N. 20 SENTENZA 23 gennaio - 21 febbraio 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Dirigenti delle pubbliche amministrazioni - Obblighi di pubblicazione
  dei compensi di qualsiasi natura percepiti nonche' di dati relativi
  al reddito e al patrimonio personali e degli stretti congiunti. 
- Decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina
  riguardante  il  diritto  di  accesso  civico  e  gli  obblighi  di
  pubblicita', trasparenza e  diffusione  di  informazioni  da  parte
  delle pubbliche amministrazioni), art. 14, commi 1-bis e 1-ter. 
-   
(GU n.9 del 27-2-2019 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI, 
  
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  14,  commi
1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino
della disciplina riguardante il  diritto  di  accesso  civico  e  gli
obblighi di pubblicita', trasparenza e diffusione di informazioni  da
parte  delle  pubbliche  amministrazioni),  promosso  dal   Tribunale
amministrativo  regionale  del  Lazio,  sezione  prima  quater,   con
ordinanza del 19 settembre 2017, iscritta  al  n.  167  del  registro
ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visti l'atto di costituzione di R. A.  e  altri,  nonche'  l'atto
d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica  del  20  novembre  2018  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi gli avvocati Micaela Grandi e Stefano Orlandi per R.  A.  e
altri e l'Avvocato dello Stato Gianna Galluzzo per il Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Con  ordinanza  del  19   settembre   2017,   il   Tribunale
amministrativo  regionale  del  Lazio,  sezione  prima   quater,   ha
sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13  e  117,  primo  comma,
della Costituzione - quest'ultimo in relazione agli artt. 7, 8  e  52
della Carta dei diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo  il  12
dicembre 2007, all'art. 8 della Convenzione per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la  legge  4
agosto 1955, n. 848,  all'art.  5  della  Convenzione  n.  108  sulla
protezione delle persone rispetto  al  trattamento  automatizzato  di
dati di carattere personale, adottata  a  Strasburgo  il  28  gennaio
1981, ratificata e resa esecutiva con la legge 21 febbraio  1989,  n.
98, nonche' agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere  c)  ed
e), e 8, paragrafi 1 e 4, della  direttiva  95/46/CE  del  Parlamento
europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995,  relativa  alla  tutela
delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali,
nonche'  alla  libera  circolazione  di  tali  dati  -  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 14, commi 1-bis  e  1-ter,  del
decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino  della  disciplina
riguardante  il  diritto  di  accesso  civico  e  gli   obblighi   di
pubblicita', trasparenza e diffusione di informazioni da parte  delle
pubbliche amministrazioni). 
    Le indicate  disposizioni  -  inserite  dall'art.  13,  comma  1,
lettera c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97  (Revisione
e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione  della
corruzione, pubblicita'  e  trasparenza,  correttivo  della  legge  6
novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33,
ai sensi dell'articolo 7 della  legge  7  agosto  2015,  n.  124,  in
materia  di  riorganizzazione  delle  amministrazioni  pubbliche)   -
vengono censurate «nella parte in  cui  prevedono  che  le  pubbliche
amministrazioni pubblichino i dati  di  cui  all'art.  14,  comma  1,
lettere c) ed  f)  dello  stesso  decreto  legislativo  anche  per  i
titolari di incarichi dirigenziali». 
    1.1.- Il TAR Lazio espone che i ricorrenti nel giudizio a  quo  -
dirigenti di ruolo inseriti nell'organico  dell'ufficio  del  Garante
per la protezione dei dati personali - agiscono  per  l'annullamento:
della nota del Segretario generale del Garante per la protezione  dei
dati personali n. 34260/96505 del 14 novembre 2016;  delle  note  del
medesimo organo, n. 37894/96505, n. 37897/96505, n.  37899/96505,  n.
37892/96505, n. 37893/96505, n. 37898/96505, del  15  dicembre  2016,
«previa eventuale disapplicazione dell'art. 14, comma  1-bis,  d.lgs.
14 marzo 2013,  n.  33»,  oppure  previa  rimessione  alla  Corte  di
giustizia dell'Unione europea  o  alla  Corte  costituzionale  «della
questione in ordine  alla  compatibilita'  delle  disposizioni  sopra
citate con la normativa europea e costituzionale». 
    Il medesimo TAR rileva che la nota n. 34260/96505 del 14 novembre
2016 del Segretario generale del Garante per la protezione  dei  dati
personali - in adempimento delle prescrizioni previste  all'art.  14,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, nella parte  in  cui  prevede
che le pubbliche amministrazioni pubblichino  nel  proprio  sito  web
alcuni dati relativi ai  titolari  di  incarichi  dirigenziali  -  ha
invitato i ricorrenti a inviare entro un  dato  termine  la  relativa
documentazione, e precisamente: copia dell'ultima  dichiarazione  dei
redditi  presentata,  oscurando  i  dati  eccedenti;   dichiarazione,
aggiornata alla data di  sottoscrizione,  per  la  pubblicita'  della
situazione patrimoniale, da rendersi secondo uno schema allegato alla
richiesta; dichiarazione  di  negato  consenso  per  il  coniuge  non
separato e i parenti entro il  secondo  grado,  ovvero,  in  caso  di
avvenuta prestazione del  consenso,  copia  delle  dichiarazioni  dei
redditi dei suddetti  soggetti  e  dichiarazioni  aggiornate  per  la
pubblicita' delle rispettive situazioni  patrimoniali;  dichiarazione
dei dati relativi ad eventuali altre cariche presso enti  pubblici  o
privati o altri incarichi con oneri a carico della  finanza  pubblica
assunte dagli interessati. 
    Ricorda poi che alla  violazione  dell'obbligo  di  comunicazione
consegue, ai sensi dell'art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 33 del  2013,
una sanzione amministrativa, parimenti soggetta  a  pubblicazione,  a
carico   del   singolo   dirigente   responsabile    della    mancata
comunicazione. 
    1.2.- Il TAR Lazio ricostruisce, nel  suo  sviluppo  storico,  il
quadro normativo pertinente agli obblighi di trasparenza gravanti sui
dirigenti  pubblici,  fino  allo  stato  attuale,  risultante   dalle
modifiche apportate dal d.lgs. n. 97 del 2016. 
    Quest'ultimo ha equiparato gli obblighi di  trasparenza  gravanti
sui dirigenti a quelli imposti ai titolari di incarichi politici,  di
amministrazione, di  direzione  o  di  governo  di  livello  statale,
regionale e locale, attraverso  l'introduzione  del  censurato  comma
1-bis dell'art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, a norma del quale «[l]e
pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui al comma 1  per  i
titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di
governo comunque denominati, salvo  che  siano  attribuiti  a  titolo
gratuito, e per i titolari di  incarichi  dirigenziali,  a  qualsiasi
titolo conferiti,  ivi  inclusi  quelli  conferiti  discrezionalmente
dall'organo  di  indirizzo  politico  senza  procedure  pubbliche  di
selezione». 
    Il comma  1  dell'art.  14  appena  citato  indica  come  oggetto
dell'obbligo di comunicazione i seguenti dati: a) l'atto di nomina  o
di proclamazione, con l'indicazione della durata dell'incarico o  del
mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di qualsiasi natura
connessi all'assunzione della carica  e  gli  importi  di  viaggi  di
servizio e missioni pagati con fondi pubblici;  d)  i  dati  relativi
all'assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i
relativi compensi  a  qualsiasi  titolo  corrisposti;  e)  gli  altri
eventuali incarichi con oneri  a  carico  della  finanza  pubblica  e
l'indicazione dei  compensi  spettanti;  f)  le  dichiarazioni  e  le
attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n.
441 (Disposizioni per la pubblicita' della situazione patrimoniale di
titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni enti) -
relative alla dichiarazione dei redditi e  alla  dichiarazione  dello
stato patrimoniale, quest'ultima  concernente  il  possesso  di  beni
immobili o mobili registrati, azioni, obbligazioni o quote societarie
-, limitatamente al soggetto interessato, al coniuge non  separato  e
ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano,  con
la previsione che venga data evidenza al mancato consenso. 
    1.3.- In questo contesto, il rimettente  rileva  che,  secondo  i
ricorrenti, il  livello  di  trasparenza  richiesto  dalla  normativa
appena illustrata determinerebbe il trattamento  giuridico  dei  dati
indicati  a  carico  di  un   notevolissimo   numero   di   soggetti,
approssimativamente stimati in circa centoquarantamila unita',  senza
contare ne' i coniugi ne' i parenti fino al secondo grado, in base  a
elaborazioni attribuite all'Agenzia per la  rappresentanza  negoziale
delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Ricorda che essi sottolineano
il  carattere  limitativo  della  riservatezza  individuale   di   un
trattamento che non troverebbe rispondenza in alcun altro ordinamento
nazionale,   ponendosi   in   contrasto   con   il   «principio    di
proporzionalita' di derivazione europea». Il trattamento in questione
si  fonderebbe  «sull'erronea   assimilazione   di   condizioni   non
equiparabili fra loro (dirigenti delle  amministrazioni  pubbliche  e
degli altri  soggetti  cui  il  decreto  si  applica  e  titolari  di
incarichi politici)», prescindendo «dall'effettivo rischio corruttivo
insito nella funzione svolta». 
    1.4.- Riferisce il TAR Lazio che, con ordinanza  n.  1030  del  2
marzo 2017, la  domanda  di  sospensione  interinale  dell'esecuzione
degli atti gravati, incidentalmente formulata in  ricorso,  e'  stata
accolta. 
    1.5.-  Il  rimettente,  in  via  preliminare,  articola  un'ampia
motivazione per rigettare l'eccezione  pregiudiziale  di  difetto  di
giurisdizione, avanzata, nel giudizio  a  quo,  dal  Garante  per  la
protezione dei dati personali, sulla scorta dell'espressa  previsione
della devoluzione delle controversie al  giudice  ordinario  prevista
dall'art. 152 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196  (Codice
in materia di protezione  dei  dati  personali),  nella  formulazione
vigente al momento della proposizione del ricorso. 
    In particolare osserva che, nel giudizio in esame, si discute non
dell'applicazione  di  norme  del  d.lgs.  n.  196  del  2003  o   di
provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali
o di loro mancata adozione, bensi' di questioni e  provvedimenti  che
afferiscono alle norme in materia di trasparenza, di cui al d.lgs. n.
33 del 2013, con conseguente applicabilita' dell'art.  50  del  testo
legislativo da ultimo citato, a norma del  quale  «[l]e  controversie
relative  agli  obblighi  di  trasparenza  previsti  dalla  normativa
vigente sono disciplinate dal decreto legislativo 2 luglio  2010,  n.
104». Ne deriverebbe la giurisdizione del giudice amministrativo, dal
momento che l'art. 133, comma 1, lettera a), numero 6,  dell'Allegato
1 (Codice del  processo  amministrativo)  al  decreto  legislativo  2
luglio 2010, n. 104  (Attuazione  dell'articolo  44  della  legge  18
giugno 2009, n. 69, recante delega al governo  per  il  riordino  del
processo amministrativo) indica,  tra  le  materie  di  giurisdizione
esclusiva  attribuite  al  giudice  amministrativo,  il  «diritto  di
accesso ai documenti amministrativi e violazione  degli  obblighi  di
trasparenza amministrativa». 
    1.6.-  Rigettate  altre  eccezioni  preliminari,  il   rimettente
enumera  le  fonti  sovranazionali  rilevanti  nel  caso  di  specie,
soffermandosi, in particolare, sugli artt. 6,  paragrafo  1,  lettera
c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE, ed  evidenziando
come i principi da essi espressi siano stati confermati  nella  nuova
normativa in materia di protezione  dei  dati  personali  di  cui  al
regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del
27 aprile 2016, relativo alla protezione delle  persone  fisiche  con
riguardo al trattamento  dei  dati  personali,  nonche'  alla  libera
circolazione  di  tali  dati  e  che  abroga  la  direttiva  95/46/CE
(regolamento generale sulla protezione dei dati), entrato  in  vigore
il 24 maggio 2016, pur con efficacia differita al 25 maggio 2018. 
    Dalle illustrate disposizioni il rimettente ricava  il  principio
secondo  cui  la  tutela  delle  persone  fisiche  con  riguardo   al
trattamento dei dati personali, nonche' alla libera  circolazione  di
tali dati, non osta a una normativa nazionale che imponga la raccolta
e la divulgazione dei dati sui redditi  dei  dipendenti  pubblici,  a
condizione, pero', che  sia  provato  che  la  divulgazione,  laddove
puntuale, ovvero riferita anche ai nominativi dei dipendenti, risulti
necessaria e appropriata per  l'obiettivo  di  buona  gestione  delle
risorse pubbliche. 
    Secondo il TAR Lazio, infatti, i  principi  di  proporzionalita',
pertinenza e non eccedenza costituiscono il  canone  complessivo  che
governa il rapporto tra esigenza, privata,  di  protezione  dei  dati
personali, ed esigenza, pubblica, di trasparenza. 
    1.7.- In punto  di  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
evidenzia la necessita' di adottare un sistema rigido di  prevenzione
della corruzione, la cui  percezione  e'  da  intendersi  anche  come
carenza di trasparenza, ma afferma che cio' dovrebbe avvenire  sempre
nel rispetto dei principi di proporzionalita' e ragionevolezza  delle
misure adottate. 
    Afferma, in particolare, che «la denunzia di incompatibilita' con
la normativa europea e costituzionale  formulata  dai  ricorrenti  in
relazione ai contestati dati  oggetto  di  divulgazione  risulta  non
manifestamente infondata», sotto i profili di seguito elencati. 
    1.8.- Quanto alla equiparazione  dei  dirigenti  pubblici  con  i
titolari  di  incarichi   politici   (originari   destinatari   della
previsione di cui all'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013)  e
all'assenza di qualsiasi differenziazione tra le figure dirigenziali,
il rimettente osserva che la previsione normativa violerebbe l'art. 3
Cost. perche' assimilerebbe condizioni che, «all'evidenza,  non  sono
equiparabili fra loro», per «genesi, struttura, funzioni esercitate e
poteri statali di riferimento». 
    A tale proposito evidenzia che i rapporti  e  le  responsabilita'
che correlano le due figure ai cittadini si collocano  su  piani  non
comunicanti, cio' che renderebbe  «del  tutto  implausibile  la  loro
riconduzione, agli esclusivi fini della trasparenza,  nell'ambito  di
un identico regime». 
    1.9.- La mancata differenziazione tra le  categorie  dirigenziali
soggette alla misura, in base,  ad  esempio,  all'amministrazione  di
appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto ricoperte, ai
compensi percepiti, sarebbe parimenti «indice  di  una  non  adeguata
calibrazione  della  disposizione  in  parola»,  tenuto  conto  della
molteplicita'    delle     categorie     dirigenziali     rinvenibili
nell'ordinamento vigente e della connessa varieta' ed estensione  dei
segmenti   di   potere   amministrativo   esercitato:    la    misura
riguarderebbe,   secondo    le    elaborazioni    dell'ARAN,    oltre
centoquarantamila    dirigenti,    senza    alcuna     considerazione
dell'effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta. 
    1.10.- Altro sintomo di irragionevolezza della  disciplina  viene
individuato nel fatto che la divulgazione on line  di  una  quantita'
enorme di dati comporterebbe dei rischi di alterazione, manipolazione
e riproduzione per fini diversi, che potrebbero frustrare le esigenze
di informazione veritiera e, quindi, di controllo,  alla  base  della
normativa. 
    Le  stesse  modalita'  di  diffusione  dei  dati   reddituali   e
patrimoniali (relativi ai dirigenti, ai coniugi e ai parenti entro il
secondo  grado,  ove  essi  acconsentano,   e   salva   la   menzione
dell'eventuale mancato consenso),  desunti  dalla  dichiarazione  dei
redditi, non supererebbero il test di proporzionalita' condotto sulla
misura in esame. Infatti, ai sensi degli artt. 7-bis e 9  del  d.lgs.
n. 33 del 2013, le amministrazioni cui compete  la  pubblicazione  on
line dei dati non possono disporre filtri e altre soluzioni  tecniche
atte ad impedire ai motori  di  ricerca  web  di  indicizzarli  o  di
renderli  non   consultabili.   Tali   modalita'   di   pubblicazione
renderebbero quest'ultima «indubbiamente foriera di usi da parte  del
pubblico  che  possono  trasmodare  [...]   dalla   finalita'   della
trasparenza, sino a giungere alla messa  a  rischio  della  sicurezza
degli interessati». 
    Osserva a tale proposito il TAR Lazio che  la  «pubblicazione  di
massicce  quantita'  di  dati»   non   si   traduce   automaticamente
nell'agevolazione  della  ricerca  di  quelli  piu'  significativi  a
determinati fini, soprattutto da parte dei singoli cittadini, i quali
anzi non avrebbero a disposizione efficaci strumenti di lettura e  di
elaborazione di dati  sovrabbondanti  o  eccessivamente  diffusi.  Il
regime di  trasparenza  in  funzione  di  contrasto  alla  corruzione
dovrebbe invece  essere  finalizzato,  a  parere  del  rimettente,  a
tutelare l'intera collettivita' e non solo i soggetti  «complessi»  a
vario titolo operanti  nell'ordinamento  vigente.  Allo  stato,  solo
questi ultimi sarebbero in possesso di strumenti idonei «a decrittare
importanti masse di informazioni», e  sarebbero  percio'  i  soli  in
grado di trarre, dai dati oggetto degli obblighi informativi  imposti
dalle  disposizioni  censurate,  «conclusioni  coerenti  con   quanto
complessivamente reso disponibile e con gli  obiettivi  propri  della
legislazione  di  cui  trattasi».  Ne  deriverebbe  la   frustrazione
dell'esigenza di consentire quella forma  diffusa  di  controllo  sul
perseguimento delle  funzioni  istituzionali  e  sull'utilizzo  delle
risorse pubbliche, che pure costituisce la finalita'  perseguita  dal
d.lgs. n. 33 del 2013. 
    1.11.- Le disposizioni censurate, sotto i profili  in  precedenza
segnalati, si porrebbero, dunque, in contrasto con diversi  parametri
costituzionali. 
    1.11.1.- In primo luogo sarebbe leso  l'art.  117,  primo  comma,
Cost., che vincola la potesta' legislativa esercitata dallo  Stato  e
dalle Regioni al rispetto della  Costituzione,  nonche'  dei  vincoli
derivanti   dall'ordinamento    comunitario    e    dagli    obblighi
internazionali, tra cui si collocano i principi di  proporzionalita',
pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali. 
    1.11.2.- In secondo luogo sarebbe violato l'art. 3 Cost., per  il
contrasto con il «principio di uguaglianza formale e sostanziale», in
conseguenza sia dell'irragionevole  parita'  di  trattamento  che  la
disposizione riserva ai titolari di incarichi politici e ai  titolari
di incarichi dirigenziali, categorie  ritenute  non  assimilabili  in
quanto  soggette  a   regimi   giuridici   incomparabili,   sia   per
l'irragionevole parificazione di tutti  gli  incarichi  dirigenziali,
effettuata   senza    distinguere,    conformemente    alla    natura
dell'interesse pubblico perseguito  dalla  norma,  la  portata  degli
obblighi di pubblicita' on  line  in  ragione  delle  caratteristiche
delle loro tipologie, ovvero in riferimento al grado  di  esposizione
dell'incarico pubblico al rischio di corruzione e  all'entita'  delle
risorse  pubbliche  assegnate  all'ufficio  della  cui  gestione   il
soggetto interessato deve rispondere. 
    1.11.3.- Sarebbero altresi' violati gli artt. 2 e 13  Cost.,  che
tutelano i diritti inviolabili dell'uomo  e  la  liberta'  personale,
stante la «suscettibilita' della prescrizione imposta ai dirigenti di
comunicare,  ai  fini   della   loro   pubblicazione,   i   dati   in
contestazione, desunti dalla dichiarazione dei  redditi,  invece  che
una loro  ragionata  elaborazione,  piu'  funzionale  alle  finalita'
perseguite dalla trasparenza  amministrativa  e  atta  a  scongiurare
incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di dati,  per
un verso, superflui ai fini perseguiti dalla norma, per altro  verso,
suscettibili di interpretazioni distorte». 
    1.12.- Il TAR Lazio si mostra consapevole del fatto che la  Corte
di giustizia delle Comunita' europee (sentenza 20 maggio 2003,  nelle
cause  riunite  C-465/00,  C-138/01  e   C-139/01,   Österreichischer
Rundfunk e altri), ha ritenuto che gli artt. 6, paragrafo 1,  lettera
c), e 7, lettere c) ed e),  della  direttiva  95/46/CE  -  che  hanno
«trovato conferma» nelle disposizioni del regolamento n.  2016/679/UE
- sono direttamente applicabili, nel senso che  essi  possono  essere
fatti valere da un singolo dinanzi ai giudici nazionali  per  evitare
l'applicazione delle  norme  di  diritto  interno  contrarie  a  tali
disposizioni. 
    Esclude tuttavia che la  norma  contestata  sia  suscettibile  di
essere disapplicata «per contrasto con normative comunitarie»,  posto
che non sarebbe individuabile una «disciplina self-executing di  tale
matrice  direttamente  applicabile  alla   fattispecie   oggetto   di
giudizio». 
    Ritiene, infatti, che i principi di proporzionalita',  pertinenza
e non eccedenza di fonte europea invocati dai ricorrenti nel giudizio
principale  non  sarebbero  altro  che  «criteri  in  base  ai  quali
effettuare  una  ponderazione  della  conformita'»  ad   essi   della
disciplina censurata. Ma tale operazione necessariamente  sconterebbe
«i differenti caratteri e la diversa portata dell'interesse  pubblico
generale che si intende tutelare attraverso il regime di trasparenza,
e che puo' avere una configurazione diversa, a  seconda  del  sistema
nazionale considerato». 
    Il TAR  Lazio  evidenzia,  dunque,  che  le  strade  percorribili
sarebbero due:  un  rinvio  pregiudiziale  alla  Corte  di  giustizia
dell'Unione  europea  oppure  la  rimessione  di  una  questione   di
legittimita' costituzionale alla Corte costituzionale. 
    Tra i due rimedi opta per la rimessione alla Corte costituzionale
«della questione di costituzionalita'  relativa  all'art.  14,  comma
1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le
pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma
1, lett. c) ed f), dello  stesso  decreto  legislativo  anche  per  i
titolari di incarichi dirigenziali». 
    1.13.- In punto di  rilevanza  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale, il rimettente ribadisce che gli  atti  impugnati  nel
giudizio principale costituiscono diretta  applicazione  della  norma
sospettata di contrasto  con  la  Costituzione,  sicche'  solo  dalla
dichiarazione di illegittimita' costituzionale della norma  censurata
potrebbe  derivare  il  richiesto  accoglimento   del   ricorso   per
illegittimita' derivata degli atti impugnati. 
    1.14.- Il rimettente ritiene non manifestamente  infondata  anche
la questione di  legittimita'  costituzionale  del  comma  1-ter  del
medesimo art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013,  secondo  cui  «[c]iascun
dirigente  comunica  all'amministrazione  presso  la   quale   presta
servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della  finanza
pubblica, anche in relazione  a  quanto  previsto  dall'articolo  13,
comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014,  n.  66,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n.  89.  L'amministrazione
pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare  complessivo  dei
suddetti emolumenti per ciascun dirigente». 
    A suo parere, infatti,  l'oggetto  della  pubblicazione  prevista
dall'ultimo periodo del predetto comma 1-ter  costituirebbe  un  dato
aggregato che contiene quello di cui al comma 1,  lettera  c),  dello
stesso  articolo  e  potrebbe,  anzi,  corrispondere  del   tutto   a
quest'ultimo, laddove il dirigente non  percepisca  altro  emolumento
diverso dalla retribuzione per l'incarico assegnato. 
    Di qui la decisione «di estendere, d'ufficio, ai sensi  dell'art.
23 della l. 11 marzo 1953, n. 87, recante norme sulla costituzione  e
sul  funzionamento  della  Corte  Costituzionale,  la  questione   di
legittimita' costituzionale anche al comma  1-ter  dell'art.  14  del
d.lgs. 33/2013, limitatamente alla  prescrizione  di  cui  all'ultimo
periodo», a norma del quale «[l]'amministrazione pubblica sul proprio
sito istituzionale l'ammontare complessivo  dei  suddetti  emolumenti
per ciascun dirigente». 
    In ordine alla  motivazione  in  punto  di  rilevanza  e  di  non
manifesta  infondatezza  della  ulteriore  questione  sollevata,   il
rimettente si limita a richiamare  «integralmente  le  argomentazioni
gia' esposte in ordine all'art. 14,  comma  1-bis,  d.lgs.  14  marzo
2013, n. 33». 
    2.- Si sono costituite le parti private R. A. e altri,  le  quali
hanno ripercorso, nelle loro difese, la vicenda amministrativa e  poi
giudiziaria che ha condotto  alla  proposizione  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale. 
    2.1.- Preliminarmente, esse hanno  contestato  la  negazione,  da
parte del TAR Lazio adito, del carattere self-executing  del  diritto
europeo  richiamato  nel  ricorso  introduttivo  del   giudizio,   in
considerazione del fatto che tale carattere  sarebbe  stato,  invece,
espressamente riconosciuto, quantomeno agli  artt.  6,  paragrafo  1,
lettera c), e 7, lettere c) ed e), della  direttiva  95/46/CE,  dalla
citata sentenza del 20 maggio 2003 della Corte di giustizia. 
    A sostegno  hanno  richiamato  altre  decisioni  della  Corte  di
Lussemburgo in materia di protezione dei dati personali, dalle  quali
traggono la convinzione che spetti al  giudice  amministrativo  adito
pronunciarsi   sulla   compatibilita'   con   il   diritto    europeo
self-executing della norma censurata. 
    Hanno tuttavia riconosciuto, «[i]n alternativa», che, venendo  in
rilievo norme della CDFUE (artt. 7 e 8),  «alla  luce  di  quanto  da
ultimo  deciso  con  sentenza  n.  269/2017»,   spetti   alla   Corte
costituzionale pronunciarsi anche sulla  compatibilita'  della  norma
censurata con tali parametri. 
    2.2.- In ordine alla non manifesta infondatezza  delle  questioni
sollevate  nell'ordinanza  di  rimessione,  le  parti  private  hanno
sviluppato gli argomenti gia' illustrati dal TAR  Lazio,  concludendo
per l'accoglimento delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013. 
    2.3.- In subordine, le parti private  hanno  chiesto  alla  Corte
costituzionale di sollevare, ai sensi dell'art. 267 del Trattato  sul
funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2
del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge
2   agosto   2008,   n.   130,   questioni   pregiudiziali   vertenti
sull'interpretazione della direttiva 95/46/CE. 
    2.4.- Tali parti hanno, infine,  chiesto  «l'anonimizzazione  dei
dati degli esponenti in sede di pubblicazione degli  atti,  ai  sensi
dell'art. 52 D. Lgs. 196/2003». 
    3.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque
infondate. 
    3.1.- In relazione alla  prospettata  violazione  dell'art.  117,
primo  comma,  Cost.,  secondo  l'Avvocatura  generale,  «la   stessa
categoria   del   "trattamento   dei   dati   personali"   non   pare
ragionevolmente  riferibile  alla  pubblicazione  dei   compensi   di
qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica, degli  importi
di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici»,  che  e'
oggetto dell'obbligo imposto dall'art. 14, comma 1-bis,  lettera  c),
del d.lgs. n. 33 del 2013. 
    Si tratterebbe, al  contrario,  di  informazioni  pubbliche,  «in
quanto  concernenti  l'uso   di   risorse   pubbliche»,   sicche'   i
«cittadini-contribuenti» avrebbero «diritto - ed interesse - a sapere
come le risorse pubbliche  sono  gestite  da  parte  delle  pubbliche
amministrazioni». 
    3.2.- In via generale l'Avvocatura  osserva  che  il  legislatore
nazionale dispone di un margine di apprezzamento  -  attribuito  agli
Stati  membri  dallo  stesso  ordinamento  europeo  in   materia   di
protezione dei dati personali - nel ponderare il  proprio  regime  di
trasparenza nel settore pubblico in rapporto  alla  tutela  dei  dati
personali. 
    Cio' premesso, l'Avvocatura generale ritiene che  il  legislatore
nazionale, nell'adozione delle norme di cui al d.lgs. n. 33 del  2013
oggetto  di  censura,   abbia   operato   correttamente   il   dovuto
bilanciamento «alla luce dei test di proporzionalita', non eccedenza,
pertinenza, finalita' e ragionevolezza». 
    3.3.- L'Avvocatura generale ricorda che la commissione incaricata
dell'attuazione della delega contenuta nella legge 6  novembre  2012,
n. 190 (Disposizioni  per  la  prevenzione  e  la  repressione  della
corruzione e  dell'illegalita'  nella  pubblica  amministrazione)  ha
messo  in  evidenza  che  l'adozione  delle  norme  in   materia   di
trasparenza nasce dall'esigenza di applicare  un  sistema  rigido  di
prevenzione  della  corruzione,  «in  virtu'  dei   numerosi   moniti
provenienti da rilevanti organizzazioni internazionali  (Onu,  Greco,
OCSE) e dalla stessa Unione  europea,  che  hanno  raccomandato  piu'
volte all'Italia l'adozione di misure severe e drastiche, soprattutto
ispirate a una logica di integrita' e trasparenza». 
    L'Avvocatura generale  richiama  anche  «le  classifiche  stilate
dall'organizzazione   "Transparency    International"    che    hanno
classificato  l'Italia  tra  i  Paesi  in  cui  e'  piu'  elevata  la
percezione della corruzione (da  intendersi  anche  come  carenza  di
trasparenza)». 
    In questo contesto, appunto, sarebbero stati calati i  canoni  di
proporzionalita', pertinenza, non eccedenza e ragionevolezza, che  il
legislatore  italiano  avrebbe  utilizzato  nel   bilanciamento   tra
l'interesse pubblico alla trasparenza e l'interesse individuale  alla
riservatezza, giungendo all'adozione di misure di trasparenza  «ampie
e rigorose». 
    3.4.- L'interveniente richiama gli studi dell'Organizzazione  per
la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) in  tema  di  gestione
del conflitto di interessi e di asset  disclosure  per  i  funzionari
pubblici, evidenziando che il livello di divulgazione  dei  dati,  in
media, sarebbe strettamente correlato alla posizione dirigenziale. Di
qui la conclusione che «i manager tendono ad avere piu'  obblighi  in
materia di pubblicita' rispetto ai funzionari». 
    3.5.- Con riferimento alla  prospettata  violazione  dell'art.  3
Cost., l'Avvocatura generale osserva che  «e'  proprio  il  fatto  di
essere permanentemente e  stabilmente  al  servizio  delle  pubbliche
amministrazioni, con funzioni gestionali apicali»,  a  costituire  la
giustificazione del regime aperto,  di  massima  trasparenza,  per  i
gestori della cosa pubblica, «quanto se non piu' che per  i  titolari
di incarichi politici». 
    Quanto all'assenza di gradualita' degli obblighi di pubblicazione
in relazione alla tipologia di  incarico  dirigenziale,  l'Avvocatura
generale suggerisce un'interpretazione costituzionalmente orientata -
che porterebbe alla declaratoria d'infondatezza della questione posta
sotto tale peculiare profilo - che sarebbe,  del  resto,  gia'  stata
operata in sede esecutiva, attraverso apposite  linee  guida  emanate
dall'Autorita' nazionale anticorruzione (ANAC), laddove  si  prevede,
ai sensi dell'art. 3, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, che per
i dirigenti di Comuni sotto i quindicimila abitanti si provveda  alla
pubblicazione dei dati di cui all'art. 14, comma 1, lettere da a)  ad
e), ma non di quelli  previsti  alla  lettera  f),  vale  a  dire  le
attestazioni  patrimoniali  e  la  dichiarazione  dei  redditi,   con
estensione  della  medesima  disciplina  in  favore   dei   dirigenti
scolastici. 
    3.6.- Sarebbe parimenti infondata, a giudizio dell'interveniente,
anche  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata  in
riferimento agli artt. 2 e 13 Cost. 
    Il prospettato sacrificio della liberta' personale a causa  della
pubblicazione   dei   dati   (anziche'   di   una   loro   «ragionata
elaborazione») desumibili dalla  dichiarazione  dei  redditi  sarebbe
scongiurato dal fatto che - in sede applicativa -  sarebbe  «comunque
dovuto il necessario coordinamento delle disposizioni di cui all'art.
14 cit. con le vigenti norme di rango primario in materia  di  tutela
dei dati personali». 
    Infine, con riferimento al nucleo familiare, «e' la stessa  legge
a prevedere la pubblicazione  dei  dati  solo  su  base  volontaria»,
sicche' sarebbe esclusa la violazione  dei  parametri  costituzionali
evocati. 
    3.7.- Inammissibile per difetto di rilevanza sarebbe, infine,  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 14,  comma  1-ter,
del d.lgs. n. 33 del 2013, sollevata d'ufficio, in quanto il giudizio
principale verterebbe su atti  che  non  danno  applicazione  a  tale
comma, sicche' la decisione del caso  concreto  prescinderebbe  dalla
norma in questione. 
    In ogni caso, militerebbero  per  l'infondatezza  anche  di  tale
ulteriore questione le argomentazioni addotte  con  riferimento  alle
censure mosse all'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013. 
    4.- Le parti private, in prossimita' dell'udienza pubblica del 20
novembre 2018, hanno depositato  memoria  illustrativa,  nella  quale
hanno ripreso il contenuto dell'atto di costituzione e  controdedotto
rispetto agli argomenti  illustrati  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato. 
    In primo luogo esse hanno ribadito  che  il  punto  nodale  della
vicenda  e'  costituito  dai  «rapporti  tra  le  fonti  dei  diritti
fondamentali», essendo violate insieme norme sia della CDFUE (artt. 7
e 8), sia della Costituzione, sia  della  CEDU,  nell'ambito  di  una
questione di legittimita' costituzionale sollevata con  l'evocazione,
come  parametri  interposti,  anche  di  altre   norme   di   diritto
dell'Unione - la direttiva 95/46/CE (le  cui  disposizioni  sono  poi
state riprodotte nel regolamento n. 2016/679/UE) - che, al pari della
CDFUE, pure avrebbero efficacia diretta. 
    Secondo le parti private,  di  fronte  ai  prospettati  dubbi  di
compatibilita' della disciplina italiana con tale complessiva cornice
normativa dell'Unione europea, il TAR Lazio avrebbe dovuto,  in  base
all'art. 267 del TFUE, disapplicare le norme nazionali oppure operare
un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo. 
    Cio'  posto,  le  parti  private   hanno   chiesto   alla   Corte
costituzionale di valutare se dichiarare inammissibili  le  questioni
di legittimita' costituzionale  per  l'immediata  applicabilita'  del
diritto europeo violato dalla normativa censurata, oppure  adire  con
un rinvio  pregiudiziale  la  Corte  di  giustizia,  ovvero,  ancora,
ritenere «assorbente» la questione di legittimita' costituzionale. 
    Con riferimento agli argomenti addotti  dall'Avvocatura  generale
dello Stato, le parti private contrastano la tesi secondo cui i  dati
indicati dalla lettera c) dell'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33
del 2013 non sarebbero dati personali, quanto piuttosto  informazioni
concernenti l'uso di risorse pubbliche  e,  come  tali,  naturalmente
pubbliche. 
    Le    parti    private,    poi,    contestano    gli    argomenti
dell'interveniente fondati sul margine di apprezzamento  riconosciuto
agli Stati nazionali nel dettare discipline in materia di trasparenza
amministrativa. Esse affermano, infatti, che le norme della direttiva
95/46/CE,  prima,  e  del  regolamento  n.  2016/679/UE,  dopo,   non
lascerebbero agli Stati membri alcuna liberta' di  disciplinare,  con
margini di autonomia, i principi in esse indicati. 
    In ogni caso, anche il bilanciamento effettuato  dal  legislatore
nazionale tra valori aventi tutti un rilievo  costituzionale  sarebbe
viziato  dalla  prevalenza  assoluta  riconosciuta  alla  trasparenza
amministrativa rispetto alla tutela della riservatezza delle persone.
A sostegno di tale  conclusione,  le  parti  private  riportano  ampi
stralci dell'atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017 trasmesso
dall'ANAC al Parlamento ed al Governo. 
    Le  parti   private,   infine,   controdeducono   rispetto   alla
possibilita'  d'interpretazione  costituzionalmente  orientata  della
disciplina censurata suggerita  dall'interveniente  e  fondata  sulla
possibilita' che l'ANAC  intervenga,  con  proprie  linee  guida,  ad
introdurre una sorta di graduazione degli obblighi di  pubblicazione,
differenziando le categorie di dirigenti che sono ad  essi  soggette.
Ritengono, infatti, che non  spetti  ad  un'autorita'  amministrativa
«"correggere il tiro" (e non di poco) di una disposizione legislativa
(che si ritiene emendabile)», in quanto l'unica  via  percorribile  a
tal fine, ricorrendone  i  presupposti,  sarebbe  la  disapplicazione
della norma  interna  in  contrasto  con  il  diritto  europeo  o  la
pronuncia d'illegittimita' costituzionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale  amministrativo  regionale  del  Lazio,  sezione
prima quater, dubita della legittimita' costituzionale dell'art.  14,
commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14  marzo  2013,  n.  33
(Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e
gli obblighi di pubblicita', trasparenza e diffusione di informazioni
da parte delle pubbliche amministrazioni). 
    Le disposizioni censurate sono state inserite  nell'art.  14  del
d.lgs. n. 33 del 2013 dall'art. 13, comma 1, lettera c), del  decreto
legislativo 25 maggio 2016, n. 97 (Revisione e semplificazione  delle
disposizioni in materia di prevenzione della corruzione,  pubblicita'
e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190  e  del
decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai  sensi  dell'articolo  7
della legge 7 agosto 2015, n. 124,  in  materia  di  riorganizzazione
delle amministrazioni pubbliche). 
    In particolare,  l'art.  14,  comma  1-bis,  estende  a  tutti  i
titolari di incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione,  a
qualsiasi titolo conferiti, gli  obblighi  di  pubblicazione  di  una
serie di dati, obblighi gia' previsti dal citato art.  14,  comma  1,
del d.lgs. n.  33  del  2013  a  carico  dei  titolari  di  incarichi
politici, anche se non di carattere  elettivo,  di  livello  statale,
regionale e locale. 
    Il  rimettente  censura  la  disposizione  nella  parte  in   cui
stabilisce  che  le  pubbliche  amministrazioni  pubblichino,  per  i
dirigenti, i compensi di  qualsiasi  natura  connessi  all'assunzione
della carica, gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con
fondi pubblici (art. 14, comma 1,  lettera  c);  le  dichiarazioni  e
attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n.
441 (Disposizioni per la pubblicita' della situazione patrimoniale di
titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni  enti),
ovvero la dichiarazione dei redditi soggetti all'imposta sui  redditi
delle persone fisiche e quella concernente i diritti  reali  su  beni
immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di
societa', le quote di partecipazione a societa', anche  in  relazione
al coniuge non separato ed ai parenti entro  il  secondo  grado,  ove
essi vi acconsentano, dovendosi in ogni caso dare evidenza al mancato
consenso (art. 14, comma 1, lettera f). 
    L'art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del  2013  e'  censurato
limitatamente all'ultimo periodo, nella  parte  in  cui  prevede  che
l'amministrazione   pubblichi   sul   proprio   sito    istituzionale
l'ammontare  complessivo  degli  emolumenti  percepiti   da   ciascun
dirigente a carico della finanza pubblica. 
    1.1.- Ritiene il giudice  a  quo  che  le  indicate  disposizioni
contrastino,  innanzitutto,  con  l'art.  117,  primo  comma,   della
Costituzione, in relazione agli artt. 7,  8  e  52  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a  Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata  a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007,
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  4  agosto
1955, n. 848, all'art. 5 della Convenzione n.  108  sulla  protezione
delle persone  rispetto  al  trattamento  automatizzato  di  dati  di
carattere personale,  adottata  a  Strasburgo  il  28  gennaio  1981,
ratificata e resa esecutiva con la legge 21  febbraio  1989,  n.  98,
nonche' agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e
8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del  24  ottobre  1995,  relativa  alla  tutela  delle
persone fisiche con  riguardo  al  trattamento  dei  dati  personali,
nonche' alla libera circolazione di tali dati. 
    Evidenzia  il  tribunale  amministrativo  rimettente  come   tali
disposizioni stabiliscano principi di proporzionalita', pertinenza  e
non eccedenza nel trattamento dei dati  personali,  confermati  anche
dalla nuova normativa in materia di protezione dei dati personali  di
cui al regolamento (UE) n. 2016/679  del  Parlamento  europeo  e  del
Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonche'  alla
libera circolazione di tali dati e che abroga la  direttiva  95/46/CE
(regolamento generale sulla protezione dei dati), definendo cosi'  il
quadro sovranazionale di riferimento per ogni disciplina del rapporto
tra esigenza  (privata)  di  protezione  di  tali  dati  ed  esigenza
(pubblica) di trasparenza. 
    Sottolinea  come  la  necessaria  tutela  delle  persone  fisiche
rispetto al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali
non osterebbe a una normativa nazionale che imponga la raccolta e  la
divulgazione di informazioni relative al patrimonio e al reddito  dei
dirigenti pubblici, alla condizione, pero', che  la  divulgazione  di
tali dati,  in  quanto  riferiti  puntualmente  e  specificamente  ai
nominativi  dei  dipendenti,  risulti  necessaria  e  appropriata  al
raggiungimento  degli  obiettivi  della  corretta  informazione   dei
cittadini e della buona gestione delle risorse pubbliche. 
    Sostiene  che  i  principi  desumibili  dai   parametri   europei
risulterebbero invece lesi dalla disciplina censurata, anche a  causa
della quantita' di dati da pubblicare e delle  modalita'  della  loro
divulgazione, dovendosi in  particolare  considerare  che,  ai  sensi
degli artt. 7-bis e 9 del d.lgs. n. 33 del 2013,  le  amministrazioni
cui compete la pubblicazione on line dei dati  non  possono  disporre
filtri e altre soluzioni  tecniche  atte  a  impedire  ai  motori  di
ricerca  web  di  indicizzarli,  o  di  renderli   non   consultabili
attraverso questi ultimi. 
    1.2.- Le disposizioni di cui all'art. 14, commi  1-bis  e  1-ter,
del d.lgs. n. 33 del 2013, sarebbero altresi' in contrasto con l'art.
3 Cost., sotto due distinti profili. 
    In  primo  luogo,  vi  sarebbe  violazione   del   principio   di
uguaglianza per la circostanza che gli obblighi di  pubblicazione  in
esame graverebbero  su  tutti  i  dirigenti  pubblici,  senza  alcuna
distinzione. Il giudice a quo osserva  che  la  previsione  normativa
assimilerebbe, in tal modo, cariche dirigenziali che,  «all'evidenza,
non sono equiparabili fra loro»,  per  «genesi,  struttura,  funzioni
esercitate e poteri statali di riferimento». 
    La  mancata  differenziazione  tra  le   categorie   dirigenziali
soggette alla misura, in base,  ad  esempio,  all'amministrazione  di
appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto ricoperte, ai
compensi percepiti, sarebbe «indice di una non adeguata  calibrazione
della disposizione in parola», tenuto conto della molteplicita' delle
categorie dirigenziali rinvenibili nell'ordinamento vigente, e  della
connessa varieta' ed estensione dei segmenti di potere amministrativo
esercitato:  la  misura  riguarderebbe,   secondo   le   elaborazioni
dell'Agenzia  per  la  rappresentanza   negoziale   delle   pubbliche
amministrazioni  (ARAN),  oltre  centoquarantamila  dirigenti,  senza
alcuna considerazione dell'effettivo rischio corruttivo insito  nella
funzione  svolta,  anche  in  relazione  all'entita'  delle   risorse
pubbliche  assegnate  all'ufficio  della  cui  gestione  il  soggetto
interessato deve rispondere. 
    Violerebbe il principio  di  uguaglianza  anche  l'equiparazione,
prevista dalle disposizioni censurate, dei dirigenti pubblici  con  i
titolari di incarichi  politici.  Sottolinea  il  rimettente  che  la
comune soggezione dei titolari di incarichi politici e dei  dirigenti
a  identici  obblighi  di  pubblicita',  stante  la  diversa   durata
temporale che, di norma, caratterizza lo svolgimento  delle  relative
funzioni, si risolverebbe in una misura particolarmente pervasiva per
i secondi, assoggettati alla  disciplina  in  esame  per  un  periodo
corrispondente all'intera durata del rapporto  di  lavoro,  ponendosi
nei loro confronti, diversamente che  per  i  titolari  di  incarichi
politici, alla stregua di una «condizione della vita». 
    La lesione dell'art. 3 Cost. emergerebbe anche sotto  il  profilo
dell'intrinseca  irragionevolezza  della  disciplina  censurata.   La
divulgazione on line di una quantita' enorme  di  dati  comporterebbe
rischi di alterazione, manipolazione e riproduzione di questi  ultimi
per finalita' diverse da quelle per  le  quali  la  loro  raccolta  e
trattamento  sono  previsti,  con  frustrazione  delle  esigenze   di
informazione veritiera e,  quindi,  di  controllo,  alla  base  della
normativa. 
    Le stesse modalita' di diffusione dei dati non  supererebbero  il
test  di  ragionevolezza   e   proporzionalita',   riguardando   dati
reddituali e patrimoniali - relativi non solo ai dirigenti, ma  anche
ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado, ove acconsentano, e
salva la menzione dell'eventuale mancato  consenso  -  desunti  dalla
dichiarazione dei redditi e dunque particolarmente dettagliati, senza
che,  come  gia'  ricordato,  le  amministrazioni  cui   compete   la
pubblicazione on line  dei  dati  possano  disporre  filtri  e  altre
soluzioni tecniche atte a  impedire  ai  motori  di  ricerca  web  di
indicizzarli, o di renderli non consultabili attraverso questi. 
    Osserva a tale proposito il rimettente che la  «pubblicazione  di
massicce  quantita'  di  dati»  non  si  tradurrebbe  automaticamente
nell'agevolazione  della  ricerca  di  quelli  piu'  significativi  a
determinati  fini,  soprattutto  da  parte  dei  singoli   cittadini,
rispetto  ai  quali  e'  anzi  lecito   supporre   la   mancanza   di
disponibilita' di efficaci strumenti di lettura e di elaborazione  di
dati sovrabbondanti ed eccessivamente diffusi. 
    1.3.-  Le  disposizioni  in  esame  si  porrebbero  altresi'   in
contrasto con gli artt. 2 e 13 Cost., poiche' i  diritti  inviolabili
dell'uomo e la liberta' personale risulterebbero lesi da obblighi  di
pubblicazione   funzionali   bensi'   a   esigenze   di   trasparenza
amministrativa, ma non idonei a scongiurare «la  diffusione  di  dati
sensibili»,  per  un  verso  superflui  ai  fini   perseguiti   dalla
disciplina,  per  altro  verso   «suscettibili   di   interpretazioni
distorte». 
    1.4.- Infine, il TAR Lazio ritiene di «estendere,  d'ufficio,  ai
sensi dell'art. 23 della l.  11  marzo  1953,  n.  87»  le  descritte
questioni di legittimita' costituzionale  anche  all'art.  14,  comma
1-ter, del d.lgs. n. 33 del 2013, limitatamente all'ultimo periodo e,
dunque, alla parte in cui prevede che l'amministrazione pubblichi sul
proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo  degli  emolumenti
percepiti da ciascun dirigente a carico della finanza pubblica. 
    Sostiene, infatti, il rimettente che oggetto della  pubblicazione
prevista da tale ultimo periodo della disposizione  sarebbe  un  dato
aggregato, che contiene quello di cui al comma 1, lettera  c),  dello
stesso  art.  14,  e  potrebbe  anzi  corrispondere   del   tutto   a
quest'ultimo, se il dirigente non percepisca altro emolumento diverso
dalla retribuzione per l'incarico conferitogli. 
    2.- Va preliminarmente considerato che il giudice  rimettente  e'
consapevole della circostanza per cui, trattando le  norme  censurate
della  pubblicazione  in  rete  di  dati  reddituali  e  patrimoniali
relativi a dirigenti  delle  pubbliche  amministrazioni  (e  ai  loro
coniugi e parenti entro  il  secondo  grado),  viene  in  rilievo  un
trattamento di dati personali  soggetto  anche  alla  disciplina  del
diritto (comunitario, prima, e ora) dell'Unione europea. 
    Del resto, la stessa ordinanza di rimessione, lamentando  che  le
disposizioni  censurate  violino  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,
indica, quali parametri interposti, norme  del  diritto  europeo  sia
primario che derivato: argomenta,  infatti,  l'asserita  lesione  del
diritto alla  vita  privata,  di  quello  alla  protezione  dei  dati
personali, dei principi di  proporzionalita'  e  pertinenza,  sanciti
dagli articoli 7, 8 e 52 della CDFUE e dagli artt.  6,  paragrafo  1,
lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE. 
    Al tempo stesso ritiene che  la  disciplina  legislativa  sia  in
contrasto anche con parametri costituzionali interni, sostenendo  che
essa lede l'art. 3 Cost., sotto diversi profili, e gli artt. 2  e  13
Cost. 
    Il giudice rimettente e' altresi' consapevole  della  circostanza
che, in fattispecie analoga a  quella  al  suo  esame,  la  Corte  di
giustizia delle Comunita' europee (sentenza  20  maggio  2003,  nelle
cause  riunite  C-465/00,  C-138/01  e  C-139/0120,  Österreichischer
Rundfunk e  altri)  -  pur  avendo  ritenuto,  a  seguito  di  rinvio
pregiudiziale, che gli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere
c)  ed  e),  della  ricordata  direttiva  95/46/CE  contengono  norme
direttamente applicabili  -  ha  stabilito  che  la  valutazione  sul
corretto bilanciamento tra il diritto alla tutela dei dati  personali
e  quello  all'accesso  ai   dati   in   possesso   delle   pubbliche
amministrazioni  doveva  essere  rimessa  al  giudice   del   rinvio,
escludendo percio' che fosse  stata  definitivamente  compiuta  dalla
normativa europea. 
    Su questi presupposti, ritiene (punto 17 dell'ordinanza)  che  le
disposizioni interne censurate non possano essere  disapplicate  «per
contrasto con normative comunitarie», posto che non sarebbe realmente
individuabile  una  disciplina  self-executing  di  matrice   europea
applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio. 
    Afferma, in particolare,  che  i  principi  di  proporzionalita',
pertinenza e non eccedenza in tema di trattamento dei dati  personali
- presidiati dalle norme europee, primarie e derivate, indicate quali
parametri interposti - si presenterebbero non gia' quali disposizioni
idonee a regolare la fattispecie al suo esame, bensi' quali «criteri»
di riferimento per effettuare una  «ponderazione  della  conformita'»
della  disciplina  censurata,  mostrando  di   intendere   che   tale
operazione sia di segno diverso dalla  semplice  applicazione  o  non
applicazione di una norma al fatto. 
    Escludendo dunque che la normativa europea  offra  una  soluzione
del  caso  concreto,  scartando  inoltre  la   via   di   un   rinvio
pregiudiziale, proprio perche'  in  occasione  analoga  la  Corte  di
giustizia aveva devoluto al  giudice  nazionale  la  valutazione  sul
corretto bilanciamento tra i due diritti potenzialmente  confliggenti
- quello alla tutela dei dati personali e quello ad accedere ai  dati
in possesso delle pubbliche amministrazioni  -  decide  di  sollevare
questioni di legittimita' costituzionale sulle  disposizioni  al  suo
esame, ritenendo che la valutazione sul bilanciamento in  parola  non
possa che spettare a questa Corte. 
    2.1.- Alla luce della descritta prospettazione, le  questioni  di
legittimita' costituzionale sollevate,  sotto  lo  specifico  profilo
appena esaminato, sono ammissibili. 
    Questa Corte (sentenza n. 269 del 2017) ha gia'  rilevato  che  i
principi e i diritti  enunciati  nella  CDFUE  intersecano  in  larga
misura i principi e i diritti garantiti dalla  Costituzione  italiana
(e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri), e  che  la
prima costituisce pertanto «parte del diritto dell'Unione  dotata  di
caratteri  peculiari  in  ragione  del  suo  contenuto  di   impronta
tipicamente  costituzionale».  Ha  aggiunto  che,  fermi  restando  i
principi del primato e dell'effetto diretto del  diritto  dell'Unione
europea, occorre considerare la peculiarita' delle  situazioni  nelle
quali, in un ambito di rilevanza comunitaria, una legge che incide su
diritti fondamentali della persona sia oggetto di dubbi, sia sotto il
profilo della sua conformita' alla Costituzione, sia sotto il profilo
della sua compatibilita' con la CDFUE. 
    Ha concluso che in tali casi - fatto salvo il ricorso  al  rinvio
pregiudiziale per le questioni di interpretazione  o  di  invalidita'
del diritto dell'Unione europea, ai sensi dell'art. 267 del  Trattato
sul  funzionamento  dell'Unione  europea  (TFUE),   come   modificato
dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato
dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 - va preservata  l'opportunita'  di
un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in  virtu'  del
principio  che  situa  il  sindacato   accentrato   di   legittimita'
costituzionale a fondamento  dell'architettura  costituzionale  (art.
134  Cost.),  precisando  che,  in   tali   fattispecie,   la   Corte
costituzionale giudichera' alla  luce  dei  parametri  costituzionali
interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117,
primo comma, Cost.), comunque secondo l'ordine che di volta in  volta
risulti maggiormente appropriato. 
    Questo orientamento va confermato anche nel caso di  specie,  nel
quale  principi  e  diritti  fondamentali   enunciati   dalla   CDFUE
intersecano,  come  meglio   si   chiarira',   principi   e   diritti
fondamentali garantiti dalla Costituzione. 
    Peraltro, tra i parametri  interposti  rispetto  alla  denunciata
violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., il  giudice  rimettente
evoca,  oltre  a  disposizioni  della  CDFUE,  anche  i  principi  di
proporzionalita', pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati
personali, previsti  in  particolare  dagli  artt.  6,  paragrafo  1,
lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE. 
    Cio' non induce a modificare l'orientamento ricordato. 
    I principi previsti dalla direttiva si  presentano,  infatti,  in
singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE: non
solo nel senso che essi ne forniscono specificazione o attuazione, ma
anche nel senso,  addirittura  inverso,  che  essi  hanno  costituito
"modello" per quelle norme, e percio' partecipano all'evidenza  della
loro stessa natura, come espresso  nelle  Spiegazioni  relative  alla
Carta dei diritti fondamentali, in cui si legge, in particolare nella
«Spiegazione relativa all'art.8 - Protezione dei  dati  di  carattere
personale», che «[q]uesto articolo e' stato fondato sull'articolo 286
del trattato che istituisce la  Comunita'  europea,  sulla  direttiva
95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla  tutela
delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati  personali
nonche'  alla  libera  circolazione  di  tali  dati  [...],   nonche'
sull'articolo 8 della CEDU e sulla convenzione del Consiglio d'Europa
sulla protezione delle persone rispetto al trattamento  automatizzato
di dati di carattere personale del 28  gennaio  1981,  ratificata  da
tutti gli Stati membri. [...]. La direttiva e il regolamento [(CE) n.
45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio] succitati definiscono
le condizioni e i limiti applicabili all'esercizio del  diritto  alla
protezione dei dati personali». 
    2.2.- L'ammissibilita', sempre sotto lo specifico profilo ora  in
esame, delle  questioni  sollevate,  emerge  anche  alla  luce  della
circostanza che la disciplina legislativa censurata,  che  estende  a
tutti  i  dirigenti  delle  pubbliche  amministrazioni  obblighi   di
pubblicazione di dati gia' in vigore per altri soggetti, opera,  come
si diceva, su un terreno nel  quale  risultano  in  connessione  -  e
talvolta  anche  in  visibile   tensione   -   diritti   e   principi
fondamentali, contemporaneamente tutelati sia dalla Costituzione  che
dal diritto europeo, primario e derivato. 
    Da una parte, il diritto alla riservatezza  dei  dati  personali,
quale  manifestazione  del  diritto  fondamentale  all'intangibilita'
della sfera privata (sentenza n. 366  del  1991),  che  attiene  alla
tutela della vita degli individui nei  suoi  molteplici  aspetti.  Un
diritto che trova riferimenti nella Costituzione italiana  (artt.  2,
14, 15 Cost.), gia' riconosciuto, in relazione a molteplici ambiti di
disciplina, nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 173 del
2009, n. 372 del 2006, n. 135 del 2002, n. 81 del 1993 e n.  366  del
1991), e che incontra specifica protezione nelle varie norme  europee
e convenzionali evocate dal giudice rimettente.  Nell'epoca  attuale,
esso si caratterizza particolarmente quale diritto a  controllare  la
circolazione delle informazioni riferite alla propria persona,  e  si
giova, a sua protezione, dei canoni elaborati  in  sede  europea  per
valutare la legittimita' della  raccolta,  del  trattamento  e  della
diffusione dei dati personali. Si tratta dei gia' ricordati  principi
di proporzionalita', pertinenza e non eccedenza, in virtu' dei  quali
deroghe e limitazioni alla tutela della  riservatezza  di  quei  dati
devono  operare  nei  limiti  dello   stretto   necessario,   essendo
indispensabile identificare le misure che incidano nella minor misura
possibile   sul   diritto   fondamentale,   pur    contribuendo    al
raggiungimento dei legittimi obiettivi sottesi  alla  raccolta  e  al
trattamento dei dati. 
    Dall'altra parte, con eguale rilievo, i principi di pubblicita' e
trasparenza,  riferiti  non  solo,  quale  corollario  del  principio
democratico (art. 1 Cost.), a tutti gli aspetti rilevanti della  vita
pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell'art. 97  Cost.,  al
buon funzionamento dell'amministrazione (sentenze n. 177 e n. 69  del
2018, n. 212 del  2017)  e,  per  la  parte  che  qui  specificamente
interessa, ai dati che essa possiede e controlla. Principi che, nella
legislazione  interna,  tendono  ormai  a  manifestarsi,  nella  loro
declinazione soggettiva, nella forma di un diritto dei  cittadini  ad
accedere ai dati in possesso della pubblica amministrazione, come del
resto stabilisce l'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33  del  2013.  Nel
diritto europeo, la medesima ispirazione ha condotto il  Trattato  di
Lisbona a inserire il diritto di accedere ai  documenti  in  possesso
delle  autorita'  europee  tra  le  «Disposizioni   di   applicazione
generale» del Trattato sul funzionamento  dell'Unione,  imponendo  di
considerare il diritto di accesso ad essi  quale  principio  generale
del diritto europeo (art. 15, paragrafo 3, primo comma, TFUE  e  art.
42 CDFUE). 
    I diritti alla riservatezza e alla  trasparenza  si  fronteggiano
soprattutto nel nuovo scenario digitale: un ambito nel quale,  da  un
lato, i diritti personali possono  essere  posti  in  pericolo  dalla
indiscriminata  circolazione  delle  informazioni,   e,   dall'altro,
proprio la piu' ampia circolazione dei dati puo' meglio consentire  a
ciascuno di informarsi e comunicare. 
    Non  erra,  pertanto,  il  giudice  a  quo  quando   segnala   la
peculiarita'  dell'esame  cui  deve  essere  soggetta  la  disciplina
legislativa che egli si trova ad applicare, e quando  sottolinea  che
tale esame va condotto dalla Corte costituzionale. 
    2.3.- La "prima parola" che questa Corte, per volonta'  esplicita
del  giudice  a  quo,  si  accinge  a  pronunciare  sulla  disciplina
legislativa censurata e' pertanto piu'  che  giustificata  dal  rango
costituzionale della questione e dei diritti in gioco. 
    Resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di
giustizia dell'Unione europea, sulla medesima  disciplina,  qualsiasi
questione pregiudiziale a loro avviso necessaria. 
    In generale, la sopravvenienza delle  garanzie  approntate  dalla
CDFUE rispetto a  quelle  della  Costituzione  italiana  genera,  del
resto,  un  concorso  di  rimedi  giurisdizionali,  arricchisce   gli
strumenti di tutela dei  diritti  fondamentali  e,  per  definizione,
esclude ogni preclusione. 
    Questa Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla
luce  innanzitutto   dei   parametri   costituzionali   interni,   su
disposizioni che,  come  quelle  ora  in  esame,  pur  soggette  alla
disciplina del  diritto  europeo,  incidono  su  principi  e  diritti
fondamentali tutelati  dalla  Costituzione  italiana  e  riconosciuti
dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Cio' anche allo scopo  di
contribuire,  per  la  propria  parte,   a   rendere   effettiva   la
possibilita', di  cui  ragiona  l'art.  6  del  Trattato  sull'Unione
europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio  1992,  entrato  in
vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali
garantiti dal diritto europeo, e in particolare  dalla  CDFUE,  siano
interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni  agli
Stati membri, richiamate  anche  dall'art.  52,  paragrafo  4,  della
stessa CDFUE come fonti rilevanti. 
    3.- Passando, dunque, al merito  delle  questioni  sollevate  con
riferimento all'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del  2013,  il
giudice rimettente prospetta il contrasto  della  disposizione  anche
con piu' parametri costituzionali interni. 
    Questa Corte, avendo  la  facolta'  di  decidere  l'ordine  delle
censure da affrontare (sentenze n. 148 e n. 66 del 2018), ritiene  di
esaminare   prioritariamente    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale sollevate in relazione all'art. 3 Cost.,  evocato  sia
sotto il profilo della violazione del  principio  di  ragionevolezza,
sia sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza. 
    Come si  e'  ricordato,  si  e'  in  presenza  di  una  questione
concernente  il  bilanciamento   tra   due   diritti:   quello   alla
riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la
circolazione delle informazioni  riferite  alla  propria  persona,  e
quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed  alle  informazioni
detenuti dalle pubbliche amministrazioni. 
    In valutazioni di tale  natura,  il  giudizio  di  ragionevolezza
sulle  scelte  legislative  si  avvale   del   cosiddetto   test   di
proporzionalita', che «richiede di valutare se la  norma  oggetto  di
scrutinio, con la misura e le modalita'  di  applicazione  stabilite,
sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi  legittimamente
perseguiti, in quanto, tra piu' misure appropriate, prescriva  quella
meno restrittiva dei diritti  a  confronto  e  stabilisca  oneri  non
sproporzionati  rispetto  al  perseguimento   di   detti   obiettivi»
(sentenza n. 1 del 2014, richiamata, da ultimo, dalle sentenze n. 137
del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 23 del 2015 e n. 162 del 2014). 
    Nella  specifica  materia  in  oggetto,  del  resto,   anche   la
giurisprudenza europea segue le medesime coordinate interpretative. 
    3.1.- La Corte di giustizia dell'Unione europea ha  ripetutamente
affermato che  le  esigenze  di  controllo  democratico  non  possono
travolgere il diritto fondamentale alla  riservatezza  delle  persone
fisiche,  dovendo  sempre   essere   rispettato   il   principio   di
proporzionalita', definito cardine della tutela dei  dati  personali:
deroghe e limitazioni  alla  protezione  dei  dati  personali  devono
percio' operare nei limiti  dello  stretto  necessario,  e  prima  di
ricorrervi  occorre  ipotizzare  misure  che  determinino  la   minor
lesione, per le persone fisiche, del suddetto diritto fondamentale  e
che,  nel   contempo,   contribuiscano   in   maniera   efficace   al
raggiungimento dei confliggenti obiettivi di trasparenza,  in  quanto
legittimamente perseguiti  (sentenze  20  maggio  2003,  nelle  cause
riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01,  Österreichischer  Rundfunk  e
altri, e 9 novembre 2010, nelle cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker
und Markus Schecke e Eifert). 
    Nella pronuncia da ultimo richiamata, in particolare, si  afferma
che non puo' riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell'obiettivo
di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali  (punto
85). 
    La giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea ha
influenzato lo stesso legislatore europeo, che ha  avviato  un  ampio
processo di revisione del quadro di regole in materia  di  protezione
dei dati personali, concluso con  l'emanazione  di  un  unico  corpus
normativo  di  carattere  generale,  costituito  dal  regolamento  n.
2016/679/UE, divenuto efficace successivamente  ai  fatti  dai  quali
originano le questioni di legittimita' costituzionale  in  esame,  ma
tenuto in debita considerazione dal giudice  a  quo.  Esso  detta  le
regole fondamentali per il trattamento dei  dati  personali,  nozione
che include anche la trasmissione, la diffusione  o  qualsiasi  altra
forma di messa a disposizione dei dati (art. 4, comma 1, numero 2). 
    I principi che  devono  governare  il  trattamento  sono  sanciti
nell'art. 5, comma  1,  del  citato  regolamento  (che  contiene  una
disciplina  sostanzialmente   sovrapponibile   a   quella   delineata
dall'art. 6 della ricordata  direttiva  95/46/CE)  e,  tra  di  essi,
assumono particolare rilievo quelli che consistono: nella limitazione
della finalita' del trattamento (lettera b) e  nella  «minimizzazione
dei dati», che si traduce nella necessita' di  acquisizione  di  dati
adeguati, pertinenti e limitati a quanto strettamente necessario alla
finalita' del trattamento (lettera c). 
    Ancora, un riferimento al necessario bilanciamento tra diritti si
trova nelle premesse al regolamento n. 2016/679/UE  (considerando  n.
4), ove si legge che  «[i]l  diritto  alla  protezione  dei  dati  di
carattere personale non e' una prerogativa assoluta ma va considerato
alla luce della sua funzione sociale  e  va  contemperato  con  altri
diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalita'». 
    In definitiva, la disciplina europea, pur riconoscendo  un  ampio
margine di regolazione autonoma e di dettaglio agli Stati membri  con
riguardo a  certe  tipologie  di  trattamento  (tra  i  quali  quello
connesso, appunto, all'esercizio del diritto di accesso: art. 86  del
regolamento),  impone  loro  il  principio  di  proporzionalita'  del
trattamento  che,  come  accennato,  rappresenta  il   fulcro   della
giurisprudenza  della  Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea  in
materia. 
    In virtu' di tutto quanto precede, lo scrutinio intorno al  punto
di equilibrio  individuato  dal  legislatore  sulla  questione  della
pubblicita'  dei  dati  reddituali  e  patrimoniali   dei   dirigenti
amministrativi va condotto alla stregua del parametro  costituzionale
interno evocato dal giudice a quo (art. 3 Cost.), come integrato  dai
principi di derivazione europea. Essi sanciscono  l'obbligo,  per  la
legislazione  nazionale,  di  rispettare  i  criteri  di  necessita',
proporzionalita',  finalita',  pertinenza   e   non   eccedenza   nel
trattamento dei dati personali,  pur  al  cospetto  dell'esigenza  di
garantire, fino al punto tollerabile,  la  pubblicita'  dei  dati  in
possesso della pubblica amministrazione. 
    4.- Ai fini di uno scrutinio  cosi'  precisato,  giova  ricordare
l'evoluzione normativa che ha condotto alla disposizione censurata. 
    4.1.- Allo stato, il d.lgs. n. 97 del 2016 costituisce,  infatti,
il  punto  d'arrivo  del   processo   evolutivo   che   ha   condotto
all'affermazione del principio  di  trasparenza  amministrativa,  che
consente la conoscenza diffusa delle informazioni e dei dati detenuti
dalle pubbliche amministrazioni. 
    La legge 7 agosto  1990,  n.  241  (Nuove  norme  in  materia  di
procedimento amministrativo e di  diritto  di  accesso  ai  documenti
amministrativi), come  progressivamente  modificata,  allo  scopo  di
abbattere il tradizionale  schermo  del  segreto  amministrativo,  ha
disciplinato il  diritto  di  accesso  ai  documenti  amministrativi,
costruendolo quale strumento finalizzato alla tutela di colui che  ne
abbia  interesse  avverso  atti  e   provvedimenti   della   pubblica
amministrazione incidenti sulla sua sfera soggettiva. 
    Viene dunque inaugurato, per  non  essere  piu'  abbandonato,  un
modello di trasparenza fondato sulla "accessibilita'" in cui  i  dati
in possesso della pubblica amministrazione non  sono  pubblicati,  ma
sono conoscibili da parte  dei  soggetti  aventi  a  cio'  interesse,
attraverso particolari procedure, fondate sulla richiesta di  accesso
e    sull'accoglimento    o    diniego    dell'istanza    da    parte
dell'amministrazione. 
    A tale sistema viene  pero'  affiancato,  attraverso  progressive
modifiche normative, un regime di "disponibilita'", in base al  quale
tutti i dati in possesso della pubblica amministrazione, salvo quelli
espressamente esclusi dalla legge,  devono  essere  obbligatoriamente
resi pubblici e, dunque, messi a disposizione della  generalita'  dei
cittadini. 
    In questa prospettiva, il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n.
150 (Attuazione della legge 4  marzo  2009,  n.  15,  in  materia  di
ottimizzazione  della  produttivita'  del  lavoro   pubblico   e   di
efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni)  offre  una
prima definizione di trasparenza, «intesa come accessibilita' totale,
anche  attraverso  lo  strumento   della   pubblicazione   sui   siti
istituzionali delle amministrazioni pubbliche [...]» (art. 11,  comma
1). 
    Oggetto  di  tale  forma  di  trasparenza  non   sono   piu'   il
procedimento, il provvedimento e i documenti  amministrativi,  ma  le
«informazioni»   relative   all'organizzazione    amministrativa    e
all'impiego delle risorse pubbliche, con particolare riferimento alle
retribuzioni dei dirigenti e di coloro  che  rivestono  incarichi  di
indirizzo politico-amministrativo. 
    Tale modello e' confermato dalla legge 6 novembre  2012,  n.  190
(Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione  e
dell'illegalita' nella pubblica amministrazione),  con  la  quale  la
trasparenza  amministrativa  viene  elevata   anche   al   rango   di
principio-argine alla diffusione di fenomeni di corruzione. 
    La cosiddetta "legge anticorruzione",  tuttavia  -  affacciandosi
possibili tensioni tra le esigenze di  trasparenza,  declinata  nelle
forme  della  «accessibilita'  totale»,  e  quelle  di  tutela  della
riservatezza  delle  persone  -  stabilisce  limiti   generali   alla
pubblicazione delle informazioni,  che  deve  infatti  avvenire  «nel
rispetto delle disposizioni in materia [...] di protezione  dei  dati
personali» (art. 1, comma 15), e delega il  Governo  ad  adottare  un
decreto legislativo per il riordino della disciplina riguardante  gli
obblighi di pubblicita' (art. 1, comma 35). 
    La delega e' stata esercitata con l'approvazione del d.lgs. n. 33
del 2013, il cui art. 1 enumera  finalita'  che  riecheggiano  quelle
gia' enunciate dall'art. 11, comma 1, del  d.lgs.  n.  150  del  2009
(contestualmente abrogato): in particolare,  l'accessibilita'  totale
alle informazioni concernenti l'organizzazione  e  l'attivita'  delle
pubbliche amministrazioni, sempre con la  garanzia  della  protezione
dei dati personali, mira adesso anche allo scopo di  «favorire  forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche». 
    Si giunge, infine, all'approvazione del d.lgs. n.  97  del  2016,
ove,  pur   ribadendosi   che   la   trasparenza   e'   intesa   come
«accessibilita' totale», il  legislatore  muta  il  riferimento  alle
«informazioni  concernenti  l'organizzazione  e   l'attivita'   delle
pubbliche amministrazioni»,  sostituendolo  con  quello  ai  «dati  e
documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni (art. 2 del d.lgs.
n. 97 del 2016, modificativo dell'art. 1, comma 1, del d.lgs.  n.  33
del 2013)». 
    Inoltre,  la  stessa  novella  estende  ulteriormente  gli  scopi
perseguiti attraverso il principio di trasparenza,  aggiungendovi  la
finalita' di «tutelare i diritti  dei  cittadini»  e  «promuovere  la
partecipazione degli interessati all'attivita' amministrativa». 
    4.2.- Rilievo cruciale, anche  ai  fini  del  presente  giudizio,
hanno le modalita' attraverso le quali le ricordate  finalita'  della
normativa sulla trasparenza vengono perseguite. 
    In base alle disposizioni generali del d.lgs. n. 33 del 2013,  le
pubbliche amministrazioni procedono all'inserimento, nei propri  siti
istituzionali (in  un'apposita  sezione  denominata  «Amministrazione
trasparente»), dei documenti, delle informazioni e dei  dati  oggetto
degli obblighi  di  pubblicazione,  cui  corrisponde  il  diritto  di
chiunque di accedere ai siti  direttamente  e  immediatamente,  senza
autenticazione ne' identificazione (art. 2, comma 2). 
    Tutti  i  documenti,  le  informazioni  e  i  dati   oggetto   di
pubblicazione obbligatoria sono pubblici e  chiunque  ha  diritto  di
conoscerli, di fruirne gratuitamente, di utilizzarli e  riutilizzarli
(art. 3, comma 1). 
    Le amministrazioni non possono disporre filtri e altre  soluzioni
tecniche atte ad impedire ai motori di ricerca web di indicizzare  ed
effettuare  ricerche  all'interno  della   sezione   «Amministrazione
trasparente» (art. 9). 
    Gli  obblighi  di  pubblicazione  dei  dati  personali  "comuni",
diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari (questi ultimi, come
tali, sottratti agli obblighi di pubblicazione),  comportano  percio'
la loro diffusione attraverso siti  istituzionali,  nonche'  il  loro
trattamento secondo modalita' che ne consentono la  indicizzazione  e
la rintracciabilita' tramite i motori di ricerca web, e anche il loro
riutilizzo, nel  rispetto  dei  principi  sul  trattamento  dei  dati
personali. In particolare, le pubbliche amministrazioni provvedono  a
rendere non intelligibili  i  dati  personali  non  pertinenti  (art.
7-bis, comma 1). 
    Si tratta percio' di modalita' di pubblicazione che  privilegiano
la piu'  ampia  disponibilita'  dei  dati  detenuti  dalle  pubbliche
amministrazioni, ivi inclusi quelli personali. Di questi ultimi, solo
quelli sensibili e giudiziari vengono sottratti  alla  pubblicazione,
in virtu' di tale loro delicata qualita', mentre per gli  altri  dati
resta    il    presidio     costituito     dall'obbligo,     gravante
sull'amministrazione  di  volta  in  volta  interessata,  di  rendere
inintelligibili quelli «non pertinenti», in relazione alle  finalita'
perseguite dalla normativa sulla trasparenza. 
    Va  precisato  che,  nel  presente   giudizio   di   legittimita'
costituzionale, e' all'esame una disposizione in  cui  e'  invece  il
legislatore ad aver effettuato, ex ante e una  volta  per  tutte,  la
valutazione circa la pertinenza, rispetto a quelle  finalita',  della
pubblicazione  di  alcuni  dati  personali  di  natura  reddituale  e
patrimoniale concernenti i dirigenti amministrativi e i loro  stretti
congiunti. Lo stesso legislatore ne ha dunque imposto la  diffusione,
assoggettando, con il censurato comma 1-bis dell'art. 14  del  d.lgs.
n. 33 del 2013, anche i dirigenti all'obbligo di  pubblicazione,  con
le modalita' appena descritte, dei dati di cui alle lettere c) ed  f)
del precedente comma 1. 
    Questa Corte e' percio' investita del compito di decidere se,  ed
eventualmente in quale misura, questa scelta  legislativa  superi  il
test di proporzionalita', come piu' sopra descritto. 
    5.- Cosi' prospettata, la questione e' parzialmente fondata,  nei
termini che saranno di seguito precisati,  per  violazione,  sia  del
principio  di  ragionevolezza,  sia  del  principio  di  eguaglianza,
limitatamente all'obbligo imposto a tutti  i  titolari  di  incarichi
dirigenziali, senza alcuna distinzione fra di essi, di pubblicare  le
dichiarazioni e le attestazioni di cui alla lettera f)  del  comma  1
dell'art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013. 
    5.1.- Nella versione originaria, il citato art. 14 del d.lgs.  n.
33  del  2013,  al  comma  1,  gia'  imponeva  alle   amministrazioni
interessate  la  pubblicazione  di   una   serie   di   documenti   e
informazioni, ma  tale  obbligo  si  riferiva  solo  ai  titolari  di
incarichi  politici  di  livello  statale,  regionale  e  locale.   I
documenti e le informazioni da  pubblicare,  in  relazione  a  questi
ultimi, erano (e restano): a) l'atto di nomina  o  di  proclamazione,
con l'indicazione della durata dell'incarico o del mandato  elettivo;
b)  il  curriculum;  c)  i  compensi  di  qualsiasi  natura  connessi
all'assunzione della carica e gli importi di  viaggi  di  servizio  e
missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi all'assunzione
di altre cariche, presso  enti  pubblici  o  privati,  e  i  relativi
compensi  a  qualsiasi  titolo  percepiti;  e)  gli  altri  eventuali
incarichi con oneri a carico della finanza pubblica  e  l'indicazione
dei compensi spettanti; f) i documenti  previsti  dall'art.  2  della
legge n. 441  del  1982,  ossia,  per  quanto  qui  d'interesse,  una
dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su  beni
mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di societa', le quote
di  partecipazione  a  societa'  e   l'esercizio   di   funzioni   di
amministratore o di sindaco di societa', nonche' la copia dell'ultima
dichiarazione dei redditi  soggetti  all'imposta  sui  redditi  delle
persone fisiche (IRPEF), con obblighi estesi al coniuge non  separato
e ai parenti entro il  secondo  grado,  ove  gli  stessi  vi  abbiano
consentito  e  salva  la  necessita'  di  dare  evidenza  al  mancato
consenso. 
    I destinatari originari di questi obblighi  di  trasparenza  sono
titolari di incarichi che trovano la loro giustificazione ultima  nel
consenso popolare,  cio'  che  spiega  la  ratio  di  tali  obblighi:
consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di
rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale  e
locale,  a  partire  dal  momento   dell'assunzione   della   carica,
beneficino di incrementi reddituali  e  patrimoniali,  anche  per  il
tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano
coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi. 
    La novella di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 aggiunge  all'art.  14
del d.lgs. n. 33 del 2013 cinque nuovi commi, tra i  quali,  appunto,
quello  censurato,  che  estende  gli   obblighi   di   pubblicazione
ricordati,  per  quanto  qui  interessa,  ai  titolari  di  incarichi
dirigenziali  a  qualsiasi  titolo  conferiti,  ivi  inclusi   quelli
attribuiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico  senza
procedure pubbliche di selezione. 
    In tal modo, la totalita' della dirigenza amministrativa e' stata
sottratta al regime di pubblicita' congegnato dall'art. 15 del d.lgs.
n. 33 del 2013 - che per essi prevedeva  la  pubblicazione  dei  soli
compensi percepiti,  comunque  denominati  -  ed  e'  stata  attratta
nell'orbita  dei   ben   piu'   pregnanti   doveri   di   trasparenza
originariamente riferiti ai soli  titolari  di  incarichi  di  natura
politica. 
    5.2.-   In   nome   di   rilevanti   obiettivi   di   trasparenza
dell'esercizio  delle  funzioni   pubbliche,   e   in   vista   della
trasformazione della pubblica amministrazione in una "casa di vetro",
il legislatore ben puo' apprestare strumenti  di  libero  accesso  di
chiunque alle pertinenti informazioni,  «allo  scopo  di  tutelare  i
diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati
all'attivita' amministrativa e favorire forme  diffuse  di  controllo
sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo  delle
risorse pubbliche» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013). 
    Resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalita'  deve
avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicita' di  dati
e  informazioni,   la   cui   conoscenza   sia   ragionevolmente   ed
effettivamente  connessa  all'esercizio  di  un  controllo,  sia  sul
corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto
impiego delle risorse pubbliche. 
    Proprio da questo  punto  di  vista,  risultano  non  fondate  le
questioni  di  legittimita'  costituzionale  sollevate  in  relazione
all'obbligo imposto a ciascun titolare di  incarico  dirigenziale  di
pubblicare i dati di cui alla lettera c) dell'art. 14, comma  1,  del
d.lgs. n. 33 del 2013,  e  dunque  i  compensi  di  qualsiasi  natura
connessi all'assunzione della carica, nonche' gli importi  di  viaggi
di servizio e missioni pagati con fondi pubblici. 
    La disciplina anteriore alla novella operata dal d.lgs. n. 97 del
2016  gia'  contemplava  la  pubblicita'   dei   compensi,   comunque
denominati, relativi al rapporto di lavoro dirigenziale, proprio  per
agevolare la possibilita' di un controllo  diffuso,  da  parte  degli
stessi  destinatari  delle  prestazioni   e   dei   servizi   erogati
dall'amministrazione, posti cosi' nelle condizioni di valutare, anche
sotto il profilo in questione, le modalita' d'impiego  delle  risorse
pubbliche. 
    Il  regime  di  piena  conoscibilita'  di   tali   dati   risulta
proporzionato rispetto  alle  finalita'  perseguite  dalla  normativa
sulla trasparenza amministrativa, con  conseguente  esclusione  della
prospettata violazione degli artt.  3  e  117,  primo  comma,  Cost.,
quest'ultimo in relazione a tutti i parametri interposti evocati. 
    Si tratta, infatti, di consentire, in forma diffusa, il controllo
sull'impiego delle risorse  pubbliche  e  permettere  la  valutazione
circa la congruita' - rispetto ai risultati raggiunti  e  ai  servizi
offerti - di quelle utilizzate  per  la  remunerazione  dei  soggetti
responsabili, a ogni  livello,  del  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione. 
    Quanto ai restanti parametri costituzionali (artt. 2 e 13  Cost.)
evocati  dal  rimettente,   in   disparte   la   stringatezza   delle
argomentazioni utilizzate a sostegno delle censure, non si vede  come
la pubblicazione di tali dati possa mettere a rischio la sicurezza  o
la liberta' degli interessati, danneggiandone la dignita'  personale:
si tratta, infatti, dell'ostensione  di  compensi  o  rimborsi  spese
direttamente connessi all'espletamento dell'incarico dirigenziale. 
    Di qui, la non fondatezza  delle  questioni  sollevate  anche  in
riferimento agli artt. 2 e 13 Cost. 
    5.3.- A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento  agli
obblighi di pubblicazione indicati  nella  lettera  f)  del  comma  1
dell'art. 14 del d.lgs.  n.  33  del  2013,  in  quanto  imposti  dal
censurato  comma  1-bis   dello   stesso   articolo,   senza   alcuna
distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali. 
    Anche per essi, oltre che per i titolari di  incarichi  politici,
e' ora prescritta la generalizzata pubblicazione di  dichiarazioni  e
attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e  dei
piu' stretti congiunti), ulteriori rispetto alle  retribuzioni  e  ai
compensi connessi alla prestazione dirigenziale. 
    Si tratta, in  primo  luogo,  di  dati  che  non  necessariamente
risultano in diretta  connessione  con  l'espletamento  dell'incarico
affidato.  Essi  offrono,  piuttosto,  un'analitica  rappresentazione
della situazione economica personale dei soggetti interessati  e  dei
loro piu' stretti familiari, senza che, a giustificazione  di  questi
obblighi di trasparenza, possa essere sempre  invocata,  come  invece
per i titolari di incarichi politici, la necessita' o  l'opportunita'
di  rendere  conto  ai  cittadini  di  ogni  aspetto  della   propria
condizione economica  e  sociale,  allo  scopo  di  mantenere  saldo,
durante l'espletamento  del  mandato,  il  rapporto  di  fiducia  che
alimenta il consenso popolare. 
    L'Avvocatura  generale  dello  Stato,  nelle   proprie   memorie,
giustifica  le   disposizioni   censurate,   evidenziando   che,   in
riferimento ai  titolari  d'incarichi  dirigenziali,  il  legislatore
avrebbe correttamente adottato misure «ampie  e  rigorose»  al  fine,
soprattutto,  di  contrastare  il  fenomeno  della  corruzione  nella
pubblica amministrazione, anche in considerazione dei numerosi moniti
in tal senso provenienti da rilevanti organizzazioni internazionali e
dalla stessa Unione europea, e delle rilevazioni  internazionali  che
hanno classificato l'Italia tra i Paesi in cui  e'  piu'  elevata  la
percezione della corruzione (da  intendersi  anche  come  carenza  di
trasparenza). 
    Tale giustificazione appare plausibile, ma non conclusiva. 
    L'Avvocatura generale ha anche opportunamente ricordato  che,  in
virtu' delle numerose clausole di  garanzia  della  tutela  dei  dati
personali previste dallo stesso d.lgs. n. 33 del 2013,  le  pubbliche
amministrazioni, nel richiedere ai propri dirigenti  la  trasmissione
dei dati di cui ora si tratta per fini di pubblicita'  istituzionale,
consentono l'oscuramento dei dati sensibili e giudiziari, nonche'  di
quelli valutati non pertinenti rispetto alle finalita' di trasparenza
perseguite. 
    A tale cautela risulta essersi uniformata l'autorita' datrice  di
lavoro nei confronti dei ricorrenti nel giudizio a quo, ai  quali  e'
stato  richiesto  di  oscurare,  nella  dichiarazione   dei   redditi
destinata alla pubblicazione, alcuni  dati  considerati  "eccedenti":
codice fiscale; scelta del destinatario relativa all'otto e al cinque
per mille dell'IRPEF;  ammontare  delle  spese  sanitarie;  riepilogo
delle spese; sottoscrizioni autografe del dichiarante. 
    Occorre tuttavia valutare se e in che misura - al netto di queste
operazioni di preventiva scrematura, pure imposte dalla  legge  -  la
conoscenza indiscriminata del residuo, pur sempre ampio, ventaglio di
informazioni e dati personali di  natura  reddituale  e  patrimoniale
contenuti  nella  documentazione  oggetto  di  pubblicazione   appaia
necessaria e proporzionata rispetto alle finalita'  perseguite  dalla
legislazione sulla trasparenza. 
    Ebbene,  la  disposizione  censurata  non   risponde   alle   due
condizioni richieste dal test di proporzionalita':  l'imposizione  di
oneri non sproporzionati rispetto ai fini  perseguiti,  e  la  scelta
della misura meno restrittiva dei diritti che si fronteggiano. 
    Viola percio' l'art. 3 Cost., innanzitutto sotto il profilo della
ragionevolezza intrinseca,  imporre  a  tutti  indiscriminatamente  i
titolari d'incarichi dirigenziali  di  pubblicare  una  dichiarazione
contenente l'indicazione dei redditi soggetti all'IRPEF  nonche'  dei
diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in  pubblici
registri, delle azioni di societa', delle quote di  partecipazione  a
societa' e dell'esercizio di funzioni di amministratore o di  sindaco
di societa' (con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti
entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano e fatta salva la
necessita' di dare evidenza, in ogni caso, al mancato consenso). 
    5.3.1.- L'onere di pubblicazione in questione risulta,  in  primo
luogo, sproporzionato rispetto alla finalita' principale  perseguita,
quella  di  contrasto  alla  corruzione  nell'ambito  della  pubblica
amministrazione. 
    La norma impone la pubblicazione di una  massa  notevolissima  di
dati  personali,  considerata  la  platea  dei   destinatari:   circa
centoquarantamila interessati (senza considerare  coniugi  e  parenti
entro il secondo grado), secondo le rilevazioni operate  dall'ARAN  e
citate dal Garante per la protezione dei dati personali  (nel  parere
reso il 3  marzo  2016  sullo  schema  di  decreto  legislativo  che,
successivamente approvato dal Governo, come d.lgs. n. 97 del 2016, ha
introdotto la disposizione censurata). 
    Non erra il giudice rimettente laddove, considerata tale massa di
dati, intravede un rischio di frustrazione delle stesse  esigenze  di
informazione veritiera e,  quindi,  di  controllo  sul  perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche,
poste a base della normativa sulla trasparenza. 
    La pubblicazione di quantita' cosi' massicce  di  dati,  infatti,
non agevola  affatto  la  ricerca  di  quelli  piu'  significativi  a
determinati  fini  (nel  nostro  caso   particolare,   ai   fini   di
informazione veritiera, anche a scopi anticorruttivi)  se  non  siano
utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non e' ragionevole
supporre siano a disposizione dei singoli cittadini. 
    Sotto questo  profilo,  la  disposizione  in  esame  finisce  per
risultare in contrasto con il principio per cui, «nelle operazioni di
bilanciamento, non puo' esservi un decremento di tutela di un diritto
fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento
di tutela di altro interesse di pari  rango»  (sentenza  n.  143  del
2013). Nel caso in esame, alla compressione  -  indiscutibile  -  del
diritto alla protezione dei dati  personali  non  corrisponde,  prima
facie, un paragonabile incremento ne' della tutela  del  contrapposto
diritto  dei  cittadini  ad  essere  correttamente   informati,   ne'
dell'interesse pubblico  alla  prevenzione  e  alla  repressione  dei
fenomeni di corruzione. 
    Tutt'al contrario, la stessa autorita'  preposta  alla  lotta  al
fenomeno  della  corruzione,  segnala,  non  diversamente  da  quella
preposta alla tutela dei dati personali, che il rischio e' quello  di
generare  "opacita'  per  confusione",  proprio  per  l'irragionevole
mancata  selezione,  a  monte,  delle  informazioni  piu'  idonee  al
perseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti. 
    Sono le stesse peculiari modalita' di pubblicazione  imposte  dal
d.lgs. n. 33  del  2013  ad  aggravare  il  carattere,  gia'  in  se'
sproporzionato, dell'obbligo di pubblicare i dati di cui si  discute,
in quanto posto a carico della totalita' dei dirigenti pubblici. 
    L'indicizzazione e  la  libera  rintracciabilita'  sul  web,  con
l'ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati personali pubblicati,
non e' coerente al fine di  favorire  la  corretta  conoscenza  della
condotta della pubblica dirigenza e delle modalita' di utilizzo delle
risorse pubbliche. Tali forme di pubblicita' rischiano  piuttosto  di
consentire il reperimento "casuale"  di  dati  personali,  stimolando
altresi'  forme  di  ricerca  ispirate  unicamente  dall'esigenza  di
soddisfare mere curiosita'. 
    Si tratta di un rischio evidenziato  anche  dalla  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo. Alla luce  dello  sviluppo
della tecnologia informatica e dell'ampliamento delle possibilita' di
trattamento dei dati personali dovuto all'automatizzazione, la  Corte
EDU si e' soffermata sulla stretta  relazione  esistente  tra  tutela
della vita privata (art. 8 CEDU) e  protezione  dei  dati  personali,
interpretando anche quest'ultima come tutela dell'autonomia personale
da ingerenze eccessive da parte di soggetti privati e pubblici (Corte
EDU, Grande camera, sentenze 16 febbraio 2000, Amann contro Svizzera,
e 6 aprile 2010, Flinkkilä e altri contro Finlandia). 
    In una significativa pronuncia (sentenza 8 novembre 2016,  Magyar
contro Ungheria), la Grande camera della Corte EDU ha osservato  come
l'interesse  sotteso  all'accesso  a  dati  personali  per  fini   di
interesse  pubblico  non  puo'   essere   ridotto   alla   "sete   di
informazioni" sulla vita privata degli altri  («The  public  interest
cannot be reduced to the public's thirst for  information  about  the
private life of others, or to an audience's wish  for  sensationalism
or even voyeurism»: § 162). 
    5.3.2.- Anche sotto il secondo profilo, quello  della  necessaria
scelta della misura meno  restrittiva  dei  diritti  fondamentali  in
potenziale tensione, la disposizione censurata non supera il test  di
proporzionalita'. 
    Esistono senz'altro soluzioni alternative a quella ora in  esame,
tante quanti sono i modelli e le tecniche immaginabili per bilanciare
adeguatamente le contrapposte esigenze di riservatezza e trasparenza,
entrambe degne di  adeguata  valorizzazione,  ma  nessuna  delle  due
passibile di eccessiva compressione. 
    Alcune di tali  soluzioni  -  privilegiate,  peraltro,  in  altri
ordinamenti  europei  -  sono  state  ricordate  anche  dal   giudice
rimettente: ad esempio, la predefinizione di soglie reddituali il cui
superamento sia condizione necessaria per far scattare  l'obbligo  di
pubblicazione; la  diffusione  di  dati  coperti  dall'anonimato;  la
pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo  scaglioni;
il semplice deposito delle dichiarazioni personali presso l'autorita'
di controllo competente. 
    Quest'ultima soluzione, del resto, era quella adottata prima  del
d.lgs. n. 97 del 2016, nell'ambito di una disciplina (art. 13,  commi
1 e 3, del d.P.R. 16 aprile  2013,  n.  62,  contenente  «Regolamento
recante codice di comportamento  dei  dipendenti  pubblici,  a  norma
dell'articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001,  n.  165»,  e
tuttora vigente) che  impone  ai  titolari  d'incarichi  dirigenziali
l'obbligo di fornire alle amministrazioni di appartenenza, con  onere
di aggiornamento annuale, le informazioni  sulla  propria  situazione
reddituale e patrimoniale, che pero' non erano rese pubbliche (se non
su apposita istanza), e, comunque, non con le modalita' previste  dal
d.lgs. n. 33 del 2013 e in precedenza illustrate. 
    Non spetta a questa Corte indicare la  soluzione  piu'  idonea  a
bilanciare  i  diritti  antagonisti,  rientrando  la   scelta   dello
strumento ritenuto piu' adeguato  nella  ampia  discrezionalita'  del
legislatore. 
    Tuttavia, non si puo' non rilevare sin d'ora - e in attesa di una
revisione complessiva della disciplina -  che  vi  e'  una  manifesta
sproporzione  del   congegno   normativo   approntato   rispetto   al
perseguimento  dei  fini  legittimamente   perseguiti,   almeno   ove
applicato, senza alcuna differenziazione, alla totalita' dei titolari
d'incarichi dirigenziali. 
    5.4.-  La  disposizione  censurata,  come  si   e'   piu'   volte
sottolineato,  non  opera  alcuna   distinzione   all'interno   della
categoria   dei   dirigenti   amministrativi,   vincolandoli    tutti
all'obbligo di pubblicazione dei dati indicati.  Il  legislatore  non
prevede alcuna  differenziazione  in  ordine  al  livello  di  potere
decisionale o gestionale. Eppure, e' manifesto che tale  livello  non
puo' che influenzare, sia la gravita' del rischio corruttivo - che la
disposizione stessa, come si presuppone, intende scongiurare - sia le
conseguenti necessita' di trasparenza e informazione. 
    La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni  tra
i titolari d'incarichi dirigenziali: l'art. 1, comma 5,  lettera  a),
della  legge  n.  190  del  2012,  infatti,  obbliga   le   pubbliche
amministrazioni centrali a definire  e  trasmettere  al  Dipartimento
della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione  che
fornisca «una valutazione del diverso livello  di  esposizione  degli
uffici  al  rischio  di  corruzione»  e   indichi   «gli   interventi
organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio». 
    A questa stregua, e' corretto  l'insistito  rilievo  del  giudice
rimettente,  che  sottolinea  come  la   mancanza   di   qualsivoglia
differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con
il principio  di  eguaglianza  e,  di  nuovo,  con  il  principio  di
proporzionalita',   che   dovrebbe   guidare   ogni   operazione   di
bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti. 
    Il legislatore avrebbe  percio'  dovuto  operare  distinzioni  in
rapporto al grado di esposizione dell'incarico pubblico al rischio di
corruzione  e  all'ambito  di  esercizio  delle  relative   funzioni,
prevedendo coerentemente  livelli  differenziati  di  pervasivita'  e
completezza  delle  informazioni   reddituali   e   patrimoniali   da
pubblicare. 
    Con riguardo ai titolari di  incarichi  dirigenziali,  la  stessa
Autorita' nazionale anticorruzione (ANAC), nell'atto di  segnalazione
n. 6 del 20 dicembre 2017, ha ritenuto di suggerire al  Parlamento  e
al Governo una modifica normativa che  operi  una  graduazione  degli
obblighi  di  pubblicazione  proprio  in  relazione  al  ruolo,  alle
responsabilita' e alla carica ricoperta dai dirigenti. 
    Non prevedendo invece una consimile graduazione, la  disposizione
censurata si pone in contrasto con l'art. 3 Cost. 
    6.- Questa Corte non puo' esimersi, tuttavia, dal considerare che
una  declaratoria  d'illegittimita'  costituzionale  che  si   limiti
all'ablazione, nella disposizione censurata, del riferimento ai  dati
indicati nell'art. 14, comma 1,  lettera  f),  lascerebbe  del  tutto
privi di considerazione principi costituzionali meritevoli di tutela. 
    Sussistono esigenze di trasparenza e pubblicita' che possono  non
irragionevolmente rivolgersi nei  confronti  di  soggetti  cui  siano
attribuiti ruoli dirigenziali di particolare importanza. 
    Ha osservato l'Avvocatura generale dello Stato che «e' proprio il
fatto di essere  permanentemente  e  stabilmente  al  servizio  delle
pubbliche  amministrazioni,  con  funzioni  gestionali  apicali»,   a
costituire  la  giustificazione  del  regime   aperto,   di   massima
trasparenza, per i gestori della cosa pubblica. 
    Sorge,  dunque,  l'esigenza   di   identificare   quei   titolari
d'incarichi  dirigenziali  ai  quali  la  disposizione  possa  essere
applicata, senza che la compressione della tutela dei dati  personali
risulti priva  di  adeguata  giustificazione,  in  contrasto  con  il
principio di proporzionalita'. 
    E' evidente, a questo proposito, che le  molteplici  possibilita'
di classificare i livelli e le funzioni, all'interno della  categoria
dei dirigenti pubblici, anche in relazione alla diversa natura  delle
amministrazioni di appartenenza, impediscono di operare una selezione
secondo criteri costituzionalmente obbligati. 
    Non potrebbe essere questa Corte, infatti, a ridisegnare, tramite
pronunce  manipolative,  il  complessivo  panorama,   necessariamente
diversificato, dei destinatari degli obblighi di trasparenza e  delle
modalita' con le quali tali obblighi debbano essere attuati. 
    Cio' spetta alla discrezionalita' del legislatore,  al  quale  il
giudice costituzionale,  nel  rigoroso  rispetto  dei  propri  limiti
d'intervento, non puo' sostituirsi. 
    Nondimeno, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia di  un
nucleo minimo di tutela del diritto alla  trasparenza  amministrativa
in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata,
in attesa di un indispensabile e  complessivo  nuovo  intervento  del
legislatore. 
    Da questo punto di vista, l'art. 19 del  decreto  legislativo  30
marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del  lavoro  alle
dipendenze  delle  amministrazioni  pubbliche),   nell'elencare   gli
incarichi  di  funzioni  dirigenziali,  ai  commi  3  e  4   contiene
indicazioni normative che risultano  provvisoriamente  congruenti  ai
fini appena indicati. 
    Tali commi individuano due  particolari  categorie  di  incarichi
dirigenziali,  quelli  di  Segretario  generale  di  ministeri  e  di
direzione  di  strutture  articolate  al  loro  interno   in   uffici
dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale  di
livello generale (comma 4). 
    Le competenze spettanti ai soggetti che ne  sono  titolari,  come
elencate al precedente art. 16 del d.lgs. n. 165  del  2001,  rendono
manifesto lo svolgimento, da parte loro, di attivita' di collegamento
con gli organi di decisione politica,  con  i  quali  il  legislatore
presuppone l'esistenza di un rapporto fiduciario, tanto  da  disporre
che i suddetti incarichi siano conferiti  su  proposta  del  ministro
competente. 
    L'attribuzione  a  tali  dirigenti  di  compiti  -   propositivi,
organizzativi, di gestione (di risorse  umane  e  strumentali)  e  di
spesa - di elevatissimo rilievo rende non irragionevole, allo  stato,
il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza
di cui si discute. 
    Come si e' detto, l'intervento  di  questa  Corte  non  puo'  che
limitarsi all'eliminazione, dalla disposizione censurata, dei profili
di piu' evidente irragionevolezza, salvaguardando provvisoriamente le
esigenze di trasparenza e  pubblicita'  che  appaiano,  prima  facie,
indispensabili. 
    Appartiene  alla  responsabilita'  del  legislatore,  nell'ambito
dell'urgente  revisione  complessiva  della  materia,  sia  prevedere
eventualmente, per gli stessi titolari degli  incarichi  dirigenziali
indicati dall'art. 19, commi 3  e  4,  modalita'  meno  pervasive  di
pubblicazione, rispetto a quelle attualmente contemplate  dal  d.lgs.
n. 33 del 2013, sia soddisfare analoghe esigenze  di  trasparenza  in
relazione ad altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a
tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali. 
    In definitiva, l'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013,
deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione
dell'art. 3 Cost., nella  parte  in  cui  prevede  che  le  pubbliche
amministrazioni pubblicano i  dati  di  cui  all'art.  14,  comma  1,
lettera f), dello stesso  decreto  legislativo,  anche  per  tutti  i
titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi
inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo  di  indirizzo
politico senza procedure pubbliche di selezione, anziche' solo per  i
titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi  3
e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001. 
    Restano assorbiti tutti gli altri profili di censura. 
    7.- Vanno,  infine,  dichiarate  inammissibili  le  questioni  di
legittimita'  costituzionale  aventi  ad  oggetto  il   comma   1-ter
dell'art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013. 
    La  disposizione  prevede  l'obbligo   di   pubblicazione   degli
«emolumenti complessivi» percepiti da ogni dirigente  della  pubblica
amministrazione  a  carico  della  finanza  pubblica:  a  parere  del
rimettente, tale pubblicazione costituirebbe un  dato  aggregato  che
contiene quello di cui al comma 1, lettera c), dello stesso  articolo
e che potrebbe, anzi, corrispondere del tutto a quest'ultimo, laddove
il  dirigente  non  percepisca  altro  emolumento   se   non   quello
corrispondente alla retribuzione per l'incarico assegnato. 
    Le  questioni  sono  inammissibili,  in  quanto  i  provvedimenti
impugnati  nel  giudizio  principale  non  sono  stati  adottati   in
applicazione del comma 1-ter, ma  del  solo  precedente  comma  1-bis
dell'art. 14 citato. 
    Per costante giurisprudenza costituzionale,  sono  inammissibili,
per difetto di rilevanza, le questioni sollevate su  disposizioni  di
cui il giudice rimettente non  deve  fare  applicazione  (ex  multis,
sentenze n. 36 del 2016 e n. 192 del 2015; ordinanze n. 57 del 2018 e
n. 38 del 2017). 
      
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art.  14,  comma
1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33  (Riordino  della
disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di
pubblicita', trasparenza e diffusione di informazioni da parte  delle
pubbliche  amministrazioni),  nella  parte  in  cui  prevede  che  le
pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all'art. 14, comma
1, lettera f), dello stesso decreto legislativo  anche  per  tutti  i
titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi
inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo  di  indirizzo
politico senza procedure pubbliche di selezione, anziche' solo per  i
titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi  3
e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.  165  (Norme  generali
sull'ordinamento del lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni
pubbliche); 
    2)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 14, comma 1-ter, del d.lgs. n. 33 del  2013,
riferite agli artt. 2, 3, 13 e 117, primo comma, della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione agli artt.  7,  8  e  52  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a  Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata  a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007,
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  4  agosto
1955, n. 848, all'art. 5 della Convenzione n.  108  sulla  protezione
delle persone  rispetto  al  trattamento  automatizzato  di  dati  di
carattere personale,  adottata  a  Strasburgo  il  28  gennaio  1981,
ratificata e resa esecutiva con la legge 21  febbraio  1989,  n.  98,
nonche' agli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), 7, lettere c) ed e), e
8, paragrafi 1 e 4, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del  24  ottobre  1995,  relativa  alla  tutela  delle
persone fisiche con  riguardo  al  trattamento  dei  dati  personali,
nonche'  alla  libera  circolazione  di  tali  dati,  sollevate   dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione  prima  quater,
con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    3)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del  2013,
nella  parte  in  cui  prevede  che  le   pubbliche   amministrazioni
pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma  1,  lettera  c),  dello
stesso  decreto  legislativo  anche  per  i  titolari  di   incarichi
dirigenziali,  a  qualsiasi  titolo  conferiti,  ivi  inclusi  quelli
conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo  politico  senza
procedure pubbliche di selezione, riferite agli artt. 2, 3, 13 e 117,
primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 7,  8  e  52
CDFUE, all'art. 8 CEDU, all'art. 5 della Convenzione di Strasburgo n.
108 del 1981, nonche' agli artt.  6,  paragrafo  1,  lettera  c),  7,
lettere c) ed e), e 8, paragrafi 1 e  4,  della  direttiva  95/46/CE,
sollevate dal  TAR  Lazio,  sezione  prima  quater,  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2019. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA