lite. Sicche' e' ben  possibile  -  ha  affermato  questa
Corte (sentenza n. 157 del 2014) -  «una  deroga  all'istituto  della
condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore
della parte vittoriosa, in presenza di elementi che la  giustifichino
(sentenze n. 270 del 2012 e n. 196 del 1982),  non  essendo,  quindi,
indefettibilmente  coessenziale  alla   tutela   giurisdizionale   la
ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del 1999)». 
    11.- Muovendo da questa affermata possibile  derogabilita'  della
regola che prescrive la condanna del soccombente alla rifusione delle
spese di lite in favore della parte vittoriosa, vanno  ora  esaminate
le censure mosse alla disposizione indubbiata dai giudici rimettenti,
che sono centrate proprio sulle possibili deroghe a tale  regola.  Le
quali, da epoca risalente e per lungo tempo, sono state  affidate  ad
una clausola generale che chiamava in gioco la  discrezionalita'  del
giudice al momento della decisione della causa. Disponeva infatti  il
secondo comma  dell'art.  370  cod.  proc.  civ.  del  1865:  «Quando
concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate  in
tutto o in parte». Il secondo comma dell'art. 92 cod. proc. civ.  del
1940 ha ripetuto la stessa norma derogatoria: «Se vi  e'  soccombenza
reciproca  o  concorrono  altri  giusti  motivi,  il   giudice   puo'
compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».  Nella
relazione al Guardasigilli per  la  redazione  del  nuovo  codice  di
procedura  civile  si  espresse   l'opzione   di   dare   continuita'
all'analoga  disposizione  del  codice  di  rito  del  1865  e,   con
riferimento alla facolta' demandata al giudice di compensare le spese
di  lite,  oltre  al  caso  di  soccombenza  parziale,  anche  quando
ricorressero «motivi giusti» -  che,  con  mera  inversione  testuale
sarebbero diventati «giusti motivi» - si evidenzio' che «tale  regola
[...] risponde ad un evidente criterio di giustizia»,  ritenendo  non
«attendibili» alcune osservazioni in senso  critico  rivolte  da  una
parte della  dottrina  contro  questa  clausola  generale,  la  quale
affidava tale criterio derogatorio, nel momento della decisione della
lite, al prudente apprezzamento  del  giudice,  che  era  quello  che
meglio conosceva le peculiarita' della causa. 
    La norma espressa dal secondo comma dell'art. 92 cod. proc. civ.,
attualmente oggetto delle censure di  illegittimita'  costituzionale,
e' rimasta per lungo tempo invariata anche in occasioni  di  profonde
riforme del codice di rito, quale quella del 1950  apportata  con  la
legge 14 luglio 1950, n. 581  (Ratifica  del  decreto  legislativo  5
maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di
procedura civile) e quella  del  1990  introdotta  con  la  legge  26
novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile);
ma non e' rimasta immune da critiche di parte della dottrina.  Ed  in
effetti, gia' nella vigenza dell'art. 370 cod. proc. civ.  del  1865,
un'autorevole dottrina  del  tempo  aveva  denunciato  l'abuso  nella
pratica della compensazione per i motivi piu' vari. 
    Il punctum dolens era la  motivazione  dei  «giusti  motivi»  che
facoltizzavano il giudice a compensare, totalmente o parzialmente, le
spese di lite anche in caso di soccombenza totale.  Il  principio  di
diritto, che era stato alla fine fissato in una tralaticia massima di
giurisprudenza, affermava che la valutazione dei «giusti motivi»  per
la  compensazione,  totale  o  parziale,  delle   spese   processuali
rientrava nei poteri  discrezionali  del  giudice  di  merito  e  non
richiedeva specifica motivazione, restando percio'  incensurabile  in
sede di legittimita', salvo che risultasse violata la regola  secondo
cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente
vittoriosa (argumenta, ex plurimis, da Corte di  cassazione,  sezioni
unite civili, sentenza 15 luglio 2005, n. 14989). 
    Sempre piu' pero' si poneva in  discussione  questo  orientamento
giurisprudenziale fino al radicarsi di un vero e  proprio  contrasto,
poi composto dalle sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione,  che
operarono una significativa correzione di  rotta  affermando  che  la
decisione di compensazione, totale o parziale, delle  spese  di  lite
per «giusti  motivi»  dovesse  comunque  dare  conto  della  relativa
statuizione  mediante  argomenti  specificamente  riferiti  a  questa
ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del
merito, si risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a
giustificare tale compensazione delle  spese  (Corte  di  cassazione,
sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598). 
    12.- Intanto il legislatore era intervenuto ed aveva  modificato,
dopo quasi centocinquant'anni, la norma in questione confermando  si'
la clausola generale dei «giusti  motivi»,  quale  presupposto  della
compensazione delle spese di lite, ma richiedendo che questi  fossero
«esplicitamente indicati nella motivazione» (art. 2, comma  1,  della
legge 28 dicembre 2005, n. 263, recante «Interventi  correttivi  alle
modifiche  in  materia   processuale   civile   introdotte   con   il
decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 14 maggio 2005, n. 80,  nonche'  ulteriori  modifiche  al
codice  di  procedura  civile  e  alle   relative   disposizioni   di
attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n.
642, al  codice  civile,  alla  legge  21  gennaio  1994,  n.  53,  e
disposizioni in tema di diritto alla pensione di  reversibilita'  del
coniuge divorziato»). 
    La prescrizione dell'espressa  indicazione  dei  «giusti  motivi»
nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non
apparve  pero'  ancora  sufficiente  a  contrastare   una   tendenza,
esistente nella prassi, al frequente ricorso  da  parte  del  giudice
alla facolta' di compensare  le  spese  di  lite  anche  in  caso  di
soccombenza totale. Il legislatore e' quindi intervenuto una  seconda
volta  proprio  sulla  clausola  generale  accentuandone,  in  chiave
limitativa, il carattere derogatorio rispetto  alla  regola  generale
che vuole che alla soccombenza totale  segua  anche  la  condanna  al
pagamento delle spese di lite. L'art. 45, comma 11,  della  legge  18
giugno 2009, n.  69  (Disposizioni  per  lo  sviluppo  economico,  la
semplificazione, la competitivita' nonche'  in  materia  di  processo
civile), ha cosi' riformulato il secondo comma dell'art. 92:  «Se  vi
e' soccombenza reciproca o  concorrono  altre  gravi  ed  eccezionali
ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il  giudice  puo'
compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». 
    I  «giusti  motivi»  sono  diventati  le  «gravi  ed  eccezionali
ragioni»: cio' significava che il perimetro della  clausola  generale
si era ridotto, ritenendo il legislatore,  nell'esercizio  della  sua
discrezionalita' - che si e' gia' rilevato essere ampia,  secondo  la
giurisprudenza di questa Corte - che  una  piu'  estesa  applicazione
della regola di porre a carico del soccombente  totale  le  spese  di
lite rafforzasse il principio di responsabilita'  di  chi  promuoveva
una lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto  deflativo
sul contenzioso civile. 
    13.-  Al   fondo   di   questo   contesto   riformatore   e'   la
consapevolezza, sempre piu' avvertita, che, a fronte di una crescente
domanda di giustizia, anche in ragione del  riconoscimento  di  nuovi
diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure
di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera. 
    Da cio' l'adozione, in epoca  recente,  di  istituti  processuali
diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della  lite
in  altro  modo,  quali  le  misure  di  ADR   (Alternative   Dispute
Resolution), cui sono riconducibili le procedure  di  mediazione,  la
negoziazione  assistita,  il  trasferimento  della  lite  alla   sede
arbitrale. Nella stessa linea  e'  la  previsione  in  generale,  nel
codice di  rito  (art.  185-bis  cod.  proc.  civ.),  di  un  momento
processuale che vede la formulazione della proposta di  conciliazione
ad opera del giudice, introdotta in generale dall'art. 77,  comma  1,
lettera a), del decreto-legge 21 giugno  2013,  n.  69  (Disposizioni
urgenti   per   il   rilancio   dell'economia),    convertito,    con
modificazioni, nella legge  9  agosto  2013,  n.  98,  generalizzando
quanto  era  gia'  stato  stabilito,  qualche  anno  prima,  per   le
controversie di lavoro attraverso la modifica  dell'art.  420,  primo
comma, cod. proc. civ., introdotta dall'art. 31, comma 4, della legge
4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al  Governo  in  materia  di  lavori
usuranti, di riorganizzazione di  enti,  di  congedi,  aspettative  e
permessi, di ammortizzatori sociali, di  servizi  per  l'impiego,  di
incentivi   all'occupazione,   di   apprendistato,   di   occupazione
femminile, nonche' misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in
tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro). 
    Per altro verso, quando non di  meno  la  lite  arriva  all'esito
finale della decisione giudiziaria, appare  giustificato  che  l'alea
del processo debba allora gravare sulla parte totalmente  soccombente
secondo una piu' stretta regola generale, limitando  alla  ricorrenza
di «gravi e eccezionali  ragioni»  la  facolta'  per  il  giudice  di
compensare le spese di lite. 
    Questo  raggiunto  equilibrio  e'   stato   pero'   alterato   da
un'ulteriore, piu' recente,  modifica  del  censurato  secondo  comma
dell'art. 92 cod. proc. civ. 
    14.- Da ultimo infatti, sull'abbrivio riformatore cominciato  nel
2005, il  legislatore,  nel  2014,  e'  andato  ancora  oltre  ed  ha
ristretto ulteriormente il perimetro della  deroga  alla  regola  che
vuole  che  le  spese  di  lite  gravino   sulla   parte   totalmente
soccombente:  non  piu'  la  clausola  generale   delle   «gravi   ed
eccezionali ragioni», ma due ipotesi  nominate  (oltre  quella  della
soccombenza reciproca  che  non  e'  mai  mutata),  ossia  l'assoluta
novita' della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza
rispetto alle questioni dirimenti. 
    Cosi' ha disposto, da ultimo, l'art. 13, comma 1, del d.l. n. 132
del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del  2014
(norma che, per  espressa  previsione  dell'art.  13,  comma  2,  del
decreto-legge  citato,  si  applica  ai  procedimenti  introdotti   a
decorrere dal trentesimo  giorno  successivo  all'entrata  in  vigore
della relativa legge di conversione, avvenuta l'11 novembre 2014). Si
legge nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge del
decreto-legge n. 132 del 2014: «Nonostante le  modifiche  restrittive
introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a
fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione  delle
spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che  la
soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con  pari  danno
per la parte che risulti aver avuto ragione». 
    Questo piu' recente  sviluppo  normativo,  che  ha  portato  alla
formulazione della disposizione censurata, mostra chiaramente che  il
legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative,  oltre
quella della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come
correttamente ritengono entrambi i giudici rimettenti. 
    15.- Pero' la rigidita' di queste  due  sole  ipotesi  tassative,
violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato
fuori altre analoghe  fattispecie  riconducibili  alla  stessa  ratio
giustificativa. 
    La prevista ipotesi del mutamento  della  giurisprudenza  su  una
questione dirimente e' connotata dal fatto che, in sostanza,  risulta
modificato, in  corso  di  causa,  il  quadro  di  riferimento  della
controversia.  Questa   evenienza   sopravvenuta   -   che   concerne
prevalentemente  la  giurisprudenza  di  legittimita',  ma  che,   in
mancanza, puo' anche riguardare la giurisprudenza di merito - non  e'
di certo nella disponibilita' delle parti,  le  quali  si  trovano  a
doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, si'  che,  nei
casi di  non  prevedibile  overruling,  l'affidamento  di  chi  abbia
regolato   la   propria   condotta    processuale    tenendo    conto
dell'orientamento poi disatteso e superato, e' nondimeno  tutelato  a
determinate condizioni, precisate in una nota pronuncia delle sezioni
unite civili della Corte di cassazione (sentenza 11 luglio  2011,  n.
15144). 
    Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi -  che,  ove  anche  non
prevista espressamente,  avrebbe  potuto  ricavarsi  per  sussunzione
dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali  ragioni»  -  sta
appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro  di  riferimento  della
causa che altera i termini della lite senza che cio' sia  ascrivibile
alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio puo'  rinvenirsi
anche in altre analoghe fattispecie  di  sopravvenuto  mutamento  dei
termini della controversia senza che  nulla  possa  addebitarsi  alle
parti: tra le piu' evidenti, una norma di interpretazione autentica o
piu' in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma  di
norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte,  in
particolare se di illegittimita' costituzionale; o una  decisione  di
una  Corte  europea;  o  una  nuova  regolamentazione   nel   diritto
dell'Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte,
ove concernenti una "questione dirimente"  al  fine  della  decisione
della  controversia,   sono   connotate   da   pari   "gravita'"   ed
"eccezionalita'", ma non sono iscrivibili in un  rigido  catalogo  di
ipotesi  nominate:  necessariamente  debbono  essere   rimesse   alla
prudente valutazione del giudice della controversia. 
    Cio' puo' predicarsi anche per  l'altra  ipotesi  prevista  dalla
disposizione censurata - l'assoluta novita' della questione - che  e'
riconducibile, piu' in generale, ad una  situazione  di  oggettiva  e
marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In  simmetria
e'  possibile  ipotizzare  altre  analoghe  situazioni  di   assoluta
incertezza,  in  diritto  o   in   fatto,   della   lite,   parimenti
riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni». 
    Del resto la stessa ipotesi  della  soccombenza  reciproca,  che,
concorrendo con  quelle  espressamente  nominate  dalla  disposizione
censurata, parimenti  facoltizza  il  giudice  della  controversia  a
compensare le spese di lite, rappresenta  un  criterio  nient'affatto
rigido, ma implica una qualche discrezionalita' del  giudice  che  e'
chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte e' al contempo
vittoriosa  e  soccombente,  tanto  piu'  che  la  giurisprudenza  di
legittimita' si va orientando nel  ritenere  integrata  l'ipotesi  di
soccombenza  reciproca  anche  in  caso  di   accoglimento   parziale
dell'unica domanda  proposta  (Corte  di  cassazione,  sezione  terza
civile, sentenza 22 febbraio 2016, n. 3438). 
    Si ha quindi che contrasta con il principio di  ragionevolezza  e
con quello di eguaglianza  (art.  3,  primo  comma,  Cost.)  aver  il
legislatore del 2014 tenuto fuori  dalle  fattispecie  nominate,  che
facoltizzano il giudice a compensare le spese  di  lite  in  caso  di
soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative  a
questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino
la stessa, o maggiore, gravita' ed eccezionalita' di  quelle  tipiche
espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidita'  di
tale tassativita' ridonda anche in violazione del canone  del  giusto
processo (art. 111, primo comma, Cost.) e  del  diritto  alla  tutela
giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perche' la  prospettiva
della condanna al pagamento delle spese di lite  anche  in  qualsiasi
situazione del tutto imprevista ed imprevedibile  per  la  parte  che
agisce  o  resiste   in   giudizio   puo'   costituire   una   remora
ingiustificata a far valere i propri diritti. 
    16.-  Per  la  riconduzione  a  legittimita'  della  disposizione
censurata puo' anche considerarsi che  piu'  recentemente  lo  stesso
legislatore, in linea di continuita' con l'azione riformatrice  degli
ultimi anni, e'  ritornato  alla  tecnica  normativa  della  clausola
generale  delle  «gravi  ed  eccezionali  ragioni».   Infatti,   dopo
l'introduzione   della   disposizione   attualmente   censurata,   il
legislatore ha novellato alcune norme  del  processo  tributario.  In
particolare l'art. 9, comma 1, lettera f),  numero  2),  del  decreto
legislativo 24 settembre 2015, n. 156 (Misure per la revisione  della
disciplina  degli  interpelli  e  del  contenzioso   tributario,   in
attuazione degli articoli 6 e 10, comma 1, lettere a e b, della legge
11 marzo 2014, n. 23), ha sostituito gli originari commi  2  e  2-bis
dell'art. 15  del  decreto  legislativo  31  dicembre  1992,  n.  546
(Disposizioni sul processo  tributario  in  attuazione  della  delega
governativa nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991 n. 413) ed  ha,
tra l'altro, previsto  che  le  spese  del  giudizio  possono  essere
compensate in tutto o in parte, oltre  che  in  caso  di  soccombenza
reciproca, anche «qualora sussistano gravi  ed  eccezionali  ragioni»
che devono essere espressamente motivate. 
    Cio' orienta la pronuncia di illegittimita' costituzionale che si
va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente  non
considerate dalla disposizione  censurata  possono  identificarsi  in
quelle che siano riconducibili a tale clausola generale e  che  siano
analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella  norma,  nel  senso
che devono essere di pari, o maggiore, gravita' ed eccezionalita'. Le
quali ultime quindi - l'«assoluta novita' della  questione  trattata»
ed  il  «mutamento  della  giurisprudenza  rispetto  alle   questioni
dirimenti» - hanno carattere paradigmatico e  svolgono  una  funzione
parametrica ed esplicativa della clausola generale. 
    Va quindi dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
92, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che
il giudice,  in  caso  di  soccombenza  totale,  possa  non  di  meno
compensare le spese tra le parti, parzialmente o  per  intero,  anche
qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. 
    L'obbligo di motivazione della decisione di compensare  le  spese
di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi  ove  ricorrano  altre
analoghe  gravi  ed  eccezionali  ragioni,  discende  dalla  generale
prescrizione dell'art. 111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i
provvedimenti giurisdizionali siano motivati. 
    17.- L'accoglimento della  sollevata  questione  di  legittimita'
costituzionale in riferimento agli artt. 3, primo  comma,  24,  primo
comma, e 111, primo comma, Cost. - indicati da entrambe le  ordinanze
di  rimessione  -  comporta   l'assorbimento   della   questione   in
riferimento agli ulteriori  plurimi  parametri  indicati  nella  sola
ordinanza del Tribunale ordinario di Reggio Emilia (artt.  25,  primo
comma; 102 e 104 Cost.; nonche', per il tramite dell'art. 117,  primo
comma, Cost., l'art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perche'  tutti
orientati ad ottenere la  medesima  dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale. 
    Residua  pero'  il  particolare  profilo  di   censura   che   fa
riferimento alla posizione del lavoratore  come  parte  "debole"  del
rapporto controverso; censura che  costituisce  autonoma  e  distinta
questione,  ridimensionata  ma  non   del   tutto   assorbita   dalla
dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale  della  disposizione
censurata. 
    Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di
maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro  e  chiede
che  la  disposizione  censurata  sia   ricondotta   a   legittimita'
introducendo un'ulteriore ragione di  compensazione  delle  spese  di
lite che tenga conto della natura del rapporto giuridico  dedotto  in
causa - ossia del rapporto di lavoro subordinato - e della condizione
soggettiva della parte attrice quando e' il lavoratore che agisce nei
confronti del datore di lavoro. 
    La questione e' posta con riferimento al principio di eguaglianza
sostanziale di cui all'art. 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe -
secondo il giudice rimettente - un trattamento differenziato,  ma  di
vantaggio, per  il  lavoratore  in  quanto  soggetto  piu'  "debole",
costretto ad agire  giudizialmente,  mentre  il  censurato  art.  92,
secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in concreto l'effetto opposto. 
    Sarebbero altresi' violati, per il tramite dell'art.  117,  primo
comma, Cost., anche gli artt.  14  CEDU  e  21  CDFUE,  in  punto  di
discriminazione fondata,  rispettivamente,  «sulla  ricchezza»  o  su
«ogni altra condizione» (art. 14 CEDU) o sul  «patrimonio»  (art.  21
CDFUE). 
    18.- La questione non e' fondata. 
    Rileva in proposito da una parte il  generale  canone  della  par
condicio processuale previsto dal secondo comma dell'art.  111  Cost.
secondo cui «[o]gni  processo  si  svolge  [...]  tra  le  parti,  in
condizioni di parita'». Per altro verso la situazione  di  disparita'
in cui, in concreto, venga a  trovarsi  la  parte  "debole"  -  ossia
quella per la quale possa essere maggiormente gravoso  il  costo  del
processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento  delle
spese processuali, si' da costituire un'indiretta remora ad  agire  o
resistere in giudizio - trova un possibile riequilibrio,  secondo  il
disposto del terzo comma dell'art. 24 Cost., in  «appositi  istituti»
diretti ad assicurare «ai non abbienti [...]  i  mezzi  per  agire  e
difendersi davanti ad ogni giurisdizione». 
    Nel  binario  segnato  da   questi   due   concorrenti   principi
costituzionali  si  colloca  la  disposizione  censurata   che,   non
considerando la  situazione  soggettiva,  nel  rapporto  controverso,
della parte totalmente soccombente, e' ispirata al principio generale
della par condicio processuale. Anche le due richiamate  ipotesi  che
facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte,  le  spese
di lite -  le  quali,  a  seguito  della  presente  dichiarazione  di
illegittimita'  costituzionale,   sono   non   piu'   tassative,   ma
parametriche di  altre  analoghe  ipotesi  di  «gravi  e  eccezionali
ragioni» - rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e
non  gia'  a   situazioni   strettamente   soggettive   della   parte
soccombente, quale l'essere  essa  la  parte  "debole"  del  rapporto
controverso. 
    Finanche la legge  11  agosto  1973,  n.  533  (Disciplina  delle
controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di
previdenza e di assistenza obbligatorie) -  la  quale  pur  conteneva
disposizioni ispirate al favor per  questo  contenzioso  al  fine  di
agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali quelle  che
prevedevano l'esenzione da  ogni  spesa  o  tassa  (art.  10)  ed  il
patrocinio a spese dello Stato per le parti non abbienti (art. 11)  -
non aveva derogato al disposto dell'art. 92 cod. proc.  civ.,  quanto
alla condanna della parte totalmente soccombente al  pagamento  delle
spese di lite. In ogni caso  per  il  lavoratore  operava  la  regola
generale  della  condanna  della  parte  totalmente  soccombente   al
pagamento delle spese di lite, salva la facolta' per  il  giudice  di
compensarle sulla  base  della  gia'  richiamata  clausola  generale,
all'epoca vigente, dei «giusti motivi». Ed opera  tuttora  la  stessa
regola,  salva  la  facolta'  per  il  giudice  di  compensarle   ove
ricorrano, secondo la disciplina attualmente vigente, le due  ipotesi
nominativamente previste dal secondo comma dell'art.  92  cod.  proc.
civ.,  oltre  -   a   seguito   della   presente   dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale della disposizione  censurata  -  anche
altre analoghe «gravi ed eccezionali ragioni». 
    Solo per le controversie in materia  previdenziale  proposte  nei
confronti degli istituti di previdenza ed assistenza l'art.  9  della
legge n. 533 del 1973 aveva sostituito l'art. 152 delle  disposizioni
per l'attuazione del codice di procedura civile,  disponendo  che  il
lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere  prestazioni
previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese,  competenze
ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno
che la  pretesa  non  fosse  manifestamente  infondata  e  temeraria;
disposizione  questa,  peraltro  anticipata,  in  una  portata   piu'
limitata, dal dettato dell'art. 57 della legge 30 aprile 1969, n. 153
(Revisione degli ordinamenti pensionistici  e  norme  in  materia  di
sicurezza sociale) e successivamente estesa anche  alle  controversie
di natura assistenziale dalla sentenza n. 85 del 1979. 
    Ma  il  collegamento  dell'esonero  con  la  condizione  di  «non
abbiente» e' stato dapprima prefigurato, come  possibile,  da  questa
Corte (sentenza n. 135 del 1987)  e  poi  posto  a  fondamento  della
dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma  2,
del decreto-legge 19  settembre  1992,  n.  384  (Misure  urgenti  in
materia di previdenza, di sanita'  e  di  pubblico  impiego,  nonche'
disposizioni fiscali), convertito, con  modificazioni,  in  legge  14
novembre  1992,  n.  438,  per  aver,  tale   disposizione,   operato
un'indiscriminata  abrogazione   dell'esonero   stesso,   trascurando
qualunque distinzione tra abbienti e non abbienti  (sentenza  n.  134
del 1994); esonero poi  ripristinato  dall'art.  42,  comma  11,  del
decreto-legge 30 settembre 2003, n.  269  (Disposizioni  urgenti  per
favorire lo sviluppo e per la  correzione  dell'andamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  nella  legge  24  novembre
2003, n. 326, in favore della  parte  soccombente  che  risulti  «non
abbiente», essendo  l'esonero  condizionato  all'integrazione  di  un
requisito reddituale  significativo  della  debolezza  economica  del
ricorrente (ordinanza n. 71 del 1998). 
    Quindi da una parte la condizione soggettiva di "lavoratore"  non
ha mai comportato alcun esonero dall'obbligo di rifusione delle spese
processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse
nei confronti del datore di lavoro; d'altra parte nelle  controversie
di previdenza ed assistenza sociale,  promosse  nei  confronti  degli
enti che  erogano  prestazioni  di  tale  natura,  la  condizione  di
assicurato o beneficiario della prestazione deve  concorrere  con  un
requisito reddituale perche', in via  eccezionale,  possa  comportare
siffatto esonero. 
    La ragione di tale eccezione in favore  della  parte  soccombente
«non  abbiente»,   e   quindi   "debole",   risiede   nella   diretta
riferibilita'  della  prestazione  previdenziale   o   assistenziale,
oggetto del contenzioso, alla speciale tutela  prevista  dal  secondo
comma dell'art. 38 Cost., che mira a rimuovere, o  ad  alleviare,  la
situazione  di   bisogno   e   di   difficolta'   dell'assicurato   o
dell'assistito. 
    Invece la qualita' di "lavoratore"  della  parte  che  agisce  (o
resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti
dal rapporto di lavoro, non costituisce, di  per  se'  sola,  ragione
sufficiente -  pur  nell'ottica  della  tendenziale  rimozione  degli
ostacoli di ordine economico e sociale  alla  tutela  giurisdizionale
(art. 3, secondo comma, Cost.) - per derogare al generale  canone  di
par condicio processuale quanto all'obbligo di rifusione delle  spese
processuali a carico della parte interamente soccombente. Di cio' non
si e' dubitato in riferimento all'art. 92, secondo comma, cod.  proc.
civ. nel testo vigente fino al 2009; ma  lo  stesso  puo'  affermarsi
nell'attuale  formulazione   della   medesima   disposizione,   quale
risultante   dalla   presente   dichiarazione    di    illegittimita'
costituzionale. Dalla quale comunque consegue che  la  circostanza  -
segnalata dal giudice rimettente - che il lavoratore, per  la  tutela
di suoi diritti, debba talora  promuovere  un  giudizio  senza  poter
conoscere elementi di fatto, rilevanti e  decisivi,  che  sono  nella
disponibilita' del solo datore di lavoro  (cosiddetto  contenzioso  a
controprova),  costituisce  elemento  valutabile  dal  giudice  della
controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta
incertezza in ordine a questioni di fatto  in  ipotesi  riconducibili
alle «gravi ed eccezionali ragioni»  che  consentono  al  giudice  la
compensazione delle spese di lite. 
    19.-  Ne'  la  ritenuta  non  fondatezza   della   questione   di
legittimita'  costituzionale  e'  revocata  in  dubbio   dai   citati
parametri  sovranazionali   interposti,   che   vietano   trattamenti
discriminatori basati sul censo. 
    La considerazione che sovente  il  contenzioso  di  lavoro  possa
presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel  senso  che  il
lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro,
sia parte "debole" del  rapporto  controverso,  giustifica  norme  di
favore su un piano diverso da  quello  della  regolamentazione  delle
spese di lite, una volta che  quest'ultima  e'  resa  meno  rigida  a
seguito della presente dichiarazione di illegittimita' costituzionale
del secondo comma dell'art. 92 cod. proc. civ.  con  l'innesto  della
clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Si sono  gia'
ricordate le disposizioni di favore contenute negli  artt.  10  e  11
della legge n. 533 del 1973 (peraltro successivamente  abrogati);  ad
esse puo' aggiungersi anche l'art. 13, comma 3, del d.P.R. 30  maggio
2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni  legislative  e
regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)»,  il  quale
prevede che il contributo unificato per  le  spese  di  giustizia  e'
ridotto alla meta'  per  le  controversie  individuali  di  lavoro  o
concernenti rapporti di pubblico impiego. 
    Piu' in generale puo' dirsi che e' rimesso alla  discrezionalita'
del  legislatore  ampliare  questo  favor  praestatoris,  ad  esempio
rimodulando, in termini di minor rigore o  finanche  di  esonero,  il
previsto raddoppio di tale contributo in caso di rigetto integrale, o
di inammissibilita', o di  improcedibilita'  dell'impugnazione  (art.
13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002). 
    20.-  In  conclusione  risulta  non  fondata  la   questione   di
legittimita' costituzionale  sollevata  dal  Tribunale  ordinario  di
Reggio Emilia, mirante ad  innestare  nella  disposizione  censurata,
come  deroga  alla  regola  secondo  cui  la  parte  soccombente   e'
condannata alla rifusione delle spese di lite in favore  della  parte
vittoriosa  -  oltre  alle  ipotesi  nominativamente  previste  dalla
disposizione  stessa,   come   integrate   dalla   dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale nei termini di cui sopra al punto 16. -
un'ulteriore  deroga  centrata  sulla  natura  della  lite,   perche'
controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in
giudizio nei confronti del datore di lavoro. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)  dichiara  inammissibile  l'intervento  della   Confederazione
generale italiana del lavoro; 
    2) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 92, secondo
comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall'art.
13, comma 1, del decreto-legge 12  settembre  2014,  n.  132  (Misure
urgenti di  degiurisdizionalizzazione  ed  altri  interventi  per  la
definizione  dell'arretrato   in   materia   di   processo   civile),
convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n.  162,
nella parte in cui non prevede che il  giudice  possa  compensare  le
spese  tra  le  parti,  parzialmente  o  per  intero,  anche  qualora
sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni; 
    3)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 92, secondo  comma,  cod.  proc.  civ.,  nel
testo modificato dall'art. 13, comma 1, del d. l. n.  132  del  2014,
convertito,  con  modificazioni,  nella  legge  n.  162   del   2014,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e  117,  primo
comma,  della  Costituzione,  in  relazione  agli  artt.   14   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e  21  della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata  a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007,  dal
Tribunale ordinario di Reggio Emilia,  in  funzione  di  giudice  del
lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2018. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                     Giovanni AMOROSO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 19 aprile 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA