N. 29 SENTENZA 21 gennaio - 28 febbraio 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Lavoro - Inefficacia, nullita',  inopponibilita'  della  cessione  di
  ramo d'azienda - Tutela spettante al lavoratore nei  confronti  del
  datore di lavoro cedente all'ordine di ripristino del rapporto. 
- Codice civile, «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217. 
-   
(GU n.10 del 6-3-2019 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  del   «combinato
disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 del codice  civile,  promosso
dalla Corte d'appello  di  Roma,  sezione  lavoro,  nel  procedimento
instaurato da Telecom Italia spa contro Alfonso Fiore, con  ordinanza
del 2 ottobre 2017, iscritta al n. 13 del registro ordinanze  2018  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  6,  prima
serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visti gli atti di costituzione di Telecom Italia spa e di Alfonso
Fiore, nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio  dei
ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  dell'8  gennaio  2019  il  Giudice
relatore Silvana Sciarra; 
    uditi gli avvocati Roberto Romei per Telecom Italia spa, Riccardo
Bolognesi e Mauro Orlandi per Alfonso Fiore e l'avvocato dello  Stato
Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 5 ottobre 2017 e iscritta  al  n.
13 del registro ordinanze 2018, la Corte d'appello di  Roma,  sezione
lavoro, ha sollevato «questioni di  legittimita'  costituzionale  del
combinato  disposto  degli  artt.  1206,  1207  e  1217   c.c.»,   in
riferimento  agli  artt.  3,  24,  111  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della  Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata  e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    1.1.- In punto di fatto, la Corte  rimettente  espone  di  dovere
decidere sull'appello  proposto  da  Telecom  Italia  spa  contro  la
sentenza del Tribunale di Roma, che ha  riconosciuto  anche  in  capo
alla societa' appellante l'obbligo di  pagare  le  retribuzioni,  pur
gia' corrisposte dalla societa' cessionaria, subentrata in virtu'  di
un atto di cessione di ramo di azienda dichiarato illegittimo. 
    Il giudice a quo assume  che  l'accertamento  dell'illegittimita'
del trasferimento del ramo di azienda, oramai passato  in  giudicato,
determini la ricostituzione ex  tunc  del  rapporto  di  lavoro  alle
dipendenze della societa' appellante e conferisca  ai  lavoratori  il
diritto di reclamare la retribuzione sia nei confronti della societa'
cedente sia nei confronti della societa'  cessionaria,  che  benefici
della prestazione lavorativa in base all'art. 2126 del codice civile. 
    L'obbligazione della societa' cedente, risarcitoria per il  tempo
che intercorre  tra  il  trasferimento  del  ramo  di  azienda  e  la
pronuncia  che  ne  accerti  l'illegittimita'  o   l'inopponibilita',
presenterebbe per contro natura retributiva per il periodo successivo
a tale pronuncia. 
    Non sarebbe risolutivo, in  senso  contrario,  il  fatto  che  il
datore di lavoro non abbia ricevuto  la  prestazione  lavorativa,  in
quanto tale circostanza sarebbe imputabile in via  esclusiva  al  suo
ingiustificato rifiuto. 
    Non sarebbe decisiva neppure l'espressa qualificazione in termini
risarcitori  dell'indennita'  dovuta   in   caso   di   licenziamento
illegittimo  anche  per  il  periodo  successivo  alla  pronuncia  di
reintegra. Tale qualificazione, sancita dall'art. 18 della  legge  20
maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei
lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale,  nei
luoghi di lavoro e norme  sul  collocamento),  non  soltanto  sarebbe
innovativa rispetto alla disciplina previgente,  che  qualificava  in
termini retributivi  l'obbligazione  del  datore  di  lavoro  per  il
periodo successivo alla sentenza di reintegra, ma sarebbe speciale  e
derogatoria. 
    Il rimettente  ricorda  che,  anche  per  il  periodo  successivo
all'accertamento  dell'illegittima  apposizione   del   termine,   il
lavoratore ha diritto  alle  retribuzioni  relative  al  rapporto  di
lavoro ricostituito ope iudicis, anche quando  il  datore  di  lavoro
rifiuti di ricevere la prestazione lavorativa. 
    Se il datore  di  lavoro  che  ha  rifiutato  arbitrariamente  la
prestazione offerta dal  lavoratore  ceduto  non  fosse  obbligato  a
pagare  la  retribuzione,  potrebbe   rimanere   «inottemperante   ad
libitum». In contrasto con l'art. 24 Cost., sarebbe cosi'  vanificata
l'utilita'   dell'azione   di   accertamento   della    nullita'    o
dell'inefficacia o dell'inopponibilita' della cessione. 
    La natura retributiva dell'obbligazione del datore di lavoro  non
consentirebbe neppure di invocare la  compensatio  lucri  cum  damno,
quando sia gia'  stata  pronunciata  la  sentenza  che  ha  accertato
l'illegittimita' della cessione del ramo di azienda e  il  datore  di
lavoro   persista   nell'inosservanza   dell'ordine   giudiziale   di
riammissione. 
    1.2.- Il rimettente osserva che l'orientamento oramai consolidato
della giurisprudenza della Corte di  cassazione  nega  al  lavoratore
ceduto, che non sia stato riammesso  dopo  l'accertamento  definitivo
dell'illegittimita' della cessione e che sia  stato  gia'  retribuito
dal cessionario, il diritto di percepire la retribuzione da parte del
cedente. 
    Tale orientamento, che potrebbe indurre il  cedente  a  «impedire
sine die ai  lavoratori  ceduti  di  tornare  alle  sue  dipendenze»,
frustrerebbe l'interesse ad agire del lavoratore ceduto e non sarebbe
coerente ne' con la «natura retributiva del  diritto  del  dipendente
successivamente alla sentenza di merito», affermata  dalla  Corte  di
cassazione per le ipotesi di illegittima apposizione del termine, ne'
con la  struttura  necessariamente  trilaterale  della  cessione  del
contratto. Sarebbe indispensabile l'accordo di tutti gli  interessati
per perfezionare il negozio di cessione e  il  cedente  non  potrebbe
essere liberato dall'obbligo retributivo, in  mancanza  del  consenso
del lavoratore ceduto. 
    Il giudice a quo  ribadisce  che,  in  virtu'  del  principio  di
corrispettivita' delle prestazioni, l'obbligo retributivo viene  meno
nel periodo che intercorre tra la cessione del ramo di azienda  e  la
sentenza di merito  che  ne  accerta  l'inefficacia.  Tuttavia,  dopo
l'accertamento del giudice, sarebbe ripristinata la  lex  contractus,
che obbliga il lavoratore a riprendere a lavorare presso il cedente e
il cedente a pagare la retribuzione. 
    Secondo il rimettente, il  datore  di  lavoro  che  persista  nel
rifiutare la prestazione del lavoratore, nonostante l'intimazione  di
riceverla (art. 1217 cod. civ.) racchiusa in un  atto  stragiudiziale
anteriore  o  nel  «ricorso  introduttivo  del  giudizio  volto  alla
declaratoria di inefficacia (o inopponibilita') del trasferimento  di
ramo d'azienda», e' comunque tenuto, secondo la disciplina della mora
credendi, a  pagare  la  retribuzione  (art.  1206  cod.  civ.)  e  a
risarcire i danni patiti dal lavoratore (art. 1207 cod. civ.). 
    Il diritto vivente, per il periodo successivo  alla  sentenza  di
merito che abbia  dichiarato  nullo,  inefficace  o  inopponibile  il
trasferimento del ramo di azienda, riconoscerebbe una responsabilita'
meramente risarcitoria del datore di lavoro moroso. 
    La disciplina  della  mora  del  creditore,  nell'interpretazione
accreditata dal diritto vivente, contrasterebbe con l'art.  3  Cost.,
in quanto determinerebbe un'ingiustificata e irragionevole disparita'
di  trattamento  rispetto  alla  disciplina  di  tutti   i   rapporti
contrattuali  diversi  da  quelli  di  lavoro  subordinato   e   alla
disciplina  della  nullita'  dell'apposizione  del  termine,  per  il
periodo successivo alla sentenza. In  entrambe  le  ipotesi,  evocate
come termine di  raffronto,  il  creditore  moroso  sarebbe  comunque
obbligato a eseguire la propria prestazione e non solo a risarcire  i
danni arrecati dalla mora. 
    La disciplina in esame  sarebbe  lesiva  anche  dell'effettivita'
della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), in quanto consentirebbe
al datore di lavoro di «sottrarsi ad  libitum  alla  sentenza  (anche
passata in giudicato) con cui sia  stata  dichiarata  la  nullita'  o
l'inefficacia o l'inopponibilita' del trasferimento di ramo d'azienda
nei confronti del lavoratore». 
    Sarebbe violata  anche  la  garanzia  costituzionale  del  giusto
processo   (art.   111   Cost.),   inscindibilmente   connessa    con
l'effettivita' della tutela. 
    Il giudice a quo denuncia il  contrasto  con  l'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 6 CEDU, sul  presupposto  che  un
processo possa dirsi equo soltanto quando «consenta  di  ottenere  la
tutela specifica  (ove  giuridicamente  possibile)  e  comunque  piu'
idonea a conseguire la concreta utilita' che l'ordinamento  riconosce
sul piano del diritto sostanziale». 
    1.3.- Il rimettente reputa rilevanti le questioni di legittimita'
costituzionale,  in  quanto  l'accertamento   della   conformita'   a
Costituzione  del  diritto   vivente   condurrebbe   all'accoglimento
dell'appello proposto da Telecom Italia spa. 
    2.- Con atto depositato il 23 febbraio  2018,  si  e'  costituita
Telecom Italia spa e ha chiesto di  dichiarare  inammissibile  o,  in
subordine, infondata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
sollevata dalla Corte d'appello di Roma. 
    In punto di ammissibilita', Telecom Italia spa evidenzia  che  la
Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza 7 febbraio
2018, n. 2990, «si e' posta in consapevole contrasto con  i  principi
sino ad oggi contenuti nelle sentenze delle Sezioni Semplici» e  che,
pertanto, non puo'  piu'  essere  considerato  come  diritto  vivente
l'indirizzo  richiamato  dalla  Corte  d'appello  di  Roma.  In  tale
prospettiva, il  mutamento  dell'interpretazione  delle  disposizioni
censurate «travolge la questione che e' stata sollevata». 
    L'inammissibilita' della questione proposta si coglierebbe  anche
da un diverso punto di vista. 
    Il rimettente lamenterebbe la mancanza di un rimedio equiparabile
all'astreinte del diritto francese e demanderebbe  al  giudice  delle
leggi il compito di colmare questa  lacuna,  compito  che,  tuttavia,
travalicherebbe i limiti del sindacato di costituzionalita'. 
    Il  giudice  a   quo,   inoltre,   avrebbe   potuto   discostarsi
dall'orientamento delle sezioni semplici della Corte di cassazione  e
interpretare  le  disposizioni  censurate  in  maniera   conforme   a
Costituzione, anche senza investire  la  Corte  costituzionale  della
soluzione del dubbio di costituzionalita'. 
    Nel merito, la questione non sarebbe fondata. 
    In punto di fatto, Telecom Italia spa deduce di  avere  riammesso
tutti  i  lavoratori  all'esito  del  passaggio  in  giudicato  delle
sentenze che hanno accertato l'illegittimita' della cessione del ramo
di azienda. 
    Telecom  Italia  spa  argomenta  che  i  lavoratori  non  possono
reclamare dalla societa' cedente la  retribuzione,  «inscindibilmente
legata allo svolgimento di una prestazione di lavoro», e  puntualizza
che la prestazione e' stata resa a favore della societa'  cessionaria
ed  e'  stata  dalla  societa'  cessionaria  retribuita.  Spetterebbe
soltanto il risarcimento del danno, individuato nella differenza  tra
l'importo che i lavoratori avrebbero percepito continuando a lavorare
alle  dipendenze  della  societa'  cedente   e   quello   che   hanno
effettivamente gia' conseguito dalla societa' cessionaria. 
    Il  rimettente  non  dimostrerebbe   che,   secondo   l'ordinaria
disciplina  civilistica,  il  creditore   in   mora   sia   obbligato
all'esecuzione della prestazione. 
    Peraltro, la nullita' dell'apposizione del  termine,  evocata  in
chiave comparativa, presenterebbe tratti distintivi peculiari.  Nella
fattispecie della nullita' della cessione del  ramo  di  azienda,  il
lavoratore presterebbe  nei  confronti  del  cessionario  «la  stessa
identica attivita'  che  avrebbe  dovuto  prestare»  a  favore  della
societa' cedente. 
    Il  giudice  a  quo  muove  dalla  premessa  che,  «in   funzione
dissuasiva  della  mancata  esecuzione  dell'ordine  giudiziale»,  il
lavoratore ceduto abbia diritto a percepire due  retribuzioni,  anche
quando ha continuato  a  svolgere  la  propria  attivita'  presso  il
cessionario.  La  soluzione  auspicata  dal   rimettente,   tuttavia,
implicherebbe per il lavoratore «l'ingiusto vantaggio di  una  doppia
retribuzione». 
    Telecom  Italia  spa  reputa  infondate  anche  le   censure   di
violazione dei principi del giusto processo (artt. 111 e  117,  primo
comma, Cost.,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  6  CEDU)  e  di
effettivita'  della   tutela   giurisdizionale   (art.   24   Cost.).
L'orientamento censurato dal rimettente consentirebbe  al  lavoratore
di ottenere una esaustiva tutela risarcitoria in relazione a tutti  i
danni, patrimoniali  e  non  patrimoniali,  derivanti  dalla  mancata
riammissione. 
    Non verrebbe meno l'interesse ad agire del lavoratore per sentire
dichiarare l'illegittimita' o l'inefficacia della cessione,  al  fine
di chiedere il risarcimento del danno  e  di  ottenere  una  «elevata
tutela», che corrisponde all'intera retribuzione, se  il  cessionario
ha estromesso i lavoratori, o  alla  differenza  tra  quanto  avrebbe
percepito lavorando  presso  il  cedente  e  quanto  ha  ottenuto  in
concreto dal cessionario. 
    3.- Con atto depositato il 27 febbraio  2018,  si  e'  costituito
Alfonso Fiore, chiedendo di dichiarare costituzionalmente illegittimi
gli artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ., «in relazione agli art[t].  3,
4, 24, 35, 111 Cost. e 117 Cost. (per violazione  dell'art.  6  della
C.E.D.U.)», se interpretati nel senso di  ritenere  inapplicabile  la
disciplina della mora credendi «in favore dei dipendenti del  cedente
in un trasferimento di ramo d'azienda per il periodo successivo  alla
sentenza  di  merito  che  l'abbia  dichiarato  nullo,  inefficace  o
inopponibile,   persistendo   solo   un   obbligo   risarcitorio   da
inadempimento (art. 1218 c.c.)»  oppure  nel  senso  di  limitare  il
contenuto  precettivo   di   tale   disciplina   «al   solo   obbligo
risarcitorio», sia per  il  periodo  anteriore  che  per  il  periodo
successivo «alla sentenza  di  merito  che  abbia  dichiarato  nullo,
inefficace o inopponibile il trasferimento medesimo». 
    La parte, nel richiamare i principi  enunciati  da  questa  Corte
nella  sentenza  n.  303  del  2011,  argomenta  che,   a   decorrere
dall'accertamento della nullita' del termine apposto al contratto  di
lavoro, il datore di lavoro e' obbligato a riammettere in servizio il
lavoratore e a corrispondergli in ogni caso le  retribuzioni  dovute,
anche nell'ipotesi di mancata riammissione effettiva. 
    Tali principi sarebbero stati ribaditi dalla Corte di cassazione,
sezioni unite civili, con la  sentenza  n.  2990  del  2018.  Per  il
periodo successivo alla declaratoria di nullita'  dell'interposizione
di manodopera, sul datore di lavoro che, pur messo in  mora,  rifiuti
di ricevere la prestazione  continuerebbe  a  gravare  l'obbligazione
retributiva. 
    Non  potrebbe   dunque   trovare   applicazione   la   disciplina
derogatoria dettata dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970,  n.  300
(Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei  lavoratori,  della
liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di lavoro e
norme  sul  collocamento),  che  qualifica  in  termini   risarcitori
l'obbligazione del  datore  di  lavoro  derivante  dal  licenziamento
illegittimo. In difetto di  una  disciplina  di  diverso  tenore,  si
dovrebbe dunque applicare nella sua interezza la disciplina  generale
della mora del creditore, che equipara a ogni effetto una prestazione
illegittimamente rifiutata a una prestazione effettivamente resa. 
    La tutela risarcitoria, anche in base al disposto dell'art.  1453
cod. civ., si affiancherebbe alla  tutela  specifica,  senza  poterla
sostituire. 
    In contrasto con tali principi,  l'orientamento  censurato  dalla
Corte d'appello di Roma interpreterebbe in senso riduttivo,  soltanto
per i rapporti di lavoro,  la  disciplina  generale  della  mora  del
creditore e precluderebbe al lavoratore  la  facolta'  di  agire  per
l'adempimento della controprestazione. 
    Tale  disparita'   di   trattamento   sarebbe   priva   di   ogni
giustificazione apprezzabile e, nell'indurre il datore  di  lavoro  a
non   adempiere   all'obbligo   di    ripristinare    il    rapporto,
pregiudicherebbe l'effettivita' della tutela offerta dall'ordine  del
giudice, in violazione del diritto di  agire  in  giudizio  (art.  24
Cost.) e dei principi del giusto processo (artt.  111  e  117,  primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU). 
    4.- E' intervenuto, con atto depositato il 27 febbraio  2018,  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato,  e  ha  chiesto  di  dichiarare
inammissibile o comunque manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale. 
    L'interveniente    ha    eccepito,    in    linea    preliminare,
l'inammissibilita' della questione per inesatta individuazione  delle
disposizioni censurate e ha osservato che non  sono  le  disposizioni
sulla mora del creditore (artt.  1206,  1207  e  1217  cod.  civ.)  a
determinare le conseguenze  lesive  paventate  dal  rimettente.  Tali
conseguenze sarebbero imputabili alla  disciplina  dettata  dall'art.
1223 cod. civ. 
    Secondo l'Avvocatura generale dello Stato,  un'ulteriore  ragione
di inammissibilita' risiede nel fatto che il rimettente  auspichi  un
intervento manipolativo,  che  sconfina  nell'ambito  riservato  alla
discrezionalita' del legislatore. 
    Nel merito, la questione non sarebbe comunque fondata. 
    L'art.  1207  cod.  civ.  contemplerebbe  soltanto   una   tutela
risarcitoria e si applicherebbe in generale tanto al  lavoratore  che
non sia stato riassunto quanto a ogni altro debitore. 
    La sentenza di questa Corte n.  303  del  2011,  in  merito  alla
nullita' dell'apposizione del termine,  riguarderebbe  una  normativa
speciale, che persegue  una  eccezionale  funzione  sanzionatoria,  e
lascerebbe impregiudicata la questione della detrazione di quanto  il
lavoratore abbia percepito in virtu' di un'altra occupazione. 
    Non sussisterebbe neppure la denunciata  violazione  degli  artt.
24, 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art.  6  CEDU.  I
precetti richiamati, difatti, tutelerebbero il diritto  di  agire  in
giudizio  e  non  riguarderebbero  i  profili  sostanziali  adombrati
nell'ordinanza di rimessione. 
    Il rimettente non avrebbe neppure illustrato per quali ragioni le
disposizioni censurate inciderebbero «sulla astratta possibilita'  di
avere accesso alla giurisdizione». La  questione,  pertanto,  sarebbe
sotto tale profilo inammissibile, perche' motivata in modo  generico,
e sarebbe comunque infondata nel merito. 
    5.-  In  prossimita'  dell'udienza,  hanno   depositato   memorie
illustrative sia Telecom Italia spa sia Alfonso  Fiore,  per  sentire
accogliere le conclusioni gia' formulate. 
    5.1.- Telecom Italia spa ha osservato che il  rimettente  avrebbe
dovuto applicare i principi  enunciati  dalla  Corte  di  cassazione,
sezioni unite civili, con la sentenza 7 febbraio 2018,  n.  2990,  in
ordine alla natura retributiva  dell'obbligo  del  datore  di  lavoro
cedente, in caso di declaratoria di nullita' della cessione del  ramo
di azienda. Il mutamento del diritto vivente, sul quale si  fonda  la
questione di legittimita' costituzionale, «travolge la questione  che
e' stata sollevata». 
    La  Corte  di  cassazione,  sezione  sesta  civile,  sottosezione
lavoro, con ordinanza 31 maggio 2018, n. 14019, avrebbe poi  chiarito
che, anche a volere ritenere che sul datore di lavoro  cedente  gravi
l'obbligo di corrispondere la retribuzione, il lavoratore ceduto  non
ha diritto a una doppia retribuzione, in base ai principi del diritto
comune delle obbligazioni e alle regole  sull'adempimento  del  terzo
(art. 1180 cod. civ.) e  sull'indebito  soggettivo  (art.  2036  cod.
civ.). 
    Non sarebbe pertinente il richiamo alle disposizioni  sulla  mora
del creditore, che si limitano a definire  gli  elementi  costitutivi
della fattispecie e a prevederne le conseguenze  risarcitorie,  senza
specificarne la misura  costituzionalmente  necessaria.  Anche  sotto
questo profilo, la questione sarebbe inammissibile. 
    Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, in quanto il
lavoratore  presterebbe  nei  confronti  del  cessionario  la  stessa
attivita' che avrebbe dovuto prestare  verso  Telecom  Italia  spa  e
avrebbe diritto a una sola retribuzione. 
    Anche le censure relative alla violazione dell'effettivita' della
tutela giurisdizionale non sarebbero fondate, in quanto il lavoratore
ceduto ben potrebbe chiedere  l'accertamento  della  titolarita'  del
rapporto di  lavoro  in  capo  al  cedente  e,  in  caso  di  mancata
riammissione, potrebbe ottenere il  risarcimento  di  tutti  i  danni
patiti. 
    5.2.- Alfonso Fiore, con riguardo all'eccepita  aberratio  ictus,
replica che nel giudizio principale si discute della mora del  datore
di lavoro e che, pertanto, le censure a ragion veduta si  indirizzano
contro tale normativa. 
    Dovrebbero   essere   disattese    anche    le    eccezioni    di
inammissibilita' sollevate da Telecom Italia spa e dalla  difesa  del
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  in  ragione  della  natura
creativa  dell'intervento  richiesto  a  questa  Corte,  poiche'   si
tratterebbe di applicare al rapporto di lavoro la disciplina generale
della mora credendi. 
    Quanto al merito, sarebbe ininfluente il fatto che il  lavoratore
continui a lavorare  con  la  societa'  cessionaria.  Le  prestazioni
lavorative  sarebbero  diverse  e  non  potrebbero  pertanto   essere
ricondotte alla speciale disciplina dell'interposizione  fittizia  di
manodopera che,  a  fronte  della  medesima  prestazione  lavorativa,
sancisce  l'efficacia  liberatoria  dei  pagamenti   effettuati   dal
somministratore (Cass., sez. un. civ., sentenza n. 2990 del 2018). 
    In base alla disciplina generale sulla  mora  del  creditore,  il
creditore dovrebbe anzitutto eseguire la propria  prestazione  e,  in
secondo luogo, risarcire  i  danni  prodotti  dalla  mora.  L'obbligo
risarcitorio si  aggiungerebbe,  senza  sostituirsi,  all'obbligo  di
riammettere in servizio il lavoratore. 
    Il lavoratore ceduto, pertanto, avrebbe diritto  di  ricevere  la
prestazione retributiva tanto dal cedente, in forza della  disciplina
sulla mora del creditore, quanto dal  cessionario,  in  virtu'  della
disciplina sui rapporti contrattuali di fatto. 
    La disciplina derogatoria e speciale in tema di licenziamenti non
potrebbe trovare applicazione, in quanto - nel caso  di  declaratoria
di nullita' della cessione del ramo d'azienda - il rapporto di lavoro
non risulterebbe formalmente estinto. 
    L'interpretazione censurata dal  rimettente  sarebbe  foriera  di
un'arbitraria  disparita'  di  trattamento  del  rapporto  di  lavoro
rispetto a tutti gli  altri  rapporti  di  diritto  civile,  che  non
potrebbe rinvenire una ragionevole giustificazione nella  specialita'
del rapporto di lavoro. 
    La questione di legittimita' costituzionale non potrebbe  neppure
dirsi  superata  dal  diritto  vivente  successivo  all'ordinanza  di
rimessione, in quanto la Corte  di  cassazione,  con  l'ordinanza  n.
14019 del 2018, ha ribadito l'orientamento tradizionale,  in  ragione
dell'unicita' della prestazione lavorativa. 
    6.- All'udienza dell'8 gennaio 2019, le parti hanno  ribadito  le
conclusioni   rassegnate   nei    rispettivi    scritti    difensivi;
l'interveniente ha chiesto, in via  preliminare,  di  restituire  gli
atti in ragione del sopravvenire di un diverso diritto vivente. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte d'appello di  Roma,  sezione  lavoro,  dubita  della
legittimita' costituzionale  del  «combinato  disposto»  degli  artt.
1206, 1207 e 1217 del codice civile, per violazione  degli  artt.  3,
24, 111 e 117,  primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione all'art.  6  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848. 
    La Corte rimettente censura le citate disposizioni sulla mora del
creditore, sul presupposto che  limitino  la  tutela  del  lavoratore
ceduto al risarcimento del danno, anche dopo la  sentenza  che  abbia
accertato l'illegittimita' o l'inefficacia del trasferimento del ramo
di azienda. 
    Le disposizioni censurate, nell'interpretazione  accreditata  dal
diritto vivente, sarebbero lesive del principio di eguaglianza  (art.
3 Cost.) sotto un duplice profilo.  Il  giudice  a  quo  ravvisa  una
«ingiustificata ed irragionevole disparita' di trattamento» anzitutto
rispetto alla disciplina della mora del creditore «in tutte le  altre
obbligazioni relative a rapporti contrattuali diversi  da  quelli  di
lavoro subordinato»; in secondo luogo, rispetto alla disciplina delle
conseguenze della  nullita'  del  termine  apposto  al  contratto  di
lavoro, per il periodo successivo  alla  sentenza  che  accerti  tale
nullita' e converta il contratto a tempo determinato. In entrambe  le
ipotesi, evocate come termini di raffronto, il creditore in mora  non
soltanto sarebbe obbligato a risarcire i danni prodotti,  ma  sarebbe
pur sempre obbligato a eseguire la controprestazione. 
    La Corte rimettente denuncia anche il  contrasto  con  l'art.  24
Cost., in quanto la disciplina censurata consentirebbe al cedente «di
sottrarsi ad libitum alla sentenza (anche passata in  giudicato)  con
cui  sia   stata   dichiarata   la   nullita'   o   l'inefficacia   o
l'inopponibilita' del trasferimento di ramo d'azienda  nei  confronti
del lavoratore». 
    Il vulnus che tale disciplina recherebbe  all'effettivita'  della
tutela giurisdizionale determinerebbe anche la  violazione  dell'art.
111  Cost.,  che  «prevede  la  garanzia  del   "giusto   processo"»,
inscindibilmente connessa con l'effettivita' della tutela. 
    Sarebbe  violato  anche  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,   in
relazione  all'art.  6  CEDU.  La  disciplina   censurata,   difatti,
sacrificherebbe il diritto a un processo equo e, in  particolare,  il
diritto  «di  ottenere  la  tutela  specifica   (ove   giuridicamente
possibile) e comunque piu' idonea a conseguire la  concreta  utilita'
che l'ordinamento riconosce sul piano  del  diritto  sostanziale,  in
omaggio al carattere prettamente strumentale dei  rimedi  processuali
rispetto alle situazioni giuridiche soggettive da tutelare». 
    1.1.- Le questioni  di  legittimita'  costituzionale  sono  state
sollevate  nel  corso  di  un  giudizio  di  opposizione  a   decreto
ingiuntivo, pendente in appello. La societa' cedente  ha  opposto  il
decreto ingiuntivo emesso a  favore  del  lavoratore  ceduto  per  le
retribuzioni relative al periodo da gennaio a dicembre 2011 e ha  poi
impugnato la sentenza di primo grado che ha rigettato  l'opposizione.
A sostegno del gravame, la societa' ha posto l'accento sul fatto  che
le  retribuzioni  sono  state   gia'   corrisposte   dalla   societa'
cessionaria, subentrata in forza di  cessione  di  ramo  di  azienda,
successivamente dichiarata nulla con sentenza passata in giudicato. 
    2.-  Occorre  esaminare,   preliminarmente,   le   eccezioni   di
inammissibilita' formulate dalla difesa dello Stato e dalle parti. 
    2.1.- Ha priorita' logica  l'esame  dell'eccezione  di  aberratio
ictus. L'Avvocatura generale dello Stato  -  con  argomentazione  che
anche Telecom Italia spa, nella memoria  illustrativa  depositata  in
vista dell'udienza, mostra di far propria - imputa al  rimettente  di
avere sottoposto al vaglio di questa Corte disposizioni prive di ogni
attinenza con la denunciata violazione dei precetti costituzionali. 
    Secondo l'interveniente, sarebbe non la disciplina sulla mora del
creditore, ma la disposizione dell'art. 1223 cod. civ. a  determinare
la censurata limitazione della tutela. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il  contrasto  con  i  parametri   costituzionali   evocati   dal
rimettente trae origine dalla disciplina della  mora  del  creditore,
considerata nel suo complesso. 
    Il giudizio principale verte sull'inadempimento di un  datore  di
lavoro che non ha eseguito l'ordine giudiziale di riassunzione  e  ha
rifiutato senza alcun legittimo  motivo  (art.  1206  cod.  civ.)  la
prestazione  ritualmente  offerta  dal   lavoratore,   nel   rispetto
dell'art. 1217 cod. civ. 
    Correttamente, pertanto, il giudice a quo richiede a questa Corte
uno scrutinio unitario su quello che  qualifica  come  il  «combinato
disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ., tutti  chiamati  a
regolare la fattispecie  controversa  e  suscettibili,  pertanto,  di
produrre il vulnus che il rimettente ha denunciato. 
    2.2.- Telecom Italia spa  e  l'Avvocatura  generale  dello  Stato
hanno eccepito l'inammissibilita'  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale, in ragione del carattere manipolativo dell'intervento
richiesto a questa Corte. 
    L'eccezione non puo' essere accolta. 
    Il giudice a quo si propone di applicare la  disciplina  generale
della mora del creditore, che la Corte di cassazione in  quest'ambito
specifico avrebbe interpretato in maniera  restrittiva,  qualificando
in senso meramente risarcitorio le obbligazioni del datore di  lavoro
cedente che non  riammetta  nell'impresa  il  lavoratore  ceduto.  Si
dovrebbe cosi' riespandere, nell'ambito dei rapporti  di  lavoro,  la
disciplina generale, che,  a  giudizio  del  rimettente,  obbliga  il
creditore moroso a eseguire in ogni caso la controprestazione  e  non
soltanto a risarcire il danno. 
    Cosi' prospettate, le questioni di legittimita' costituzionale si
sottraggono ai rilievi di inammissibilita' incentrati sulla  mancanza
di "rime costituzionalmente obbligate". 
    2.3.- Telecom  Italia  spa  individua  un  ulteriore  profilo  di
inammissibilita' nel fatto che il rimettente solleciti alla Corte  un
avallo dell'interpretazione che ha prescelto. Dietro la  parvenza  di
un  dubbio  di  legittimita'  costituzionale,  il   giudice   a   quo
ventilerebbe una mera questione interpretativa  delle  norme  che  e'
chiamato ad applicare. 
    Neppure tale eccezione e' fondata. 
    Il  rimettente  muove   dalla   premessa   che,   sul   carattere
risarcitorio dell'obbligo  del  datore  di  lavoro  cedente  che  non
riammette il lavoratore  ceduto  nell'impresa,  l'orientamento  della
giurisprudenza di legittimita' sia oramai consolidato  e  assurga  al
rango di diritto vivente. 
    Tale premessa e'  corretta  ed  e'  avvalorata  da  un  indirizzo
uniforme del giudice della  nomofilachia  (fra  le  molte,  Corte  di
cassazione, sezione sesta civile, sottosezione lavoro,  ordinanza  10
maggio 2017, n. 11402). 
    Il rimettente, pur potendo privilegiare una diversa  lettura  del
dato normativo, rispettosa dei precetti della Carta fondamentale, ben
puo' scegliere di uniformarsi a  un'interpretazione  oramai  radicata
nella  giurisprudenza  di  legittimita'  e   richiederne,   su   tale
presupposto, la verifica di conformita' ai  parametri  costituzionali
(sentenza n. 39 del 2018, punto 3.2. del Considerato in diritto). 
    2.4.- L'Avvocatura generale dello Stato  lamenta  la  genericita'
delle censure di violazione degli artt. 24, 111 e 117,  primo  comma,
Cost.,  in  relazione  all'art.   6   CEDU.   Da   tale   genericita'
conseguirebbe l'inammissibilita' delle relative questioni. 
    Neppure tale eccezione coglie nel segno. 
    A sostegno della dedotta violazione del  canone  di  effettivita'
della   tutela   giurisdizionale,    il    rimettente    ha    svolto
un'argomentazione  adeguata,  che  ha  posto  in  risalto  il   nesso
inscindibile  tra  la  situazione   soggettiva   sostanziale   e   la
possibilita' di ottenere in giudizio una tutela efficace. 
    Anche  da  questo  punto  di  vista,  pertanto,  le  censure  del
rimettente superano il vaglio di ammissibilita'  demandato  a  questa
Corte. 
    3.-  Sgombrato  il  campo  da  tali  eccezioni  preliminari,   le
questioni possono essere scrutinate nel merito. Unitamente al  merito
devono essere vagliate anche le richieste e le eccezioni preliminari,
formulate  dall'interveniente   e   dalle   parti   sul   presupposto
dell'incidenza del diritto vivente sopravvenuto. 
    Le questioni non sono fondate, nei termini di seguito esposti. 
    4.- Occorre, preliminarmente, delimitare  il  tema  del  decidere
devoluto all'esame di questa Corte. 
    Le censure del rimettente si appuntano  sulla  qualificazione  in
termini  risarcitori  dell'obbligo  del  datore  di  lavoro  che  non
ottemperi all'ordine di riammettere il lavoratore nell'impresa,  dopo
l'accertamento      della      nullita',      dell'inefficacia      o
dell'inopponibilita' della cessione del ramo di azienda. 
    Il  giudice  a  quo  assume  che  la  configurazione   in   senso
risarcitorio dell'obbligo del datore di lavoro moroso sia lesiva  del
principio di eguaglianza, tanto in riferimento alla disciplina  degli
altri rapporti obbligatori quanto con riguardo alla disciplina  della
nullita' dell'apposizione del termine.  Nel  rapporto  di  lavoro,  a
differenza che negli altri ambiti posti  a  raffronto,  il  creditore
moroso sarebbe obbligato  soltanto  a  risarcire  i  danni  e  non  a
eseguire la controprestazione. 
    La limitazione della tutela del lavoratore ceduto al risarcimento
dei danni  comprometterebbe,  in  pari  tempo,  l'effettivita'  della
tutela giurisdizionale, secondo i molteplici parametri costituzionali
evocati (artt. 24, 111  e  117,  primo  comma,  Cost.,  in  relazione
all'art. 6 CEDU). 
    5.- Sul tema del decidere, cosi' definito, incide la  sentenza  7
febbraio 2018,  n.  2990,  pronunciata  dalla  Corte  di  cassazione,
sezioni unite civili. 
    Le Sezioni unite sono state chiamate a dirimere la  questione  di
massima di particolare  importanza  circa  la  natura  retributiva  o
risarcitoria  delle   somme   che   spettano   al   lavoratore   dopo
l'accertamento   dell'illecita    interposizione    di    manodopera,
nell'ipotesi in cui il lavoratore abbia invano messo  a  disposizione
le proprie energie lavorative. 
    In questa complessa opera ricostruttiva, le Sezioni  unite  hanno
preso le mosse proprio dall'orientamento che si e'  dapprima  formato
in tema di conseguenze della nullita'  del  trasferimento  d'azienda,
per    essere     successivamente     esteso     alla     fattispecie
dell'interposizione illecita di manodopera. La  Corte  di  cassazione
svolge  un'analoga  argomentazione  per  fattispecie  che   solo   in
apparenza sono tra loro distanti. 
    Le Sezioni unite puntualizzano che la qualificazione risarcitoria
dell'obbligazione del cedente, tanto consolidata da avere indotto  la
Corte  d'appello  di  Roma  a  sollevare  questioni  di  legittimita'
costituzionale della normativa cosi' intesa, si fonda  sul  principio
di corrispettivita' che permea di se' il contratto di lavoro. 
    Alla stregua di tale  principio,  al  di  fuori  delle  eccezioni
tassativamente previste dalla legge o dal contratto, il diritto  alla
retribuzione sorge soltanto  quando  la  prestazione  lavorativa  sia
stata effettivamente resa. In caso contrario, sussiste,  in  capo  al
datore di lavoro, soltanto un obbligo di risarcire il danno. 
    Secondo le  Sezioni  unite,  una  prospettiva  costituzionalmente
orientata impone  di  rimeditare  la  regola  della  corrispettivita'
nell'ipotesi di un  rifiuto  illegittimo  del  datore  di  lavoro  di
ricevere  la  prestazione   lavorativa   regolarmente   offerta.   Il
riconoscimento   di   una    tutela    esclusivamente    risarcitoria
diminuirebbe,  difatti,  l'efficacia  dei  rimedi  che  l'ordinamento
appresta per il lavoratore. 
    Sul datore di lavoro che persista  nel  rifiuto  di  ricevere  la
prestazione  lavorativa,  ritualmente  offerta  dopo   l'accertamento
giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua  dunque  a
gravare l'obbligo di corrispondere la retribuzione. 
    Nella  ricostruzione  delle  Sezioni  unite  la  disciplina   del
licenziamento illegittimo, che ascrive all'area del risarcimento  del
danno le indennita' dovute dal datore  di  lavoro,  si  configura  in
termini  derogatori  e  peculiari.  Acquistano  per  contro   valenza
generale le affermazioni contenute nella sentenza n. 303 del 2011  di
questa Corte, relative alle conseguenze dell'illegittima  apposizione
del termine (art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010,  n.  183,
recante «Deleghe  al  Governo  in  materia  di  lavori  usuranti,  di
riorganizzazione di enti, di  congedi,  aspettative  e  permessi,  di
ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per  l'impiego,  di  incentivi
all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro
pubblico e di controversie di lavoro»). 
    Infatti, come precisato nella  suddetta  pronuncia,  per  effetto
della sentenza che rileva il vizio della pattuizione  del  termine  e
instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di  lavoro  e'
tenuto a corrispondere al lavoratore, «in ogni caso, le  retribuzioni
dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva» (sentenza n.
303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). 
    Da  tali  principi  le  Sezioni  unite  evincono,   con   portata
tendenzialmente generale, l'obbligo del datore di  lavoro  moroso  di
corrispondere  le  retribuzioni  al  lavoratore  che  non  sia  stato
riammesso in servizio, neppure dopo  la  pronuncia  del  giudice  che
abbia ripristinato la vigenza dell'originario rapporto di lavoro. 
    In questa prospettiva, riveste un ruolo  primario  l'accertamento
del giudice, che ristabilisce la lex contractus, accertamento che non
puo'  essere  sminuito  nella  sua  forza   cogente   dal   protrarsi
dell'inosservanza. 
    Al profilo processuale fa riscontro, sul versante sostanziale, la
particolare pregnanza dei diritti riconosciuti al lavoratore a fronte
della mora del datore di lavoro. Tali diritti non si esauriscono  nel
rimedio  risarcitorio,   ma   includono   anche   il   diritto   alla
controprestazione, in consonanza con i principi generali del  diritto
delle obbligazioni, che, pur con  le  peculiarita'  connaturate  alla
specialita' del rapporto di lavoro, perseguono anche in  quest'ambito
un'essenziale funzione di tutela. 
    6.- Sulle implicazioni della citata sentenza delle sezioni  unite
le valutazioni dell'interveniente e delle parti sono divergenti. 
    6.1.- All'udienza  pubblica  dell'8  gennaio  2019,  l'Avvocatura
generale  dello  Stato  ha  formulato,  in  ragione   della   novita'
sopravvenuta, una richiesta di restituzione degli atti. 
    Tale richiesta non puo' essere accolta. 
    Alla  stregua  del  «principio  di  effettivita'   della   tutela
giurisdizionale in sede costituzionale» (sentenza n.  186  del  2013,
punto 3.3. del Considerato in diritto), la  restituzione  degli  atti
deve essere disposta allorche'  sopravvengono  mutamenti  del  quadro
normativo, che impongano al rimettente di  rinnovare  la  valutazione
della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni. 
    6.2. Questa ipotesi non ricorre nel  caso  di  specie  e  non  si
ravvisano neppure le ragioni per dichiarare l'inammissibilita'  delle
questioni, eccepita da Telecom Italia spa sulla base del rilievo  che
il nuovo orientamento della Corte di  cassazione  "travolgerebbe"  le
questioni di legittimita' costituzionale. 
    6.3.- Il mutamento della giurisprudenza postula uno scrutinio  di
merito, anche per ragioni di  economia  ed  efficienza  del  processo
costituzionale. Dopo l'intervento delle Sezioni unite,  le  questioni
sollevate permangono  inalterate  nei  loro  termini  salienti  e  il
sindacato di questa Corte, pertanto, non puo' arrestarsi in limine  a
un  ordine  di  restituzione  degli   atti   o   al   rilievo   della
inammissibilita' delle questioni proposte. 
    A tale riguardo, si deve rilevare che l'indirizzo interpretativo,
indicato come  diritto  vivente  allorche'  sono  state  proposte  le
questioni di legittimita'  costituzionale,  risulta  disatteso  dalla
suddetta pronuncia delle Sezioni unite, successiva  all'ordinanza  di
rimessione.  Tale  pronuncia  mira  a  ricondurre  a  razionalita'  e
coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto
di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa  i  dubbi  di
costituzionalita' prospettati. 
    Invero,    sul    punto    della    qualificazione    retributiva
dell'obbligazione del datore di lavoro  moroso,  che  rappresenta  il
fulcro delle questioni di legittimita' costituzionale,  si  riscontra
una piena convergenza tra le enunciazioni di principio delle  Sezioni
unite e l'assunto del rimettente (Corte di cassazione, sezione  sesta
civile, sottosezione lavoro, ordinanze 1° giugno 2018, n. 14136, e 31
maggio 2018, n. 14019, punto 5. delle rispettive motivazioni). 
    Questa convergenza vale a  privare  di  fondamento,  nei  termini
indicati, le questioni di legittimita' costituzionale, insorte  sulla
base di un'interpretazione di segno antitetico (ex plurimis, sentenza
n. 56 del 1985, punto 4. del Considerato  in  diritto;  nello  stesso
senso, sentenza n. 233  del  2003,  punto  3.4.  del  Considerato  in
diritto). 
    6.4.- Spettera' alla Corte  rimettente  rivalutare  la  questione
interpretativa dibattuta nel  giudizio  principale,  che  investe  il
diritto del lavoratore ceduto, gia' retribuito  dal  cessionario,  di
rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non  fondate,  nei  sensi  di  cui  in  motivazione,  le
questioni di legittimita'  costituzionale  del  «combinato  disposto»
degli artt. 1206, 1207 e 1217  del  codice  civile,  sollevate  dalla
Corte d'appello di Roma, sezione lavoro, in riferimento agli artt. 3,
24, 111 e 117,  primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in
relazione all'art.  6  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 gennaio 2019. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                     Silvana SCIARRA, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2019. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA