N. 37 SENTENZA 23 gennaio - 6 marzo 2019

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Abrogazione del reato di ingiuria cui all'art. 594 del
  codice penale. 
- Legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di  pene
  detentive non carcerarie e di riforma  del  sistema  sanzionatorio.
  Disposizioni in materia di sospensione del procedimento  con  messa
  alla prova e nei confronti degli irreperibili), art.  2,  comma  3,
  lettera a), numero 2); decreto legislativo 15 gennaio  2016,  n.  7
  (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione  di
  illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma  dell'articolo  2,
  comma 3, della legge 28 aprile 2014,  n.  67),  art.  1,  comma  1,
  lettera c). 
-   
(GU n.11 del 13-3-2019 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, 
  
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma  3,
lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe  al
Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma  del
sistema sanzionatorio. Disposizioni in  materia  di  sospensione  del
procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili)
e dell'art. 1, comma  1,  lettera  c),  del  decreto  legislativo  15
gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e
introduzione di illeciti con  sanzioni  pecuniarie  civili,  a  norma
dell'articolo 2, comma  3,  della  legge  28  aprile  2014,  n.  67),
promossi dal Giudice  di  pace  di  Venezia,  con  ordinanze  del  24
gennaio, del 27 giugno, del 20 giugno, del 4 luglio, del  17  ottobre
2017 e del 30 gennaio 2018, iscritte rispettivamente ai nn. 70, 150 e
151 del registro ordinanze 2017 e ai  nn.  80,  81,  112  e  113  del
registro ordinanze 2018, pubblicate nella  Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica nn. 21 e 44, prima serie speciale, dell'anno 2017 e nn. 22
e 36, prima serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visti l'atto di costituzione di G. D. e R. F. nella  qualita'  di
eredi di G. D., nonche' gli atti di  intervento  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    udito nella udienza pubblica del 22 gennaio  e  nella  camera  di
consiglio del 23 gennaio 2019 il Giudice relatore Francesco Vigano'; 
    uditi l'avvocato Renzo Fogliata per G. D. e R. F. nella  qualita'
di eredi di G. D. e l'avvocato dello  Stato  Maurizio  Greco  per  il
Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 24 gennaio 2017 (r. o. n. 70 del 2017),  il
Giudice di pace di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt.  2
e 3 della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della  legge  28  aprile
2014, n. 67 (Deleghe al Governo in  materia  di  pene  detentive  non
carcerarie e di riforma del sistema  sanzionatorio.  Disposizioni  in
materia di sospensione del procedimento con messa alla  prova  e  nei
confronti degli irreperibili) e dell'art. 1, comma 1, lettera c), del
decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di
abrogazione  di  reati  e  introduzione  di  illeciti  con   sanzioni
pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2, comma 3, della  legge  28
aprile 2014, n. 67), nella  parte  in  cui  dispongono  l'abrogazione
dell'art. 594 del codice penale. 
    1.1.- In punto di rilevanza, il giudice  a  quo  osserva  che  il
giudizio principale ha ad oggetto un'imputazione per  il  delitto  di
ingiuria  di  cui  all'art.  594  cod.  pen.,  abrogato  -  in  epoca
successiva alla commissione del fatto contestato - in forza dell'art.
1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016. Per effetto di tale
abrogazione, egli sarebbe dunque tenuto a dichiarare di «non  doversi
procedere ex art. 129 codice procedura penale» in quanto il fatto non
e' piu'  previsto  dalla  legge  come  reato.  Laddove  questa  Corte
dichiarasse  l'illegittimita'   costituzionale   delle   disposizioni
denunciate, si realizzerebbe invece «la riespansione della  rilevanza
penale del comportamento oggetto  del  reato  di  ingiurie»;  il  che
consentirebbe la prosecuzione del processo, al fine di verificare  in
dibattimento la sussistenza del reato contestato all'imputato. 
    Secondo il  rimettente,  «la  rilevanza  della  questione  appare
sussistere anche se l'oggetto  riguarda  norme  penali  di  favore  e
precisamente norme abrogative di ipotesi delittuose come nel caso  di
specie», non potendosi a suo avviso concepire che le norme penali  di
favore sfuggano al controllo di costituzionalita',  precludendosi  in
tal  modo  ogni  possibilita'  di  garantire  la   preminenza   della
Costituzione sulla legislazione statale ordinaria. 
    Sul punto, il rimettente richiama l'orientamento di questa  Corte
(e in particolare le sentenze n. 394 del 2006 e  n.  148  del  1983),
secondo   cui   sarebbe   possibile   esperire   il   sindacato    di
costituzionalita' anche su norme di favore, nonche' la sentenza n.  5
del 2014, in cui  e'  stata  dichiarata  l'incostituzionalita'  della
legge  abrogativa  del  reato  di  associazione   paramilitare,   con
conseguente reviviscenza della previgente norma incriminatrice. 
    1.2.-  Circa  la  non  manifesta  infondatezza  delle   questioni
prospettate,  il  giudice  a  quo  rileva  anzitutto   che   «l'onore
costituisce  uno  dei   beni   fondamentali   della   persona   umana
riconosciuto tra i diritti inviolabili dell'uomo di  cui  all'art.  2
della Costituzione», tanto che «la stessa Corte costituzionale  [...]
lo annovera  tra  i  beni  e  gli  interessi  inviolabili  in  quanto
essenzialmente connessi con la persona umana (Corte costituzionale n.
86/1972 [recte: 1974] e n. 38/1973)». 
    Si tratterebbe, in particolare, di «un  bene  giuridico  ascritto
nel  rango  dei  diritti   essenziali,   assoluti,   personali,   non
patrimoniali,   inalienabili,   intrasmissibili,    imprescrittibili,
originari e innati»; un diritto da ritenere  quale  «estrinsecazione,
nelle  societa'   democratiche,   del   fondamentale   principio   di
uguaglianza di tutti gli essere  umani  che  trova  le  sue  profonde
radici nel principio del rispetto per ogni persona, per  ogni  essere
umano, senza alcuna distinzione di sesso, di  razza,  di  lingua,  di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». 
    Il rimettente osserva che le disposizioni censurate  «determinano
la fuoriuscita del bene dell'onore e del decoro dal sistema di tutela
pubblicistica dei diritti fondamentali»;  cio'  nel  contesto  di  un
ordinamento in cui non  vi  sarebbero  «diritti  inviolabili  di  cui
all'art. 2 della Costituzione che  non  siano  protetti  anche  dalle
norme penali, proprio in virtu' della  massima  tutela  che  ad  essi
viene garantita». 
    La stessa Corte costituzionale avrebbe ritenuto che gli artt.  2,
3 e 13, primo comma, Cost.  «riconoscano  e  garantiscano  i  diritti
inviolabili dell'uomo, fra  i  quali  rientrano  quelli  del  proprio
decoro,   del   proprio   onore,   della   propria   rispettabilita',
riservatezza, intimita' e reputazione,  sanciti  espressamente  negli
artt. 8 e 10 della Convenzione europea sui  diritti  dell'uomo  (cfr.
Corte costituzionale n. 38/1973)». 
    Tali diritti potrebbero essere tutelati soltanto attraverso norme
incriminatrici «poiche' sono proprio le norme penali che sono  poste,
ontologicamente, a difesa dei diritti inviolabili dell'essere umano»;
e cio' «sia per l'efficacia deterrente della sanzione penale che  per
l'inadeguatezza delle sanzioni amministrative o civili  che  appaiono
inconciliabili a prevenire, ricomporre o reprimere le condotte lesive
dei diritti fondamentali». 
    1.3.-  Un  secondo  aspetto  di  non  manifesta  infondatezza  si
apprezzerebbe  in  relazione  all'art.  3   Cost.,   in   quanto   la
depenalizzazione  del  reato  di  ingiuria  avrebbe  determinato  una
irragionevole  disparita'  di  trattamento  rispetto  al   reato   di
diffamazione di cui all'art. 595  cod.  pen.,  delitto  riconducibile
«alla stessa medesima ratio  e  allo  stesso  diritto  fondamentale»,
distinguendosi solamente  per  la  presenza  o  meno  dell'offeso  al
momento della condotta. 
    Tale  discriminazione   sarebbe   particolarmente   evidente   in
riferimento all'abrogazione dell'ipotesi aggravata  di  cui  all'art.
594, quarto comma, cod.  pen.,  che  disponeva  un  aumento  di  pena
qualora l'offesa  fosse  commessa  «in  presenza  di  piu'  persone».
Secondo il rimettente, sarebbe del tutto irragionevole  «[l]a  scelta
di perseguire un fatto "comunicando  con  piu'  persone"  in  assenza
dell'offeso  (diffamazione)  e  di  non  punire  il  medesimo   fatto
"commesso in presenza di piu' persone" con  la  presenza  dell'offeso
(ingiurie)». 
    1.4.- Un terzo aspetto di non  manifesta  infondatezza  andrebbe,
infine, apprezzato in relazione  alla  «difforme  tutela  processuale
garantita al medesimo diritto  fondamentale  nell'abrogato  reato  di
ingiuria rispetto al reato di diffamazione». 
    In particolare, la deposizione testimoniale della persona offesa,
che ben potrebbe  essere  posta  a  fondamento  della  decisione  nel
processo penale a quo, non  potrebbe  esserlo  nel  giudizio  civile,
poiche' in quella sede la parte non puo' testimoniare a favore di se'
stessa. 
    Cio' condurrebbe alla conseguenza per cui un'ingiuria commessa in
assenza di testimoni sarebbe  destinata  a  restare  impunita,  cosi'
determinandosi un'irragionevole disparita'  di  trattamento  rispetto
alle vittime della diffamazione, le quali hanno  la  possibilita'  di
costituirsi parte  civile  e  deporre  come  testimoni  nel  processo
penale. 
    2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, che ha concluso chiedendo che le  questioni  siano  dichiarate
inammissibili o comunque infondate. 
    L'Avvocatura generale dello Stato osserva anzitutto  come  questa
Corte nella sentenza (recte: ordinanza) n. 175 del 2001, in  tema  di
oltraggio a pubblico ufficiale, abbia gia' affermato che la questione
«tendente ad ottenere una sentenza con la  quale  venga  reintrodotta
una fattispecie criminosa prevista da una disposizione  espressamente
abrogata [...] eccede i compiti di questa Corte», trattandosi di  una
«scelta discrezionale riservata al legislatore». 
    L'Avvocatura rammenta altresi' che questa Corte,  nella  sentenza
n. 81 del 2014, affermo' di  non  potere  rimodulare  liberamente  le
sanzioni degli illeciti penali perche', se lo facesse, invaderebbe un
campo  riservato  alla  discrezionalita'  del  legislatore,  il   cui
esercizio   e'   censurabile,   sul    piano    della    legittimita'
costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza  o
nell'arbitrio, come avviene quando si sia di fronte  a  sperequazioni
sanzionatorie  tra  fattispecie  omogenee  non  sorrette  da   alcuna
ragionevole giustificazione. 
    Le sentenze citate dal rimettente a sostegno della tesi  relativa
alla «necessita' di "penalizzare" una condotta in senso  contrario  a
quanto ritenuto dal legislatore»  non  sarebbero  dunque  conferenti,
l'intervento ablativo della Corte giustificandosi  solamente  «quando
l'area della  penalita'  e'  esclusa  per  categorie  determinate  di
soggetti», come ad esempio avvenuto  in  tema  di  falso  in  materia
elettorale nella sentenza n. 394 del 2006. 
    Sarebbe  del  resto  «[i]ncongruo»  il  riferimento  operato  dal
rimettente alla sentenza n. 5 del 2014, in quanto relativa a un  caso
in  cui  l'illegittimita'   dell'avvenuta   depenalizzazione,   nella
fattispecie  in  materia  di  associazioni  paramilitari,  era  stata
riscontrata sotto il profilo dell'assenza di  delega  legislativa,  e
dunque per contrarieta' all'art. 76 Cost. 
    Resterebbe fermo, in altri termini, il  principio  per  cui  alla
Corte «e' preclusa ogni pronuncia che ripristini un reato laddove  si
contesti  la  mera  ragionevolezza  delle  scelte  discrezionali  del
legislatore,  con   conseguente   inammissibilita'   della   relativa
questione, come sostenuto ripetutamente dalla stessa Corte». 
    Mentre  la  discrezionalita'  del  legislatore  potrebbe   essere
censurata soltanto nel caso di «uso distorto o  arbitrario  cosi'  da
confliggere in modo manifesto con  il  canone  della  ragionevolezza»
(ordinanza n. 23 del 2009), nella fattispecie in esame «il perdurante
rilievo  penale  della  diffamazione   si   giustifica   sulla   base
dell'aggressione pubblica dell'onore, contrariamente a quanto avviene
per l'ingiuria rispetto alla quale il legislatore  ha  perseguito  lo
scopo della sua rimessione alla composizione tra  privati,  facendone
un illecito civile». 
    L'Avvocatura  generale   dello   Stato,   infine,   osserva   che
l'argomento del rimettente che fa leva sul diverso regime  probatorio
in sede civile, in base al quale sarebbe impedito alla  parte  offesa
di   deporre   come   teste,   sarebbe   parimenti   infondato,   «in
considerazione al fatto che esistono mezzi (es. 228/230-233 cpc)  che
possono portare all'accertamento della fattispecie». 
    3.-  Con  atto  depositato  in  data  13  giugno  2017,  si  sono
costituiti nel giudizio incidentale il signor G. D. e la  signora  R.
F., rispettivamente figlio e moglie del defunto G. D.,  parte  civile
nel procedimento penale a quo. 
    Nell'atto di costituzione si ribadisce anzitutto  la  centralita'
del bene dell'onore, quale diritto fondamentale della persona  umana,
avente rango costituzionale  nell'art.  2  Cost.  e  presentante  «un
costitutivo connotato pubblicistico», al quale solo il diritto penale
sarebbe in grado di assicurare tutela; e cio' anche nell'ottica della
prevenzione speciale e generale, che  sarebbero  invece  estranee  al
diritto civile. Solamente «il timore della sanzione  penale,  per  il
reo, e la prospettiva di un'adeguata  tutela  penale,  per  l'offeso»
sarebbero in grado di frenare la «progressione  criminosa»  cui  puo'
dar  luogo  un  «reato-innesco  di  una  serie  di   altre   condotte
delittuose», quale l'ingiuria. 
    Le  parti  costituite  osservano,  inoltre,  come   intraprendere
un'azione civile sia economicamente piu' gravoso rispetto  alla  mera
presentazione di una  querela,  «con  l'immediata  conseguenza  della
disparita' di trattamento tra cittadini piu' o meno abbienti». 
    Per effetto della novella legislativa,  d'altra  parte,  il  bene
dell'onore sarebbe stato artificiosamente «frantumato», rimanendo  la
tutela  penale   confinata   al   bene   della   reputazione   grazie
all'incriminazione  della  diffamazione  ex  art.  595   cod.   pen.:
fattispecie, quest'ultima, che non potrebbe pero' dirsi, in astratto,
piu' grave dell'ingiuria, dovendo l'offensivita' essere apprezzata in
concreto. 
    Le parti costituite rilevano inoltre che  la  Corte  avrebbe  nel
tempo superato l'iniziale  «self  restraint  al  proprio  intervento»
incarnato nel principio di riserva  di  legge  di  cui  all'art.  25,
secondo comma, Cost., giungendo ad ammettere un sindacato  sulla  lex
mitior a partire dalla sentenza n. 148 del  1983,  e  successivamente
nelle sentenze n. 394 del 2006, n. 5 del 2014 e n. 32 del 2014. 
    Le disposizioni censurate dovrebbero, pertanto, essere dichiarate
costituzionalmente illegittime per  contrasto  con  l'art.  2  Cost.,
avendo  determinato  il   venir   meno   dell'indispensabile   tutela
pubblicistica rispetto a una delle  condotte  con  cui  e'  possibile
ledere il bene fondamentale dell'onore; e  con  l'art.  3  Cost.,  in
relazione all'irragionevole discriminazione da esse  creata  rispetto
al reato di diffamazione di cui all'art. 595 cod. pen. 
    4.- Con sei ulteriori ordinanze - del 27 giugno 2017  (r.  o.  n.
150 e n. 151 del 2017), del 20 giugno 2017 (r. o. n.  80  del  2018),
del 4 luglio 2017 (r. o. n. 81 del 2018), del 17 ottobre 2017 (r.  o.
n. 112 del 2018) e del 30 gennaio 2018 (r. o. n. 113 del 2018)  -  il
medesimo Giudice di pace di Venezia ha sollevato, in riferimento agli
artt. 2 e 3 Cost., nonche' agli artt. 10 e 117, primo  comma,  Cost.,
quest'ultimo  in  relazione  all'art.  1  della  Carta  dei   diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007,  questioni
di legittimita' costituzionale dell'art.  2,  comma  3,  lettera  a),
numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell'art. 1, comma 1, lettera
c), del  d.lgs.  n.  7  del  2016,  nella  parte  in  cui  dispongono
l'abrogazione dell'art. 594 cod. pen. 
    Le  ordinanze  presentano  motivazioni  tra  loro  coincidenti  e
originano tutte da procedimenti penali, pendenti dinanzi  al  Giudice
di pace di Venezia, per fatti di ingiuria  ex  art.  594  cod.  pen.,
contestati talora singolarmente (r. o. n. 150  del  2017),  in  altri
casi in concorso con altri delitti, quali  le  lesioni  personali  ex
art. 582 cod. pen. (r. o. n. 151 del 2017 e  n.  113  del  2018),  la
minaccia ex art. 612 cod. pen. (r. o. n. 80,  n.  81  e  n.  113  del
2018), la diffamazione ex art. 595 cod. pen. (r. o. n. 112 del 2018). 
    4.1.- In punto di rilevanza, le argomentazioni  spese  in  queste
sei ordinanze sono identiche a quelle espresse nell'ordinanza  r.  o.
n. 70 del 2017, gia' sopra ripercorse. 
    4.2.- Anche in punto di non manifesta infondatezza le motivazioni
coincidono con quelle spese nell'ordinanza r.  o.  n.  70  del  2017,
salvi i due profili differenziali di seguito segnalati. 
    In primo luogo, tra i parametri costituzionali evocati figurano -
oltre agli artt. 2 e 3 Cost. - anche gli artt. 10 e 117, primo comma,
Cost.,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  1  CDFUE   (il   quale
statuisce: «La  dignita'  umana  e'  inviolabile.  Essa  deve  essere
rispettata e tutelata»). Le disposizioni censurate si  porrebbero  in
contrasto anche con tali parametri «poiche' la  potesta'  legislativa
e' stata esercitata dallo Stato con legge ordinaria senza  rispettare
i vincoli e i principi  derivanti  dagli  obblighi  internazionali  e
dalle norme  di  diritto  internazionale  generalmente  riconosciute,
tanto da violare apertamente il principio fondamentale della dignita'
umana espresso nell'art.  1  della  Carta  dei  Diritti  Fondamentali
dell'Unione Europea». 
    In secondo luogo, fra gli  argomenti  spesi  dal  giudice  a  quo
nell'ordinanza r. o. n. 70 del 2017, non viene  in  queste  ordinanze
ribadito quello attinente alla difformita' di disciplina  processuale
relativa alla deposizione del testimone persona offesa. 
    5.- In tutti i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibili o comunque
infondate le questioni. 
    Gli argomenti spesi  dall'Avvocatura  generale  sono  identici  a
quelli  espressi  nell'atto  di  intervento  nel  giudizio   di   cui
all'ordinanza r. o. n. 70 del  2017,  gia'  sopra  illustrati.  Viene
tuttavia aggiunto che l'ordinanza appare «del  tutto  immotivata  con
riguardo ai parametri invocati di cui agli articoli 2, 10 e 117 della
Costituzione», non essendo in particolare illustrati i  motivi  della
contrarieta' delle norme denunciate con le norme dell'Unione europea.
Il fatto poi che la dignita' dell'uomo riceva tutela e riconoscimento
costituzionale  -  osserva  l'Avvocatura  generale  -  «non  comporta
necessariamente  che  l'ingiuria  debba  essere   punita   penalmente
piuttosto che con sanzione pecuniaria, ne'  che  il  diritto  europeo
imponga al legislatore l'adozione di particolari forme». 
    Richiamando sul punto la giurisprudenza di  questa  Corte  (e  in
particolare la sentenza n. 223 del 2015), l'Avvocatura generale dello
Stato conclude - anche sotto tale aspetto  -  per  l'inammissibilita'
delle questioni sollevate, in ragione della  carenza  di  motivazioni
sull'asserito  contrasto  tra  le  norme  censurate  e  i   parametri
costituzionali evocati. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Giudice di pace  di  Venezia  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 2  e  3  della
Costituzione, dell'art. 2, comma 3,  lettera  a),  numero  2),  della
legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in  materia  di  pene
detentive non carcerarie e  di  riforma  del  sistema  sanzionatorio.
Disposizioni in materia di sospensione  del  procedimento  con  messa
alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell'art.  1,  comma
1, lettera  c),  del  decreto  legislativo  15  gennaio  2016,  n.  7
(Disposizioni in materia di abrogazione di reati  e  introduzione  di
illeciti con sanzioni pecuniarie civili,  a  norma  dell'articolo  2,
comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui hanno
abrogato il delitto di ingiuria in precedenza previsto dall'art.  594
del codice penale. 
    2.- Con sei ulteriori ordinanze, il medesimo Giudice di  pace  ha
sollevato analoghe questioni  di  legittimita'  costituzionale  sulle
stesse disposizioni, sospettandone il contrasto con gli artt.  2,  3,
10 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in  relazione  all'art.  1
della Carta dei diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo  il  12
dicembre 2007, nella parte  in  cui  hanno  abrogato  il  delitto  di
ingiuria in precedenza previsto dall'art. 594 cod. pen. 
    3.-  Stante  la  larghissima  sovrapponibilita'  delle  questioni
prospettate, deve preliminarmente essere  disposta  la  riunione  dei
predetti giudizi. 
    4.- Come correttamente eccepito  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, tutte le questioni prospettate sono inammissibili. 
    5.- Manifestamente inammissibili sono, anzitutto, le questioni di
legittimita' costituzionale  sollevate  in  riferimento  all'art.  10
Cost., per radicale assenza di motivazione sulla loro  non  manifesta
infondatezza. Il rimettente non ha, infatti, chiarito in  alcun  modo
in  che  senso  debba  ritenersi  esistente  una  norma  di   diritto
internazionale  generalmente  riconosciuta  la   quale   imponga   la
criminalizzazione delle offese all'onore individuale. 
    6.- Del  pari  manifestamente  inammissibili  sono  le  questioni
sollevate  in  riferimento  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.   in
relazione all'art. 1 CDFUE. Il rimettente non ha infatti chiarito  in
che senso la tutela dell'onore individuale dovrebbe ritenersi materia
ricadente entro l'ambito  di  applicazione  del  diritto  dell'Unione
europea: condizione dalla  quale  dipende  la  stessa  applicabilita'
della Carta negli ordinamenti degli Stati membri, ai sensi di  quanto
disposto dall'art. 51 della Carta medesima (ex  multis,  sentenze  n.
194 del 2018, n. 111 del 2017, n. 63 del 2016 e n. 80 del 2011). 
    7.- Inammissibili sono,  infine,  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale delle disposizioni censurate in riferimento agli artt.
2 e 3 Cost. 
    7.1.- In linea di principio, sono inammissibili le  questioni  di
legittimita' costituzionale che concernano disposizioni abrogative di
una  previgente  incriminazione,   e   che   mirino   al   ripristino
nell'ordinamento  della  norma  incriminatrice  abrogata  (cosi',  ex
plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413
del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a  tale
ripristino osta, di regola, il  principio  consacrato  nell'art.  25,
secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la  definizione
dell'area  di  cio'   che   e'   penalmente   rilevante.   Principio,
quest'ultimo, che determina in  via  generale  l'inammissibilita'  di
questioni volte a creare nuove norme penali,  a  estenderne  l'ambito
applicativo a casi non previsti (o non piu' previsti) dal legislatore
(ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002;  ordinanze  n.
65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad  aggravare  le  conseguenze
sanzionatorie o la  complessiva  disciplina  del  reato  (ex  multis,
ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del
2009). 
    Come ribadito anche di recente da questa Corte (sentenze  n.  236
del 2018 e n. 143 del 2018), peraltro, tali principi non  sono  senza
eccezioni. 
    Anzitutto, puo' venire in considerazione la necessita' di evitare
la creazione di "zone franche" immuni dal controllo  di  legittimita'
costituzionale, laddove il legislatore introduca, in  violazione  del
principio di eguaglianza, norme penali  di  favore,  che  sottraggano
irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola
della generale rilevanza penale di una piu' ampia classe di condotte,
stabilita  da  una  disposizione   incriminatrice   vigente,   ovvero
prevedano per detto sottoinsieme - altrettanto irragionevolmente - un
trattamento sanzionatorio piu' favorevole (sentenza n. 394 del 2006). 
    Un controllo di legittimita'  con  potenziali  effetti  in  malam
partem deve altresi' ritenersi ammissibile quando a essere  censurato
e' lo scorretto  esercizio  del  potere  legislativo:  da  parte  dei
Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare  le  scelte  di
criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n.  46
del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte  del  Governo,
che abbia abrogato  mediante  decreto  legislativo  una  disposizione
penale, senza a cio' essere autorizzato dalla legge delega  (sentenza
n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello  stesso  Parlamento,  che
non abbia rispettato  i  principi  stabiliti  dalla  Costituzione  in
materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32  del  2014).
In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata  incostituzionale
sia  una  disposizione   che   semplicemente   abrogava   una   norma
incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5
del 2014), la dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale  della
prima non potra' che  comportare  il  ripristino  della  seconda,  in
effetti mai (validamente) abrogata. 
    Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia
penale conseguente alla pronuncia di illegittimita' costituzionale e'
stato, altresi', ritenuto ammissibile  allorche'  esso  si  configuri
come «mera conseguenza indiretta della reductio ad  legitimitatem  di
una  norma  processuale»,   derivante   «dall'eliminazione   di   una
previsione  a  carattere  derogatorio  di  una  disciplina  generale»
(sentenza n. 236 del 2018). 
    Un  controllo  di  legittimita'  costituzionale  con   potenziali
effetti in malam partem puo', infine, risultare  ammissibile  ove  si
assuma  la  contrarieta'  della  disposizione  censurata  a  obblighi
sovranazionali rilevanti ai sensi dell'art. 11 o dell'art. 117, primo
comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonche'  sentenza  n.  32  del
2014, ove l'effetto di ripristino della  vigenza  delle  disposizioni
penali illegittimamente sostituite  in  sede  di  conversione  di  un
decreto-legge,  con  effetti  in  parte  peggiorativi  rispetto  alla
disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con  riferimento
alla  necessita'  di  non  lasciare  impunite  «alcune  tipologie  di
condotte  per  le  quali  sussiste  un  obbligo   sovranazionale   di
penalizzazione. Il che  determinerebbe  una  violazione  del  diritto
dell'Unione europea, che l'Italia e' tenuta a  rispettare  in  virtu'
degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»). 
    7.2.- Nessuna di queste condizioni sussiste,  tuttavia,  rispetto
alle  questioni  di  legittimita'  costituzionale   oggi   sottoposte
all'esame di questa Corte. 
    La disciplina abrogata non  si  atteggiava  a  "norma  penale  di
favore" rispetto ad altra disciplina  penale  di  carattere  generale
coesistente, sottraendo a quest'ultima un sottoinsieme di ipotesi che
altrimenti sarebbero ricadute  nella  normativa  generale,  come  era
accaduto nel caso deciso dalla sentenza n. 394 del 2006  (nonche'  in
quello deciso dalla sentenza n. 28 del 2010). L'abrogata disposizione
che criminalizzava l'ingiuria aveva invece a oggetto condotte diverse
da  quelle  costitutive  del  delitto  di  diffamazione,   le   quali
presuppongono tutte che la manifestazione offensiva dell'onore altrui
sia diretta non alla vittima, ma a terze persone. 
    Ne' viene in considerazione, nel caso  in  esame,  uno  scorretto
esercizio del potere legislativo, avendo il Governo depenalizzato  il
delitto di ingiuria, con il decreto legislativo n.  7  del  2016,  in
puntuale adempimento della delega conferitagli con la legge n. 67 del
2014. 
    Ne', ancora, oggetto delle  presenti  questioni  di  legittimita'
costituzionale e' una disciplina  processuale,  la  cui  reductio  ad
legitimitatem potrebbe determinare, in via collaterale  e  indiretta,
effetti in malam partem, come nel caso deciso dalla sentenza  n.  236
del 2018. 
    Ne' infine, come poc'anzi  sottolineato,  il  giudice  a  quo  ha
dimostrato che l'abrogazione del delitto di ingiuria si ponga di  per
se' in contrasto con gli  obblighi  sovranazionali  che  gravano  sul
nostro Paese. 
    7.3.- Il  rimettente  ha,  invero,  giustamente  sottolineato  il
carattere fondamentale del diritto all'onore, come  tale  ascrivibile
non solo al novero del «diritti inviolabili» riconosciuti dall'art. 2
Cost. (sentenze n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973), ma
anche all'art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili
e politici, adottato a New York il 16  dicembre  1966,  ratificato  e
reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977,  n.  881,  che
espressamente tutela i diritti all'onore e alla reputazione,  nonche'
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la  legge  4
agosto 1955, n. 848,  e,  nell'ambito  di  applicazione  del  diritto
dell'Unione europea, all'art. 7 CDFUE, i  quali  ultimi  tutelano  il
piu' ampio diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro i
diritti  all'onore  e  alla  reputazione   vengono   tradizionalmente
ricondotti dalla  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo (Corte EDU, sezione terza, sentenza 6 novembre 2018, Vicent
del Campo contro Spagna; sezione  terza,  sentenza  20  giugno  2017,
Bogomolova contro Russia; sezione prima, sentenza 9 aprile  2009,  A.
contro Norvegia; sezione prima, sentenza 15  novembre  2007,  Pfeifer
contro Austria; sezione  prima,  sentenza  4  ottobre  2007,  Sanchez
Cardenas contro Norvegia). Ma dal riconoscimento di un  diritto  come
"fondamentale"  non  discende,  necessariamente  e   automaticamente,
l'obbligo  per  l'ordinamento  di  assicurarne  la  tutela   mediante
sanzioni  penali:   tanto   la   Costituzione   quanto   il   diritto
internazionale dei diritti umani lasciano, di regola, il  legislatore
(e piu' in particolare  il  Parlamento,  naturale  depositario  delle
scelte in materia penale  in  una  societa'  democratica)  libero  di
valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un  determinato
diritto fondamentale, o se  -  invece  -  il  doveroso  obiettivo  di
proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai  terzi
possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi,
e  a  loro  volta  meno  incidenti  sui  diritti   fondamentali   del
trasgressore, nella logica di ultima ratio della  tutela  penale  che
ispira gli ordinamenti contemporanei. 
    Cio' accade, segnatamente, in  relazione  al  diritto  all'onore:
diritto fondamentale rispetto al quale non sono ravvisabili  obblighi
di incriminazione, di origine costituzionale  o  sovranazionale,  che
limitino la discrezionalita'  del  legislatore  nella  determinazione
delle modalita' della sua tutela. Quest'ultima, pertanto, ben  potra'
restare affidata - oltre che ai tradizionali  rimedi  aquiliani  -  a
sanzioni pecuniarie di carattere civile, come quelle  apprestate  dal
decreto  legislativo  n.  7  del  2016,  sulla  base  di  scelte  non
censurabili da parte di questa Corte. 
      
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1) dichiara la  manifesta  inammissibilita'  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, lettera a),  numero
2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in  materia
di  pene  detentive  non  carcerarie  e  di   riforma   del   sistema
sanzionatorio.   Disposizioni   in   materia   di   sospensione   del
procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili)
e dell'art. 1, comma  1,  lettera  c),  del  decreto  legislativo  15
gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e
introduzione di illeciti con  sanzioni  pecuniarie  civili,  a  norma
dell'articolo 2, comma  3,  della  legge  28  aprile  2014,  n.  67),
sollevate, in riferimento agli artt. 10 e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, dal  Giudice  di  pace  di  Venezia  con  le  ordinanze
indicate in epigrafe; 
    2)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 3, lettera  a),  numero  2),  della
legge n. 67 del 2014 e dell'art. 1, comma 1, lettera c),  del  d.lgs.
n. 7 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.,  dal
Giudice di pace di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2019. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA