N. 222 SENTENZA 25 settembre - 5 dicembre 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati   e   pene   ‒   Bancarotta   fraudolenta   ‒   Obbligatorieta'
  dell'applicazione, nella misura fissa di  dieci  anni,  delle  pene
  accessorie in caso di condanna per  uno  dei  fatti  di  bancarotta
  fraudolenta, propria o societaria. 
- Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
  concordato preventivo e della liquidazione coatta  amministrativa),
  artt. 216, ultimo comma, e 223. 
-   
(GU n.49 del 12-12-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Giuliano  AMATO,   Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio  BARBERA,  Giovanni  AMOROSO,   Francesco   VIGANO',   Luca
  ANTONINI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  216,
ultimo comma, e 223, ultimo comma, del regio decreto 16  marzo  1942,
n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del  concordato   preventivo,
dell'amministrazione  controllata   e   della   liquidazione   coatta
amministrativa), promosso dalla Corte di  cassazione,  prima  sezione
penale, nel procedimento penale a  carico  di  C.  G.  e  altri,  con
ordinanza del 17 novembre  2017,  iscritta  al  n.  37  del  registro
ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visti gli atti di costituzione di C. G., R. M., R. T., A. M.,  E.
F., M. A. e quello,  fuori  termine,  di  A.  M.,  parte  civile  nel
giudizio a quo, nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    udito nella udienza pubblica del 25  settembre  2018  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    uditi gli avvocati Valerio Onida, Barbara Randazzo e Andrea Manzi
per M. A., Ennio Amodio per C. G., Alessandro Diddi per A.  M.  e  E.
F., Gianluca De Fazio per A. M., Nicola Apa per R. M., Marcello  Bana
e Elisabetta Busuito per R. T.  e  l'avvocato  dello  Stato  Maurizio
Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 17 novembre 2017 la  Corte  di  cassazione,
prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt.  3,  4,
41, 27 e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione agli artt. 8 della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il  4  novembre  1950,  e  1  del  Protocollo  addizionale  alla
Convenzione, fatto a Parigi il 20 marzo 1952, entrambi  ratificati  e
resi esecutivi con la legge 4  agosto  1955,  n.  848,  questioni  di
legittimita' costituzionale degli artt. 216,  ultimo  comma,  e  223,
ultimo comma, del regio  decreto  16  marzo  1942,  n.  267,  recante
«Disciplina  del  fallimento,  del  concordato  preventivo  e   della
liquidazione coatta  amministrativa»  (d'ora  in  poi,  anche:  legge
fallimentare), «nella parte in cui prevedono che  alla  condanna  per
uno   dei   fatti   previsti    in    detti    articoli    conseguono
obbligatoriamente, per la durata di dieci anni,  le  pene  accessorie
della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e della
incapacita' di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa». 
    2.- La Corte di cassazione, prima  sezione  penale,  premette  di
essere investita del ricorso, proposto  dagli  imputati  in  uno  dei
procedimenti penali  scaturiti  dal  tracollo  del  gruppo  Parmalat,
avverso la sentenza della Corte d'appello di Bologna  che,  statuendo
in sede di rinvio, aveva condannato gli  imputati  stessi  alle  pene
ritenute di giustizia  per  una  pluralita'  di  fatti  integranti  i
delitti  di  bancarotta  impropria   semplice   e   fraudolenta.   In
particolare,  la  Corte  territoriale  aveva  condannato  tutti   gli
imputati, oltre che alle pene detentive per ciascuno  individualmente
commisurate, alle pene accessorie  dell'inabilitazione  all'esercizio
di una impresa commerciale e dell'incapacita'  di  esercitare  uffici
direttivi presso qualsiasi impresa per la durata  indifferenziata  di
dieci anni, tali  pene  accessorie  essendo  previste  dal  combinato
disposto degli artt. 216, ultimo comma, e 223,  ultimo  comma,  della
legge fallimentare come conseguenza  automatica  della  condanna  per
qualsiasi fatto di bancarotta impropria fraudolenta. 
    La rimettente dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale
di tale automatismo sanzionatorio. 
    2.1.- Espone, anzitutto, il giudice a  quo  che  i  difensori  di
taluni degli imputati avevano gia' formulato, nei precedenti gradi di
giudizio,  l'eccezione   di   illegittimita'   costituzionale   delle
disposizioni in questa sede censurate. 
    Con sentenza 5 dicembre 2014, n. 15613, la quinta sezione  penale
della Corte di cassazione, pronunciandosi sul ricorso degli  imputati
avverso la sentenza di condanna emessa nei loro confronti dalla Corte
d'appello di Bologna,  aveva  tuttavia  ritenuto  inammissibile  tale
eccezione, sulla scorta della sentenza n.  134  del  2012  di  questa
Corte,  che,  investita  di  analoga  questione,  l'aveva   giudicata
inammissibile  in  quanto   relativa   a   materia   riservata   alla
discrezionalita' del legislatore. 
    Avendo la quinta sezione della Corte di  cassazione  parzialmente
annullato la sentenza impugnata, con rinvio ad  altra  sezione  della
Corte d'appello di Bologna per un  nuovo  esame  dei  capi  annullati
nonche' per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio laddove
necessario,  l'eccezione  di  illegittimita'  costituzionale   veniva
riproposta dai difensori avanti al giudice del rinvio. 
    Anche la Corte d'appello di Bologna, statuendo in sede di rinvio,
giudicava pero' inammissibile tale eccezione,  ritenendosi  vincolata
alla previa statuizione  di  inammissibilita'  della  quinta  sezione
penale della Corte di cassazione, in forza del principio secondo  cui
il giudice del rinvio avrebbe l'obbligo di uniformarsi alla decisione
rescindente  per  ogni  questione  di  diritto  da  essa  decisa;   e
aggiungeva   che   tale   questione   doveva    comunque    ritenersi
manifestamente infondata, anche  con  riferimento  ai  parametri  non
espressamente  invocati  dalle  difese   nel   previo   giudizio   di
cassazione. Nel merito, la Corte d'appello statuiva sui residui  capi
oggetto del  rinvio  e  provvedeva  a  rideterminare  le  pene  degli
imputati, confermando pero' per ciascuno di essi le  pene  accessorie
in parola per la durata legale di dieci anni. 
    L'eccezione di illegittimita'  costituzionale  era  stata  quindi
riproposta da vari difensori di  fronte  alla  prima  sezione  penale
della Corte di cassazione, chiamata a giudicare sui ricorsi contro le
condanne pronunciate in sede di rinvio. 
    2.2.- La prima sezione penale, con l'ordinanza che da' origine al
presente  incidente  di  costituzionalita',  ritiene   la   questione
ammissibile e non manifestamente infondata. 
    2.3.- Sotto il profilo della rilevanza,  il  collegio  rimettente
osserva che la questione non puo'  ritenersi  riferita  a  situazione
esaurita, perche' -  in  seguito  al  precedente  annullamento  delle
condanne  pronunciate  nei  primi  due  gradi  di   giudizio   -   le
disposizioni censurate dovevano ancora trovare applicazione da  parte
del giudice del rinvio, al quale la quinta sezione penale della Corte
di cassazione aveva per  l'appunto  prescritto  di  rideterminare  il
trattamento sanzionatorio (comprensivo anche delle pene  accessorie),
laddove cio' si fosse reso  necessario  in  conseguenza  delle  nuove
valutazioni  demandate  al  medesimo  giudice  del  rinvio  sui  capi
annullati della precedente sentenza di condanna. 
    2.4.- Sotto il  profilo  della  non  manifesta  infondatezza  del
dubbio  di  legittimita'  costituzionale,  la   rimettente   rammenta
anzitutto come sull'esatta portata delle  disposizioni  censurate  si
sia sviluppato, in passato, un contrasto presso la giurisprudenza  di
legittimita'. 
    Secondo un primo e maggioritario indirizzo, la durata delle  pene
accessorie previste dagli artt. 216,  ultimo  comma,  e  223,  ultimo
comma,   della   legge   fallimentare   dovrebbe   intendersi    come
inderogabilmente fissata nella misura di dieci anni,  in  conformita'
del resto al chiaro tenore letterale delle disposizioni in questione. 
    Secondo altro e minoritario indirizzo,  dichiaratamente  ispirato
ad un'esigenza  di  interpretazione  conforme  a  Costituzione  delle
disposizioni menzionate, anche le pene accessorie in  parola  non  si
sottrarrebbero alla regola generale di cui  all'art.  37  del  codice
penale, a tenore del quale, laddove la durata della  pena  accessoria
non sia espressamente determinata, essa ha una durata eguale a quella
della pena principale inflitta, entro il limite minimo  e  il  limite
massimo fissato per ciascuna pena accessoria. 
    Questo  secondo  indirizzo  risulta,  peraltro,  oggi  del  tutto
abbandonato dalla stessa giurisprudenza  di  legittimita',  essendosi
tra l'altro ritenuto che la sentenza n. 134 del 2012 di questa  Corte
abbia    almeno    implicitamente    confermato    la     correttezza
dell'interpretazione recepita dall'ordinamento maggioritario. 
    Ad avviso della rimettente, tuttavia, la durata fissa della  pena
accessoria  derivante  dalle  disposizioni  censurate,   cosi'   come
interpretate dall'ormai univoco diritto vivente,  contrasterebbe  con
il principio della  "mobilita'"  della  pena,  e  cioe'  con  la  sua
tendenziale predeterminazione tra un minimo e un  massimo;  principio
che  costituirebbe  corollario,  da  un  lato,   del   principio   di
eguaglianza  di  cui  all'art.  3  Cost.,  per   la   necessita'   di
proporzionare  la  pena  all'effettiva  entita'  ed  alle  specifiche
esigenze dei singoli casi, e, dall'altro, del principio di legalita',
di cui all'art. 25, secondo  comma,  Cost.,  che  «da'  forma  ad  un
sistema  che  trae  contenuti  ed  orientamenti  da  altri   principi
sostanziali - come quelli indicati dall'art. 27, primo e terzo comma,
Cost.  -  ed  in  cui  "l'attuazione  di  una  riparatrice  giustizia
retributiva esige la differenziazione piu' che l'unita'" (sentenza n.
104 del 1968)» (e' citata la sentenza n. 50 del 1980). 
    La  durata  invariabile  delle  pene  accessorie  previste  dalle
disposizioni  impugnate,  che  si  risolvono  in  una  «incisiva   ma
anelastica limitazione di beni di rilevanza costituzionale, quali  la
liberta' di iniziativa economica di cui all'art. 41,  il  diritto  al
lavoro di cui all'art. 35, le finalita' rieducative della pena di cui
all'art. 27, secondo [recte: terzo] comma,  Cost.,  indipendentemente
dall'entita' della pena principale irrogata - che per  la  bancarotta
fraudolenta puo' essere pari  al  minimo  edittale  di  anni  tre,  o
nettamente inferiore per effetto  di  circostanze  attenuanti  e  del
ricorso a riti alternativi -», non sarebbe dunque in sintonia  con  i
parametri  costituzionali   evocati,   negando   ogni   spazio   alla
discrezionalita' del  giudice,  necessaria  al  fine  di  «permettere
l'adeguamento  della  risposta  punitiva  alle  singole   fattispecie
concrete» e al loro individuale disvalore oggettivo e soggettivo. 
    La disciplina legislativa censurata  violerebbe,  d'altra  parte,
anche  l'art.  4  Cost.,   risolvendosi   in   una   «ingiustificata,
indiscriminata  incidenza  sulla  possibilita'  dell'interessato   di
esercitare il suo diritto al  lavoro,  non  soltanto  come  fonte  di
sostentamento  ma  anche  come  strumento  di  sviluppo   della   sua
personalita'»; e susciterebbe dubbi  di  conformita'  a  Costituzione
anche con riferimento all'art. 117 Cost., in relazione agli  artt.  8
CEDU  e  1  Prot.  add.  CEDU,  alla  luce  della  giurisprudenza  di
Strasburgo,   secondo   la   quale    «le    limitazioni    derivanti
dall'applicazione della pena  accessoria  devono  considerarsi  quali
ingerenze nel godimento del diritto al rispetto della vita privata e,
come tali, non soltanto devono essere previste dalla legge e  debbono
perseguire  uno  scopo  legittimo,  ma  devono  essere  proporzionate
rispetto a detto scopo, comportando  la  violazione  del  divieto  di
discriminazione nel godimento del  diritto  al  rispetto  della  vita
familiare oltre che  una  ingerenza  nel  godimento  del  diritto  di
proprieta'» (e'  richiamata  la  sentenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, terza sezione, del  23  marzo  2006,  Vitiello  c.
Italia). 
    Secondo  la  sezione  rimettente,  gli  evidenziati  profili   di
frizione con i principi costituzionali potrebbero  «in  larga  parte»
essere superati «ove, eliminandosi il riferimento alla  misura  fissa
di dieci anni, rivivesse la regola generale di cui all'art.  37  cod.
pen., cosi' consentendosi al giudice di rideterminare la durata della
pena accessoria in collegamento con la pena  principale  inflitta  e,
quindi, in base a valutazioni di gravita' del fatto concreto». 
    3.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri, rappresentato e  difeso  dalla  Avvocatura  generale  dello
Stato,  che  ha  concluso  chiedendo  dichiararsi  inammissibili   e,
comunque, infondate le questioni. 
    3.1.- Secondo l'Avvocatura generale  dello  Stato,  le  questioni
sarebbero inammissibili sotto tre distinti profili. 
    Anzitutto, con la precedente sentenza di annullamento con  rinvio
pronunciata dalla prima sezione penale, la  Corte  di  cassazione  si
sarebbe «autovincolata» ad un principio di diritto incompatibile  con
i prospettati dubbi di legittimita' costituzionale. 
    In secondo luogo, la  sollecitazione  al  legislatore,  contenuta
nella sentenza di questa Corte n. 134 del 2012, a  por  mano  ad  una
riforma del sistema delle pene accessorie, che  lo  renda  pienamente
compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare  con
l'art. 27, terzo  comma,  Cost.,  sarebbe  stata  ormai  accolta  dal
legislatore, il quale, all'art. 1, comma 85, lettera u), della  legge
23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al  codice  penale,  al  codice  di
procedura penale e all'ordinamento  penitenziario),  ha  delegato  il
Governo alla «revisione del sistema delle pene accessorie  improntata
al principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento  sociale
del condannato», con indicazione relativa all'espressa «esclusione di
una loro durata superiore alla durata della  pena  principale».  Alla
luce di tale intervento normativo, ad  avviso  dell'Avvocatura  dello
Stato le questioni sarebbero inammissibili, essendo  ormai  prive  di
rilevanza. 
    Infine, l'Avvocatura dello Stato evidenzia come le questioni  ora
all'esame presentino  «la  medesima  causa  petendi  ed  il  medesimo
petitum di quella gia' decisa con sentenza n. 134» del 2012, con  cui
questa  Corte  affermo'  che  «l'addizione  normativa  richiesta  dai
giudici  a  quibus  eccede  i  poteri  di  intervento  della   Corte,
implicando scelte affidate alla  discrezionalita'  del  legislatore»,
con conseguente  statuizione  di  inammissibilita'  della  questione.
Identica statuizione,  ad  avviso  della  difesa  erariale,  dovrebbe
essere adottata con riferimento alle  odierne  questioni,  stante  la
molteplicita' delle soluzioni che potrebbero essere adottate al  fine
di eliminare i dedotti vizi di illegittimita' costituzionale. 
    3.2.- Nel  merito,  l'Avvocatura  generale  dello  Stato  ritiene
comunque infondate le questioni, in ragione  anzitutto  del  «diverso
"bene giuridico" protetto dalle pene accessorie»  rispetto  a  quello
protetto dalle  pene  principali.  Le  prime,  piu'  in  particolare,
sarebbero essenzialmente funzionali alla  funzione  specialpreventiva
di «protezione dell'agire commerciale», mirando ad assicurare che  la
«gestione del mercato e dei traffici  commerciali  [sia]  affidata  a
soggetti/imprenditori che seguano e  rispettino  regole  di  primaria
correttezza»; il che  giustificherebbe  una  durata  fissa  decennale
della pena accessoria che qui viene in considerazione,  eventualmente
superiore a quella della pena principale inflitta. 
    In secondo luogo, osserva l'Avvocatura generale dello  Stato  che
la scelta sottesa  alle  disposizioni  censurate  di  determinare  in
maniera fissa le pene accessorie sia «chiaramente riconducibile  alla
volonta'  legislativa  di  collegare  quest'ultime  non  tanto   alla
modalita' di commissione del reato, quanto alla mera condanna per  il
reato di bancarotta». La disciplina delle  pene  principali  e  delle
pene accessorie per il delitto di bancarotta  sarebbe  stata  insomma
«volutamente diversificata dal legislatore»,  cio'  che  di  per  se'
dimostrerebbe  -  nella  prospettazione  della  difesa   erariale   -
l'infondatezza dei dubbi di costituzionalita' prospettati. 
    Infine,  sostiene  l'Avvocatura  generale  dello  Stato  che   la
previsione della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie  di
cui  oggi  si  discute  sarebbe  «pienamente  conforme   all'impianto
complessivo del nostro sistema penale, il quale  prevede  altre  pene
accessorie aventi durata predeterminata addirittura "perpetua"», come
nel caso previsto dall'art. 29 cod. pen. 
    4.- Tutti gli imputati nel giudizio a quo si sono costituiti  nel
presente giudizio incidentale, riproponendo gli argomenti  sviluppati
nell'ordinanza di rimessione e concludendo nel senso della fondatezza
della questione di legittimita' costituzionale ivi proposta. 
    Particolarmente ampie e articolate sono, peraltro,  le  deduzioni
della parte M. A., a parere della quale la questione di  legittimita'
costituzionale  all'esame  investirebbe  tre  diversi   profili:   a)
l'automatismo nell'applicazione  della  pena  accessoria,  che  segue
necessariamente  a  qualunque  condanna  per  fatti   di   bancarotta
fraudolenta, indipendentemente dalla concreta gravita' delle condotte
ascritte  all'imputato,  nonche'  della  distanza  temporale  fra  il
momento in cui tali condotte si siano verificate e il momento in cui,
in esito al giudizio, la pena sia  irrogata  in  via  definitiva;  b)
l'inusitata ampiezza delle limitazioni  che  discendono  dall'operare
della pena accessoria, che - incidendo in senso fortemente limitativo
sulla possibilita' dell'interessato di esercitare il suo  diritto  al
lavoro - importerebbe una «drastica e non proporzionata  compressione
del diritto di iniziativa  economica  esercitabile  anche  attraverso
l'attivita' di impresa»; nonche' c) la fissita'  della  durata  della
pena   accessoria,   pari    indefettibilmente    a    dieci    anni,
indipendentemente dall'entita' della pena principale ritenuta congrua
nel caso concreto. 
    Sotto il primo profilo, il carattere automatico  e  indefettibile
della pena  accessoria,  precludendo  al  giudice  di  apprezzare  in
concreto  l'esistenza  delle  ragioni   giustificatrici   della   sua
applicazione, contrasterebbe in particolare con le numerose  sentenze
con cui questa Corte ha caducato automatismi legislativi in relazione
all'applicazione automatica di pene  accessorie,  come  la  decadenza
dalla potesta' genitoriale (sono richiamate le sentenze n. 7 del 2013
e n. 31 del 2012) o la revoca della patente di guida  (e'  richiamata
la  sentenza  n.  22  del  2018),  in  applicazione  dei  criteri  di
«adeguatezza e proporzionalita' della pena  ai  fatti  di  reato,  di
individualizzazione  del  trattamento   penale   in   rapporto   alla
personalita' del reo,  di  idoneita'  dell'esecuzione  della  pena  a
svolgere la finalita' rieducativa, oltre che  di  soddisfare  ad  una
reale finalita' di prevenzione speciale».  Nella  medesima  direzione
spingerebbe, d'altra parte, la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo, che ha piu' volte dichiarato contrarie  alla  CEDU
sanzioni accessorie o  comunque  misure  limitative  di  diritti  che
discendono automaticamente da una condanna penale, senza una verifica
giurisdizionale nel caso concreto sull'effettiva necessita'  di  tali
sanzioni o misure. 
    Sotto il secondo profilo, le pene accessorie in  esame  sarebbero
sproporzionate in ragione della loro portata «estremamente  ampia»  e
«praticamente [...] onnicomprensiva, volta ad impedire lo svolgimento
di qualunque attivita' economica in  proprio  e,  in  ogni  caso,  in
posizioni direttive», si' da incidere  in  definitiva  non  solo  sul
diritto al lavoro, ma anche «sulla vita e sulla stessa identita'  del
condannato,  operando  alla  stregua   di   una   sorte   di   "morte
professionale"».  Cio'  determinerebbe  un   ulteriore   profilo   di
irragionevolezza, nonche' di illegittimita' alla luce  dei  parametri
convenzionali, delle disposizioni in questione. 
    Sotto  il  terzo  profilo,  infine,  le  disposizioni   censurate
contrasterebbero con il principio  di  proporzionalita'  della  pena,
cosi' come enucleato dalla costante giurisprudenza di questa Corte  a
partire dalla sentenza n. 26  del  1979  e  recentemente  riaffermato
dalla  sentenza  n.  236  del  2016;  nonche'  con  il  principio  di
necessaria individualizzazione della pena,  che  esige  l'adeguamento
delle risposte punitive ai casi concreti, e che si oppone in linea di
principio a previsioni sanzionatorie rigide, a meno che  la  sanzione
«appaia ragionevolmente "proporzionata" rispetto all'intera gamma  di
comportamenti riconducibili allo specifico tipo di  reato»  (sentenza
n. 50 del 1980). Il che non sarebbe nel caso ora  oggetto  di  esame,
ove la pena interdittiva prevista dalle  disposizioni  censurate  «si
applica in maniera fissa in relazione a condanne  per  i  fatti  piu'
diversi,  di  diversa  gravita',  imputati  a  soggetti  con  diverse
caratteristiche». 
    5.- Si e', inoltre, costituito fuori termine A. M., parte  civile
nel giudizio a quo. 
    6.- Nell'imminenza dell'udienza, tutte le parti costituite  hanno
depositato memorie in cui ribadiscono le conclusioni  gia'  formulate
nei precedenti atti del giudizio. 
    Nella propria memoria, la parte M. A. - dopo avere  confutato  le
eccezioni spiegate dall'Avvocatura generale dello Stato - richiama in
particolare l'attenzione su una recente sentenza della quinta sezione
penale della Corte di cassazione, la quale, dopo essersi  interrogata
d'ufficio sulla costituzionalita' delle disposizioni  qui  all'esame,
ha concluso nel senso della manifesta infondatezza della questione in
quanto gia' risolta negativamente da questa Corte con la sentenza  n.
134 del 2012, nonche' in ragione degli ampi poteri discrezionali  del
giudice   nella   commisurazione   del   trattamento    sanzionatorio
complessivamente  considerato  discendente  da   una   condanna   per
bancarotta fraudolenta, semplice o societaria (Corte  di  cassazione,
quinta sezione penale, sentenza 6 luglio 2018, n. 33880): sentenza  i
cui argomenti la difesa di M. A. sottopone, parimenti,  ad  analitica
confutazione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte di cassazione, prima sezione penale,  ha  sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione   agli   artt.   8   della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, e  1
del Protocollo addizionale alla Convenzione, fatto  a  Parigi  il  20
marzo 1952, entrambi ratificati e  resi  esecutivi  con  la  legge  4
agosto 1955, n. 848, questioni di legittimita'  costituzionale  degli
artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, del  regio  decreto  16
marzo  1942,  n.  267,  recante  «Disciplina  del   fallimento,   del
concordato preventivo e  della  liquidazione  coatta  amministrativa»
(d'ora in poi,  anche:  legge  fallimentare),  «nella  parte  in  cui
prevedono che alla condanna per  uno  dei  fatti  previsti  in  detti
articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di  dieci  anni,
le pene accessorie della inabilitazione all'esercizio di una  impresa
commerciale e della incapacita' di esercitare uffici direttivi presso
qualsiasi impresa». 
    Le questioni sono state sollevate  nell'ambito  del  giudizio  di
cassazione avente ad oggetto  la  sentenza  con  la  quale  la  Corte
d'appello  di  Bologna,  in  sede  di  rinvio  dopo   un   precedente
annullamento da parte della quinta  sezione  penale  della  Corte  di
cassazione, aveva confermato la condanna di numerosi imputati per una
pluralita' di delitti di bancarotta impropria fraudolenta e semplice,
variamente connessi alla vicenda del tracollo  del  gruppo  Parmalat,
reiterando - in particolare - la condanna di tutti gli imputati  alle
menzionate pene accessorie per la durata legale di  dieci  anni  gia'
disposta nei precedenti gradi di giudizio. 
    2.- Deve, preliminarmente, dichiararsi  l'inammissibilita'  della
costituzione in giudizio della parte civile A. M., in quanto avvenuta
oltre il termine perentorio, stabilito dall'art. 25  della  legge  11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale) e dall'art. 3 delle  Norme  integrative  per  i
giudizi davanti alla Corte  costituzionale,  di  venti  giorni  dalla
pubblicazione nella Gazzetta  Ufficiale  dell'atto  introduttivo  del
giudizio. 
    3.- L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce,  anzitutto,  che
la Corte  di  cassazione  si  sarebbe  «autovincolata»,  mediante  la
precedente sentenza di annullamento della quinta sezione  penale,  ad
un  principio  di  diritto  incompatibile  con   le   questioni   ora
prospettate dalla prima sezione, le  quali  risulterebbero  per  tale
ragione inammissibili. 
    L'eccezione e' infondata. 
    E' infatti  pacifico  che  la  precedente  statuizione  di  altro
collegio giudicante circa l'irrilevanza o la  manifesta  infondatezza
di  una  questione  di  legittimita'  prospettata  dalle  parti   non
impedisce a un giudice che intervenga  successivamente  nel  medesimo
processo di considerare, all'opposto, rilevante e non  manifestamente
infondata la medesima questione. Cio' vale, come questa Corte ha piu'
volte affermato,  anche  rispetto  al  giudice  del  rinvio,  che  e'
certamente vincolato ai principi di diritto formulati nella  sentenza
di annullamento, ma conserva pur sempre il  potere  di  sottoporre  a
questa Corte gli eventuali dubbi di legittimita'  costituzionale  che
egli  nutra  nei  confronti  delle  disposizioni  che  e'  tenuto  ad
applicare nel giudizio di rinvio, in forza  delle  indicazioni  della
sentenza di annullamento (ex plurimis, sentenze n. 270 del  2014,  n.
293 del 2013, n. 305 del 2008; ordinanza n. 118 del 2016); principio,
questo, che non puo' non valere anche per la sezione della  Corte  di
cassazione  che  sia  chiamata,  a  sua  volta,   a   scrutinare   la
legittimita' della sentenza pronunciata in sede di rinvio. 
    Le disposizioni in questa sede censurate, d'altra parte, dovevano
trovare ancora applicazione nel giudizio di rinvio, dal momento che -
secondo quanto riferito dalla stessa ordinanza  di  rimessione  -  la
sentenza  della  quinta  sezione   penale,   dopo   avere   annullato
parzialmente le condanne degli imputati pronunciate  in  primo  e  in
secondo grado, aveva demandato espressamente al giudice del rinvio il
compito  di   rideterminare   il   trattamento   sanzionatorio,   ove
necessario, in conseguenza dell'annullamento  di  alcuni  capi  delle
precedenti sentenze di condanna. Tale rideterminazione era stata  poi
puntualmente operata dalla sentenza della Corte d'appello di  Bologna
in sede di rinvio, che aveva  commisurato  nuovamente  i  complessivi
trattamenti  sanzionatori  per  ciascun  imputato,  confermando   nei
confronti di ciascuno le pene accessorie previste dalle  disposizioni
censurate:  facendo,   cosi',   nuovamente   applicazione   di   tali
disposizioni nel giudizio di rinvio. 
    Correttamente, dunque, la  sezione  rimettente  -  investita  dei
ricorsi degli imputati aventi ad oggetto anche le  statuizioni  sulle
pene accessorie - ritiene le questioni di legittimita' costituzionale
prospettate tuttora rilevanti nel giudizio a quo. 
    4.- L'Avvocatura  generale  dello  Stato  eccepisce,  in  secondo
luogo, che le questioni prospettate sarebbero divenute irrilevanti in
seguito all'entrata in vigore della legge  23  giugno  2017,  n.  103
(Modifiche  al  codice  penale,  al  codice  di  procedura  penale  e
all'ordinamento penitenziario), che ha delegato il legislatore ad una
complessiva riforma del sistema delle pene accessorie  improntata  al
«principio della rimozione degli ostacoli  al  reinserimento  sociale
del condannato» e alla «esclusione di una loro durata superiore  alla
durata della pena principale». 
    L'eccezione  -  funzionale  per  la  verita'  a   una   possibile
restituzione degli atti per esame dello ius superveniens, piu' che  a
una pronuncia di inammissibilita' - e' anch'essa  infondata,  perche'
il Governo non ha provveduto a esercitare la  delega  in  parte  qua,
sicche' la disciplina in questa sede censurata e' rimasta immutata ed
e' tuttora in vigore. 
    5.- L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce, infine,  che  le
presenti questioni dovrebbero essere considerate inammissibili per le
medesime ragioni che gia'  avevano  condotto  questa  Corte,  con  la
sentenza n. 134  del  2012,  a  dichiarare  inammissibile  un'analoga
questione formulata sulle disposizioni qui censurate. 
    L'eccezione attiene, piu' in particolare, ai limiti dei poteri di
questa  Corte,  nell'ipotesi  in  cui  accerti  che  la  disposizione
censurata arrechi un vulnus ai principi costituzionali, ma non esista
un'unica   soluzione   costituzionalmente    obbligata    conseguente
all'eventuale dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale  della
disposizione medesima. 
    Ragioni di  ordine  nell'esposizione  suggeriscono  di  riservare
l'esame di questa eccezione dopo che siano stati vagliati  i  profili
di fondatezza nel merito delle questioni ora sollevate. 
    6.- Preliminare all'esame nel merito  delle  censure  prospettate
e',  ancora,  l'esatta  delimitazione  del  petitum  delle   presenti
questioni,  cosi'  come  sottoposte  a  questa  Corte   dal   giudice
rimettente. 
    La difesa della parte M. A. ha infatti svolto,  nei  propri  atti
difensivi e in udienza, articolate deduzioni su tre distinti  profili
di  illegittimita'  costituzionale   delle   norme   censurate,   che
dovrebbero considerarsi impliciti nelle questioni sottoposte a questa
Corte dalla  sezione  rimettente:  una  prima  questione  concernente
l'automatismo  e  l'indefettibilita'   dell'inflizione   delle   pene
accessorie previste dalle disposizioni  censurate,  e  dunque  -  per
cosi' dire  -  relativa  all'an  della  loro  applicazione  nel  caso
concreto; una seconda, incentrata sull'ampiezza delle limitazioni  ai
diritti del condannato discendenti dalle pene  accessorie  stesse,  e
dunque relativa al quomodo delle sanzioni  in  parola;  e  una  terza
questione, riguardante invece la fissita' della durata, pari a  dieci
anni, delle pene medesime, e dunque relativa al loro quantum. 
    Un'interpretazione letterale del  dispositivo  dell'ordinanza  di
rimessione - che censura le due  disposizioni  «nella  parte  in  cui
prevedono che alla condanna per  uno  dei  fatti  previsti  in  detti
articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di  dieci  anni,
le pene accessorie» indicate dalle disposizioni medesime  -  parrebbe
confortare  la  lettura  della  parte  M.  A.,  quanto  meno  con   i
riferimento ai profili dell'an e del quantum delle pene accessorie in
parola; di talche' la cognizione di questa Corte dovrebbe  estendersi
alla  verifica  non  solo  della  compatibilita'  con   i   parametri
costituzionali invocati della durata fissa di dieci anni  delle  pene
accessorie  de  quibus,  ma  anche  dell'obbligatorieta'  della  loro
applicazione in ogni caso di condanna dell'imputato per un  fatto  di
bancarotta fraudolenta, propria o societaria. 
    L'esame della  densa  motivazione  dell'ordinanza  di  rimessione
evidenzia, tuttavia, come l'attenzione della  sezione  rimettente  si
sia pressoche' esclusivamente focalizzata sul carattere  fisso  della
durata decennale delle pene accessorie, che  impedirebbe  al  giudice
una loro determinazione in misura adeguata alle peculiarita' del caso
concreto. Il distinto profilo del  loro  automatismo  in  conseguenza
della  condanna  (che  era  invece  venuto  in  considerazione  nelle
sentenze n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012, nonche'  nella  recentissima
sentenza n. 22 del 2018,  tutte  invocate  dalla  parte  M.  A.)  e',
invero, menzionato in un  fugace  passaggio  nella  parte  conclusiva
della motivazione dell'ordinanza di rimessione, nel quale si fa cenno
a un preteso contrasto di  tale  automatismo  con  la  giurisprudenza
rilevante della Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo;  ma  non  e'
oggetto di alcuno  speciale  vaglio  critico  nel  contesto  generale
dell'argomentazione,  che  neppure  si   sofferma   sulla   ipotetica
eccessiva estensione delle  limitazioni  ai  diritti  del  condannato
discendenti dall'esecuzione delle pene medesime. 
    Nello stesso senso depone, del resto, il passaggio  argomentativo
nel  quale  la  sezione  rimettente   osserva   che   l'esigenza   di
un'articolazione  legale  del  sistema  sanzionatorio,  che  dovrebbe
rendere possibile un  «adeguamento  individualizzato,  proporzionale,
delle pene inflitte con le sentenze di condanna,  potrebbe  [...]  in
larga parte essere soddisfatta ove, eliminandosi il riferimento  alla
misura fissa di dieci anni,  rivivesse  la  regola  generale  di  cui
all'art. 37 cod. pen., cosi' consentendosi al giudice di  determinare
la  durata  della  pena  accessoria  in  collegamento  con  la   pena
principale inflitta e, quindi, in base a valutazioni di gravita'  del
fatto concreto». E' evidente, infatti, che il rimedio suggerito dalla
rimettente lascerebbe intatto l'automatismo insito  nell'applicazione
delle  pene  accessorie  in  esame  in  conseguenza  della   condanna
dell'imputato per bancarotta fraudolenta, propria  o  societaria;  e,
comunque, non inciderebbe in alcun  modo  sul  contenuto  delle  pene
accessorie medesime. 
    Alla luce -  allora  -  del  complessivo  impianto  motivazionale
dell'ordinanza, lo stesso riferimento all'obbligatorieta' delle  pene
accessorie, contenuto nel dispositivo dell'ordinanza  di  rimessione,
non puo' che intendersi come riferito  esclusivamente  al  carattere,
appunto,  obbligatorio  della  loro  durata  decennale,  e  non  gia'
all'obbligatorieta' della loro applicazione nel caso concreto. 
    Dal momento che il  perimetro  della  questione  di  legittimita'
costituzionale e', ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del  1953,
unicamente definito dall'ordinanza di rimessione (ex multis, sentenza
n.  327  del  2010),  l'esame  della  Corte  dovra',  dunque,  essere
confinato al solo profilo concernente la durata fissa di  dieci  anni
delle pene accessorie previste dalle disposizioni censurate. 
    7.- La durata fissa delle pene accessorie previste dall'art. 216,
ultimo comma, della  legge  fallimentare  non  appare,  in  linea  di
principio, compatibile con i principi costituzionali  in  materia  di
pena, e segnatamente con i principi di proporzionalita' e  necessaria
individualizzazione del trattamento sanzionatorio. 
    7.1.- Secondo la costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  la
determinazione del trattamento sanzionatorio  per  i  fatti  previsti
come reato e' riservato alla  discrezionalita'  del  legislatore,  in
conformita' a quanto stabilito dall'art. 25,  secondo  comma,  Cost.;
tuttavia, tale discrezionalita'  incontra  il  proprio  limite  nella
manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che -  in
subiecta materia - e' superato allorche' le pene  comminate  appaiano
manifestamente  sproporzionate  rispetto  alla  gravita'  del   fatto
previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una  violazione
congiunta  degli  artt.  3  e  27  Cost.,  giacche'  una   pena   non
proporzionata alla gravita' del fatto (e non percepita come tale  dal
condannato) si risolve in un ostacolo alla sua  funzione  rieducativa
(ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012  e  n.  341  del
1994). 
    Affinche' poi la pena inflitta al singolo condannato non  risulti
sproporzionata in  relazione  alla  concreta  gravita',  oggettiva  e
soggettiva, del fatto da  lui  commesso,  il  legislatore  stabilisce
normalmente che la pena debba essere commisurata dal giudice  tra  un
minimo e un massimo, tenendo conto in particolare della  vasta  gamma
di circostanze indicate negli artt. 133 e 133-bis cod. pen., in  modo
da assicurare altresi' che la pena appaia una risposta  -  oltre  che
non sproporzionata - il piu' possibile "individualizzata",  e  dunque
calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione  del
mandato costituzionale di "personalita'" della responsabilita' penale
di cui all'art. 27, primo comma, Cost. 
    L'esigenza  di  «mobilita'»  (sentenza  n.  67   del   1963),   o
«individualizzazione» (sentenza n. 104 del 1968), della pena -  e  la
conseguente attribuzione al  giudice,  nella  sua  determinazione  in
concreto, di una certa discrezionalita' nella commisurazione  tra  il
minimo e il massimo previsti dalla legge - costituisce secondo questa
Corte «naturale attuazione e  sviluppo  di  principi  costituzionali,
tanto di ordine generale (principio d'uguaglianza)  quanto  attinenti
direttamente alla materia penale» (sentenza n. 50 del 1980), rispetto
ai quali «l'attuazione  di  una  riparatrice  giustizia  distributiva
esige la differenziazione piu' che l'uniformita'» (cosi', ancora,  la
sentenza  n.  104  del   1968).   Con   la   rilevante   conseguenza,
espressamente tratta dalla citata sentenza n. 50 del 1980, che  «[i]n
linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non  appaiono  in
linea con il "volto costituzionale" del sistema penale; ed il  dubbio
d'illegittimita'  costituzionale  potra'  essere,  caso   per   caso,
superato a condizione che, per la natura dell'illecito  sanzionato  e
per  la  misura  della   sanzione   prevista,   quest'ultima   appaia
ragionevolmente  "proporzionata"   rispetto   all'intera   gamma   di
comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato». 
    Come e' stato osservato a commento della sentenza n. 50 del 1980:
se  la  "regola"  e'  rappresentata  dalla  "discrezionalita'",  ogni
fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) e'
per cio' solo "indiziata" di illegittimita'; e  tale  indizio  potra'
essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale  della
fattispecie di reato  che  viene  in  considerazione,  attraverso  la
puntuale dimostrazione che la peculiare struttura  della  fattispecie
la  renda  "proporzionata"   all'intera   gamma   dei   comportamenti
tipizzati. Cosi' come, peraltro, avvenne nel caso della  disposizione
scrutinata nella sentenza n. 50 del 1980. 
    7.2.- E' alla luce di tali, pacifici, principi  che  deve  essere
vagliata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  avente  ad
oggetto l'art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare. 
    Come condivisibilmente rilevano l'ordinanza di rimessione e tutte
le parti tempestivamente costituite, le  pene  accessorie  temporanee
previste dalla disposizione censurata incidono  in  senso  fortemente
limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato,
riducendo drasticamente la sua possibilita' di  esercitare  attivita'
lavorative per un arco temporale di dieci anni, destinati a decorrere
- in forza dell'art. 139 cod.  pen.  -  dopo  l'integrale  esecuzione
della pena detentiva (la quale, a sua  volta,  potrebbe  avere  luogo
molti anni dopo la commissione del fatto di reato). 
    Ed anzi, dal momento che l'esecuzione della pena della reclusione
sino a quattro anni puo' essere integralmente sostituita, su  istanza
dal condannato, dal suo affidamento in  prova  al  servizio  sociale,
rispetto a  molti  condannati  per  bancarotta  fraudolenta  le  pene
accessorie  previste  dalla  disposizione  censurata  finiscono   per
rappresentare le sanzioni in concreto piu' afflittive alle quali essi
soggiacciono in conseguenza della condanna. 
    Conseguenze sanzionatorie cosi'  severe  certamente  si  lasciano
legittimare, al metro del principio di proporzionalita'  della  pena,
in relazione alle  ipotesi  piu'  gravi  di  bancarotta  fraudolenta,
propria e societaria, che e' delitto punibile - non a caso -  con  la
reclusione sino a dieci anni, aumentabili di un terzo  o  addirittura
della meta' nei casi previsti dai primi due commi dell'art. 219 della
legge fallimentare. 
    Tuttavia, una durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in
questione  non  puo'   ritenersi   «ragionevolmente   "proporzionata"
rispetto  all'intera  gamma  di  comportamenti   riconducibili   allo
specifico tipo  di  reato»,  in  base  al  poc'anzi  menzionato  test
enunciato dalla sentenza n. 50 del 1980. 
    Anzitutto, l'art. 216 della legge fallimentare  (richiamato,  nel
suo contenuto precettivo, dall'art. 223, primo comma, della  medesima
legge) raggruppa una pluralita' di fattispecie che,  gia'  a  livello
astratto, sono connotate da ben diverso disvalore, come dimostrano  i
relativi quadri sanzionatori previsti dal legislatore: reclusione  da
tre a dieci anni per i fatti previsti  dal  primo  e  secondo  comma;
reclusione da uno a cinque anni per gli assai meno  gravi  fatti  (di
bancarotta cosiddetta preferenziale) previsti dal terzo comma. 
    Ma anche all'interno delle singole figure di  reato  previste  in
astratto da ciascun comma, nonche' di quelle previste dall'art.  223,
secondo comma,  della  legge  fallimentare,  la  gravita'  dei  fatti
concreti ad esse riconducibili puo' essere  marcatamente  differente,
in relazione se non altro alla gravita' del pericolo di  frustrazione
delle  ragioni  creditorie  (in  termini  sia  di   probabilita'   di
verificazione del danno, sia di entita' del danno medesimo, anche  in
termini di numero  delle  persone  offese)  creato  con  la  condotta
costitutiva del reato. 
    La durata delle pene accessorie  temporanee  comminate  dall'art.
216,  ultimo   comma,   della   legge   fallimentare   resta   invece
indefettibilmente  determinata  in  dieci  anni,  quale  che  sia  la
qualificazione astratta del reato ascritto all'imputato (ai sensi del
primo, del secondo o del terzo comma dello stesso art. 216), e  quale
che sia la gravita'  concreta  delle  condotte  costitutive  di  tale
reato; e resta, altresi', insensibile all'eventuale sussistenza delle
circostanze aggravanti o  attenuanti  previste  dall'art.  219  della
medesima legge, le quali pure  determinano  variazioni  significative
della pena edittale, potendo determinare un abbassamento  del  minimo
sino a due anni (ulteriormente riducibili in caso di scelta  di  riti
alternativi da  parte  dell'imputato),  ovvero  un  innalzamento  del
massimo sino a quindici anni di reclusione. 
    Una  simile  rigidita'  applicativa  non  puo'  che  generare  la
possibilita' di risposte sanzionatorie manifestamente  sproporzionate
per eccesso - e dunque in contrasto con gli artt.  3  e  27  Cost.  -
rispetto ai fatti di bancarotta  fraudolenta  meno  gravi;  e  appare
comunque    distonica    rispetto     al     menzionato     principio
dell'individualizzazione del trattamento sanzionatorio. 
    Tale conclusione non e', d'altra parte, inficiata dalle  pronunce
di questa Corte che hanno, talvolta,  considerato  costituzionalmente
legittime pene pecuniarie  di  natura  proporzionale  congiunte  alla
reclusione o all'arresto, argomentando nel senso  che  la  necessaria
flessibilita' della pena era, in  quelle  ipotesi,  assicurata  dalla
commisurazione giudiziale della pena privativa della  liberta'  entro
il minimo e il massimo fissati dal legislatore (sentenza n.  188  del
1982; ordinanza n. 475 del 2002). Come recentemente  sottolineato  da
questa Corte, infatti, la pena  proporzionale  si  differenzia  dalla
pena fissa (sentenza n. 142 del 2017), proprio in quanto  impone  pur
sempre al giudice una commisurazione che, per  definizione,  reagisce
alla diversa gravita' del fatto concreto  (in  genere  attraverso  la
moltiplicazione di un coefficiente sanzionatorio fisso per il  numero
dei beni o delle persone che in concreto  sono  stati  oggetto  della
condotta illecita). La disposizione oggi all'esame affianca invece ad
una pena detentiva, modulabile tra il minimo e il  massimo  edittale,
pene accessorie fisse nel loro ammontare,  che  come  tali  sono  del
tutto insensibili alla  gravita'  concreta  delle  condotte  commesse
dall'imputato, e che per di piu' risultano  -  come  si  e'  detto  -
manifestamente sproporzionate, ove  applicate  ai  fatti  meno  gravi
riconducibili al paradigma  astratto  della  bancarotta  fraudolenta,
propria o societaria. 
    8.-  A  questo  punto,  occorre  pero'  domandarsi  se   a   tale
riscontrato vulnus ai  principi  costituzionali  questa  Corte  possa
porre rimedio; e cio' alla luce dell'art. 25, secondo  comma,  Cost.,
che riserva al solo legislatore le scelte in materia  di  trattamento
sanzionatorio dei fatti costituenti reato. 
    Come indicato al precedente punto 5., l'Avvocatura generale dello
Stato ha - in effetti - eccepito l'inammissibilita'  della  questione
di  legittimita'  costituzionale  ora  prospettata,  sulla  base  del
medesimo argomento che aveva condotto questa Corte, nella sentenza n.
134 del 2012 (e poi, in termini identici, nell'ordinanza n.  208  del
2012), a dichiarare inammissibile analoga  questione  gia'  sollevata
dalla Corte di cassazione: e cioe' in  ragione  dell'assenza  di  una
soluzione costituzionalmente obbligata, in grado di prendere il posto
di quella che si sarebbe dovuta dichiarare illegittima. 
    L'eccezione deve, tuttavia, essere respinta,  alla  luce  di  una
complessiva rimeditazione dei termini della questione.  Rimeditazione
che, da un lato, non puo' non tener conto della circostanza che  -  a
tutt'oggi - il legislatore non ha provveduto a  quella  «riforma  del
sistema delle pene accessorie, che lo  renda  pienamente  compatibile
con i principi della Costituzione, ed in particolare con  l'art.  27,
terzo comma», auspicata da questa Corte nella  sentenza  n.  134  del
2012; e che, dall'altro, non puo'  non  considerare  l'evoluzione  in
atto  nella  stessa  giurisprudenza  costituzionale  in  materia   di
sindacato sulla misura delle pene. 
    8.1.- Questa Corte ha avuto recentemente occasione  di  stabilire
che, laddove il trattamento sanzionatorio  previsto  dal  legislatore
per  una  determinata  figura  di  reato  si  riveli   manifestamente
irragionevole a causa della sua evidente sproporzione  rispetto  alla
gravita' del fatto, un intervento correttivo del giudice delle  leggi
e' possibile a condizione che il trattamento  sanzionatorio  medesimo
possa essere sostituito sulla base di «precisi punti di  riferimento,
gia' rinvenibili nel sistema legislativo»,  intesi  quali  «soluzioni
[sanzionatorie] gia' esistenti,  idonee  a  eliminare  o  ridurre  la
manifesta irragionevolezza lamentata» (sentenza n. 236 del 2016). 
    Tale principio deve essere confermato, e ulteriormente precisato,
nel senso che - a consentire l'intervento di questa Corte di fronte a
un   riscontrato   vulnus   ai   principi   di   proporzionalita'   e
individualizzazione del trattamento sanzionatorio - non e' necessario
che  esista,  nel  sistema,  un'unica  soluzione   costituzionalmente
vincolata in grado di sostituirsi a  quella  dichiarata  illegittima,
come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio,
idonea a essere assunta come  tertium  comparationis.  Essenziale,  e
sufficiente, a consentire il sindacato della Corte  sulla  congruita'
del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di
reato e' che il sistema nel suo complesso offra alla  Corte  «precisi
punti di riferimento» e soluzioni «gia' esistenti» (sentenza  n.  236
del 2016) - esse stesse immuni da vizi di  illegittimita',  ancorche'
non "costituzionalmente obbligate" -  che  possano  sostituirsi  alla
previsione sanzionatoria dichiarata illegittima; si' da consentire  a
questa Corte di porre rimedio nell'immediato al  vulnus  riscontrato,
senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi  di  volta
in volta tutelati dalla norma  incriminatrice  incisa  dalla  propria
pronuncia.  Resta  ferma,  d'altra  parte,  la  possibilita'  per  il
legislatore  di  intervenire  in  qualsiasi  momento  a  individuare,
nell'ambito della propria discrezionalita', altra - e in ipotesi piu'
congrua - soluzione sanzionatoria, purche'  rispettosa  dei  principi
costituzionali. 
    Tutto cio' in vista di una tutela effettiva dei  principi  e  dei
diritti  fondamentali   incisi   dalle   scelte   sanzionatorie   del
legislatore,  che  rischierebbero  di  rimanere  senza   possibilita'
pratica di protezione laddove l'intervento di questa  Corte  restasse
vincolato, come e' stato a lungo in passato, ad una  rigida  esigenza
di "rime obbligate" nell'individuazione della sanzione applicabile in
luogo di quella dichiarata illegittima. 
    8.2.- In applicazione di tali criteri, occorre dunque vagliare se
il sistema dei reati fallimentari, cosi' come disegnato dal  r.d.  n.
267 del 1942, sia in grado di offrire a questa Corte precisi punti di
riferimento nell'individuazione di un trattamento  sanzionatorio  che
possa nell'immediato sostituirsi a quello dichiarato  illegittimo;  e
cio'  sino  a  che  il  legislatore,  nell'esercizio  della   propria
discrezionalita', provveda a individuare  soluzioni  alternative  che
dovesse ritenere preferibili. 
    La sezione rimettente, come gia' ricordato, osserva che,  laddove
questa Corte eliminasse dall'art.  216,  ultimo  comma,  della  legge
fallimentare  l'inciso  «per   la   durata   di   dieci   anni»,   si
riespanderebbe la regola residuale posta dall'art. 37  cod.  pen.,  a
tenore del quale - per la parte che qui rileva - «[q]uando  la  legge
stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea,  e
la durata  di  questa  non  e'  espressamente  determinata,  la  pena
accessoria ha una  durata  eguale  a  quella  della  pena  principale
inflitta». 
    In quest'ottica, la regola residuale di cui all'art. 37 cod. pen.
- pur costituendo, come a suo tempo rilevato dalla  sentenza  n.  134
del 2012, solo «una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso  di
accoglimento della  questione»  -  opererebbe  pur  sempre  come  una
soluzione  gia'  esistente  nel  sistema,   in   grado   di   colmare
automaticamente il vuoto  creato  con  l'ablazione,  da  parte  della
pronuncia di illegittimita' costituzionale, dell'inciso relativo alla
durata legale  delle  pene  accessorie  previste  dalla  disposizione
censurata. 
    8.3.-  La  soluzione  proposta   dall'ordinanza   di   rimessione
ancorerebbe la durata concreta delle pene accessorie a  quella  della
pena detentiva concretamente inflitta; durata che -  a  sua  volta  -
dipende da tutti i fattori menzionati nell'art. 133 cod. pen. Il  che
assicurerebbe, sia pure in via mediata e indiretta, un certo grado di
rispetto del principio di individualizzazione alle pene accessorie. 
    Tuttavia, tale soluzione finirebbe  per  sostituire  l'originario
automatismo legale  con  un  diverso  automatismo,  che  rischierebbe
altresi' di risultare distonico rispetto  al  legittimo  intento  del
legislatore storico di colpire in modo severo gli autori dei  delitti
di bancarotta fraudolenta, considerati a buon diritto come gravemente
lesivi di interessi, individuali e collettivi,  vitali  per  il  buon
funzionamento del sistema economico. 
    L'art. 861 del codice di commercio del  1882  gia'  prevedeva  la
pena dell'inabilitazione perpetua dall'esercizio della professione di
commerciante per il condannato per bancarotta.  Tale  statuizione  fu
modificata  in  mitius  con  la  legge  10  luglio   1930,   n.   995
(Disposizioni  sul  fallimento,  sul  concordato  preventivo,  e  sui
piccoli fallimenti), che all'art. 20 affidava al giudice  il  compito
di determinare,  nella  sentenza  di  condanna,  la  durata  di  tale
inabilitazione tra un minimo di cinque e un massimo  di  dieci  anni.
Pochi anni dopo, tuttavia, la legge fallimentare del 1942  intervenne
a inasprire nuovamente il trattamento sanzionatorio per il condannato
a titolo di bancarotta fraudolenta, attraverso la previsione  di  due
distinte  pene  accessorie,  autonome  e  complementari,   volte   ad
allontanarlo  dall'ambito  imprenditoriale  per  un   lungo   periodo
successivo all'esecuzione della pena detentiva. E cio', all'evidenza,
allo scopo di estendere nel tempo l'effetto di  prevenzione  speciale
negativa gia' esplicato dall'esecuzione della pena  detentiva,  oltre
che di conferire maggiore capacita' deterrente all'incriminazione. 
    La scelta legislativa compiuta nel 1942 sottende  l'idea  di  una
funzione almeno in parte distinta di queste pene accessorie  rispetto
alle funzioni proprie  della  reclusione:  cio'  che  ne  giustifica,
nell'ottica del legislatore storico - e  in  consapevole  difformita'
rispetto alla regola residuale di cui all'art.  37  cod.  pen.,  gia'
esistente nel 1942 -, una durata di regola maggiore rispetto a quella
della pena detentiva concretamente inflitta. 
    Una simile prospettiva, che  assegna  alle  pene  accessorie  una
funzione almeno in  parte  distinta  rispetto  a  quella  delle  pene
detentive,  e  marcatamente  orientata  alla   prevenzione   speciale
negativa - imperniata  sull'interdizione  del  condannato  da  quelle
attivita' che gli hanno  fornito  l'occasione  per  commettere  gravi
reati -, e' di per se' immune da censure sotto il profilo  della  sua
legittimita' costituzionale. 
    Essenziale a garantire la compatibilita' delle pene accessorie di
natura interdittiva con  il  "volto  costituzionale"  della  sanzione
penale  e',  infatti,   che   esse   non   risultino   manifestamente
sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore  del  fatto
di reato, tanto da vanificare lo stesso obiettivo  di  «rieducazione»
del reo, imposto dall'art. 27, terzo comma, Cost. Fermo restando tale
limite, nulla osta, sul piano dei principi costituzionali, a  che  il
legislatore possa articolare strategie di prevenzione di gravi  reati
attraverso la previsione di sanzioni interdittive, la cui durata  sia
stabilita in modo indipendente da quella della pena detentiva; e cio'
in ragione della diversa finalita' delle due tipologie  di  sanzione,
oltre che del loro diverso grado di afflittivita' rispetto ai diritti
fondamentali  della  persona.  In  ottica  de  iure  condendo,  anzi,
strategie  siffatte  ben  potrebbero  risultare  funzionali   a   una
possibile riduzione dell'attuale centralita' della pena detentiva nel
sistema sanzionatorio, senza indebolire la capacita' deterrente della
norma   penale,   ne'   l'idoneita'   della   complessiva    risposta
sanzionatoria  rispetto  all'altrettanto  legittimo  obiettivo  della
prevenzione  speciale  negativa.  Finalita',  l'una  e  l'altra,  che
potrebbero in ipotesi essere conseguite,  nel  caso  concreto,  anche
senza la pena  detentiva,  ovvero  mediante  l'applicazione  di  pene
detentive di durata piu' ridotta rispetto a quanto oggi  abitualmente
accada, ogniqualvolta sia previsto,  per  l'appunto,  un  robusto  ed
efficace corredo di pene interdittive, se del caso disciplinate anche
come autonome pene  principali,  secondo  quanto  suggerito  da  vari
progetti di riforma (come lo «Schema  di  disegno  di  legge  recante
delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione della
parte generale di un nuovo codice penale», presentato nel maggio 2007
dalla Commissione "Pisapia", nonche' lo «Schema per la  redazione  di
principi e criteri direttivi di  delega  legislativa  in  materia  di
riforma del sistema sanzionatorio penale» elaborato nel dicembre 2013
dalla Commissione "Palazzo"). 
    La soluzione in questa sede prospettata dalla sezione  rimettente
- ancorando meccanicamente la durata delle pene accessorie in esame a
quella della pena detentiva concretamente  inflitta  -  frustrerebbe,
allora,   indebitamente   il   legittimo   scopo   perseguito   dalla
disposizione impugnata: disposizione, peraltro, il cui vizio consiste
non gia', in via generale,  nel  difetto  di  proporzionalita'  della
durata decennale delle pene accessorie da essa previste per tutte  le
ipotesi di bancarotta fraudolenta; bensi'  nella  fissazione  di  una
loro unica e indifferenziata durata  legale,  che  -  precludendo  al
giudice ogni apprezzamento discrezionale sulla gravita' del  reato  e
sulle condizioni  personali  del  condannato  -  e'  suscettibile  di
tradursi   nell'inflizione   di   pene   accessorie    manifestamente
sproporzionate  rispetto  a  quelle  sole   ipotesi   di   bancarotta
fraudolenta che siano caratterizzate da un disvalore comparativamente
lieve. 
    8.4.-  Il  sistema  della  legge  fallimentare   vigente   offre,
tuttavia, una diversa soluzione, in grado  di  sostituirsi  a  quella
prevista dalla disposizione in questa sede censurata, e di  inserirsi
al tempo stesso armonicamente all'interno della logica  gia'  seguita
dal legislatore, al netto del riscontrato vizio di costituzionalita'. 
    Le due disposizioni che immediatamente seguono l'art.  216  della
legge fallimentare - l'art. 217, rubricato «Bancarotta  semplice»,  e
l'art. 218, rubricato «Ricorso abusivo al  credito»  -  prevedono  le
medesime pene accessorie indicate nell'ultimo comma dell'art. 216; ma
dispongono che la loro durata  sia  stabilita  discrezionalmente  dal
giudice «fino a» un massimo determinato dalla  legge  (due  anni  nel
caso della bancarotta semplice, tre anni nel caso del ricorso abusivo
al credito). 
    La medesima logica, gia' presente e operante  nel  sistema,  puo'
agevolmente essere trasposta all'interno dell'art.  216  della  legge
fallimentare,  attraverso  la  sostituzione  dell'attuale  previsione
della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in  esame  con
la previsione, modellata su quella gia' prevista per gli artt. 217  e
218 della medesima legge, della loro durata «fino a dieci anni». 
    Pertanto,  la  disposizione  censurata  deve  essere   dichiarata
illegittima nella parte in cui dispone:  «la  condanna  per  uno  dei
fatti previsti dal presente articolo importa per la durata  di  dieci
anni l'inabilitazione all'esercizio  di  una  impresa  commerciale  e
l'incapacita' per la stessa durata  ad  esercitare  uffici  direttivi
presso qualsiasi impresa», anziche': «la condanna per uno  dei  fatti
previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio
di una impresa  commerciale  e  l'incapacita'  ad  esercitare  uffici
direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni». 
    Tale soluzione - ovviamente soggetta a eventuali rivalutazioni da
parte  del  legislatore,  sempre  nel  rispetto  del   principio   di
proporzionalita'  -  consentira'  al  giudice  di  determinare,   con
valutazione caso per caso e disgiunta da  quella  che  presiede  alla
commisurazione della pena detentiva, la durata delle pene  accessorie
previste  dalla  disposizione  censurata,  sulla  base  dei   criteri
indicati  dall'art.  133  cod.  pen.;  durata  che  potrebbe   dunque
risultare, in concreto,  maggiore  di  quella  della  pena  detentiva
contestualmente inflitta, purche' entro il limite  massimo  di  dieci
anni. Cio' tenendo conto sia del diverso carico di afflittivita', sia
della diversa finalita', che caratterizzano  le  pene  accessorie  in
parola  rispetto  alla  pena  detentiva:  diverse   afflittivita'   e
finalita' che suggeriscono, nell'ottica di una piena  attuazione  dei
principi costituzionali  che  presiedono  alla  commisurazione  della
pena, una determinazione giudiziale autonoma delle due  tipologie  di
pena nel caso concreto. 
    Fermo restando che «la valutazione del modo  in  cui  il  sistema
normativo reagisce ad una  sentenza  costituzionale  di  accoglimento
[...] spetta al giudice del processo principale, unico  competente  a
definire  il  giudizio  da  cui  prende  le  mosse   l'incidente   di
costituzionalita'» (sentenza n. 28 del  2010),  a  parere  di  questa
Corte la regola residuale di cui all'art. 37  cod.  pen.  continuera'
dunque a non operare rispetto all'art. 216, ultimo comma, della legge
fallimentare -  come  risultante  dalla  presente  pronuncia  -,  dal
momento che tale regola ha come  suo  presupposto  operativo  che  la
durata  della  pena  accessoria  temporanea  non  sia   espressamente
determinata  dalla  legge.  L'esistenza  di  una  lex  specialis,  in
effetti,  esclude  l'operativita'  del  criterio  residuale  di   cui
all'art. 37 cod. pen., il cui inciso finale («in nessun caso [la pena
accessoria] puo' oltrepassare  il  limite  minimo  e  quello  massimo
stabilito per ciascuna specie di pena  accessoria»)  appare  riferito
non gia' ai limiti  di  durata  delle  pene  accessorie  previsti  da
singole  norme  incriminatrici  -  come  l'art.   216   della   legge
fallimentare -, bensi' ai limiti minimi e massimi  individuati  dalle
disposizioni del Libro I del codice penale -  in  particolare,  dagli
artt. 28, terzo comma, 30, secondo comma, 32-ter, secondo comma,  35,
secondo comma, e 35-bis, secondo comma, cod. pen. - che prevedono  le
singole «specie» di pene accessorie. 
    8.5.- La  questione  di  legittimita'  costituzionale  avente  ad
oggetto l'art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare  deve,  in
conclusione, ritenersi  ammissibile  e  fondata,  nei  termini  sopra
precisati, con riferimento agli artt. 3 e 27, primo  e  terzo  comma,
Cost., restando assorbito ogni altro profilo di censura. 
    9.- L'accoglimento nei termini predetti della questione  relativa
all'art.  216,  ultimo  comma,   della   legge   fallimentare   rende
inammissibile,  per  sopravvenuta  carenza  di  oggetto,  la  seconda
questione relativa all'art. 223, ultimo comma, della medesima  legge,
dal momento che il  contenuto  di  quest'ultima  disposizione  -  che
strutturalmente opera un rinvio mobile alla disposizione incisa dalla
presente pronuncia - e' destinato a essere automaticamente modificato
in   conseguenza   della   presente   pronuncia   di   illegittimita'
costituzionale. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara inammissibile la costituzione in giudizio di  A.  M.,
parte civile nel giudizio a quo; 
    2) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 216, ultimo
comma, del regio decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del
fallimento, del concordato preventivo  e  della  liquidazione  coatta
amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei
fatti previsti dal presente articolo importa per la durata  di  dieci
anni l'inabilitazione all'esercizio  di  una  impresa  commerciale  e
l'incapacita' per la stessa durata  ad  esercitare  uffici  direttivi
presso qualsiasi impresa», anziche': «la condanna per uno  dei  fatti
previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio
di una impresa  commerciale  e  l'incapacita'  ad  esercitare  uffici
direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni»; 
    3)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 223, ultimo comma, della legge fallimentare,
sollevata dalla  Corte  di  cassazione,  prima  sezione  penale,  con
l'ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 4, 41,
27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in  relazione
agli artt. 8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, fatto
a Parigi il 20 marzo 1952, entrambi ratificati e resi  esecutivi  con
la legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 settembre 2018. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA