N. 184 ORDINANZA 4 luglio - 4 ottobre 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e  pene  -  False  attestazioni  o  certificazioni  -  Pubblico
  impiegato che attesta falsamente la presenza in servizio,  mediante
  l'alterazione dei sistemi di rilevamento  della  presenza  o  altre
  modalita'  fraudolente,  ovvero   giustifica   l'assenza   mediante
  certificazione medica falsa - Trattamento sanzionatorio. 
- Decreto  legislativo  30  marzo  2001,  n.  165   (Norme   generali
  sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze  delle  amministrazioni
  pubbliche), art. 55-quinquies. 
-   
(GU n.40 del 10-10-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel   giudizio   di   legittimita'    costituzionale    dell'art.
55-quinquies del decreto legislativo 30 marzo  2001,  n.  165  (Norme
generali  sull'ordinamento   del   lavoro   alle   dipendenze   delle
amministrazioni  pubbliche),  promosso   dal   Giudice   dell'udienza
preliminare del  Tribunale  ordinario  di  Genova,  nel  procedimento
penale a carico di L. G. e altri, con ordinanza del 28  giugno  2017,
iscritta al n. 186 del registro ordinanze  2017  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  1,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2018. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  4  luglio  2018  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'. 
    Ritenuto che il Giudice dell'udienza  preliminare  del  Tribunale
ordinario di Genova, con ordinanza del 28 giugno 2017, ha  sollevato,
in riferimento agli artt. 3 e 27  della  Costituzione,  questioni  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  55-quinquies   del   decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni  pubbliche),  «nella
parte in cui non prevede un'ipotesi attenuata per i  casi  di  minore
gravita'»; 
    che il giudice rimettente premette di essere investito,  in  sede
di udienza preliminare, del procedimento penale nel quale sono  stati
rinviati a giudizio, ai sensi  dell'art.  110  del  codice  penale  e
dell'art. 55-quinquies del d.lgs. n. 165 del  2001,  tre  imputati  -
un'insegnante di un liceo statale genovese (L. G.),  suo  marito  (R.
M.) e un medico operante a Londra (R.  V.)  -,  alla  prima  di  essi
essendo altresi' contestata l'aggravante della recidiva specifica  ed
infraquinquennale di cui all'art. 99, terzo comma, cod. pen.; 
    che, in particolare, il sig. R. M. avrebbe richiesto al dott.  R.
V. un certificato medico falsamente attestante uno stato di  malattia
della sig.ra L. G., certificato da quest'ultima presentato nel  corso
del procedimento disciplinare  aperto  a  suo  carico  dal  direttore
dell'istituto scolastico, per  giustificare  l'assenza  avvenuta  nei
giorni 7, 8 e 9 gennaio 2015; 
    che due degli imputati, la sig.ra L. G. e il sig.  R.  M.,  hanno
formulato richiesta di sospensione del processo con messa alla  prova
ai sensi dell'art. 168-bis cod.  pen.,  previa  riqualificazione  del
fatto nell'ipotesi di cui all'art. 481 cod. pen.; 
    che il delitto contestato agli imputati istanti - punito  con  la
reclusione da uno a cinque anni -  non  consentirebbe,  tuttavia,  il
loro accesso alla messa alla prova, ammissibile  soltanto  per  reati
puniti con pena  edittale  detentiva  non  superiore  nel  massimo  a
quattro anni, nonche' per i delitti indicati dall'art. 550, comma  2,
del codice di procedura penale; 
    che, laddove invece la pena prevista per  il  delitto  contestato
agli imputati istanti non superasse i  quattro  anni  di  reclusione,
essi potrebbero essere ammessi alla prova, tenuto conto della «natura
assai contenuta del danno cagionato alla Pubblica  Amministrazione  e
del ruolo rivestito dai soggetti concorrenti  nel  reato,  oltre  che
della loro incensuratezza», dal  che  la  rilevanza  delle  questioni
sollevate; 
    che  le  questioni   sarebbero,   inoltre,   non   manifestamente
infondate, poiche' la disposizione censurata, in violazione dell'art.
3  Cost.,   si   caratterizzerebbe   per   il   «particolare   rigore
sanzionatorio manifestato dal  legislatore»  rispetto  a  fattispecie
quali la truffa aggravata ai danni dello Stato di cui  all'art.  640,
secondo comma, numero 1),  cod.  pen.  e  l'abuso  d'ufficio  di  cui
all'art. 323 cod. pen.; 
    che, ad avviso del rimettente, tale scelta sanzionatoria  darebbe
luogo  ad  un'irragionevole  sperequazione,  esorbitante  dai  limiti
derivanti dai criteri di ragionevolezza, proporzionalita' e coerenza,
contemplando l'indiscriminata applicazione di tale pena  a  qualsiasi
forma di contributo al fatto, prestato anche da soggetti estranei  al
sistema amministrativo e a prescindere dal verificarsi  di  un  danno
patrimoniale; 
    che, per le medesime  ragioni,  la  norma  censurata  sarebbe  in
contrasto anche con il  principio  di  personalita'  e  di  finalita'
rieducativa della pena di cui all'art. 27 Cost., in quanto, impedendo
l'applicazione   di   un   trattamento   sanzionatorio   adeguato   e
proporzionato al singolo  caso  concreto,  aggraverebbe  nel  reo  la
percezione di subire una  condanna  ingiusta  e  gli  impedirebbe  di
comprendere adeguatamente il disvalore della propria condotta; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  che  ha  eccepito  l'inammissibilita'  della  questione   per
irrilevanza, perche' «il problema del giudizio a quo  non  e'  quello
della pena irrogabile nel caso concreto (che consentirebbe al Giudice
di applicare il minimo edittale e ridurlo in virtu'  di  attenuanti),
sibbene quello del massimo edittale  che  non  consente  l'ammissione
all'istituto  della  messa  alla   prova»;   nonche'   la   manifesta
infondatezza  delle  censure,  avendo  il  rimettente   sottovalutato
l'entita' della lesione del bene tutelato dalla norma censurata. 
    Considerato che il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
ordinario di Genova dubita, in riferimento agli artt. 3  e  27  della
Costituzione,    della    legittimita'    costituzionale    dell'art.
55-quinquies del decreto legislativo 30 marzo  2001,  n.  165  (Norme
generali  sull'ordinamento   del   lavoro   alle   dipendenze   delle
amministrazioni  pubbliche),  «nella  parte  in   cui   non   prevede
un'ipotesi attenuata per i casi di minore gravita'»; 
    che della disposizione risulta censurata la previsione  contenuta
nel primo comma, ai sensi del quale,  «[f]ermo  quanto  previsto  dal
codice   penale,   il   lavoratore   dipendente   di   una   pubblica
amministrazione  che  attesta  falsamente  la  propria  presenza   in
servizio, mediante l'alterazione dei  sistemi  di  rilevamento  della
presenza  o  con  altre  modalita'  fraudolente,  ovvero   giustifica
l'assenza dal servizio mediante una  certificazione  medica  falsa  o
falsamente  attestante  uno  stato  di  malattia  e'  punito  con  la
reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro  400  ad  euro
1.600. La medesima pena si applica  al  medico  e  a  chiunque  altro
concorre nella commissione del delitto»; 
    che tale norma, nella parte che viene in rilievo nel  giudizio  a
quo, prevede la pena detentiva della reclusione da uno a cinque anni,
tanto per il dipendente pubblico che giustifica  la  propria  assenza
dal servizio presentando  un  certificato  medico  ideologicamente  o
materialmente falso,  quanto  per  il  medico  che  ha  redatto  tale
certificato e per chiunque abbia concorso nel reato; 
    che   tale   trattamento   sanzionatorio,   e   in    particolare
l'individuazione del massimo edittale nella  pena  detentiva  pari  a
cinque anni di  reclusione,  impedisce  l'applicazione  dell'istituto
della sospensione  del  processo  con  messa  alla  prova,  riservato
dall'art. 168-bis del codice penale  ai  reati  puniti  con  la  pena
pecuniaria o con la  pena  detentiva  non  superiore  nel  massimo  a
quattro anni, sola, congiunta o  alternativa  alla  pena  pecuniaria,
nonche' ai delitti indicati dall'art. 550, comma  2,  del  codice  di
procedura penale; 
    che, secondo il  giudice  a  quo,  il  trattamento  sanzionatorio
previsto dalla disposizione censurata violerebbe l'art. 3 e l'art. 27
Cost.,  determinando  un'irragionevole  disparita'   di   trattamento
rispetto ad altre fattispecie, quali la  truffa  aggravata  ai  danni
dello Stato di cui all'art. 640, secondo comma, numero 1), cod.  pen.
e l'abuso di ufficio di  cui  all'art.  323  cod.  pen.,  alle  quali
l'istituto della messa alla prova risulta invece applicabile; 
    che  il  rimettente  si  duole  in  particolare   della   mancata
previsione di una «ipotesi attenuata» per i casi di  minore  gravita'
e, in  particolare,  per  i  fatti  -  anch'essi  riconducibili  alla
fattispecie   in   esame   -   commessi    da    soggetti    estranei
all'amministrazione pubblica, nonche' per quelli che  abbiano  offeso
in maniera lieve i beni giuridici tutelati dalla norma; 
    che, tuttavia, la locuzione «ipotesi attenuata» si presta  a  una
duplice interpretazione, potendo essa alludere alla previsione  tanto
di una circostanza attenuante, quanto di una fattispecie autonoma che
punisca meno gravemente i fatti di lieve entita'; 
    che  questa  ambiguita'  del  petitum  del  rimettente   non   e'
superabile  alla   luce   delle   motivazioni   contenute   nell'atto
introduttivo; 
    che,  gia'  sotto  tale  profilo,  il  petitum,  in  ragione  del
carattere oscuro della  sua  formulazione,  risulta  affetto  da  una
perplessita' tale da precludere il vaglio nel merito delle  questioni
sollevate (ex multis, sentenze n. 247 del 2015 e n. 184 del 2015); 
    che, peraltro, nessuna delle due possibili  interpretazioni  alle
quali si presta la richiesta  del  rimettente  sarebbe  in  grado  di
consentire a  questa  Corte  un  esame  nel  merito  delle  questioni
sollevate; 
    che,  infatti,  laddove  il  rimettente  avesse  inteso  alludere
all'introduzione di una circostanza  attenuante,  sarebbe  stato  suo
onere chiarire anzitutto in quali termini l'esistenza di  una  simile
circostanza possa  incidere  sul  giudizio  di  ammissibilita'  della
sospensione del processo con messa alla prova, e pertanto  assicurare
rilevanza alle questioni di legittimita' costituzionale  prospettate;
cio', in  particolare,  alla  luce  dell'attuale  orientamento  della
giurisprudenza di legittimita', secondo cui  «il  richiamo  contenuto
nell'art. 168-bis cod. pen. alla pena  detentiva  non  superiore  nel
massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per  la
fattispecie-base,  non  assumendo  a  tal  fine  alcun   rilievo   le
circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e
quelle per cui la legge stabilisce una  pena  di  specie  diversa  da
quella ordinaria del reato»  (Corte  di  cassazione,  sezioni  unite,
sentenza 31 marzo 2016, n. 36272): principio  che  le  Sezioni  unite
deducono essenzialmente dalla mancata menzione delle circostanze  del
reato da parte dell'art.  168-bis  cod.  pen.,  e  che  potrebbe,  in
ipotesi, essere esteso anche alle circostanze attenuanti; 
    che, laddove invece il rimettente avesse ritenuto, rispetto  alle
circostanze  attenuanti,  di  dover  applicare   analogicamente,   in
un'ottica di favor per l'istituto della messa alla prova,  la  regola
espressa in  altre  disposizioni  presenti  nell'ordinamento  -  come
l'art. 131-bis, quarto comma, cod. pen., l'art. 157,  secondo  comma,
cod. pen. e  l'art.  278  cod.  proc.  pen.,  i  quali,  al  fine  di
delimitare lo spazio  applicativo  di  vari  istituti  sostanziali  o
processuali, considerano anche le circostanze per le quali  la  legge
stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e
quelle a effetto speciale - sarebbe stato suo onere precisare che  la
circostanza attenuante di cui pare auspicare  l'introduzione  dovesse
rientrare in una di tali categorie; 
    che l'eventuale richiesta di introduzione di una tale circostanza
attenuante avrebbe dovuto essere comunque corredata  dell'indicazione
di un  idoneo  tertium  comparationis,  che  -  nel  sindacato  sulla
ragionevolezza della disparita' di trattamento tra due fattispecie  -
possa essere utilizzato da questa Corte  come  termine  di  confronto
(sentenza  n.  207  del  2017),  oppure  che  -  nel  giudizio  sulla
ragionevolezza intrinseca della  cornice  edittale  -  individui  una
soluzione sanzionatoria  gia'  operante  nell'ordinamento,  la  quale
permetta  alla  Corte  stessa  di  intervenire  senza   indebitamente
interferire  nella  sfera  delle  scelte  di  politica  sanzionatoria
rimesse al legislatore (sentenza n. 236 del 2016); 
    che, tuttavia, nessuno dei due tertia  comparationis  individuati
dal rimettente risulta idoneo ai fini  appena  indicati:  l'art.  640
cod. pen., infatti, possiede una struttura - articolata attorno a una
fattispecie base e a un sistema di circostanze aggravanti (e non gia'
attenuanti) a efficacia speciale - del tutto diversa da quella che il
rimettente vorrebbe che assumesse la disposizione  impugnata;  mentre
in relazione al delitto di cui  all'art.  323  cod.  pen.  e'  bensi'
prevista dall'art. 323-bis, primo comma, cod.  pen.  una  circostanza
attenuante,  applicabile  alla  generalita'  dei  delitti  contro  la
pubblica amministrazione, per i fatti  di  particolare  tenuita',  la
quale e' tuttavia configurata come circostanza a effetto comune, come
tale certamente inidonea a incidere sulla determinazione  dell'ambito
applicativo della sospensione del processo con messa alla prova; 
    che, per altro verso, inammissibile sarebbe anche la richiesta di
introduzione di una fattispecie autonoma di reato che punisca i fatti
di minore gravita', attualmente sussumibili nella fattispecie di  cui
alla norma censurata, con una pena  contenuta  nel  massimo  entro  i
quattro anni di reclusione; 
    che, anche in questa ipotesi, sarebbe stato onere del  rimettente
individuare un idoneo tertium comparationis a sostegno della  propria
richiesta; 
    che, tuttavia, anche sotto questa diversa prospettiva,  i  tertia
comparationis evocati appaiono del tutto inconferenti, non prevedendo
gli artt. 323 e 640 cod. pen.  alcuna  fattispecie  autonoma  con  un
trattamento sanzionatorio piu' mite per i fatti di minore gravita'; 
    che a tali assorbenti motivi di  inammissibilita'  si  aggiungono
ulteriori  profili  di  imprecisione   e   contraddittorieta'   della
ordinanza di rimessione, i  quali  incidono  sulla  possibilita'  per
questa Corte di verificare la rilevanza delle questioni; 
    che infatti il  rimettente,  pur  avendo  riferito  dell'avvenuta
richiesta della difesa  degli  imputati  di  riqualificare  il  fatto
contestato nel meno grave reato di cui all'art. 481 cod. pen., per il
quale la messa alla prova risulta ammissibile, non ha successivamente
motivato circa l'impossibilita' di accogliere tale richiesta; 
    che, inoltre, il rimettente non ha adeguatamente chiarito  se  la
pronuncia  di  questa  Corte  risulti  pregiudiziale  rispetto   alla
decisione sulla messa alla prova di entrambi  o  solo  di  uno  degli
imputati che ne hanno avanzato richiesta, considerando ad esempio che
il riferimento alla  «loro  incensuratezza»  risulta  contraddittorio
rispetto  alla  contestazione  ad  uno  di  essi  della   circostanza
aggravante della recidiva specifica infraquinquennale; 
    che, infine, in contrasto con  il  principio  di  autosufficienza
dell'atto di rimessione (ordinanza n. 237 del 2016),  risulta  omesso
un adeguato riscontro nel caso concreto di tutti i presupposti legali
di applicazione dell'istituto, tra cui quello,  ricavabile  dall'art.
168-bis,  quarto  comma,  cod.  pen.,  della  mancata  fruizione  del
medesimo istituto in passato da parte degli imputati; 
    che   le   questioni    risultano,    pertanto,    manifestamente
inammissibili. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara  la  manifesta  inammissibilita'  delle   questioni   di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  55-quinquies   del   decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento
del  lavoro  alle  dipendenze   delle   amministrazioni   pubbliche),
sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della  Costituzione,  dal
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale  ordinario  di  Genova
con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2018. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 4 ottobre 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA