N. 88 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 gennaio 2019

Ordinanza del 18 gennaio 2019 della Corte di appello di  Messina  nel
procedimento penale a carico di A.G.. 
 
Processo penale - Casi di appello - Appello  del  pubblico  ministero
  contro le sentenze di condanna - Limiti. 
- Codice di procedura penale, art. 593, [comma  2,]  come  sostituito
  dall'art. 2,  comma  1,  lettera  a),  del  decreto  legislativo  6
  febbraio 2018, n. 11 (Disposizioni di modifica della disciplina  in
  materia di giudizi di impugnazione in attuazione  della  delega  di
  cui all'articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e
  m), della legge 23 giugno 2017, n. 103). 
(GU n.24 del 12-6-2019 )
 
                     CORTE DI APPELLO DI MESSINA 
                           Sezione penale 
 
    La Corte di Appello composta dai signori magistrati: 
        1) dott. Alfredo Sicuro, Presidente; 
        2) dott.ssa Maria Eugenia Grimaldi, consigliere; 
        3) dott.ssa Maria Teresa Arena, consigliere est., 
    ha emesso la seguente ordinanza, nel processo penale  n.  2721/18
R.G.A. e n. 693/15 R.G.N.R. nei confronti di: A. G. nato a ... il ...
ivi residente, difeso di fiducia dall'avv. Achille Befumo del Foro di
Patti; libero assente; 
    Imputato del reato di cui all'art. 570 secondo comma  del  codice
penale perche' violava 18  prescrizioni  di  natura  economica  sullo
stesso gravanti in forza della sentenza di separazione pronunciata in
data 26 novembre 2010 dal Tribunale Civile di Patti  nell'ambito  del
procedimento di separazione  n.  878/2010  R.G.  in  particolare  non
ottemperando all'obbligo di corrispondere mensilmente al  coniuge  A.
M. per il mantenimento del figlio minore M. l'importo di euro  350,00
(rivalutabile annualmente secondo gli indici  Istat),  versando  solo
parzialmente il detto assegno di mantenimento  nel  periodo  novembre
2010-ottobre 2014,  ed  omettendo  totalmente  tale  prestazione  nel
novembre 2014-febbraio 2015, facendo cosi' mancare  lui  i  mezzi  di
sussistenza. 
    In Sant'Agata di Militello dal novembre 2010 condotta a tutt'oggi
permanente. 
    In cui e' parte civile A. M.  in  atti  generalizzata,  assistita
dall'avv. Luca Agostino Ninone del Foro di Patti. 
    In esito all'istruttoria dibattimentale il  Tribunale  di  Patti,
con sentenza n. 500/2018 emessa in data 7 maggio 2018, ha  condannato
l'imputato alla  pena,  condizionalmente  sospesa,  di  mesi  uno  di
reclusione ed euro 500 di multa oltre al risarcimento  del  danno  in
favore della parte civile costituita da liquidarsi in separata sede. 
    Avverso la sentenza ha proposto appello il  procuratore  generale
contestando  la  determinazione  della  pena  perche'  troppo   bassa
rispetto alla gravita' del danno, la concessione del beneficio  della
sospensione condizionale della pena, e la  mancata  liquidazione  del
danno in favore della parte civile. 
    In  particolare  rileva  l'appellante   come   a   fronte   della
motivazione offerta dal primo giudice secondo il quale  «la  gravita'
del fatto desunta dalla condotta tenuta dall'imputato,  il  quale  ha
manifestato profondo disinteresse per il proprio figlio non solo  dal
punto di vista economico» il primo giudice abbia  ritenuto  equa  una
pena quasi coincidente con il minimo edittale. 
    Il  primo  giudice  avrebbe  ancora  errato  nel  riconoscere  il
beneficio  della  sospensione  condizionale  della  pena  atteso  che
l'insensibilita' ai doveri  di  padre  protrattasi  per  cosi'  tanto
tempo, non consente  di  ritenere  che  l'imputato  si  asterra'  dal
commettere ulteriori reati. 
    Lamenta ancora la Procura generale la  mancata  liquidazione  del
danno in  favore  della  parte  civile  che  tradisce  la  ratio  del
promovimento nel giudizio penale dell'azione civile  di  risarcimento
cosi' tra l'altro determinando la necessita' per la persona offesa di
intraprendere un giudizio civile al fine di ottenere il  ristoro  dei
danni patiti. 
    Ha  sollevato  la  Procura  generale  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 593 del  codice  di  procedura  penale  come
sostituito dall'art. 2, comma l, lettera a) del decreto legislativo 6
febbraio 2018 n. 11 con il quale e' stato previsto  che  il  pubblico
ministero  puo'  appellare  le  sentenze  di  condanna  solo   quando
modificano il titolo del reato o  escludono  la  sussistenza  di  una
circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di
specie diversa da quella ordinaria del reato. 
    La norma in questione e' ritenuta in contrasto con  gli  articoli
111 e 3 della Costituzione richiamando sul punto  la  sentenza  della
Corte costituzionale n. 26 del 26 febbraio 2010 con riferimento  alla
c.d.  legge  Pecorella.  Evidenzia  la  Procura  generale  come   con
riferimento alla legge del 2018 il vulnus al potere  di  impugnazione
del pubblico ministero appare inferiore rispetto a quello  dichiarato
illegittimo nel 2007 dalla Corte costituzionale perche'  il  pubblico
ministero puo' oggi appellare le sentenze di assoluzione e gli  viene
impedito di appellare solo quelle di condanna ma la differenza tra le
due   norme    e'    esigua    quantitativamente    ed    inesistente
qualitativamente. Cio' in quanto  in  molti  casi  la  condanna  puo'
essere tanto ingiusta quanto  ad  una  assoluzione  perche'  vi  puo'
somigliare moltissimo (si pensi a reati gravi per i quali il  giudice
commina una pena grandemente inferiore a quella giusta)  determinando
l'assurdo  rispetto  al  quale  l'imputato  deve  sperare  di  essere
condannato ad una pena particolarmente  tenue  piuttosto  che  essere
assolto. 
    Quanto  al  profilo  c.d.  quantitativo  si  evidenzia  anche  la
violazione dell'art. 3 e  97  della  Costituzione.  Si  pensi  a  due
imputati che per la medesima rapina vengano giudicati da due  giudici
diversi uno dei quali escluda una  aggravante  ad  effetto  speciale.
Tale sentenza, nonostante sia stata  irrogata  una  pena  piu'  mite,
potra' essere impugnata, mentre l'altra non sara' appellabile. 
    Si deduce altresi' la violazione dell'art. 97 della Costituzione.
Se   l'obiettivo    era    quello    di    migliorare    l'efficienza
dell'amministrazione della giustizia la limitazione posta al pubblico
ministero non raggiunge l'obiettivo (in media il  pubblico  ministero
appella il 3% delle sentenze).  A  fronte  di  cio'  l'imputato  puo'
sempre impugnare la sentenza in regime di divieto  di  reformatio  in
peius. Limitare il potere di impugnazione del pubblico ministero  non
ridurra' pertanto gli appelli degli imputati 
    Evidenzia altresi' la Procura generale come non  puo'  servire  a
confutare l'argomento  il  fatto  che  in  taluni  casi  il  pubblico
ministero puo' proporre ricorso  per  cassazione  il  che  da'  luogo
comunque ad una situazione paradossale. Si pensi al caso di una  pena
determinata in maniera  illegale.  Fin  qui  l'errore  sarebbe  stato
corretto dal giudice d'appello, oggi  il  pubblico  ministero  dovra'
fare ricorso per Cassazione e cio'  con  ulteriore  aggravio  per  il
sistema processuale nel suo complesso. 
    Avverso la sentenza ha proposto appello anche il difensore di  A.
deducendo che: 
        1. il primo giudice ha ritenuto di poter affermare la  penale
responsabilita' dell'imputato sulla scorta delle  dichiarazioni  rese
dalla  persona  offesa  senza  valutare  la  produzione   documentale
effettuata  dalla  difesa   dalla   quale   si   evince   chiaramente
l'impossibilita'   per   l'A.   di   contribuire   integralmente   al
mantenimento. E' stata la stessa persona offesa a riferire che tra il
2012 ed il 2015 l'imputato a seguito di intervento chirurgico non  ha
potuto svolgere attivita' lavorativa; 
        2. non sussisteva lo stato di bisogno  ed  in  ogni  caso  la
persona offesa non ha fatto  nulla  per  cercare  un'occupazione  per
consentire a lei ed al figlio una migliore condizione  economica.  La
stessa persona offesa riferisce inoltre  che  in  alcuni  momenti  di
difficolta' hanno sopperito i suoi genitori e dunque non sono  venuti
meno i mezzi di sussistenza per il figlio; 
        3. dovevano essere  riconosciute  le  circostanze  attenuanti
generiche e doveva essere irrogata una pena inferiore. 
    Ritiene la Corte che la questione di legittimita'  costituzionale
sollevata dal Procuratore Generale sia rilevante e non manifestamente
infondata. 
    Questa Corte, investita dell'appello del procuratore generale, in
presenza del gravame dell'imputato, preso atto dei limiti di  cui  al
novellato  art.  593   del   codice   di   procedura   penale,   puo'
effettivamente conoscere anche il primo atto di gravame ex  art.  580
codice di procedura  penale,  ma  dovrebbe  comunque  valutario  come
ricorso per cassazione e dichiararlo  inammissibile.  Il  procuratore
generale, infatti,  per  quanto  qui  rileva,  non  prospetta  alcuna
violazione di legge, ma deduce unicamente questioni di merito,  quali
la quantificazione della pena e la prognosi rilevante ai  fini  della
concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. 
    La questione, pertanto, e' certamente  rilevante  ai  fini  della
definizione del presente giudizio. 
    Passando al merito della  questione,  rileva  la  Corte  che  dal
sistema dei rapporti tra le parti processuali, come  elaborato  dalla
giurisprudenza costituzionale, e' possibile enucleare il principio in
forza del quale, esclusa l'esigenza di una totale sovrapposizione dei
poteri tra accusa e difesa, la parita'  tra  le  stesse  puo'  essere
alterata nel rispetto del parametro della ragionevolezza. 
    In particolare, come  si  legge  nella  sentenza  n.  26  del  26
febbraio  2007  il  principio  della  parita'  delle  parti  «non  e'
suscettibile di una interpretazione riduttiva quale  quella  che  ...
intendesse negare alla parita' delle  parti  il  ruolo  di  connotato
essenziale dell'intero processo, per concepirla invece come  garanzia
riferita al solo procedimento probatorio: e cio' al fine di desumerne
che l'unico  mezzo  d'impugnazione  del  quale  le  parti  dovrebbero
indefettibilmente fruire  in  modo  paritario,  sia  il  ricorso  per
cassazione per violazione di legge, previsto dall'art.  111,  settimo
comma della Costituzione». 
    Sul punto la Corte ha precisato che l'eliminazione del potere  di
appello  del  pubblico  ministero  non  puo'   ritenersi   compensata
dall'ampliamento dei motivi di ricorso per cassazione (operato  dalla
legge. n. 46/2006) «e cio'  non  solo  perche'  tale  ampliamento  e'
sancito a favore di  entrambe  le  parti  e  non  solo  del  pubblico
ministero; ma anche e soprattutto perche' - quale che sia l'effettiva
portata dei nuovi e piu' ampi  casi  di  ricorso  -  il  rimedio  non
attinge comunque alla  pienezza  del  riesame  di  merito  consentito
dall'appello». 
    La Corte costituzionale ha spiegato che eventuali menomazioni del
potere di impugnazione della pubblica accusa poste a confronto con lo
speculare potere dell'imputato,  devono  comunque  rappresentare  «ai
fini del rispetto del principio di parita'  ...  soluzioni  normative
sorrette da una ragionevole giustificazione». 
    Nel caso in esame sottrarre al pubblico ministero la possibilita'
di sindacare la quantita' di  pena  inflitta  all'imputato  che,  per
quanto rientrante nella cornice edittale, appare  al  requirente  del
tutto inadeguata rispetto alla gravita'  del  fatto  oltre  che  alla
personalita' del reo, si pone in contrasto con  i  parametri  di  cui
all'art. 133 del codice penale perche' toglie all'organo d'accusa  la
possibilita' di prospettare una questione che, investendo  il  merito
della decisione, non  potrebbe  giammai  essere  prospettata  con  il
ricorso di legittimita'. 
    Si ha,  dunque,  che  mentre  l'imputato  puo'  proporre  appello
avverso qualunque decisione che non ritenga pienamente  satisfattiva,
la  norma  in  esame,  rispetto  al  pubblico  ministero,  parte  del
processo, da' per scontata l'assenza di un interesse ad impugnare una
sentenza di condanna e cio' a prescindere dal contenuto  in  concreto
della decisione adottata. 
    Tale alterazione della  parita'  delle  parti  non  puo'  trovare
giustificazione nell'esigenze di contenere la  durata  del  processo,
per la riduzione del numero degli appelli. In proposito non puo'  non
ricordarsi  come  dai  dati  tratti  dall'Analisi  di  impatto  della
regolamentazione (A.I.R) che accompagnavano lo schema originario  del
decreto legislativo  risultava  come  nell'anno  2016,  a  fronte  di
130.536 appelli, il Procuratore della Repubblica  ne  aveva  proposti
1.678 (pari all'l,4%) ed  il  Procuratore  generale  3.494  (pari  al
4,9%). 
    Ne' trova ragionevole  giustificazione  la  dissimmetria  tra  le
parti processuali laddove la norma consente al pubblico ministero  di
proporre appello nel  caso  in  cui  il  primo  giudice  escluda  una
circostanza ad effetto speciale. Cio', specie  considerando  che,  in
ipotesi  del  tutto  sovrapponibili,   l'appello   sarebbe   comunque
possibile. Si pensi al caso dell'esclusione di una o piu'  aggravanti
comuni che determini la procedibilita' a querela del reato. In questo
caso l'appello contro la sentenza di non  doversi  procedere  sarebbe
comunque proponibile. Allo stesso modo, discriminare l'appellabilita'
della sentenza sul  presupposto  della  riqualificazione  del  reato,
consente il gravame anche in  ipotesi  in  cui  cio'  non  ha  alcuna
conseguenza sul  piano  sanzionatorio  (ad  es.  riqualificazione  di
truffa  in  insolvenza  fraudolenta  o  appropriazione  indebita  con
cornici edittali assimilabili). 
    Limitare a un solo grado di  giudizio  la  quantificazione  della
sanzione, escludendo la possibilita' di qualsiasi  verifica  anche  a
fronte di pene manifestamente irrisorie in rapporto alla gravita' del
fatto e alla personalita' dell'imputato, contrasta poi con l'art.  27
della Costituzione nella misura in cui rende di  fatto  insindacabili
decisioni del tutto inefficaci rispetto alla finalita' rieducativa di
cui alla norma. Una questione  di  tal  genere,  infatti,  come  gia'
rilevato, non potrebbe giammai essere proposta  con  il  ricorso  per
Cassazione, investendo un giudizio di merito. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Ritenuta la rilevanza nel presente giudizio e  la  non  manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
593 del codice di procedura penale in rapporto agli articoli  3,  27,
97 e 111 della Costituzione. 
    Dispone  ai  sensi  dell'art.  23  della  legge  n.  87/1983   la
sospensione del  presente  procedimento  a  carico  di  A.  G.  e  la
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. 
    Dispone che la presente ordinanza sia  notificata  al  Presidente
del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai presidenti  delle  due
Camere del Parlamento. 
      Messina 18 gennaio 2019 
 
                        Il Presidente: Sicuro 
 
 
                                           Il consigliere est.: Arena