N. 197 SENTENZA 4 luglio - 12 novembre 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Ordinamento giudiziario - Disciplina degli illeciti disciplinari  dei
  magistrati - Automatismo della  sanzione  della  rimozione  per  il
  magistrato, condannato in sede disciplinare, per i  fatti  previsti
  dall'art. 3, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 109 del 2006. 
- Decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109,  recante  «Disciplina
  degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni
  e della procedura per  la  loro  applicabilita',  nonche'  modifica
  della disciplina in tema di incompatibilita', dispensa dal servizio
  e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1,
  comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», art.  12,
  comma 5. 
-   
(GU n.45 del 14-11-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'art.  12,  n.  5
(recte: art. 12, comma 5), del decreto legislativo 23 febbraio  2006,
n.  109,  recante  «Disciplina  degli   illeciti   disciplinari   dei
magistrati, delle relative sanzioni e della  procedura  per  la  loro
applicabilita',  nonche'  modifica  della  disciplina  in   tema   di
incompatibilita', dispensa dal servizio e  trasferimento  di  ufficio
dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera  f),  della
legge 25 luglio 2005, n. 150», promossi  dalla  Sezione  disciplinare
del Consiglio superiore della magistratura con due ordinanze  del  12
luglio 2017, iscritte ai numeri 158 e 159 del registro ordinanze 2017
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  46,  prima
serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visti l'atto di costituzione  di  L.  F.,  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nella udienza pubblica del  3  luglio  e  nella  camera  di
consiglio del 4 luglio  2018  il  Giudice  relatore  Franco  Modugno,
sostituito per la redazione della  decisione  dal  Giudice  Francesco
Vigano'; 
    uditi l'avvocato Federico Tedeschini per L. F. e l'avvocato dello
Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 12 luglio 2017 (r.o. n. 159 del  2017),  la
Sezione disciplinare del Consiglio superiore  della  magistratura  ha
sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di
legittimita' costituzionale «dell'art. 12  n.  5»  (recte:  art.  12,
comma 5) del decreto legislativo 23 febbraio 2006,  n.  109,  recante
«Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei   magistrati,   delle
relative sanzioni e  della  procedura  per  la  loro  applicabilita',
nonche'  modifica  della  disciplina  in  tema  di  incompatibilita',
dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio  dei  magistrati,  a
norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f),  della  legge  25  luglio
2005, n. 150», «nella parte in cui prevede  in  via  obbligatoria  la
sanzione della rimozione per il magistrato che sia  stato  condannato
in sede disciplinare per i fatti previsti dall'art. 3, lett. e)», del
medesimo d.lgs. n. 109 del 2006. 
    1.1.- Il giudice rimettente premette di procedere  nei  confronti
di  una   magistrata,   incolpata   di   un   illecito   disciplinare
riconducibile alla ipotesi di cui all'art. 3, comma  1,  lettera  e),
del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale prevede che costituisce illecito
disciplinare al di fuori dell'esercizio delle  funzioni,  l'ottenere,
direttamente o indirettamente, prestiti o  agevolazioni  da  soggetti
che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o
civili pendenti presso l'ufficio giudiziario di appartenenza o presso
altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d'appello nel quale
esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai  difensori  di  costoro,
nonche'  ottenere,  direttamente   o   indirettamente,   prestiti   o
agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti  offese  o
testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti. 
    In particolare, alla  magistrata  incolpata,  in  servizio  quale
sostituto  procuratore  della  Repubblica,  e'  contestato  di  avere
ottenuto da un imprenditore, che sapeva  essere  indagato  presso  il
proprio  ufficio  di  appartenenza  per  il  delitto  di   bancarotta
fraudolenta, vantaggi  indiretti  (consistenti  nel  conferimento  al
proprio coniuge di un  contratto  per  un  corrispettivo  mensile  di
100.000 euro e, comunque, remunerato con la dazione di un importo non
inferiore a 180.000 euro) e diretti (costituiti da numerosi soggiorni
in lussuose abitazioni, viaggi in aereo privato, una borsa del valore
di 700 euro e una festa di compleanno del valore di 2.056  euro).  La
magistrata in questione, imputata in relazione ai medesimi fatti  per
il delitto di cui all'art. 317 cod. pen., e' stata  peraltro  assolta
in sede penale dalla relativa imputazione, non essendo stata ritenuta
provata, in relazione  ai  vantaggi  ottenuti,  alcuna  sua  condotta
costrittiva ne' meramente  induttiva  (in  relazione  alla  possibile
derubricazione nel delitto di cui all'art. 319-quater cod. pen.)  nei
confronti dell'imprenditore. 
    La sanzione disciplinare applicabile per tale ipotesi di illecito
e', in via obbligatoria, quella della rimozione,  a  norma  dell'art.
12, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006. 
    1.2.- Reputa il giudice disciplinare  che  l'obbligatorieta'  che
caratterizza tale sanzione risulti in contrasto con il  principio  di
ragionevolezza,  in  quanto  fondata  su  una  presunzione  assoluta,
svincolata  da  qualsiasi  apprezzamento  di  proporzionalita'  e  di
«indispensabile   gradualita'    sanzionatoria»,    secondo    quanto
ripetutamente affermato da questa Corte nella propria giurisprudenza. 
    Sottolinea la Sezione rimettente di essere consapevole dell'ampia
discrezionalita' di  cui  gode  il  legislatore  nello  stabilire  le
condotte punibili e le sanzioni applicabili, ma cio' nei limiti della
non manifesta irragionevolezza, derivante  dalla  giusta  proporzione
tra illecito commesso e sanzione applicabile. 
    Tuttavia - sottolinea l'ordinanza di rimessione - e' proprio  sul
versante della  compatibilita'  tra  infrazione  e  prosecuzione  del
rapporto di impiego che la giurisprudenza costituzionale ha affermato
che  l'infrazione  deve  essere  valutata  senza  alcun  automatismo,
graduando la sanzione in rapporto al caso  concreto.  Cio'  in  piena
conformita',  secondo  la   Sezione   rimettente,   con   la   stessa
giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo la quale la  scelta
della sanzione da applicare deve essere effettuata non  in  astratto,
ma in concreto, alla luce di tutte le circostanze  del  caso,  specie
la' dove  venga  in  considerazione  la  piu'  grave  sanzione  della
rimozione, la quale presuppone che l'illecito sia di tale gravita' da
far ritenere inadeguata qualsiasi altra sanzione in riferimento  alla
tutela dei valori che si intendono salvaguardare  (in  questo  senso,
Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze n. 23778 del 24 novembre
2010 e n. 15399 del 15 ottobre 2003). 
    A sostegno della propria prospettazione,  la  Sezione  rimettente
invoca inoltre la sentenza della  Corte  costituzionale  n.  170  del
2015,  che  censuro'  l'automatismo  della  sanzione  accessoria  del
trasferimento d'ufficio del magistrato nell'ipotesi di  sua  condanna
per l'illecito disciplinare previsto dall'art. 2,  comma  1,  lettera
a), del d.lgs.  n.  109  del  2006,  ritenendo  che  tale  meccanismo
privasse irragionevolmente il giudice  disciplinare  di  ogni  potere
discrezionale in relazione all'adeguatezza della sanzione  accessoria
alla consistenza e gravita'  delle  svariate  condotte  riconducibili
alla previsione normativa allora all'esame. 
    Per  altro   verso   -   prosegue   la   Sezione   rimettente   -
l'irragionevolezza della  obbligatoria  applicazione  della  sanzione
piu' grave risalterebbe ancor di piu' a causa della  «genericita'  ed
elasticita'» che caratterizzano le ipotesi di  agevolazione  previste
dall'art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006. 
    E' ben vero che questa Corte, nella sentenza n. 112 del 2014,  ha
ritenuto non fondata una  questione  di  legittimita'  costituzionale
riguardante l'art. 8, primo comma, lettera c), del d.P.R. 25  ottobre
1981,   n.   737   (Sanzioni   disciplinari    per    il    personale
dell'Amministrazione di pubblica  sicurezza  e  regolamentazione  dei
relativi procedimenti), che prevede la destituzione  di  diritto  dai
ruoli della amministrazione  della  pubblica  sicurezza  in  caso  di
applicazione di una misura di  sicurezza  di  cui  all'art.  215  del
codice penale,  sottolineando  come  le  peculiarita'  connesse  alle
funzioni esercitate  giustifichino  una  disciplina  che  valuti  con
particolare  rigore  la  condotta   degli   appartenenti   a   quella
amministrazione. Ma tali rilievi, secondo la Sezione rimettente,  non
potrebbero essere evocati come precedente contrario, in  quanto,  nel
caso  allora  scrutinato,  veniva  in   discorso   un   giudizio   di
pericolosita' sociale, derivante dalla applicazione di una misura  di
sicurezza, ostativa alla permanenza del rapporto di impiego. 
    1.3.-  Ulteriore  aspetto  di  irragionevolezza  dell'automatismo
censurato sarebbe desumibile  dalla  diversa  gravita'  dell'illecito
disciplinare di cui all'art. 3, comma 1, lettera e),  del  d.lgs.  n.
109 del 2006 rispetto alle altre ipotesi  per  le  quali  l'art.  12,
comma 5, dello stesso decreto prevede la sanzione della rimozione,  e
cioe' da un lato l'interdizione dai  pubblici  uffici  in  seguito  a
condanna penale, e  dall'altro  la  condanna  a  pena  detentiva  per
delitto non colposo non inferiore ad un anno, la cui  esecuzione  non
sia stata sospesa ai sensi degli artt. 163 e 164 cod. pen., o per  la
quale sia  intervenuto  provvedimento  di  revoca  della  sospensione
condizionale ai sensi dell'art. 168 cod. pen. Entrambe  tali  ipotesi
presuppongono infatti una condanna  che  accerta  la  commissione  di
reati, mentre le violazioni di cui all'art. 3, comma 1,  lettera  e),
del decreto legislativo citato non presentano necessariamente rilievo
penale. 
    1.4.- La disposizione censurata sarebbe, infine, irragionevole in
quanto   assoggetterebbe   a   trattamento    deteriore    l'illecito
disciplinare di cui all'art. 3, comma  1,  lettera  e),  del  decreto
legislativo  citato  rispetto  ad  altre  ipotesi  caratterizzate  da
maggior  disvalore  dal  punto  di  vista  deontologico.  La  Sezione
rimettente richiama in particolare quella prevista dall'art. 3, comma
1, lettera a), del decreto legislativo  medesimo,  riguardante  l'uso
della qualita' di magistrato per ottenere vantaggi ingiusti per se' o
per altri, punita con la sanzione non inferiore alla censura, o  alla
perdita di anzianita' se abituale e grave, ove viene in  risalto  uno
sviamento della funzione di magistrato che non  costituisce,  invece,
elemento costitutivo della fattispecie oggetto del  giudizio  a  quo;
nonche' quella di cui all'art. 3, comma 1, lettera b), per  la  quale
e' comminata la sanzione minima della perdita di  anzianita',  e  che
consiste nel frequentare persona sottoposta a procedimento  penale  o
di prevenzione comunque trattato dal  magistrato,  o  persona  che  a
questi  consti  essere   stata   dichiarata   delinquente   abituale,
professionale o per tendenza o aver subito condanna per  delitti  non
colposi alla pena della reclusione superiore  a  tre  anni  o  essere
sottoposto ad una misura  di  prevenzione,  ovvero  nell'intrattenere
rapporti consapevoli di affari con una di tali persone. 
    Tali disposizioni assurgono, secondo la  Sezione  rimettente,  ad
altrettanti tertia comparationis cui sarebbe  ragionevole  uniformare
la sanzione dell'illecito disciplinare qui in  discussione,  fornendo
«il  dato,  rinvenibile  nel  sistema  legislativo,  al  quale   fare
riferimento  [...]  per  eliminare  la   manifesta   irragionevolezza
denunciata senza che il giudice delle leggi  sovrapponga  la  propria
discrezionalita' a quella del legislatore». 
    1.5.- La questione prospettata, conclude la  Sezione  rimettente,
sarebbe  rilevante,  in  quanto  l'automatismo  che  caratterizza  la
sanzione non consentirebbe al giudice disciplinare di  apprezzare  se
la condotta del magistrato incolpato «abbia attinto la  soglia  della
massima offensivita', avuto riguardo al diverso livello di  disvalore
ipotizzabile in  ragione  del  differente  atteggiarsi  dell'elemento
soggettivo, tenuto  anche  conto  del  rapporto  di  amicizia  tra  i
soggetti coinvolti, che, piu' che lo status di  magistrato,  potrebbe
essere stato all'origine della vicenda, nonche'  dell'essere  rivolta
l'agevolazione definita indiretta nel capo di incolpazione  (peraltro
potenzialmente intesa  a  compensare  un'attivita'  professionale  di
valore non definito)  non  gia'  alla  magistrata  incolpata,  ma  al
coniuge della stessa (tra l'altro poi separatosi da lei)». 
    2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri, rappresentato e  difeso  dalla  Avvocatura  generale  dello
Stato,  che  ha  concluso  chiedendo  dichiararsi  inammissibile  per
irrilevanza e, comunque, infondata la questione. 
    Reputa infatti l'Avvocatura che  la  Sezione  rimettente  avrebbe
omesso  di  dimostrare  che  il  fatto  addebitato  alla   magistrata
incolpata non fosse di tale gravita' da meritare la massima sanzione.
La carenza  di  tale  apprezzamento  nella  ordinanza  di  rimessione
renderebbe irrilevante la questione proposta. 
    Nel merito, la questione sarebbe comunque  infondata,  in  quanto
non risulterebbe ne' illogico ne' sproporzionato che  il  legislatore
stabilisca l'applicazione della sanzione  della  rimozione  «per  una
pluralita' di condotte, unite tutte dalla violazione dei fondamentali
principi  di  terzieta'  ed  imparzialita'   che   devono   connotare
l'esercizio delle funzioni di magistrato». 
    3.-  Si  e'  costituita  in  giudizio  la  magistrata  incolpata,
concludendo per la «irrilevanza, l'inammissibilita' e  l'infondatezza
della questione di costituzionalita' prospettata  e  per  l'eventuale
adozione di una pronuncia interpretativa di rigetto». 
    3.1.-  Ritiene  anzitutto  la  parte  privata  che   la   Sezione
disciplinare rimettente avrebbe errato  nella  interpretazione  della
norma censurata, in quanto l'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109  del
2006, nel prevedere  la  sanzione  della  rimozione,  condizionerebbe
l'applicazione di tale  sanzione  alla  ricorrenza  di  due  distinti
presupposti, da intendersi quali cumulativi: da un lato,  una  previa
condanna in sede disciplinare per fatti di cui all'art. 3,  comma  1,
lettera e), del medesimo  decreto  legislativo;  e,  dall'altro,  una
condanna penale alla interdizione perpetua o temporanea dai  pubblici
uffici, ovvero una condanna a pena detentiva per delitto non  colposo
non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia  stata  sospesa,  o
per la quale sia intervenuta revoca della  sospensione  condizionale.
Condizioni cumulative, queste, insussistenti  nella  specie,  essendo
stata  la  magistrata  incolpata   assolta   in   sede   penale   per
insussistenza del fatto, e  non  avendo  la  medesima  sinora  subito
sanzioni da parte del  Consiglio  superiore  della  magistratura  per
violazioni dell'art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs.  n.  109  del
2006. 
    Ad avviso della  parte  privata,  la  lettura  restrittiva  della
disposizione denunciata sarebbe anzitutto suggerita dalla  diversita'
dei tempi verbali «sia stato» ed  «incorre»  con  le  quali  essa  si
riferisce, rispettivamente, alla  condanna  del  Consiglio  superiore
della magistratura e a quella pronunciata dal giudice penale. 
    La parte privata rileva, altresi', che allorche'  il  legislatore
ha inteso prevedere fattispecie alterative di  illecito  disciplinare
che danno luogo alla rimozione, lo ha fatto inserendo la  disgiuntiva
«o»  (che  per  l'appunto  separa  la   statuizione   relativa   alla
«interdizione perpetua o temporanea» rispetto a quella relativa  alla
«condanna a pena  detentiva»);  mentre  la  menzione  della  condanna
disciplinare per le violazioni di cui all'art. 3,  comma  1,  lettera
e), del d.lgs. n. 109 del 2006 e' separata da  una  semplice  virgola
dalla menzione delle ipotesi della interdizione e  della  condanna  a
pena detentiva. 
    Tale lettura della norma censurata risulterebbe avvalorata  anche
dal raffronto, in termini di gravita', tra l'illecito disciplinare di
cui alla citata lettera e) dell'art. 3 del d.lgs. n. 109 del  2006  e
altri illeciti previsti dallo stesso articolo  per  i  quali  non  e'
prevista la rimozione, quale l'illecito descritto nella  lettera  i),
ove si evoca addirittura la  strumentalizzazione  della  qualita'  di
magistrato    per    condizionare     l'esercizio     di     funzioni
costituzionalmente previste. 
    Nello stesso senso militerebbe,  inoltre,  anche  la  complessiva
struttura del Capo I del d.lgs. n.  109  del  2006,  posto  che  alla
individuazione   delle   sanzioni   tipizzate   dall'art.    5    non
corrispondono, con  altrettanta  precisione,  le  condotte  descritte
negli artt. 2, 3 e 4. In sostanza, il legislatore si sarebbe limitato
a  «declinare  i  profili  di  sostanziale  gravita'  delle  condotte
rispetto al grado di importanza afflittiva delle misure  contemplate,
evidentemente  riservando  alla   fondamentale   ed   imprescindibile
"mediazione" del procedimento disciplinare la valutazione in concreto
della determinazione punitiva da emettere», tenuto anche conto  della
notevole genericita'  che  caratterizzerebbe  le  previsioni  dettate
dalle lettere a), b) ed e) del citato art. 3. 
    Tale interpretazione sarebbe, del resto, rispettosa dei  principi
di proporzionalita' e adeguatezza, desumibili dalla giurisprudenza di
questa Corte, che ha  affermato  la  legittimita'  della  irrogazione
automatica della sanzione disciplinare della  destituzione  solo  nei
casi  in  cui  la  sanzione  penale  risulti  incompatibile  con   il
mantenimento del rapporto di impiego o di servizio. 
    Nella specie, dunque, il Consiglio superiore  della  magistratura
si   sarebbe   astenuto    dal    ricercare    una    interpretazione
costituzionalmente compatibile della  disposizione  censurata,  senza
offrire adeguata motivazione  circa  le  ragioni  per  le  quali  una
siffatta   interpretazione   non   era   praticabile.   Di   qui   la
sollecitazione rivolta a  questa  Corte  ad  adottare  una  pronuncia
interpretativa costituzionalmente orientata,  la  cui  praticabilita'
sarebbe «sfuggita al giudice disciplinare remittente». 
    3.2.- Secondo la parte privata, il giudice a quo avrebbe  inoltre
omesso di valutare alcuni aspetti derivanti dal  procedimento  penale
che  ha  riguardato  la  magistrata  incolpata,  e  che  renderebbero
irrilevante la questione  proposta.  Nella  sentenza  di  assoluzione
pronunciata nei suoi  confronti  e'  stata  infatti  esclusa  la  sua
responsabilita' non solo per il delitto contestato di concussione  di
cui all'art. 317 cod. pen., ma anche la possibilita' di riqualificare
i fatti a lei addebitati ai sensi della meno grave ipotesi delittuosa
di cui all'art. 319-quater cod. pen.,  la  cui  fattispecie  astratta
sarebbe «sostanzialmente speculare» a quella descritta dalla  lettera
e) dell'art. 3 del d.lgs. n. 109 del 2006,  per  la  quale  e'  stata
mossa la contestazione disciplinare oggetto del procedimento  a  quo.
Il che - conclude la difesa della  parte  privata  -  avrebbe  dovuto
indurre il giudice disciplinare a disporre l'immediata  archiviazione
del procedimento, stante  la  piena  sovrapponibilita'  tra  i  fatti
oggetto  dal  giudicato  assolutorio  e  quelli  contestati  in  sede
disciplinare. 
    4.- La parte privata ha  depositato,  in  data  11  giugno  2018,
memoria  nella  quale  insiste  nelle  conclusioni  gia'  rassegnate,
sostanzialmente riproponendo gli argomenti gia' sviluppati  nell'atto
di costituzione. 
    5.- Questione identica nel petitum a quella riferita al punto  1)
e' stata sollevata dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore
della magistratura con ordinanza del 12 luglio 2017 (r.o. n. 158  del
2017), nel corso di un giudizio disciplinare promosso  nei  confronti
di un magistrato in relazione a vari illeciti disciplinari,  uno  dei
quali riconducibile alla fattispecie di  cui  all'art.  3,  comma  1,
lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006. 
    In particolare, al magistrato incolpato, in servizio  presso  una
Procura della Repubblica, e' contestato di  avere  ottenuto,  da  una
persona  che  sapeva  essere  sottoposta  dalla  stessa   Procura   a
procedimento penale per il delitto di  associazione  per  delinquere,
l'uso gratuito, per un arco temporale di circa due anni e  mezzo,  di
un  attico  ammobiliato,  il  cui  canone  di  locazione  -  pari   a
complessivi 32.000 euro - veniva corrisposto  al  proprietario  dalla
stessa  persona  imputata,  tramite  una  societa'   a   quest'ultima
riconducibile. 
    5.1.- Dopo aver riproposto tutti gli argomenti gia' esposti nella
precedente ordinanza, la Sezione rimettente ribadisce anche in questo
caso, in punto di rilevanza, che l'automatismo  che  caratterizza  la
sanzione della rimozione «non consente di apprezzare se  la  condotta
dello  stesso  incolpato  abbia  attinto  la  soglia  della   massima
offensivita',  avuto  riguardo  al  diverso  livello   di   disvalore
ipotizzabile in  ragione  del  differente  atteggiarsi  dell'elemento
soggettivo, considerando  altresi'  che  l'incolpato,  magistrato  di
prima  nomina  chiamato  a  svolgere  le  delicate  funzioni  in   un
importante Ufficio di  Procura,  aveva  un  consolidato  rapporto  di
amicizia con il soggetto che  gli  aveva  garantito  le  agevolazioni
prima ancora di entrare in magistratura». 
    6.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri, rappresentato e  difeso  dalla  Avvocatura  generale  dello
Stato, che ha rassegnato conclusioni identiche a quelle riassunte  al
punto 2). 
    7.- La parte privata non si e' costituita. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con due ordinanze di identico contenuto quanto ai profili che
attengono al  presente  giudizio  di  costituzionalita',  la  Sezione
disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha sollevato,
in riferimento all'art. 3 della Costituzione,  altrettante  questioni
di legittimita' costituzionale «dell'art. 12 n. 5» (recte:  art.  12,
comma 5) del decreto legislativo 23 febbraio 2006,  n.  109,  recante
«Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei   magistrati,   delle
relative sanzioni e  della  procedura  per  la  loro  applicabilita',
nonche'  modifica  della  disciplina  in  tema  di  incompatibilita',
dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio  dei  magistrati,  a
norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f),  della  legge  25  luglio
2005, n. 150», «nella parte in cui prevede  in  via  obbligatoria  la
sanzione della rimozione per il magistrato che sia  stato  condannato
in sede disciplinare per i fatti previsti dall'art. 3, lett. e)», del
medesimo decreto legislativo. 
    2.-  Preliminarmente,  deve  essere  disposta  la  riunione   dei
presenti giudizi, che propongono identiche questioni di  legittimita'
costituzionale. 
    3.- L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce  che  la  Sezione
disciplinare rimettente non avrebbe sufficientemente  motivato  sulla
rilevanza della questione, omettendo di chiarire per quali ragioni  i
fatti  addebitati  ai  due  magistrati  incolpati  risultassero,   in
concreto,  non  cosi'  gravi  da   meritare   la   massima   sanzione
disciplinare della rimozione. 
    L'eccezione e' infondata. 
    Entrambe le ordinanze si peritano, infatti, di  chiarire  che  la
gravita'  dei  fatti  addebitati  agli  incolpati  non  consente   di
applicare nei loro confronti la previsione di cui all'art. 3-bis  del
d.lgs. n. 109 del 2006, che esclude la configurabilita' dell'illecito
disciplinare quando il fatto e' di scarsa  rilevanza;  e  aggiungono,
non implausibilmente, che l'automatismo della sanzione  prevista  dal
legislatore non consente al giudice disciplinare di apprezzare se  la
condotta dello stesso incolpato abbia in concreto attinto  la  soglia
massima di  offensivita'.  Proprio  l'automatismo  legislativo  nella
previsione  della  sanzione,  censurato  dalla  Sezione   rimettente,
impedisce in altre parole  alla  sezione  stessa  di  procedere  alla
valutazione in concreto della gravita', oggettiva e  soggettiva,  dei
fatti addebitati ai  due  incolpati;  valutazione  che,  invece,  ben
potrebbe essere compiuta ove tale automatismo fosse rimosso da questa
Corte, in accoglimento della prospettata  questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    4.-  La   parte   privata   L.   F.   eccepisce   a   sua   volta
l'inammissibilita' della questione prospettata, dal  momento  che  la
Sezione  rimettente  non  avrebbe   esperito   alcun   tentativo   di
interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata.
Segnatamente, il giudice a quo avrebbe omesso di considerare che,  in
base a una interpretazione  letterale  e  sistematica  dell'art.  12,
comma 5, del d.lgs. n. 109 del  2006,  la  sanzione  della  rimozione
dovrebbe essere  disposta  soltanto  in  presenza  di  due  requisiti
cumulativi: da un lato, una previa condanna in sede disciplinare  del
magistrato per l'illecito di cui all'art. 3, comma 1, lettera e), del
medesimo decreto; dall'altro, una sua  successiva  condanna  in  sede
penale all'interdizione perpetua o temporanea  dai  pubblici  uffici,
ovvero una sua condanna a pena detentiva per delitto non colposo  non
inferiore a un anno, la cui esecuzione non sia stata sospesa,  o  per
la quale sia intervenuto provvedimento di  revoca  della  sospensione
condizionale. 
    L'eccezione e', parimenti, infondata. 
    Il  dato  testuale  della  disposizione  censurata  e',   invero,
ambiguo. A fornire qualche  supporto  all'interpretazione  propugnata
dalla parte privata non e' tanto l'omesso uso della  disgiuntiva  «o»
tra la menzione della  condanna  disciplinare,  e  quelle  successive
della condanna, in sede penale, alla interdizione dai pubblici uffici
o a pena detentiva non sospesa. In effetti, in un'elencazione di  tre
distinte ipotesi alternative, e' del tutto normale che le  prime  due
ipotesi siano separate da una semplice virgola,  e  che  soltanto  la
seconda e la terza siano separate dalla congiunzione disgiuntiva «o».
Cio' che conferisce, almeno prima facie, plausibilita'  alla  lettura
della parte privata e', piuttosto, l'uso di due diversi tempi verbali
- il congiuntivo passato «sia stato  condannato»  in  relazione  alla
prima ipotesi, e l'indicativo presente «incorre» con riferimento alla
seconda e alla terza -, che  farebbe  effettivamente  pensare  a  una
sorta di fattispecie di illecito a formazione complessa,  in  cui  la
massima sanzione della rimozione  dovrebbe  conseguire  a  una  prima
condanna in sede disciplinare, seguita da  un'ulteriore  condanna  in
sede penale per i medesimi fatti. 
    Una tale interpretazione e' tuttavia insostenibile,  per  plurime
ragioni. 
    Anzitutto, se la sanzione della rimozione fosse prevista  -  come
sostiene la parte privata - soltanto in conseguenza  di  entrambe  le
condanne, in sede disciplinare prima e  penale  poi,  la  conseguenza
paradossale sarebbe che, a fronte di una condotta di elevata gravita'
come quella disciplinata dall'art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs.
n. 109 del 2006, ma in difetto  di  condanna  penale  per  lo  stesso
fatto, non sarebbe prevista per  il  magistrato  che  abbia  commesso
l'illecito alcuna sanzione minima, potendo  pertanto  applicarsi  nei
suoi confronti anche un mero ammonimento. 
    D'altra parte,  la  lettura  propugnata  dalla  parte  privata  -
desumendo dall'uso dei tempi verbali da  parte  del  legislatore  una
rigida  scansione  temporale  tra  previa  condanna  disciplinare   e
successiva condanna penale  -  non  consentirebbe,  assurdamente,  di
applicare la disposizione nell'ipotesi  in  cui  la  condanna  penale
preceda quella  disciplinare,  anziche'  intervenire  in  un  momento
posteriore, come nel caso cui si riferisce  l'ordinanza  n.  158  del
2017; e cio' a fronte della palese equivalenza di disvalore delle due
ipotesi. 
    Ma soprattutto, sostenendo la natura cumulativa  dei  presupposti
della  condanna  disciplinare  e  di  quella  penale  ai  fini  della
rimozione,  la  tesi  della  parte   privata   conduce   all'illogica
conseguenza  che,  a  far  scattare  la  sanzione   della   rimozione
obbligatoria - prevista, nell'intero impianto del d.lgs. n.  109  del
2006, soltanto  dalla  disposizione  qui  censurata  -,  non  sarebbe
sufficiente che il magistrato incorra in una condanna penale  che  ne
comporti l'interdizione dai pubblici uffici, ovvero in una condanna a
pena detentiva non condizionalmente sospesa, occorrendo altresi'  che
i fatti per i quali il magistrato  sia  stato  penalmente  condannato
integrino anche l'illecito disciplinare di cui all'art. 3,  comma  1,
lettera  e),  del  d.lgs.  n.  109  del  2006.  Conseguenza,  questa,
anch'essa palesemente assurda, posto  che  impedirebbe  di  ravvisare
un'ipotesi di rimozione obbligatoria - ad esempio - nel caso  in  cui
il  magistrato  venisse  condannato  per   reati   gravissimi,   come
l'omicidio volontario o  la  violenza  sessuale,  le  cui  rispettive
fattispecie astratte tuttavia nulla  hanno  a  che  fare  con  quella
dell'illecito disciplinare di cui e' discorso. 
    Deve, pertanto,  concludersi  che  il  legislatore  abbia  inteso
stabilire in ogni  caso  la  rimozione  obbligatoria  del  magistrato
allorche' sopravvenga nei suoi confronti  una  sentenza  di  condanna
pronunciata  in  sede  penale  che  ne  comporti  l'interdizione  dai
pubblici uffici (pena accessoria, questa, la cui  esecuzione  risulta
all'evidenza incompatibile con l'esercizio delle funzioni giudiziarie
per tutto il tempo  in  cui  essa  opera),  ovvero  una  sentenza  di
condanna a pena detentiva non sospesa (sin dall'inizio, o  a  seguito
di revoca  della  sospensione  gia'  concessa).  A  tali  ipotesi  il
legislatore  medesimo  ha  affiancato  quella  della   condanna   del
magistrato per l'illecito disciplinare di cui all'art.  3,  comma  1,
lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, considerato evidentemente  di
speciale gravita' rispetto  alla  generalita'  degli  altri  illeciti
disciplinati dal decreto legislativo medesimo,  e  in  ogni  caso  di
gravita' tale da giustificare l'obbligatorieta' della  rimozione  del
magistrato che se ne renda responsabile. 
    Che poi tale valutazione legislativa risulti ragionevole al metro
dell'art. 3 Cost., e comunque proporzionata  rispetto  alla  gravita'
dell'illecito - cio' che e' contestato dalla parte privata -  attiene
evidentemente al merito della questione qui prospettata, e  non  gia'
al dedotto profilo di  inammissibilita'  per  omesso  esperimento  di
interpretazione  costituzionalmente   conforme   della   disposizione
censurata. 
    5.- Sempre in via preliminare, la parte privata L.  F.  eccepisce
che la Sezione rimettente avrebbe omesso di esplicitare, in punto  di
rilevanza, le ragioni della sussistenza degli  estremi  dell'illecito
disciplinare di cui all'art. 3, comma 1, lettera e),  del  d.lgs.  n.
109 del 2006 nei medesimi fatti storici che erano gia' stati  oggetto
di una pronuncia  assolutoria  in  sede  penale,  nella  quale  -  in
particolare - era stata esclusa la ricorrenza non solo del delitto di
concussione, ma anche di quello meno grave di  induzione  indebita  a
dare o promettere utilita',  che  a  suo  avviso  avrebbe  un  ambito
applicativo  sostanzialmente  coincidente  con  quello  dell'illecito
disciplinare in parola. 
    Anche tale eccezione e' infondata. 
    L'assunto relativo alla pretesa  sovrapponibilita'  tra  l'ambito
applicativo del delitto di induzione indebita  a  dare  o  promettere
utilita' e l'illecito di cui all'art. 3, comma  1,  lettera  e),  del
d.lgs. n. 109  del  2006  e',  infatti,  insostenibile,  sol  che  si
consideri che la fattispecie dell'illecito disciplinare non  richiede
- a differenza di quanto previsto  dall'art.  319-quater  del  codice
penale - alcuna condotta di abuso delle qualita' o  dei  poteri,  ne'
pretende che sia il pubblico ufficiale ad  avere  "indotto"  altri  a
dare o promettere denaro o altre utilita' indebite. Ne  consegue  che
tale illecito ben puo' configurarsi anche ove, come nel caso concreto
oggetto del giudizio a quo, l'incolpato sia  stato  assolto  in  sede
penale dall'accusa di induzione indebita. 
    6.-  Nel  merito,  le   questioni   prospettate   dalla   Sezione
disciplinare del Consiglio  superiore  della  magistratura  non  sono
fondate. 
    In sintesi,  le  due  questioni  assumono  un  contrasto  tra  la
disposizione censurata e l'art. 3 Cost. sotto tre  distinti  profili:
a) un difetto di  ragionevolezza  intrinseca,  connesso  all'allegato
difetto  di  proporzionalita'  della  sanzione  disciplinare  massima
prevista dall'ordinamento, in  relazione  all'automatismo  della  sua
applicazione  per  tutte  le  ipotesi  concrete  riconducibili   alla
previsione di cui all'art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n.  109
del 2006; b) una disparita' di trattamento per cosi' dire  "interna",
derivante dall'equiparazione, compiuta dalla disposizione denunciata,
fra tre distinte ipotesi connotate da  disvalore  assai  diverso,  ma
accomunate  dal  legislatore  sotto  il  profilo   dell'idoneita'   a
determinare l'automatica applicazione della sanzione della rimozione;
c) una  disparita'  di  trattamento  "esterna",  tra  il  trattamento
riservato all'illecito disciplinare  di  cui  all'art.  3,  comma  1,
lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006 e quello  riservato  ad  altre
ipotesi  di  illecito  disciplinare  previste  dallo  stesso  decreto
legislativo, e asseritamente piu' gravi  (ma  per  le  quali  non  e'
comminata la sanzione obbligatoria della rimozione). 
    Per  comodita'  di  trattazione,  si  procedera'  ad   analizzare
anzitutto gli allegati profili  di  disparita'  di  trattamento,  per
riservare  il  vaglio  conclusivo  ai  profili  di   irragionevolezza
intrinseca. 
    7.- Prendendo le mosse dall'allegata  disparita'  di  trattamento
"esterna" - valutata,  dunque,  in  relazione  ad  altre  ipotesi  di
illecito disciplinare delineate dal d.lgs. n. 109 del 2006 oggetto di
un  trattamento  sanzionatorio  piu'   favorevole   -,   va   esclusa
l'idoneita' dei tertia comparationis evocati dalla Sezione rimettente
a porre in dubbio la legittimita' della scelta sanzionatoria compiuta
dal legislatore. 
    L'illecito disciplinare di cui all'art. 3, comma 1,  lettera  e),
del d.lgs. n. 109 del 2006 e' funzionale a  tutelare  il  corretto  e
imparziale esercizio della funzione giurisdizionale contro il rischio
di distorsioni causate dall'avere ricevuto il magistrato  prestiti  o
agevolazioni da soggetti che il magistrato stesso sa essere  parti  o
indagati in procedimenti pendenti  presso  l'ufficio  giudiziario  di
appartenenza o in altro ufficio del medesimo  distretto  giudiziario,
ovvero - laddove tali  prestiti  e  agevolazioni  siano  concessi  «a
condizioni di eccezionale favore» -  da  parti  offese,  testimoni  o
comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti. Il  legislatore
vuole evitare, all'evidenza, che il magistrato possa sentirsi indotto
a  "restituire  il  favore"  a  chi  gli  abbia   fornito   benefici,
attivandosi in prima persona, ovvero intervenendo su  altri  colleghi
del medesimo distretto, a sostegno  degli  interessi  di  costui.  Al
tempo stesso, la legge intende tutelare l'immagine  di  imparzialita'
della funzione giudiziaria, e la connessa fiducia della societa'  nel
suo  corretto   svolgimento,   che   potrebbero   essere   gravemente
compromesse laddove la notizia della ricezione dei prestiti  o  delle
agevolazioni divenisse di comune dominio. 
    Quanto meno disomogeneo  rispetto  a  tale  ratio  appare  allora
l'illecito disciplinare previsto dall'art. 3, comma  1,  lettera  a),
del decreto legislativo in parola, che e' integrato  dall'«uso  della
qualita' di magistrato al fine di conseguire  vantaggi  ingiusti  per
se' o per altri», e che la  Sezione  rimettente  invoca  quale  primo
tertium  comparationis.   Quest'ultimo   illecito   prescinde   dalla
posizione di parte, indagato, parte offesa o testimone  del  soggetto
che  elargisce  al  magistrato  i  vantaggi  ingiusti;   di   talche'
l'illecito si presta ad essere applicato anche a  condotte  che,  per
quanto inappropriate  e  rilevanti  sotto  il  profilo  disciplinare,
presentano un grado assai  minore  di  disvalore,  come  la  spendita
(esplicita o implicita) della propria qualifica per  ottenere  sconti
sui beni acquistati o prestazioni gratuite una tantum. 
    Parimenti connotato  da  un  disvalore  non  comparabile  con  la
disposizione  censurata  appare  l'ulteriore  tertium  evocato  dalla
Sezione rimettente, rappresentato dall'illecito di  cui  all'art.  3,
comma 1,  lettera  b),  del  decreto  legislativo  medesimo,  che  e'
integrato  da  condotte  come  il  «frequentare»  o   l'«intrattenere
rapporti consapevoli di affari» con persone sottoposte a procedimento
penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato, ovvero  che
abbiano subito condanne superiori a una certa soglia di  gravita',  o
che siano  effettivamente  state  destinatarie  di  provvedimenti  di
prevenzione. L'illecito, per il quale l'art. 12, comma 2, lettera c),
commina  la  sanzione  disciplinare  non   inferiore   alla   perdita
dell'anzianita',    non    presuppone    infatti    indefettibilmente
l'ottenimento di specifici  vantaggi  o  agevolazioni  da  parte  del
magistrato;  di  talche'  il  disvalore   di   questo   illecito   e'
essenzialmente  incentrato   sul   pregiudizio   all'immagine   della
magistratura derivante dalla conoscenza presso il  pubblico  di  tali
rapporti,  piuttosto   che   sul   rischio   reale   di   distorsioni
dell'attivita' giurisdizionale derivanti dai rapporti  medesimi,  che
caratterizza invece l'illecito disciplinare di cui all'art. 3,  comma
1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006. 
    Non sussistono, dunque, i profili di  disparita'  di  trattamento
della disciplina denunciata rispetto ai tertia comparationis  evocati
dalla Sezione rimettente. 
    8.- Una irragionevole disparita'  di  trattamento  non  sussiste,
peraltro, nemmeno sotto il profilo "interno", e cioe' tra le  diverse
ipotesi  contemplate  dalla  medesima  disposizione  in  questa  sede
censurata,  per  le  quali  si  prevede   in   modo   indifferenziato
l'obbligatoria applicazione della sanzione della rimozione. 
    Al  riguardo,  non  puo'  non  rilevarsi   preliminarmente   che,
ogniqualvolta la legge preveda la sanzione massima applicabile in  un
dato  settore  di  disciplina  per  una  pluralita'  di   fattispecie
astratte, sarebbe irragionevole pretendere - sulla base del principio
di eguaglianza - che tutte quelle fattispecie siano connotate  da  un
disvalore tra loro  esattamente  comparabile.  Mutatis  mutandis,  la
stessa pena massima prevista dall'ordinamento penale - l'ergastolo  -
e'  stabilita  oggi  per  una  pluralita'  di  fattispecie  di  reato
disomogenee quanto a disvalore: la  pena  perpetua  e',  ad  esempio,
prevista per l'omicidio aggravato di una persona (artt.  576  e  577,
primo comma, cod. pen.), cosi' come per la strage che ha  causato  la
morte di piu' persone (art. 422, primo comma, cod. pen.), la quale e'
evidentemente ipotesi delittuosa piu' grave, non  foss'altro  che  in
ragione del maggior numero di vittime. 
    Essenziale e sufficiente a garantire il rispetto del principio di
eguaglianza e', in tali ipotesi, che anche la fattispecie di illecito
meno grave tra quelle che comportano  l'applicazione  della  sanzione
massima prevista  dai  diversi  rami  dell'ordinamento,  isolatamente
considerata, sia pur sempre connotata da un grado di  disvalore  tale
da  rendere  (sotto  il  profilo  "intrinseco")  non   manifestamente
sproporzionata la comminatoria della sanzione massima. A prescindere,
dunque, dalla sua  eventuale  minore  gravita'  rispetto  alle  altre
fattispecie accomunate dalla medesima sanzione massima. 
    Inconferente rispetto alla dedotta violazione dell'art.  3  Cost.
si rivela, dunque, l'affermazione che  le  ipotesi  di  condanna  del
magistrato all'interdizione dai pubblici uffici pronunciata  in  sede
penale e di condanna a pena detentiva non sospesa (sin dall'inizio  o
per effetto di revoca della sospensione condizionale) sarebbero  piu'
gravi rispetto all'ipotesi in cui il magistrato  sia  stato  ritenuto
responsabile del mero illecito disciplinare di cui all'art. 3,  comma
1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006, senza aver commesso  alcun
reato.  Il  problema  e',  piuttosto,  quello  di  stabilire  se   la
previsione dell'automatica rimozione prevista anche per  quest'ultima
ipotesi sia compatibile o mano con l'art. 3 Cost., sotto  il  profilo
della  sua  manifesta  irragionevolezza  intrinseca  al   metro   del
principio di proporzione, al  quale  e'  necessario  a  questo  punto
volgere l'attenzione. 
    9.-  Il  profilo   di   manifesta   irragionevolezza   intrinseca
sottoposto a questa Corte dalla Sezione rimettente concerne non tanto
una ipotetica sproporzione della sanzione rispetto  a  tutti  i  casi
suscettibili di essere ricondotti alla fattispecie di illecito di cui
all'art. 3, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 109 del  2006,  quanto
piuttosto l'automatismo di tale sanzione, che  non  consentirebbe  al
giudice  disciplinare  di  graduare  la  risposta  sanzionatoria   in
relazione alla  concreta  gravita'  dei  molteplici  casi  di  specie
suscettibili  di  essere  ricondotti  sotto   l'astratta   previsione
normativa. 
    Nemmeno questa censura deve, tuttavia, ritenersi fondata. 
    In materia di sanzioni  disciplinari,  sono  invero  numerose  le
sentenze  di  questa  Corte  che  hanno  ritenuto  illegittime,   per
contrasto  con  l'art.  3  Cost.,   disposizioni   che   comportavano
l'automatica destituzione  del  pubblico  dipendente  in  conseguenza
della sua condanna in sede penale per determinati  reati  (cosi',  ex
multis, sentenze n. 268 del 2016, n. 363 del 1996, n. 197 del 1993  e
n.  16  del  1991).  Tali  pronunce   riposano   essenzialmente   sul
presupposto secondo cui il  principio  di  eguaglianza-ragionevolezza
esige, in via generale, che sia  conservata  all'organo  disciplinare
una valutazione discrezionale sulla proporzionale  graduazione  della
sanzione disciplinare nel caso concreto (cosi',  in  particolare,  la
citata sentenza n. 268 del 2016).  Il  principio  non  e',  peraltro,
senza eccezione, come dimostra la sentenza n. 112 del  2014,  con  la
quale non e' stata ritenuta  illegittima,  per  gli  appartenenti  ai
ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza, la  destituzione
di diritto quale  conseguenza  automatica  dell'applicazione  di  una
misura di sicurezza personale. 
    La questione ora all'esame non concerne, tuttavia, un automatismo
legato al sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati
reati, bensi' un  diverso  automatismo  insito  nella  previsione  di
un'unica  sanzione  fissa  (la  rimozione)  per  chi   sia   ritenuto
responsabile  dal  giudice  disciplinare  di  un  preciso   illecito,
anch'esso di natura meramente disciplinare (nel caso in esame, quello
di cui all'art. 3, comma 1, lettera e, del d.lgs. n. 109 del 2006). 
    In una recente pronuncia,  questa  Corte  ha  ritenuto  legittimo
l'automatismo legale consistente nel divieto  di  riabilitazione  del
notaio  gia'  destinatario  di  un  provvedimento  di   destituzione,
adottato - quest'ultimo - all'esito di un ponderato  e  discrezionale
apprezzamento   dell'organo   disciplinare,   impugnabile   in   sede
giurisdizionale, e a sua volta determinato  dalla  sua  condanna  per
gravi reati connessi all'esercizio della  sua  professione,  come  il
falso,  la  corruzione,  il  furto,  l'appropriazione  indebita,   il
peculato, la truffa e la calunnia. In quella circostanza, la Corte ha
evidenziato come  una  sanzione  cosi'  drastica  quale  l'esclusione
perpetua  dall'esercizio  della   professione   dovesse   purtuttavia
ritenersi «necessaria  per  preservare  l'integrita'  della  funzione
notarile, che sarebbe compromessa ove i  consociati  potessero  anche
solo dubitare dell'affidabilita' di chi e'  preposto  a  certificarne
gli atti con valore di pubblica fede»; e ha ritenuto,  pertanto,  che
la  scelta  legislativa  superasse   il   test   di   non   manifesta
irragionevolezza imposto dall'art. 3 Cost.,  anche  alla  luce  della
presunzione che le gravi  condotte  sanzionate  con  la  destituzione
«abbiano definitivamente negato al notaio,  per  quanto  riabilitato,
quel particolare ed elevato grado di fiducia che i consociati debbono
poter incondizionatamente riporre in una figura destinata a garantire
la sicurezza dei  traffici  giuridici,  a  propria  volta  preminente
interesse dello Stato di diritto» (sentenza n. 234 del 2015). 
    Considerazioni analoghe debbono essere  spese,  a  fortiori,  per
quanto  concerne  la  sanzione  che   in   questa   sede   viene   in
considerazione, destinata a essere applicata ai magistrati, ai  quali
e'  affidata  in  ultima  istanza  la  tutela  dei  diritti  di  ogni
consociato, e che per tale ragione sono tenuti - piu' di  ogni  altra
categoria  di  funzionari  pubblici   -   non   solo   a   conformare
oggettivamente la propria  condotta  ai  piu'  rigorosi  standard  di
imparzialita',  correttezza,  diligenza,  laboriosita',  riserbo   ed
equilibrio nell'esercizio delle funzioni, secondo  quanto  prescritto
dall'art. 1 del  d.lgs.  n.  109  del  2006,  ma  anche  ad  apparire
indipendenti e imparziali agli occhi della collettivita', evitando di
esporsi  a  qualsiasi  sospetto  di  perseguire  interessi  di  parte
nell'adempimento delle  proprie  funzioni.  E  cio'  per  evitare  di
minare, con la  propria  condotta,  la  fiducia  dei  consociati  nel
sistema giudiziario, che e' valore essenziale  per  il  funzionamento
dello Stato di diritto. 
    Ora, non  v'e'  dubbio  che  l'ottenimento  di  «prestiti»  o  di
«agevolazioni», che per qualita' e quantita' non possano definirsi di
scarsa rilevanza, da parte di persona che  il  magistrato  sa  essere
parte, indagata, parte offesa, testimone o comunque coinvolta  in  un
procedimento pendente  presso  il  proprio  ufficio  o  presso  altro
ufficio del distretto,  costituisca  condotta  che  crea,  sul  piano
oggettivo, il pericolo di distorsione dell'attivita'  giurisdizionale
in  favore  del  soggetto  che  tali  prestiti  o   agevolazioni   ha
corrisposto;  e  costituisca  altresi'  condotta  che  in  ogni  caso
determina - ove la notizia relativa venga a conoscenza del pubblico -
un  significativo  e  pernicioso  indebolimento  della  fiducia   dei
consociati nell'indipendenza  e  imparzialita'  dello  stesso  ordine
giudiziario. 
    Ritiene  allora  questa  Corte  che  non  possa  essere  ritenuta
manifestamente irragionevole la scelta  del  legislatore  di  colpire
indefettibilmente con la sanzione della rimozione la totalita'  delle
condotte rientranti nell'alveo  applicativo  dell'art.  3,  comma  1,
lettera e), del d.lgs. n. 109 del 2006,  caratterizzate  peraltro  da
una piena consapevolezza del magistrato  sulle  qualita'  dei  propri
"benefattori", da provarsi compiutamente nell'ambito del procedimento
disciplinare, e al netto comunque delle vicende di scarsa  rilevanza,
alle quali risulta applicabile la causa esimente  prevista  dall'art.
3-bis del medesimo decreto legislativo. 
    Rispetto,  infatti,  all'obiettivo  legittimo  di  restaurare  la
fiducia dei consociati nell'indipendenza, correttezza e imparzialita'
del sistema giudiziario, compromessa o anche solo messa  in  pericolo
dalla condotta del magistrato, la scelta legislativa  oggi  all'esame
non appare censurabile ne' sotto il profilo  della  sua  idoneita'  a
conseguire un tale obiettivo, apparendo plausibile che  una  reazione
ferma contro l'illecito disciplinare possa effettivamente contribuire
all'obiettivo delineato; ne' sotto il profilo  della  sua  necessita'
rispetto all'obiettivo medesimo, non  essendo  affatto  scontato  che
esso possa essere conseguito mediante una sanzione piu' mite,  e  che
comunque non determini la definitiva cessazione dall'esercizio  delle
funzioni giurisdizionali. Ne',  infine,  la  scelta  del  legislatore
appare censurabile sotto l'ulteriore profilo  della  proporzionalita'
in senso stretto della sanzione: quest'ultima - in nome della  tutela
di un interesse essenziale per lo Stato di  diritto  -  interferisce,
certo, in maniera  assai  gravosa  con  i  diritti  fondamentali  del
soggetto che ne e' colpito, ma  lascia  altresi'  a  quest'ultimo  la
possibilita' di intraprendere altra professione, con il  solo  limite
del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale. 
    10.- La presente decisione non e' in contrasto con il  precedente
invocato  dalla  Sezione  rimettente,  rappresentato  dalla   recente
sentenza n. 170 del 2015,  nella  quale  questa  Corte  ha  censurato
l'obbligatorieta'  della   sanzione   disciplinare   accessoria   del
trasferimento presso altra sede o altro ufficio  quando  ricorre  una
delle violazioni stabilite dall'art. 2,  comma  1,  lettera  a),  del
d.lgs. n. 109 del 2006, che sanziona il magistrato il quale, violando
i doveri  di  imparzialita',  correttezza,  diligenza,  laboriosita',
riserbo, equilibrio e rispetto della dignita'  della  persona,  abbia
arrecato ingiusto danno o indebito vantaggio a una delle parti. 
    L'illecito disciplinare che in quell'occasione era stato  oggetto
di esame da parte di questa Corte  abbraccia,  infatti,  condotte  di
natura eterogenea, e connotate  ictu  oculi  da  gradi  di  disvalore
fortemente  differenziati,  anche  soltanto  dal   punto   di   vista
dell'elemento soggettivo (risultando sanzionabili a quel titolo anche
condotte caratterizzate da mera imperizia o trascuratezza,  che  sono
invece  a  priori  escluse  dall'ambito   applicativo   dell'illecito
disciplinare di cui in questa sede e'  discorso,  il  quale  richiede
invece la prova della positiva consapevolezza da parte del magistrato
delle qualita' soggettive della persona da cui egli riceva prestiti o
agevolazioni). 
    11.-  Ne',  infine,  la  presente  decisione  intende  porre   in
discussione la costante giurisprudenza di questa Corte  (sentenza  n.
50 del 1980 e, piu' di recente, sentenze n. 7 del 2013 e  n.  31  del
2012) che considera, in linea di  principio,  incompatibili  con  gli
artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. gli automatismi sanzionatori
nell'ambito del diritto penale. 
    Benche' le sanzioni  disciplinari  attengano  in  senso  lato  al
diritto sanzionatorio-punitivo, e proprio per tale ragione attraggano
su di se' alcune delle  garanzie  che  la  Costituzione  e  le  carte
internazionali dei  diritti  riservano  alla  pena,  esse  conservano
tuttavia una propria specificita', anche dal punto di vista del  loro
statuto costituzionale, non  essendo  -  ad  esempio  -  soggette  al
principio della  necessaria  funzione  rieducativa  della  pena,  che
questa Corte ha sempre ritenuto essere connotato esclusivo delle pene
in senso stretto (nel senso dell'inapplicabilita' di  tale  principio
alle sanzioni amministrative, sentenza n. 281 del 2013 e ordinanza n.
169 del 2013). 
    Tale  specificita'  comporta  dunque  che  alcune  almeno   delle
garanzie che,  sulla  base  della  giurisprudenza  di  questa  Corte,
circondano la pena in senso stretto non si applicano, o si  applicano
con un maggior grado di  flessibilita',  alla  sfera  delle  sanzioni
disciplinari. Oltre che a logiche punitive e deterrenti  comuni  alle
pene, tali sanzioni possono legittimamente  rispondere,  quanto  meno
nei casi concernenti pubblici funzionari cui  sono  affidati  compiti
essenziali a garanzia dello Stato di diritto, anche alla finalita' di
assicurare  la  definitiva  cessazione  dal   servizio   di   persone
dimostratesi non idonee, o  non  piu'  idonee,  all'assolvimento  dei
propri doveri. E cio' anche sulla base di  automatismi  sanzionatori,
come quello incorporato nella disposizione ora  scrutinata,  i  quali
potranno  eccezionalmente  superare  il  vaglio  di   non   manifesta
irragionevolezza   proprio   e   soltanto   in   quanto    funzionali
all'applicazione di una mera sanzione disciplinare, ma che resteranno
invece, in linea di principio, inaccettabili nell'ambito  delle  pene
in senso stretto, dove le esigenze  di  rigorosa  individualizzazione
del trattamento sanzionatorio si  impongono  in  maniera  assai  piu'
stringente,  anche  in  considerazione  della  ben  piu'   drammatica
incidenza della pena sui diritti fondamentali della persona. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    dichiara   non   fondate   le   questioni    di    illegittimita'
costituzionale dell'art. 12, comma  5,  del  decreto  legislativo  23
febbraio  2006,  n.   109,   recante   «Disciplina   degli   illeciti
disciplinari  dei  magistrati,  delle  relative  sanzioni   e   della
procedura  per  la  loro  applicabilita',  nonche'   modifica   della
disciplina in tema  di  incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
trasferimento di ufficio dei magistrati,  a  norma  dell'articolo  1,
comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150»,  sollevate,
in  riferimento  all'art.  3  della   Costituzione,   dalla   Sezione
disciplinare  del  Consiglio  superiore  della  magistratura  con  le
ordinanze indicate in epigrafe. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2018. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA