N. 182 SENTENZA 8 maggio - 4 ottobre 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Legge  -  Abrogazione   -   Indispensabile   permanenza   in   vigore
  dell'articolo 8 della  legge  n.  991  del  1952,  con  riferimento
  all'esenzione   dal   pagamento   dei   contributi   unificati   in
  agricoltura. 
- Decreto  legislativo  1°  dicembre  2009,  n.   179   (Disposizioni
  legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene
  indispensabile la permanenza in vigore, a  norma  dell'articolo  14
  della legge 28 novembre  2005,  n.  246),  art.  1,  voce  n.  1266
  dell'Allegato 1. 
-   
(GU n.40 del 10-10-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS,   Franco   MODUGNO,   Augusto   Antonio   BARBERA,   Giulio
  PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1  del
decreto  legislativo  1°  dicembre   2009,   n.   179   (Disposizioni
legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui  si  ritiene
indispensabile la permanenza in  vigore,  a  norma  dell'articolo  14
della legge 28 novembre 2005, n. 246), voce n. 1266 dell'Allegato  1,
promosso dal Tribunale ordinario di Sondrio nel procedimento vertente
tra la Societa' Agricola Melavi' - societa' cooperativa e  l'Istituto
nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 6 aprile
2017, iscritta al n. 138 del registro  ordinanze  2017  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  41,  prima   serie
speciale, dell'anno 2017. 
    Visti gli atti di costituzione della Societa' Agricola Melavi'  -
societa' cooperativa e dell'INPS; 
    udito nella  udienza  pubblica  dell'8  maggio  2018  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    uditi gli avvocati  Oronzo  Mazzotta  per  la  Societa'  Agricola
Melavi' - societa' cooperativa e Antonino Sgroi per l'INPS. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 6 aprile 2017 (r.o. n. 138  del  2017),  il
Tribunale ordinario di Sondrio  ha  sollevato,  in  riferimento  agli
artt.  3  e  76  della  Costituzione,   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1 del decreto legislativo 1° dicembre  2009,
n. 179 (Disposizioni legislative  statali  anteriori  al  1°  gennaio
1970, di cui si ritiene indispensabile la  permanenza  in  vigore,  a
norma dell'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n.  246),  nella
parte in  cui,  alla  voce  n.  1266  dell'Allegato  1,  dichiara  la
permanente vigenza dell'art. 8 della legge 25  luglio  1952,  n.  991
(Provvedimenti in favore dei territori montani). 
    Il giudice rimettente riferisce di essere chiamato a pronunciarsi
sulla domanda della Societa' Agricola Melavi' - societa'  cooperativa
«di accertamento del proprio diritto a beneficiare dell'esenzione dal
pagamento dei contributi», secondo quanto previsto dall'art. 8  della
legge n. 991 del 1952,  con  la  conseguente  condanna  dell'Istituto
Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) a restituirle,  nei  limiti
della prescrizione, le somme versate a tale titolo. 
    Il giudice a quo precisa che i fatti sono pacifici tra le parti. 
    La parte attrice - la quale gestisce un'azienda  agricola  in  un
territorio classificato come montano, avvalendosi di personale avente
la qualifica di operaio occupato a tempo determinato o  indeterminato
- sostiene che la norma che dispone  l'esenzione  dal  pagamento  dei
contributi agricoli non sia mai stata  oggetto  di  abrogazione,  ne'
espressa ne' tacita. La fondatezza di tale tesi troverebbe  riscontro
nell'art. 1  del  d.lgs.  n.  179  del  2009,  il  quale,  diretto  a
individuare le norme pubblicate anteriormente al 1° gennaio  1970  di
cui e' indispensabile la permanenza in vigore, all'Allegato  1,  voce
n. 1266, ha esplicitamente indicato il richiamato art. 8 della  legge
n. 991  del  1952.  Circostanza,  questa,  che  non  potrebbe  essere
superata «a mezzo di una  mera  disapplicazione  della  norma  avente
forza di legge», come invece avrebbe fatto la  Corte  di  cassazione,
sezione lavoro, con le sentenze  22  agosto  2013,  n.  1920  (recte:
19420) e 20 aprile 2016, n. 7976, potendo il  giudice  comune  semmai
sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale  della  citata
disposizione del decreto legislativo. 
    L'INPS chiede il rigetto della domanda sostenendo, al  contrario,
che il citato art. 8 sia stato tacitamente abrogato,  come  e'  stato
ritenuto, in particolare, dalla  gia'  richiamata  giurisprudenza  di
legittimita'. 
    1.1.- Cio' premesso, il giudice di Sondrio rileva  che,  ai  fini
della decisione della controversia, occorre verificare, innanzitutto,
se l'art. 8 della legge n. 991 del 1952 sia ancora in vigore.  A  tal
proposito, ritiene di  aderire  al  percorso  argomentativo  proposto
dalla  Corte  di  cassazione  nella  richiamata  sentenza  del  2013,
trascritto  e   fatto   integralmente   proprio   nell'ordinanza   di
rimessione. 
    I  passaggi  rilevanti  del  complesso   excursus   normativo   -
ampiamente  svolto  dal  giudice  della   nomofilachia   e   riferito
nell'ordinanza di rimessione - sono i seguenti:  1)  l'art.  8  della
legge n. 991 del 1952, rubricato  «Agevolazioni  fiscali»,  aveva  un
duplice contenuto: per un verso, prevedeva agevolazioni fiscali per i
territori montani, identificati come tali in virtu' dell'art. 1 della
medesima legge  e  del  richiamo  al  decreto  legislativo  del  Capo
provvisorio dello Stato 7  gennaio  1947,  n.  12  (Modificazioni  al
decreto legislativo Presidenziale 27 giugno 1946, n. 98,  concernente
l'esenzione dalla imposta fondiaria  e  sul  reddito  agrario  per  i
terreni montani); per un altro, prevedeva l'esenzione  dal  pagamento
dei contributi agricoli unificati per i terreni situati a  quota  non
inferiore ai 700 metri sul livello del mare; 2) gli artt. 58 e 68 del
decreto del Presidente della  Repubblica  29  gennaio  1958,  n.  645
(Approvazione del testo unico delle  leggi  sulle  imposte  dirette),
dettando una nuova disciplina in materia, hanno tacitamente  abrogato
l'art. 8 per la parte relativa alle agevolazioni fiscali; 3) la legge
3 dicembre 1971, n. 1102 (Nuove norme sullo sviluppo della montagna),
istituiva le Comunita' montane e,  al  suo  art.  12,  quinto  comma,
espressamente  stabiliva  che  «le  agevolazioni   fiscali   di   cui
all'articolo 8 della legge  25  luglio  1952,  n.  991,  sono  estese
all'intero territorio montano»; 4) gli artt. 7 e 8 del  decreto-legge
23 dicembre 1977, n. 942 (Provvedimenti  in  materia  previdenziale),
convertito, con modificazioni, nella legge 27 febbraio 1978,  n.  41,
per un verso, con  disposizione  d'interpretazione  autentica,  hanno
confermato l'esenzione contributiva in discorso per le  sole  imprese
con terreni ubicati ad una altitudine non inferiore ai 700 metri  sul
livello del mare e, per un altro, hanno ridotto del 40  per  cento  i
contributi previdenziali ed assistenziali  dovuti  per  i  lavoratori
agricoli dipendenti nei territori montani al di sotto dei  700  metri
di altitudine; 5) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 370 del
1985, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 8 della
legge n. 991 del 1952, nonche' degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n.
942 del 1977, nella parte in  cui  non  prevedevano  l'esenzione  dal
pagamento dei contributi  unificati  agricoli  anche  per  i  terreni
compresi in territori montani ubicati ad altitudine inferiore ai  700
metri sul livello del mare; 6) a fini fiscali, una nuova  definizione
di territori montani, piu' ampia  delle  precedenti,  veniva  dettata
dall'art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 29  settembre
1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie); 7) l'art. 9,
comma 5, della legge 11 marzo 1988, n. 67, recante «Disposizioni  per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello  Stato  (legge
finanziaria  1988)»,  pone  una   generale   disciplina   di   sgravi
contributivi per le imprese agricole in territori montani; da  allora
in avanti, si  e'  fatto  riferimento,  ai  fini  delle  agevolazioni
contributive in favore di datori  di  lavoro  agricolo  operanti  nei
territori  montani,  all'individuazione  di  questi  ultimi   dettata
dall'art. 9 del d.P.R. n. 601 del 1973; 8) gli artt. 28  e  29  della
legge 8 giugno 1990, n. 142  (Ordinamento  delle  autonomie  locali),
successivamente abrogati dal decreto legislativo 18 agosto  2000,  n.
267 (Testo unico delle leggi  sull'ordinamento  degli  enti  locali),
hanno disposto l'abrogazione, tra gli altri,  degli  artt.  1  e  14,
secondo comma, della legge n. 991 del 1952, nonche' degli artt. 3, 4,
5 e 7 della legge n. 1102 del 1971; 9) l'art.  11,  comma  27,  della
legge 24 dicembre 1993, n.  537  (Interventi  correttivi  di  finanza
pubblica), ha sostituito il comma 5 dell'art. 9 della legge n. 67 del
1988, rideterminando la quota di sgravio  contributivo  spettante  ai
datori di lavoro aventi sedi ed  operanti  nei  comuni  montani,  con
riferimento ai lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato  o
determinato; 10) l'art. 18 della legge 31 gennaio 1994, n. 97  (Nuove
disposizioni  per  le  zone  montane),   ha   previsto   un   esonero
previdenziale totale per le assunzioni  a  tempo  parziale  da  parte
delle imprese e dei datori di lavoro  aventi  sedi  ed  operanti  nei
comuni montani; regime, questo, che sarebbe coerente  con  quello  di
sgravi contributivi configurato dall'art. 9 della  legge  n.  67  del
1988, mentre sarebbe del tutto incompatibile con la sopravvivenza del
regime generale di esenzione contributiva previsto dall'art. 8  della
legge n. 991 del 1952: cio'  perche'  non  avrebbe  senso  una  norma
diretta a prevedere una  particolare  ipotesi  di  esenzione  per  le
assunzioni a tempo parziale, ove  il  regime  generale  fosse  quello
dell'esenzione dal pagamento dei contributi agricoli;  11)  in  epoca
piu' recente, con l'art. 01 del decreto-legge 10 gennaio 2006,  n.  2
(Interventi    urgenti    per     i     settori     dell'agricoltura,
dell'agroindustria, della pesca, nonche'  in  materia  di  fiscalita'
d'impresa), convertito, con modificazioni, in legge 11 marzo 2006, n.
81, e' stato introdotto un incremento - fino al 75 per cento -  dello
sgravio  contributivo  per  i   territori   montani   particolarmente
svantaggiati, con richiamo della legge  n.  67  del  1988;  12)  tale
regime e' stato oggetto di diverse proroghe, fino al 31  luglio  2010
(ad opera dell'art. 1-ter, comma  1,  del  decreto-legge  3  novembre
2008, n. 171, recante «Misure urgenti per il rilancio competitivo del
settore agroalimentare», convertito, con modificazioni, in  legge  30
dicembre 2008,  n.  205;  dell'art.  8-octies  del  decreto-legge  10
febbraio 2009, n. 5, recante «Misure urgenti a sostegno  dei  settori
industriali in crisi, nonche' disposizioni in materia  di  produzione
lattiera e rateizzazione del debito nel  settore  lattiero-caseario»,
convertito, con  modificazioni,  in  legge  9  aprile  2009,  n.  33;
dell'art. 2, comma 49, della legge 23 dicembre 2009, n. 191,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (legge finanziaria 2010)»); 13) infine, l'art.  1,  comma
45, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, recante  «Disposizioni  per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello  Stato  (legge
di  stabilita'  2011)»,  ha  ripristinato  gli  sgravi  contributivi,
eliminando le pregresse scadenze per usufruire del maggior beneficio. 
    Alla luce di tale evoluzione normativa, la Corte  di  cassazione,
nella citata sentenza n. 19420 del 2016, ha affermato  che  l'art.  8
della  legge  n.  991  del  1952  «non  puo'  che  rientrare  tra  le
disposizioni tacitamente o implicitamente abrogate» o, ad ogni  modo,
tra le disposizioni che, prima dell'emanazione del d.lgs. n. 179  del
2009, «avevano esaurito la loro funzione o erano comunque  obsolete».
La disposizione di delega sulla  cui  base  e'  stato  adottato  tale
decreto legislativo (art. 14, comma 14, della legge 28 novembre 2005,
n. 246, recante «Semplificazione e  riassetto  normativo  per  l'anno
2005», quale risultante dalla  sostituzione  ad  opera  dell'art.  4,
comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante «Disposizioni per
lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita'  nonche'
in materia di processo civile»)  espressamente  escludeva,  tuttavia,
che potessero individuarsi quali disposizioni la  cui  permanenza  in
vigore e' indispensabile disposizioni,  per  l'appunto,  «oggetto  di
abrogazione tacita o implicita» (lettera a) o che avessero  «esaurito
la loro funzione o [fossero] prive di effettivo contenuto normativo o
[fossero] comunque obsolete» (lettera b). Secondo  il  giudice  della
nomofilachia, conseguentemente, l'inclusione del citato art. 8 tra le
norme "salvate" «si deve considerare tamquam non esset, frutto di  un
lapsus calami, sulla base di una interpretazione rispettosa dell'art.
15 preleggi e costituzionalmente orientata, nel senso della  coerenza
e ragionevolezza dell'ordinamento (art. 3 Cost.),  del  rispetto  dei
principi e criteri direttivi della legge di delega (art.  76  Cost.),
alla luce anche dell'art. 44 Cost., comma  2».  Conclusione,  questa,
che  sarebbe  avvalorata  dalle  affermazioni  della   giurisprudenza
costituzionale sul d.lgs. n. 179 del 2009, in base  alle  quali  tale
atto normativo avrebbe una «funzione meramente ricognitiva» e sarebbe
«sprovvisto di una propria e  autonoma  forza  precettiva  o,  se  si
vuole, di quel carattere innovativo che si suole considerare  proprio
degli atti normativi», potendo  soltanto  confermare  la  vigenza  di
norme che non l'avessero gia' perduta  (sentenza  n.  346  del  2010;
nello stesso senso e' richiamata anche la sentenza n. 80 del 2012). 
    1.2.- Il giudice rimettente, dopo  aver  osservato  che  analoghe
argomentazioni sono state riproposte anche dalla sentenza della Corte
di cassazione, sezione lavoro, n. 7976  del  2016,  condivide,  della
giurisprudenza  di  legittimita',  la  conclusione  circa  l'avvenuta
abrogazione tacita dell'art. 8 della legge n. 991 del 1952. 
    Dissente, invece, quanto alla possibilita' di  considerare  quale
lapsus  calami  l'inserimento  di  quest'ultimo   articolo   tra   le
disposizioni "salvate" dal d.lgs. n. 179 del 2009. Se e' vero che  il
citato art. 8 non era piu'  «norma  vigente  del  nostro  ordinamento
giuridico» e, pertanto, il Governo non aveva «alcun potere  di  farla
rivivere», si sarebbe,  allora,  «dinanzi  a  un'attivita'  normativa
sfornita di copertura costituzionale posta in essere dal  legislatore
delegato», che non consente al giudice ordinario «la  disapplicazione
tout court della norma in questione, avente valore formale  di  legge
fino alla sua rimozione dal  nostro  ordinamento  giuridico,  cui  e'
abilitata la sola Corte costituzionale». 
    La  norma  del  decreto   legislativo,   pertanto,   sarebbe   di
necessitata applicazione nel giudizio a quo, in quanto impedirebbe il
rigetto  della  domanda  giudiziale,  cui   il   giudice   rimettente
riterrebbe di pervenire in considerazione della pregressa abrogazione
tacita dell'art. 8 della legge n. 991 del 1952: di qui  la  rilevanza
delle questioni di legittimita' costituzionale. La loro non manifesta
infondatezza, per violazione degli artt. 3 e 76 Cost., si desumerebbe
da quanto gia' argomentato. 
    2.- Con atto depositato il 30 ottobre 2017, si e'  costituito  in
giudizio l'INPS, parte convenuta nel giudizio a quo, contestando  «la
rilevanza,  l'ammissibilita'  e  la   fondatezza»   delle   sollevate
questioni di legittimita' costituzionale. 
    La difesa dell'INPS  puntualizza,  innanzitutto,  i  fatti  della
controversia. In particolare, rileva che la societa' agricola attrice
aveva assolto per tempo  agli  oneri  contributivi  in  favore  degli
operai  agricoli  utilizzati,  fruendo  dello  sgravio   contributivo
parziale di cui all'art. 9  della  legge  n.  67  del  1988,  e  che,
pertanto, chiedendo ora l'applicazione dell'art. 8 della legge n. 991
del 1952, viene a pretendere la restituzione del  solo  differenziale
contributivo, non  avendo  mai  pagato  la  contribuzione  in  misura
ordinaria. 
    Ripercorsa, poi, l'ordinanza di rimessione, l'INPS ritiene che le
questioni di legittimita'  siano  inammissibili,  in  quanto  sarebbe
carente la motivazione circa la violazione di  entrambi  i  parametri
costituzionali evocati. Il giudice rimettente si sarebbe  limitato  a
confutare, «con giudizi  di  valore  e  non  giuridici,  il  percorso
argomentativo che ha utilizzato il giudice della nomofilachia», senza
pero' esporre le ragioni che non gli consentirebbero di «disapplicare
una disposizione di legge  che  afferma  l'esistenza  e  l'efficienza
nell'ordinamento giuridico di una disposizione che  non  e'  piu'  in
essere». Il giudice a quo, inoltre, avrebbe dimostrato di far propria
la soluzione della Corte di cassazione,  ritenendo  soltanto  di  non
poterla applicare se non dopo l'annullamento della norma censurata da
parte della Corte costituzionale:  dovrebbe  allora  spiegare  «quali
siano i motivi giuridici sottesi  allo  svolgimento  di  un'attivita'
normativa sfornita di copertura costituzionale  che  pero',  per  non
essere applicata dai giudici di merito, necessita sempre  e  comunque
di una declaratoria di illegittimita' costituzionale». 
    3.- Con atto depositato  il  30  ottobre  2017,  si  e'  altresi'
costituita in  giudizio  la  Societa'  agricola  Melavi'  -  societa'
cooperativa, parte attrice nel giudizio  a  quo,  chiedendo  che  sia
dichiarata  l'inammissibilita'  o  l'infondatezza   delle   sollevate
questioni di legittimita' costituzionale. 
    Sinteticamente ripercorsi i fatti di causa, e messo  in  luce  in
particolare come la mancata abrogazione dell'art. 8  della  legge  n.
991 del 1952 sia «sancita per tabulas» dal decreto legislativo n. 179
del 2009, la difesa della parte privata contesta sia la premessa  del
ragionamento del giudice rimettente (ossia, l'intervenuta abrogazione
del citato art. 8), «sia  le  conseguenze  trattene  sul  significato
sistematico» del richiamato decreto legislativo. 
    3.1.- Per quanto riguarda la mancata abrogazione tacita, la parte
privata rileva che la legge n. 991 del 1952 e' stata si'  oggetto  di
numerosi interventi normativi, ma che questi  mai  hanno  interessato
l'art. 8, di modo che e' rimasta immutata la previsione della  totale
esenzione contributiva: le  leggi  successive  nel  tempo  che  hanno
interessato  i  territori  montani,  infatti,  hanno  provveduto   ad
abrogare esplicitamente le precedenti norme,  ove  contrastanti,  dal
che dovrebbe dedursi che il citato art. 8 «non e'  stato  oggetto  di
abrogazione  nemmeno  implicita».   Tale   ricostruzione   troverebbe
conforto nella sentenza n. 254 del 1989 della  Corte  costituzionale:
in tale decisione, resa quand'era gia' vigente l'art. 9  della  legge
n.  67  del  1988,  espressamente  richiamato   dall'allora   giudice
rimettente, si afferma che  «per  i  terreni  compresi  in  territori
montani ubicati ad altitudine superiore ai settecento metri  sussiste
normativamente l'esenzione dal pagamento dei contributi unificati». 
    L'abrogazione tacita,  del  resto,  presupporrebbe  «un  evidente
contrasto tra norme e non [potrebbe] essere neppure applicata in casi
(...) dubbi». In questa prospettiva, la  giurisprudenza  ordinaria  e
amministrativa sottopone a «rigorosi limiti la verifica del requisito
della "incompatibilita'"» (si richiamano le sentenze del Consiglio di
Stato, sezione quinta, 2 settembre 2013, n. 4337, e  della  Corte  di
cassazione, sezione lavoro, 10 agosto 1998, n. 7840). 
    La legge n. 67 del  1988  non  introdurrebbe  neppure  una  nuova
disciplina  della  materia,  come   al   contrario   prospettano   la
giurisprudenza di legittimita' e il  giudice  rimettente,  affermando
che essa ha  per  oggetto  tutti  i  territori  montani  e  tutte  le
qualifiche dei  dipendenti.  In  particolare,  la  giurisprudenza  di
legittimita' non avrebbe tenuto conto della  «necessaria  distinzione
tra le varie categorie di dipendenti precisata dal legislatore  nelle
due  disposizioni»:  la  legge  n.  991   del   1952,   infatti,   si
applicherebbe soltanto agli operai  che  svolgevano  l'attivita'  nei
territori montani,  in  quanto  «categoria  maggiormente  penalizzata
dalla particolare  situazione  di  quel  territorio»;  per  le  altre
categorie di lavoratori, che erano gia' soggette a contribuzione,  la
legge n. 67 del 1988 ha invece introdotto le agevolazioni. 
    D'altro canto - osserva ancora la difesa della  parte  privata  -
seguendo la prospettazione  dell'INPS  dovrebbe  concludersi  che  il
legislatore del 1988 aveva introdotto una agevolazione estesa anche a
chi  allora  beneficiava  dell'esenzione  totale:   difficile   pero'
immaginare «che una misura definita come una agevolazione in  realta'
possa essere interpretata come introduzione ex  novo  di  un  obbligo
contributivo». 
    Inoltre, la legge n. 67 del 1988 avrebbe stabilito per  tutto  il
territorio nazionale i parametri  per  la  delimitazione  delle  aree
svantaggiate, determinando i relativi  livelli  contributivi  per  la
generalita'    dei    dipendenti.     L'agevolazione     contributiva
contestualmente prevista,  pertanto,  doveva  applicarsi  a  tutti  i
dipendenti operanti in tali territori,  non  anche  agli  operai  che
prestavano la manodopera in territori  montani,  tanto  piu'  che  la
circostanza che un'azienda agricola ricada contemporaneamente in  una
zona svantaggiata e  in  un  territorio  montano  non  influisce  sul
godimento dei benefici  riconosciuti  dalla  legge  (si  richiama  la
sentenza della Corte di cassazione, sezione lavoro, 26 marzo 1998, n.
3199). 
    La difesa  della  societa'  agricola  assume,  dunque,  che,  non
essendo stato implicitamente abrogato l'art. 8 della legge n. 991 del
1952,   le   questioni   di   legittimita'   costituzionale   debbono
considerarsi inammissibili. 
    3.2.- Ad ogni modo, la circostanza  che  il  legislatore  si  sia
esplicitamente pronunciato per  la  vigenza  di  un  testo  normativo
dovrebbe di  per  se'  escludere  l'abrogazione  tacita,  poiche'  il
contesto  valutativo  si  rivela  «non  molto  dissimile  da   quello
usualmente valorizzato con riferimento all'interpretazione  autentica
proveniente, per l'appunto, dal legislatore». 
    La difesa della parte privata critica severamente,  pertanto,  la
giurisprudenza  di  legittimita'  richiamata  dal  giudice   a   quo,
rilevando come per parlare coerentemente di  lapsus  calami  dovrebbe
dimostrarsi che il riferimento all'art. 8 della legge n. 991 del 1952
fosse sicuramente non voluto dal legislatore. 
    In senso contrario, invece,  militerebbe  innanzitutto  il  fatto
che, attraverso le deleghe di cui all'art. 14 della legge n. 246  del
2005,  il  legislatore  ha  posto  in   essere   un   meccanismo   di
semplificazione della legislazione, cui  il  Governo  ha  dato  corso
attraverso una complessa attivita'  di  consultazione  dei  ministeri
interessati, sfociata prima nel d.lgs. n. 179  del  2009  e  poi  nel
relativo decreto legislativo correttivo  13  dicembre  2010,  n.  213
(Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 1°  dicembre  2009,
n. 179, recante disposizioni  legislative  statali  anteriori  al  1°
gennaio 1970, di cui  si  ritiene  indispensabile  la  permanenza  in
vigore).  Sarebbe  irrealistico,  dunque,  considerare  quale  lapsus
calami l'inserimento dell'art. 8 della legge n. 991 del 1952  tra  le
disposizioni sottratte all'abrogazione delle norme antecedenti al  1°
gennaio  1970,  quando,  tutto  al  contrario,  la  scelta  di   tale
inserimento «non puo' che ritenersi indicativa di una chiara, precisa
ed  inequivocabile  presa  di  posizione   in   ordine   all'assoluta
importanza della permanenza in vigore della disciplina ivi prevista». 
    A  riprova  di  tali  affermazioni,  si  rileva  che  l'attivita'
d'individuazione,  da  parte  del  Governo,  delle  disposizioni   da
confermare  in  vigore  sarebbe  stata  svolta  in  modo  «preciso  e
accurato», tanto che non tutte le leggi - e tra queste la n. 991  del
1952 - sono state "salvate" per intero,  ma  spesso  solo  in  alcuni
articoli.  Il  «Governo-legislatore»,  pertanto,   avrebbe   dapprima
rilevato la mancata abrogazione tacita  del  citato  art.  8  e  poi,
inserendolo tra le disposizioni da sottrarre al generalizzato effetto
abrogativo previsto dalla legge di delega, ne avrebbe  confermato  la
vigenza, ulteriormente confermata con l'adozione del  d.lgs.  n.  213
del 2010. 
    La scelta consapevole del legislatore delegato - coerente con «la
finalita'  fondamentale  di  semplificazione»  che,  secondo   quanto
affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n.  80  del
2012, costituiva la ratio della delega - emergerebbe  altresi'  dalla
lettura di tutte le norme e degli atti parlamentari che  hanno  avuto
per oggetto il d.lgs. n. 179 del 2009 e che sono intervenuti in  tema
di semplificazione normativa. 
    La  difesa  della  parte  privata,  infine,   osserva   come   le
affermazioni della Corte di cassazione  sarebbero  gravemente  lesive
del principio della separazione dei poteri, poiche'  determinerebbero
«una sorta di abrogazione giurisprudenziale  della  disposizione  che
contiene una dichiarazione espressa di vigenza, che si pone quasi nei
termini di una interpretazione autentica, come tale immodificabile in
sede giurisprudenziale». Una «indiretta  conferma»  di  tale  assunto
sarebbe  rinvenibile  nella  sentenza  n.  5  del  2014  della  Corte
costituzionale,  la  quale  avrebbe  affermato  che  il  Governo  non
potrebbe  novamente  esercitare  la  delega   abrogando   una   legge
considerata  indispensabile,  dovendo  eventualmente  provvedervi  il
legislatore: e se non puo' farlo il Governo, neppure  puo'  farlo  il
giudice rimettente. 
    In ragione di  tutte  queste  argomentazioni,  la  parte  privata
reputa pertanto, in subordine, infondate le questioni di legittimita'
costituzionale, non ravvisando alcuna violazione degli artt. 3  e  76
Cost. da parte della disposizione censurata. 
    4.- In data 16  aprile  2018,  la  Societa'  agricola  Melavi'  -
societa' cooperativa ha depositato una memoria illustrativa,  con  la
quale insiste per la dichiarazione di inammissibilita' o infondatezza
delle sollevate questioni di legittimita'  costituzionale,  ribadendo
gli argomenti gia' utilizzati nell'atto di costituzione. 
    La difesa della parte privata, in particolare, mette  in  rilievo
il «paradosso» che ambedue le parti del  giudizio  a  quo  concordano
sulla infondatezza delle questioni  di  legittimita'  costituzionale,
argomentata tuttavia in base a opposti presupposti:  secondo  l'INPS,
la norma di cui all'art. 8 della legge n. 991 del 1952 sarebbe  stata
«implicitamente     espunta     dall'ordinamento     per      effetto
dell'interpretazione (abrogatrice) del sistema fornita dal giudice di
legittimita'»,   di   modo   che    l'eventuale    declaratoria    di
incostituzionalita' sarebbe inutiliter data;  al  contrario,  secondo
essa parte privata il giudice non  potrebbe  disapplicare  una  norma
legislativa, dovendo invece «prendere atto che la  parola  chiara  ed
esplicita del legislatore non puo' che  fare  aggio  su  qualsivoglia
interpretazione sistematica e/o percorso argomentativo in  chiave  di
implicita abrogazione». 
    Si sarebbe, dunque, dinanzi all'«ennesimo conflitto» tra  giudice
e  legislatore,  simile  a  quello  che  si  verifica  allorche'   il
legislatore adotti una  disposizione  di  interpretazione  autentica,
superando  quella  fornita   dalla   giurisprudenza.   Ne'   varrebbe
sostenere, come hanno fatto la Corte di cassazione e l'INPS,  che  il
d.lgs. n. 179  del  2009  ha  carattere  meramente  ricognitivo,  non
essendo chiaro -  secondo  la  parte  privata  -  il  senso  di  tali
espressioni, visto che la Corte costituzionale, con  la  sentenza  n.
346 del 2010, ha gia' affermato che tale decreto legislativo conferma
«la persistente e immutata» efficacia delle disposizioni "salvate". 
    Il giudice rimettente, sotto questo specifico profilo,  moverebbe
invece  dal  corretto  presupposto  secondo  cui  l'applicazione  del
disposto legislativo sarebbe doverosa, rifiutando l'idea  del  lapsus
calami del legislatore; sol  che  si  tratterebbe,  a  suo  dire,  di
attivita' normativa sfornita di copertura costituzionale. 
    5.- In data 19 aprile 2018,  fuori  termine,  ha  depositato  una
memoria illustrativa anche l'INPS. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Sondrio dubita, in riferimento agli
artt. 3 e 76 della Costituzione,  della  legittimita'  costituzionale
dell'art.  1  del  decreto  legislativo  1°  dicembre  2009,  n.  179
(Disposizioni legislative statali anteriori al 1°  gennaio  1970,  di
cui si ritiene  indispensabile  la  permanenza  in  vigore,  a  norma
dell'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246),  nella  parte
in cui, alla voce n. 1266 dell'Allegato  1,  dichiara  la  permanente
vigenza dell'art. 8 della legge 25 luglio 1952, n. 991 (Provvedimenti
in favore dei territori montani). 
    Il giudice rimettente e' chiamato a pronunciarsi su una  domanda,
proposta da una societa' agricola operante in territorio montano, «di
accertamento del proprio diritto  a  beneficiare  dell'esenzione  dal
pagamento dei contributi», secondo quanto previsto dall'art. 8  della
legge n. 991 del 1952. Disposizione, quest'ultima, la cui  permanenza
in vigore e' stata ritenuta indispensabile dalla norma censurata. 
    Il giudice a quo rileva che l'art. 14, comma 14, della  legge  28
novembre 2005, n. 246  (Semplificazione  e  riassetto  normativo  per
l'anno 2005) - nel  testo  risultante  dalla  sostituzione  ad  opera
dell'art. 4, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni
per lo sviluppo  economico,  la  semplificazione,  la  competitivita'
nonche' in materia di processo civile) - aveva  delegato  l'esecutivo
ad adottare decreti legislativi che  individuassero  le  disposizioni
legislative statali, pubblicate anteriormente  al  1°  gennaio  1970,
anche   successivamente   modificate,   delle   quali   si   riteneva
indispensabile la permanenza in vigore, nel rispetto, tra gli  altri,
dei  seguenti  principi  e  criteri  direttivi:   «esclusione   delle
disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita» e «esclusione
delle disposizioni che abbiano esaurito  la  loro  funzione  o  siano
prive di effettivo contenuto normativo  o  siano  comunque  obsolete»
(rispettivamente, lettere a e b della disposizione delegante). 
    Il richiamato art. 8 della  legge  n.  991  del  1952,  tuttavia,
doveva considerarsi - a parere del Tribunale ordinario di  Sondrio  -
implicitamente abrogato. A tale  conclusione  il  giudice  rimettente
giunge  sulla  base  dell'articolato  percorso   argomentativo,   che
espressamente fa proprio, svolto dalla giurisprudenza di legittimita'
(Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze  22  agosto  2013,  n.
19420 e 20 aprile 2016, n. 7976). 
    Allo stesso tempo, il giudice a quo dissente da altra  parte  del
decisum  della  Corte  di  cassazione.  In  specie,   non   condivide
l'affermazione del giudice  di  legittimita'  -  fondata  su  di  una
supposta «funzione meramente ricognitiva» del d.lgs. n. 179 del  2009
- stando alla quale l'inclusione del  citato  art.  8  tra  le  norme
"salvate" dovrebbe ritenersi «tamquam non esset, frutto di un  lapsus
calami, sulla base di una  interpretazione  rispettosa  dell'art.  15
preleggi e costituzionalmente orientata, nel senso della  coerenza  e
ragionevolezza dell'ordinamento (art.  3  Cost.),  del  rispetto  dei
principi e criteri direttivi della legge di delega (art.  76  Cost.),
alla luce anche dell'art.  44  Cost.,  comma  2».  L'inserimento  del
richiamato art.  8  tra  le  disposizioni  delle  quali  si  riteneva
indispensabile la permanenza in vigore  sarebbe  invece,  secondo  il
Tribunale ordinario di Sondrio, «un'attivita' normativa  sfornita  di
copertura costituzionale posta in essere dal  legislatore  delegato»,
la quale non puo' determinare la disapplicazione ad opera del giudice
ordinario  della  norma  censurata,  ma  soltanto  l'annullamento  di
quest'ultima da parte della Corte costituzionale. 
    Di qui, nella prospettiva del giudice rimettente,  la  necessita'
di sollevare le questioni di legittimita'  costituzionale.  La  norma
impugnata,  infatti,  per  un   verso   sarebbe   di   indispensabile
applicazione nel giudizio a quo, in  quanto  impedirebbe  il  rigetto
della domanda della parte attrice, al quale il  Tribunale  altrimenti
perverrebbe in ragione della pregressa abrogazione tacita dell'art. 8
della legge n. 991 del 1952; per un altro, sarebbe stata adottata  in
contrasto con i principi e  criteri  direttivi  posti  dall'art.  14,
comma 14, lettere a) e b), della legge di delega n. 246 del 2005. 
    2.-  Preliminarmente,  deve  essere   dichiarata   inammissibile,
perche' del tutto priva di motivazione  in  punto  di  non  manifesta
infondatezza, la questione di  legittimita'  sollevata  in  relazione
all'art. 3 Cost. 
    La struttura  della  motivazione  dell'ordinanza  di  rimessione,
invero, e' tutta volta  a  denunciare  l'eccesso  di  delega  in  cui
sarebbe incorso il Governo con l'adozione della norma impugnata. 
    In questo contesto, l'art. 3 Cost. e' fugacemente evocato in  due
sole occasioni. Una  prima,  allorche'  e'  richiamato  il  passaggio
argomentativo della giurisprudenza di legittimita'  -  dal  quale  il
rimettente, peraltro, espressamente dissente - in base  al  quale  la
norma  impugnata,  secondo  una  interpretazione   costituzionalmente
conforme che garantisca coerenza e  ragionevolezza  dell'ordinamento,
dovrebbe considerarsi «tamquam non esset». Una seconda,  nella  parte
finale dell'ordinanza di rimessione, quando il giudice a quo  afferma
che la non manifesta  infondatezza  (anche)  per  la  violazione  del
canone di ragionevolezza si desume dalle argomentazioni in precedenza
addotte. 
    Si  tratta,  dunque,  di  apodittici   richiami   del   parametro
costituzionale, non accompagnati dall'indicazione delle ragioni circa
la sua asserita violazione, necessariamente  diverse  da  quelle  che
fondano  il  dubbio  di  legittimita'  costituzionale  in   relazione
all'art. 76 Cost. 
    3.- Non sono fondate, invece, le  eccezioni  di  inammissibilita'
proposte da entrambe le parti costituite. 
    3.1.- Secondo l'Istituto  Nazionale  per  la  Previdenza  Sociale
(INPS), sarebbe  carente  anche  la  motivazione  circa  la  presunta
violazione dell'art.  76  Cost.  Il  giudice  rimettente  si  sarebbe
limitato  a  confutare  il  percorso  argomentativo  della  Corte  di
cassazione, senza tuttavia  dar  conto  delle  ragioni  che  non  gli
consentirebbero di disapplicare la norma censurata, che  conferma  la
vigenza di «una disposizione che non e' piu' in essere». 
    Va invece rilevato, in  senso  contrario,  che  il  Tribunale  di
Sondrio ha senza dubbio ben argomentato il lamentato vizio di eccesso
di delega, risultando chiarissime le ragioni le quali, da un lato, lo
inducono a ritenere che la norma  impugnata  sia  stata  adottata  in
contrasto con i principi e criteri  direttivi  posti  dalla  relativa
legge di delega e,  dall'altro,  gli  impediscono  di  disapplicarla,
rendendo invece necessario l'incidente di costituzionalita'. 
    3.2.-  A  parere  della  Societa'  agricola  Melavi'  -  societa'
cooperativa, parte attrice  nel  giudizio  a  quo,  le  questioni  di
legittimita' costituzionale dovrebbero considerarsi inammissibili  in
quanto non sarebbe mai stato oggetto di abrogazione implicita  l'art.
8 della legge n. 991 del 1952, sicche' il giudice rimettente dovrebbe
farne senz'altro applicazione. 
    Nell'odierno caso all'attenzione di questa  Corte,  tuttavia,  la
valutazione  sull'avvenuta  abrogazione   implicita,   o   non,   del
richiamato art. 8 attiene al merito e  non  all'ammissibilita'  della
questione di legittimita'. Il giudice  rimettente,  infatti,  lamenta
che la norma impugnata abbia confermato la vigenza di  tale  art.  8,
cosi' ponendosi in contrasto con i principi e criteri direttivi della
delega,  ai  sensi  dei  quali  il  Governo   non   poteva   ritenere
indispensabile la permanenza in vigore  di  disposizioni  oggetto  di
abrogazione tacita o implicita,  o  che  avessero  esaurito  la  loro
funzione o che, comunque sia, fossero prive  di  effettivo  contenuto
normativo od obsolete. Vagliare se l'art. 8 della legge  n.  991  del
1952 fosse stato gia' implicitamente abrogato e',  dunque,  attivita'
valutativa imprescindibile per effettuare il sindacato sul contrasto,
o non, della norma impugnata con l'art. 76 Cost. 
    4.- Ancora in via preliminare, deve affermarsi  che  e'  corretto
l'operato del giudice rimettente,  il  quale  ha  ritenuto,  in  cio'
dissentendo dalla giurisprudenza della Corte di  cassazione,  di  non
poter  considerare  «tamquam  non  esset»  la  norma   impugnata   e,
conseguentemente, ha sollevato l'odierna  questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    Una compiuta motivazione sul punto non puo' prescindere, anche in
ragione degli argomenti di segno diverso spesi  dalla  giurisprudenza
di legittimita', dalla ricostruzione del quadro  normativo  entro  il
quale si inserisce la delega  attuata  con  l'impugnato  art.  1  del
d.lgs. n. 179 del 2009. 
    4.1.- Il legislatore, con l'art. 14, comma 14, della legge n. 246
del 2005, aveva delegato il Governo ad adottare «decreti  legislativi
che [individuassero] le disposizioni legislative statali,  pubblicate
anteriormente  al  1°  gennaio  1970,   anche   se   modificate   con
provvedimenti successivi, delle quali si [riteneva] indispensabile la
permanenza in vigore». Trattasi della delega nota come "salva-leggi". 
    La qualificazione di "salva-leggi" si deve alla  circostanza  che
il successivo comma 14-ter - introdotto dall'art. 4, comma 1, lettera
a), della legge n. 69 del 2009 - prevede che, «decorso un anno  dalla
scadenza del termine di cui al comma 14, ovvero del  maggior  termine
previsto dall'ultimo periodo del  comma  22,  tutte  le  disposizioni
legislative statali non comprese nei decreti legislativi  di  cui  al
comma 14, anche se  modificate  con  provvedimenti  successivi,  sono
abrogate» (cosiddetta clausola ghigliottina). 
    All'operativita'  della  clausola  ghigliottina,   pertanto,   il
legislatore   delegante   sottraeva   le   disposizioni    pubblicate
anteriormente al 1° gennaio 1970 che il Governo  avesse  ritenuto  di
"salvare" perche' indispensabili, nel rispetto dei principi e criteri
direttivi posti dal medesimo art. 14, comma  14:  per  quel  che  qui
rileva,  trattandosi  delle  norme  interposte  evocate  dal  giudice
rimettente,  si  era  escluso  che  potessero  essere  "salvate"   le
disposizioni gia' tacitamente o implicitamente abrogate,  nonche'  le
disposizioni che avessero esaurito la loro  funzione  o  che  fossero
prive di effettivo contenuto normativo o, comunque sia, obsolete. 
    Il    legislatore    delegante,    poi,    parimente    sottraeva
all'operativita' della clausola ghigliottina, secondo quanto disposto
dal comma 17 del medesimo art.  14,  le  disposizioni  rientranti  in
determinati  ambiti  materiali  (cosiddetti  settori   esclusi):   in
relazione  a  questi  ultimi,  pertanto,  il  legislatore   delegante
provvedeva direttamente, senza che fosse necessario l'intervento  del
legislatore  delegato,  a   delimitare   l'efficacia   della   futura
abrogazione generalizzata. 
    Il richiamato art. 14, comma 14, inoltre, prevedeva, alla lettera
e), che il Governo  organizzasse  le  disposizioni  da  mantenere  in
vigore «per settori omogenei o  per  materie,  secondo  il  contenuto
precettivo di esse». Similmente, il successivo comma 15 disponeva: «i
decreti legislativi di cui  al  comma  14  provvedono  altresi'  alla
semplificazione o al riassetto della materia che ne e'  oggetto,  nel
rispetto dei principi e criteri  direttivi  di  cui  all'articolo  20
della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive  modificazioni,  anche
al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle
pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio 1970». 
    Infine, il comma 18 dell'art. 14 della legge n. 246  del  2005  -
come modificato dall'art. 13 della legge 4 marzo 2009, n. 15  (Delega
al Governo finalizzata  all'ottimizzazione  della  produttivita'  del
lavoro pubblico e  alla  efficienza  e  trasparenza  delle  pubbliche
amministrazioni  nonche'  disposizioni  integrative  delle   funzioni
attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro  e  alla
Corte dei conti) - aveva ulteriormente  previsto  che:  «[e]ntro  due
anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi  di  cui
al comma 14, [potessero] essere  emanate,  con  uno  o  piu'  decreti
legislativi, disposizioni integrative,  di  riassetto  o  correttive,
esclusivamente nel rispetto dei principi e criteri direttivi  di  cui
al comma 15 [...]». 
    In attuazione della delega prevista dal piu'  volte  citato  art.
14, comma 14, il Governo ha  adottato  il  d.lgs.  n.  179  del  2009
(cosiddetto decreto  legislativo  salva-leggi),  il  cui  art.  1  e'
oggetto della odierna questione di legittimita' costituzionale, senza
tuttavia procedere ne' alla  «organizzazione  delle  disposizioni  da
mantenere in vigore per settori omogenei o per  materie,  secondo  il
contenuto precettivo di ciascuna di esse» (art. 14, comma 14, lettera
e), ne'  all'attuazione  della  delega  «alla  semplificazione  o  al
riassetto della materia» (art. 14, comma 15). Il  Governo,  pertanto,
ha  deciso,  nell'ambito  della  discrezionalita'   affidatagli   dal
legislatore delegante (sentenza n. 41  del  1975),  di  limitarsi  ad
individuare le disposizioni la cui  permanenza  in  vigore  e'  stata
ritenuta indispensabile, cosi'  sottraendole  all'operativita'  della
clausola ghigliottina. 
    Il legislatore delegato, poi, ha  adottato  -  in  attuazione  di
quanto consentitogli dall'art. 14, comma 18, della legge n.  246  del
2005 - il decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche  ed
integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante
disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui
si ritiene indispensabile la permanenza in vigore). 
    4.2.- Questo essendo il quadro normativo entro cui si colloca  la
norma impugnata, deve escludersi che il d.lgs. n. 179  del  2009  sia
meramente ricognitivo, come invece ritenuto dalla  giurisprudenza  di
legittimita' richiamata  dal  giudice  rimettente,  con  orientamento
peraltro ribadito anche  da  Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,
ordinanza 22 marzo 2018, n. 7214. 
    4.3.- Come si e' gia' detto, il d.lgs. n. 179 del 2009  ha  anche
la funzione, di primaria rilevanza, di delimitare  la  portata  della
clausola  ghigliottina,  la  quale   ha   determinato   l'abrogazione
generalizzata di tutte le disposizioni pubblicate anteriormente al 1°
gennaio 1970, fatta eccezione  per  quelle  comprese  nei  cosiddetti
settori esclusi di cui all'art. 14, comma 17, della legge n. 246  del
2005, e per quelle, appunto, "salvate" dal Governo con l'adozione del
decreto legislativo de quo  (e  con  il  d.lgs.  n.  213  del  2010).
Altrimenti   detto,   il   decreto   legislativo   "salva-leggi"   ha
necessariamente valenza anche normativa, perche' limita e circoscrive
il generalizzato effetto abrogante della clausola  ghigliottina:  ove
il Governo non avesse esercitato la delega  "salva-leggi",  tutte  le
disposizioni pubblicate  anteriormente  al  1°  gennaio  1970,  salvo
quelle ricomprese nei cosiddetti  settori  esclusi,  dovrebbero  oggi
considerarsi abrogate per opera dell'art.  14,  comma  14-ter,  della
legge n. 246 del 2005. 
    4.4.- Non depongono in senso contrario  -  come  invece  ritenuto
dalla giurisprudenza di legittimita' - le sentenze n. 80 del  2012  e
n. 346 del 2010 di questa Corte. 
    La prima delle due richiamate pronunce, invero,  in  nessuna  sua
parte prende posizione sulla natura ricognitiva o non del  d.lgs.  n.
179 del 2009, essendo allora oggetto dello scrutinio di  legittimita'
costituzionale,  d'altro  canto,  l'art.  1,  comma  1,  del  decreto
legislativo 23 maggio 2011, n. 79 (Codice della normativa statale  in
tema di ordinamento e mercato del turismo, a norma dell'art. 14 della
legge 28 novembre 2005, n. 246, nonche'  attuazione  della  direttiva
2008/122/CE, relativa  ai  contratti  di  multiproprieta',  contratti
relativi ai prodotti per le vacanze di lungo  termine,  contratti  di
rivendita e scambio). 
    Non vale in senso contrario osservare che nella sentenza  n.  346
del  2010  questa  Corte  ha  in  effetti  rilevato  che  il  decreto
legislativo "salva-leggi"  ha  «funzione  meramente  ricognitiva»  in
relazione alla fattispecie ivi esaminata. Tale affermazione, infatti,
deve essere riguardata non isolatamente, ma alla luce delle questioni
di legittimita' costituzionale allora  sollevate,  nonche'  di  altre
affermazioni rese nella complessiva motivazione di quella pronuncia. 
    Questa Corte era chiamata a decidere un ricorso  della  Provincia
autonoma di Bolzano con il quale si lamentava che il  d.lgs.  n.  179
del 2009 avesse mantenuto in vigore il regio decreto 29  marzo  1923,
n. 800 che determina la lezione ufficiale dei nomi dei  comuni  e  di
altre localita' dei territori  annessi,  convertito  nella  legge  17
aprile 1925, n. 473.  Secondo  la  Provincia  ricorrente,  tale  atto
normativo era  stato  gia'  oggetto  di  abrogazione  per  opera  del
decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200 (Misure urgenti in materia  di
semplificazione  normativa),  convertito,  con  modificazioni,  nella
legge 18 febbraio 2009, n. 9, sicche' la sua "salvezza" per mano  del
decreto  legislativo  "salva-leggi"   ne   avrebbe   determinato   la
reviviscenza,   cosi'   violando   una   pluralita'   di    parametri
costituzionali e, in particolare, la competenza esclusiva in  materia
di toponomastica attribuita alla Provincia autonoma dalle norme dello
statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol  (decreto
del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670). 
    Le questioni furono dichiarate inammissibili. 
    Si rilevo', infatti, che l'effetto abrogativo di cui all'art.  2,
comma 1, del d.l. n. 200 del 2008, in relazione al r.d.  n.  800  del
1923, non si era mai prodotto. Il citato art. 2, comma  1,  prevedeva
che l'abrogazione delle  disposizioni  elencate  nell'Allegato  1  al
medesimo decreto-legge avesse luogo a far data dal 16 dicembre  2009;
il d.lgs. n. 179 del 2009, dal canto suo, e' entrato in vigore il  15
dicembre 2009 e, all'art. 1,  comma  2,  ha  espressamente  sottratto
all'effetto abrogativo del d.l. n. 200 del 2008  le  disposizioni  di
cui all'Allegato 2 al medesimo decreto legislativo, tra le  quali  e'
ricompreso, appunto, il  r.d.  n.  800  del  1923.  Conseguentemente,
quest'ultimo non era mai stato oggetto d'abrogazione  e,  dunque,  il
decreto  legislativo  "salva-leggi"  «lungi  dal  determinar[ne]   la
"reintroduzione"  o  la  "reviviscenza"  nell'ordinamento  [...]   ha
semplicemente consentito di vederne confermata la vigenza, sull'ovvio
presupposto [...] che esso  non  l'avesse  perduta  e  che,  percio',
altrettanto evidentemente, non avesse  necessita'  di  riacquistarla»
(sentenza n. 346 del 2010). 
    Si aggiunse, inoltre, che il decreto  legislativo  "salva-leggi",
«nell'individuare  le  disposizioni  da  mantenere  in  vigore,   non
ridetermin[a] ne' in alcun modo corregg[e]  le  relative  discipline,
limitandosi  a  confermare,  peraltro  indirettamente  -  attraverso,
cioe', la mera individuazione di atti da "salvare" -, la  persistente
e immutata loro efficacia» (sentenza n. 346 del 2010). 
    Questa Corte, pertanto, ebbe soltanto  a  escludere  che  con  il
decreto  legislativo  "salva-leggi"  fossero   state   "reintrodotte"
disposizioni in ipotesi lesive della competenza della  ricorrente  in
materia di toponomastica, cosi' come nego' -  in  un  passaggio  pure
richiamato dalla giurisprudenza di legittimita' -  che  tale  decreto
potesse  considerarsi  dotato  di  «una  propria  e  autonoma   forza
precettiva o, se si preferisce, di quel carattere innovativo  che  si
suole considerare proprio degli atti normativi» (sentenza n. 346  del
2010), in quanto l'unico compito ad esso attribuito  dal  legislatore
delegante era quello di "salvare" dall'abrogazione, sottraendole alla
portata  della  clausola  ghigliottina,  le   disposizioni   la   cui
permanenza in vigore era dal Governo ritenuta indispensabile. 
    D'altra parte, la funzione normativa in questione -  come  invero
si e' gia' rilevato nella sentenza n. 346 del 2010  -  non  e'  certo
quella di introdurre nell'ordinamento  giuridico  norme  "nuove",  ma
quella di confermare la «persistente e immutata» efficacia  di  altre
disposizioni, sottraendole all'effetto abrogativo generalizzato della
clausola ghigliottina e, cosi', conservandone la vigenza. 
    4.5.- Una volta riconosciuto che il d.lgs. n.  179  del  2009  ha
forza legislativa - perche', giova ribadirlo, conferma, con la  forza
della legge, la vigenza  di  disposizioni  che  altrimenti  sarebbero
state abrogate per opera dell'art. 14, comma 14-ter, della  legge  n.
246 del 2005 - ove si  ritenga  che  la  "salvezza"  di  disposizioni
pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970 sia avvenuta in contrasto
con i principi e criteri direttivi della disposizione  delegante,  il
supposto vizio di eccesso di delega, lungi dal  consentire  una  mera
disapplicazione   della   norma   posta   dal   decreto   legislativo
"salva-leggi",   non   puo'   non    determinare    l'incidente    di
costituzionalita'  (implicitamente,  in  questi  termini,  anche   la
sentenza  n.  5  del  2014,  la  quale  ha  scrutinato  e  dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 1 del d.lgs. n. 213  del  2010,
nella parte in cui modificava il d.lgs. n. 179 del  2009,  espungendo
dalle norme mantenute in vigore il decreto  legislativo  14  febbraio
1948,  n.  43,  recante  «Divieto  delle  associazioni  di  carattere
militare»). 
    5.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    5.1.-  Questa  Corte  ha  costantemente  riconosciuto   che   «il
contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto,  oltre
che del dato testuale, di una lettura sistematica delle  disposizioni
che la prevedono, anche alla luce del contesto  normativo  nel  quale
essa si inserisce, nonche' della  ratio  e  delle  finalita'  che  la
ispirano» (sentenza n.  104  del  2017).  In  questa  prospettiva,  i
principi  e  criteri  direttivi  posti  dal   legislatore   delegante
costituiscono non  solo  la  base  e  il  limite  delle  disposizioni
delegate, «ma strumenti per  l'interpretazione  della  loro  portata»
(sentenza n. 250 del 2016). Le  disposizioni  del  decreto  delegato,
quindi, vanno lette, ove possibile, nel significato  compatibile  con
detti principi e criteri, «i quali a loro  volta  vanno  interpretati
avendo riguardo alla ratio della legge delega per  verificare  se  la
norma delegata sia con questa coerente» (sentenza n. 229  del  2014).
La discrezionalita' del legislatore delegato, «il quale e' chiamato a
sviluppare, e non solo ad eseguire,  le  previsioni  della  legge  di
delega» (sentenza n. 104 del 2017), deve essere  inquadrata,  dunque,
entro questa cornice unitaria emergente dalla delega interpretata  in
chiave anche sistematica e teleologica. 
    Nel caso di specie, fine dichiarato del pur complesso reticolo di
deleghe di cui all'art. 14 della legge n. 246 del 2005 era quello «di
realizzare  una  generale  semplificazione  del   sistema   normativo
statale»  (sentenza  n.  80  del  2012),  mediante,   da   un   lato,
l'abrogazione dei soli  atti  normativi  primari  oramai  superati  o
inutili, nonche', dall'altro, l'organizzazione, per settori  omogenei
o per materie, l'armonizzazione e il riassetto degli  atti  normativi
primari ritenuti ancora indispensabili. L'esito  di  tali  interventi
avrebbe dovuto restituire, nell'intenzione del delegante,  un  quadro
normativo complessivo ispirato alla conoscibilita'  e  alla  certezza
del diritto primario vigente. 
    5.2.- In questa cornice vanno  collocati  i  principi  e  criteri
direttivi posti dall'art. 14, comma 14, della legge n. 246  del  2005
e, in particolare, quello di cui alla lettera a), in base al quale il
Governo non poteva (ne' doveva) prevedere  la  permanenza  in  vigore
delle «disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita». 
    Va  rilevato,  innanzitutto,  che  tale  principio   e   criterio
direttivo e' logicamente e  coerentemente  correlato  a  finalita'  e
oggetto  della  delega:  se  il  legislatore  delegante   e'   voluto
intervenire per eliminare le norme primarie pubblicate  anteriormente
al 1° gennaio 1970 ancora vigenti, sebbene oramai non indispensabili,
sarebbe stato intimamente contraddittorio prevedere o  ammettere  che
il   legislatore   delegato    potesse    decidere    di    "salvare"
dall'abrogazione generalizzata norme  gia'  implicitamente  abrogate,
ovverosia norme gia' non  piu'  vigenti,  perche'  incompatibili  con
norme ad esse successive. 
    Allo stesso tempo, non puo'  disconoscersi  che  -  se  le  forme
paradigmatiche nelle quali e' possibile l'abrogazione,  positivamente
previste  dall'art.  15  delle  disposizioni  preliminari  al  codice
civile, sono espressive di uno stesso fenomeno e istituto  giuridico,
uno ed unico essendo l'effetto che da esse si genera -  l'abrogazione
tacita o implicita si  distingue  da  quella  espressa  o  per  nuova
disciplina della materia in modo  particolarmente  significativo.  In
tale forma  di  abrogazione,  infatti,  non  esistendo  dichiarazione
normativa ufficiale che  accerti  l'antinomia  e  vincoli  tutti  gli
operatori  giuridici,  il  contributo  offerto  dall'interprete   nel
riconoscimento e nella determinazione  dell'effetto  abrogativo,  non
sempre di pronta e agevole percezione, e' particolarmente  rilevante,
comportando spesso  incertezza  ed  opinabilita'  nelle  soluzioni  e
conseguente possibilita' di esiti interpretativi difformi ed opposti. 
    Il legislatore delegante, con il principio e  criterio  direttivo
di cui all'art. 14, comma 14, lettera a),  della  legge  n.  246  del
2005,  ha  chiamato,  pertanto,  il  Governo  -   nell'attivita'   di
ricognizione,  prima,  e  di   eventuale   "salvezza",   poi,   delle
disposizioni legislative pubblicate anteriormente al 1° gennaio  1970
e ancora vigenti - a una reiterata valutazione, volta a volta,  circa
la  compatibilita',  o  non,  delle  norme  da  "salvare"  con  norme
successive, per escluderne la gia' avvenuta abrogazione tacita. 
    5.3.-  Nel  caso  oggi  sottoposto  all'esame  di  questa  Corte,
tuttavia, non puo' nutrirsi alcun  dubbio  sull'avvenuta  abrogazione
tacita, antecedentemente all'emanazione del d.lgs. n. 179  del  2009,
dell'art. 8 della legge n. 991 del 1952, come ha gia' riscontrato  la
Corte di cassazione, dapprima con la sentenza n. 19420  del  2013,  e
poi con la sentenza n. 7976 del 2016 e con l'ordinanza  n.  7214  del
2018. 
    I passaggi davvero  essenziali  del  percorso  argomentativo  del
giudice di legittimita' - piu' ampiamente  esposti  nel  Ritenuto  in
fatto (punto 1.1.)- sono i seguenti: 1) il citato  art.  8  aveva  un
duplice contenuto, prevedendo, da un lato, agevolazioni fiscali per i
territori  montani  e,  dall'altro,  l'esenzione  dal  pagamento  dei
contributi  agricoli  unificati  «per  i  terreni  situati   ad   una
altitudine non inferiore ai 700 metri sul livello del mare»;  2)  gli
artt. 58 e 68 del decreto del Presidente della Repubblica 29  gennaio
1958, n. 645 (Approvazione del testo unico delle leggi sulle  imposte
dirette),  dettando  una  nuova  disciplina   in   materia,   avevano
tacitamente abrogato il richiamato art. 8 per la parte relativa  alle
agevolazioni fiscali; 3) questa Corte, con la  sentenza  n.  370  del
1985, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del medesimo art.
8 nella parte in cui non  prevedeva  l'esenzione  dal  pagamento  dei
contributi unificati in agricoltura anche per i terreni  compresi  in
territori montani ubicati ad altitudine inferiore ai  700  metri  sul
livello del mare; 4) l'art. 9, comma 5, della legge 11 marzo 1988, n.
67, recante «Disposizioni per la formazione del  bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1988)» - anche  nel  testo
frutto della sostituzione  ad  opera  dell'art.  11  della  legge  24
dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza  pubblica)  -
reca una generale disciplina di sgravi contributivi  per  le  imprese
agricole in territori montani, la quale ha implicitamente  sostituito
l'esenzione di cui all'art. 8 della legge n. 991 del  1952  con  tale
sistema di sgravi contributivi. 
    5.4.- La conclusione cui e' giunto il giudice della  nomofilachia
deve essere, per questa parte, integralmente condivisa. 
    Sussiste, in effetti,  assoluta  incompatibilita'  tra  le  norme
ricavabili, per un verso, dall'art. 8 della legge n. 991 del 1952  e,
per un altro, dall'art. 9, comma 5, legge n. 67  del  1988:  per  una
medesima fattispecie - i  contributi  dovuti  dai  datori  di  lavoro
agricolo   -   le   due   norme   pongono   conseguenze    giuridiche
inconciliabili,  tali  che  l'applicazione  dell'una  non  puo'   che
comportare la non applicazione dell'altra. 
    La norma risalente al  1952  prevedeva,  infatti,  un  regime  di
esenzione totale dal pagamento di tali contributi a favore dei datori
di lavoro agricolo operanti in  territori  montani  (senza  che  piu'
rilevasse, all'indomani della sentenza n.  370  del  1985  di  questa
Corte, la quota altimetrica del territorio montano). La piu'  recente
norma del 1988, anche nel  testo  risultante  dalla  sostituzione  ad
opera dell'art. 11 della  legge  n.  537  del  1993,  ha  introdotto,
invece, una disciplina non di esenzione, ma in  base  alla  quale  «i
premi  ed  i  contributi  relativi  alle  gestioni  previdenziali  ed
assistenziali, dovuti dai datori di lavoro agricolo  per  il  proprio
personale dipendente,  occupato  a  tempo  indeterminato  e  a  tempo
determinato nei territori montani», sono fissati  in  misura  ridotta
rispetto a quella ordinaria. 
    Ne' coglie nel segno la  Societa'  agricola  Melavi'  -  societa'
cooperativa quando  sostiene  che  la  richiamata  giurisprudenza  di
legittimita' non avrebbe tenuto conto della  «necessaria  distinzione
tra le varie categorie di dipendenti precisata dal legislatore  nelle
due disposizioni». Nella prospettiva della parte  privata,  l'art.  8
della legge n. 991  del  1952  troverebbe  applicazione  soltanto  in
relazione  agli  operai  che  svolgevano  l'attivita'  nei  territori
montani,  in  quanto  «categoria   maggiormente   penalizzata   dalla
particolare situazione di  quel  territorio»,  mentre  per  le  altre
categorie di lavoratori, che erano  gia'  soggette  a  contribuzione,
l'art. 9, comma 5, della legge n. 67 del 1988 avrebbe  introdotto  il
sistema di sgravi  contributivi.  Il  richiamato  art.  8,  tuttavia,
contrariamente a quanto sostenuto dalla societa' agricola,  prevedeva
l'esenzione dal pagamento dei contributi unificati in agricoltura non
in riferimento ai soli operai, ma a  tutto  il  personale  dipendente
delle imprese operanti in territori montani; l'art. 9, comma 5, della
legge n. 67 del 1988, a sua volta, si riferisce ai contributi  dovuti
dai datori  di  lavoro  agricolo  per  il  personale  dipendente  nei
territori montani, senza fare alcuna  distinzione  tra  categorie  di
lavoratori, ma anzi espressamente precisando che il regime di  favore
vale per il personale occupato tanto a  tempo  determinato  quanto  a
tempo indeterminato. 
    6.- Deve concludersi che, al momento dell'adozione da  parte  del
Governo del decreto legislativo "salva-leggi", l'art. 8  della  legge
n. 991 del 1952 era gia'  stato  oggetto  di  abrogazione  implicita,
sicche' la norma impugnata nel  presente  giudizio,  che  lo  esclude
dalla portata dell'effetto  abrogativo  di  cui  all'art.  14,  comma
14-ter, della legge n. 246 del 2005, si pone in contrasto con  l'art.
14, comma 14,  lettera  a),  della  medesima  legge  ed  e'  viziata,
conseguentemente, per eccesso di delega. 
    Va  quindi  dichiarata   l'illegittimita'   costituzionale,   per
violazione dell'art. 76 Cost., dell'art. 1  del  d.lgs.  n.  179  del
2009, nella parte in cui dichiara, alla voce n. 1266 dell'Allegato 1,
l'indispensabile permanenza in vigore dell'art. 8 della legge n.  991
del  1952,  per  quanto  riguarda  l'esenzione  del   pagamento   dei
contributi unificati in agricoltura. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1)  dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  1  del
decreto  legislativo  1°  dicembre   2009,   n.   179   (Disposizioni
legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui  si  ritiene
indispensabile la permanenza in  vigore,  a  norma  dell'articolo  14
della legge 28 novembre 2005, n. 246), nella parte in  cui  dichiara,
alla voce n. 1266 dell'Allegato  1,  l'indispensabile  permanenza  in
vigore dell'art. 8 della legge 25 luglio 1952, n. 991  (Provvedimenti
in favore dei territori montani), quanto all'esenzione dal  pagamento
dei contributi unificati in agricoltura. 
    2)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1 del d.lgs. n. 179 del 2009, sollevata,  in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di
Sondrio con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 maggio 2018. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 4 ottobre 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA