N. 204 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 luglio 2019

Ordinanza del 3 luglio 2019  della  Corte  d'appello  di  Napoli  nel
procedimento  civile  promosso  dal  Ministero  del  lavoro  e  delle
politiche sociali - Direzione provinciale del lavoro di Napoli contro
F. O.. 
 
Lavoro e occupazione - Impiego di lavoratori  irregolari  -  Sanzione
  amministrativa  pecuniaria  -  Esclusione  dell'applicazione  delle
  sanzioni  qualora,  dagli  adempimenti  di  carattere  contributivo
  precedentemente assolti, emerga la volonta'  di  non  occultare  il
  rapporto  -  Applicazione  retroattiva  della   disposizione   piu'
  favorevole - Mancata previsione. 
- Legge 4 novembre 2010 (Deleghe al  Governo  in  materia  di  lavori
  usuranti, di riorganizzazione di enti, di  congedi,  aspettative  e
  permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per  l'impiego,  di
  incentivi  all'occupazione,  di   apprendistato,   di   occupazione
  femminile, nonche' misure contro il lavoro sommerso e  disposizioni
  in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), art. 4  [,
  comma 1], lettera b). 
(GU n.47 del 20-11-2019 )
 
                    LA CORTE D'APPELLO DI NAPOLI 
                        Sezione Prima Civile 
 
    Nelle persone dei seguenti magistrati: 
        dott.ssa Alessandra Tabarro - Presidente; 
        dott. Angelo Del Franco - consigliere relatore; 
        dott.ssa Ilaria Pepe - consigliere; 
    ex art. 23, legge  11  marzo  1953,  n.  87,  ha  pronunciato  la
seguente ordinanza di rimessione  della  Corte  costituzionale  della
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4 lettera b  della
legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), che  ha  modificato
(«Modifiche alle  disposizioni  in  materia  di  lavoro  irregolare»)
l'art. 3,  comma  4  del  decreto-legge  22  febbraio  2002,  n.  12,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23  aprile  2002,  n.  73,
gia' modificato dall'art. 36-bis  comma  7  del  DL  n.  223/2006  in
materia  di  illecito  amministrativo  di   impiego   di   lavoratori
subordinati  senza  preventiva  comunicazione  di  instaurazione  del
rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato; 
nel procedimento n. 1015/2014 R.N. G., promosso da: 
    Ministero del  lavoro  e  delle  politiche  sociali  -  Direzione
provinciale del lavoro di  Napoli,  codice  fiscale  80237250586,  in
persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato ope  legis
in Napoli alla via A. Diaz 11 presso l'Avvocatura dello Stato  contro
F O , c.f. , in proprio e nella qualita' di legale rappresentante  di
N I SAS di F O 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    In seguito ad accertamenti effettuati sul luogo di lavoro, veniva
notificato alla sig.ra F O , nella qualita' di amministratrice  della
societa' N I  s.a.s.,  un  verbale  di  illecito  amministrativo  per
violazione dell'art 36-bis comma 7, decreto-legge  n.  223/2006,  per
aver impiegato il lavoratore P C , non risultante dalle  scritture  o
da altra documentazione obbligatoria. 
    Poiche' la datrice di lavoro non si era avvalsa della facolta' di
effettuare il pagamento della sanzione in misura ridotta, ex art.  16
legge 689/81, il verbalizzante ispettore  aveva  presentato  rapporto
alla direzione provinciale del lavoro. 
    Pertanto,  la  direzione  provinciale  del  lavoro   di   Napoli,
notificava   in   data   4   maggio   2009   alla    sig.ra    F    O
l'ordinanza-ingiunzione n. 606/2009, ingiungendole di pagare la somma
complessiva di 6.150,00 euro, quale sanzione  amministrativa  per  le
violazioni ivi accertate. 
    La sig.ra F O , odierna appellata, in primo grado con ricorso  ex
art. 22 legge  689/81,  proponeva  opposizione  avverso  la  suddetta
ordinanza ingiunzione, chiedendone l'annullamento per  1)  violazione
degli articoli 14, 17, 18  della  legge  n.  689/81,  e  della  legge
241/90, perche' alla parte appellata  non  era  stato  comunicato  il
rapporto  di  accertamento   redatto   in   data   29   maggio   2007
dall'Ispettore, relativo al fatti accertati in data 8 febbraio  2007,
ne in tale ultima data era stata contestata  «immediatamente»  alcuna
violazione ne successivamente le erano stati notificati gli  «estremi
della violazione». Altresi', rilevava che il periodo trascorso tra la
data  della  pretesa  commissione  della  violazione,  accertata  l'8
febbraio  2007,  e  quello  della   notificazione   della   ordinanza
ingiunzione, effettuata in data 4 maggio 2009, dopo oltre  due  anni,
violava apertamente le disposizioni di cui al citato  art.  17  e  18
della legge n. 689/81. Nel caso di specie l'ordinanza-ingiunzione era
stata emessa e notificata ben oltre il termine di  trenta  giorni  di
cui all'art. 2 della legge 241/90. 
    Inoltre, 2) nel merito la opponente chiedeva l'annullamento della
ordinanza ingiunzione de qua, in quanto le sanzioni  comminate  erano
da ritenersi non dovute per insussistenza degli addebiti contestati. 
    Il Ministero del lavoro, odierno appellante,  si  costituiva  nel
processo di primo grado mediante comparsa di risposta, depositata  in
data 8 settembre 2010, contestando tutto quanto  eccepito  e  dedotto
dall'istante nel proprio ricorso introduttivo, depositando  tutta  la
documentazione relativa alla violazione contestata. 
    Il giudice di primo grado, con sentenza n. 12894/2013, pubblicata
il 19 novembre 2013, ritenendo l'infrazione contestata non pienamente
provata ha accolto  l'opposizione  ed  ha  annullato  l'ordinanza  di
ingiunzione n. 178-2008, compensando le spese di lite. 
    Con atto di  appello,  notificato  in  data  10  marzo  2014,  il
Ministero del lavoro ha chiesto che la sentenza n.  12894/2013  venga
riformata sollevando i seguenti motivi: 
    1)  Motivazione  errata  della  sentenza  impugnata.   Violazione
dell'art. 116 c.p.c:  errata  valutazione  delle  prove  prodotte  in
giudizio 
    In relazione tale motivo di  appello,  l'appellante  rileva  che,
sebbene il ricorrente in primo grado, qui appellato, avesse  asserito
che la obbligatoria comunicazione all'INPS era  stata  effettuata  in
data 7 febbraio 2007, quindi  il  giorno  precedente  all'assunzione,
secondo quanto prescritto dalla normativa, in  realta',  la  suddetta
denuncia era stata viceversa effettuata  in  data  9  febbraio  2007,
quindi il giorno  successivo  all'ispezione,  vanificando  totalmente
l'intento del legislatore  del  2006,  il  quale  voleva  raggiungere
proprio il  fine  di  facilitare  la  riemersione  del  c.d.  «lavoro
sommerso». 
    Secondo la parte appellante, alla luce di quanto evidenziato,  il
lavoratore P C e' da considerare a tutti gli  effetti  un  lavoratore
totalmente sconosciuto alla P.A.. 
    Pertanto, impugna la sentenza n. 12894/2013 nella  parte  in  cui
ritiene che il lavoratore P C fosse «conosciuto» dalla P.A.,  errando
nel riferimento all'art. 36-bis, comma 7, del decreto-legge 223/2006. 
    L'appellante  sottolinea,  poi,  che  non  si  possa  parlare  di
«semplici irregolarita'» con riferimento alla mancata iscrizione  nel
libro  paga  e  nel  libro  matricola  e  al  mancato   invio   della
comunicazione di assunzione all'INAIL, come asserito  dal  ricorrente
di primo grado. 
    L'appellante con le sue censure impugna, altresi', la parte della
sentenza nella quale  il  giudice  di  prime  cure  aveva  omesso  di
valutare come elemento  probatorio  l'attestazione  di  pagamento  da
parte della N I s.a.s. di O F , prodotta dalla direzione del lavoro. 
    Infatti, secondo la parte appellante la sig.ra F  secondo  quanto
documentato, avrebbe sanato le  violazioni  comminate  attraverso  il
versamento della somma di 366,75 euro, pagate con modello F23 e  tale
pagamento sarebbe da considerarsi come  ammissione  dell'istaurazione
irregolare del rapporto di lavoro. 
    La societa' N I , nonche' la sig.ra F O  ,  si  costituivano  nel
presente giudizio, esperendo, inoltre, appello incidentale. 
    1)   In   via   preliminare,   eccepivano   la   inammissibilita'
dell'appello per violazione dell'art. 342 c.p.c.. 
    2) Eccepivano, poi, la violazione degli articoli 14, 17, 18 della
legge n. 689/81, e della legge 241/90. Le appellanti  incidentali  in
particolare deducevano che il  Giudice  di  prime  cure  non  si  era
pronunciato sulla suddetta questione, che era stato  oggetto  di  uno
specifico motivo di opposizione in primo grado, probabilmente perche'
ritenuta  assorbita  dalla  decisione  di  accoglimento  nel   merito
dell'originario ricorso; deducevano che alle  stesse  non  era  stato
comunicato il rapporto di accertamento redatto in data 29 maggio 2007
dall'Ispettore, relativo ai fatti accertati in data 8 febbraio  2007,
ne' in tale ultima data era stata contestata  «immediatamente  alcuna
violazione ne successivamente le erano stati notificati gli  «estremi
della violazione». Altresi', la appellata  rilevava  che  il  periodo
trascorso tra la data della  pretesa  commissione  della  violazione,
accertata l'8 febbraio  2007,  e  quello  della  notificazione  della
ordinanza-ingiunzione, effettuata in data 4 maggio 2009,  dopo  oltre
due anni, viola apertamente le disposizioni di cui ai citato art.  17
e 18 della legge n. 689/81 senza tenere conto che  tutto  i'iter  del
procedimento istauratosi  e  conclusosi  senza  l'acquisizione  della
documentazione prescritta viola apertamente sia la  legge  n.  689/81
che la legge n. 241/90. Nel caso  di  specie  l'ordinanza-ingiunzione
era stata emessa e notificata ben oltre il termine di  trenta  giorni
di cui all'art. 2 della legge. 241/90. 
    3) Nel merito, contestavano la fondatezza dell'appello principale
del  Ministero  del  lavoro  e  delle   politiche   sociali-direzione
provinciale  del  lavoro  Napoli.  In  particolare,   la   appellante
incidentale   deduceva   di   avere   effettuato   la   comunicazione
obbligatoria  all'INAIL   il   giorno   prima   dell'assunzione   del
lavoratore;  inoltre,  deducevano   che   al   momento   dell'accesso
dell'ispettore del lavoro presso la N I s.a.s.  di  F  O  (oggi  N  I
s.r.l.) furono comminate altre violazioni, oltre a  quella  dell'art.
36-bis, comma 7 di n. 223/2006 e precisamente: quella per la  mancata
comunicazione al centro impiego del lavoratore P C , per  la  mancata
sottoscrizione del contratto, per la mancata comunicazione del codice
fiscale del lavoratore P C , per la omessa  registrazione  sul  libro
presenza e matricola del lavoratore P C . 
    Per tali omissioni la N I s.a.s. di F O  (oggi  N  I  s.r.l.)  fu
invitata al pagamento della complessiva  somma  di  euro  366,75,  da
pagare utilizzando il modello di  versamento  F23,  riportando  sullo
stesso codici tributi 791 T ed 907 T. 
    In data 26  febbraio  2007,  con  modello  F23,  la  N  I  s.a.s.
effettuo' il pagamento della somma di euro  366,75  per  le  predette
casuali e non per violazione di cui all'art. 36-bis del decreto-legge
n, 223/2006. 
    Quindi, secondo le appellanti incidentali l'atto di  appello  era
un evidente frutto di travisamento della controparte. 
    La societa' N I s.r.l. nonche'  la  sig.ra  F  O  ,  proponevano,
inoltre,  appello  incidentale  subordinato,  sollevando  i  seguenti
motivi: 
    4) Sul pagamento delle spese processuali: La appellata chiede  la
riforma della sentenza appellata in  merito  alla  compensazione  sul
pagamento delle spese processuali (La  sentenza  di  primo  grado  ha
compensato le spese del giudizio «considerato la  materia  trattata»)
in considerazione, del comportamento processuale dell'appellante, che
costringe la appellata ad ulteriori spese legali, per far  fronte  al
presente giudizio di appello. 
    La sentenza appellata: ha accolto  la  opposizione  ad  ordinanza
ingiunzione applicativa della sanzione amministrativa ex art. 36-bis,
comma 7, D.L n. 223/06 (lavoro nero) sulla base della interpretazione
secondo cui la previsione contenuta nel suddetto  articolo,  relativa
al personale non risultante dalle scritture o da altra documentazione
obbligatoria, si riferisse al personale totalmente  sconosciuto  alla
P.A., in quanto non iscritto  nella  documentazione  obbligatoria  ne
oggetto  di   alcuna   comunicazione   prescritta   dalla   normativa
lavoristica e previdenziale. 
    Il Giudice di primo grado, indi, rilevato che la parte  opponente
aveva prodotto in giudizio la denuncia nominativa obbligatoria INAIL,
trasmessa  in  data  antecedente   a   quella   della   ispezione   e
dell'accertamento della violazione di cui alla ordinanza  ingiunzione
de qua, aveva accolto la opposizione. 
    Questa Corte, riservata la causa in decisione, rileva  in  camera
di consiglio innanzitutto che la suddetta particolare interpretazione
della lettera dell'art. 36-bis, comma  7,  decreto-legge  n.  223/06,
effettuata dal giudice di primo  grado,  sulla  cui  base  era  stata
accolta la  opposizione  a  ordinanza  ingiunzione,  con  conseguente
annullamento  della  stessa,  seppur   non   sorretta   da   adeguata
motivazione, ha trovato un  successivo  espresso  aggancio  normativo
nell'art. 4, lettera b legge  4  novembre  2010,  n.  183  (Collegato
lavoro), che ha modificato l'art. 3, comma  4  del  decreto-legge  22
febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla  legge  23
aprile 2002, n. 73, gia' modificato dall'art. 36-bis comma 7  del  DL
n. 223/2006, laddove ha stabilito che «Le sanzioni di cui al comma  3
(cioe' dell' art. 3  del  decreto-legge  22  febbraio  2002,  n.  12,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n.  73,  e
successive modificazioni - anche per effetto dell'art. 36-bis comma 7
del DL n. 223/2006, relativamente alle sanzioni per lavoro nero, poi,
soltanto calibrate nel quantum dal  suddetto  art.  4  del  Collegato
Lavoro in base al principio di proporzione) non trovano  applicazione
qualora, dagli adempimenti di carattere contributivo  precedentemente
assolti, si  evidenzi  comunque  la  volonta'  di  non  occultare  il
rapporto». 
    Pertanto,   questa   Corte,   pur   ritenendo   che   la    detta
interpretazione da parte del Giudice di  primo  grado  della  lettera
dell'art.  36-bis,  comma  7,  decreto-legge  n.  223/06   in   senso
favorevole all'autore dell'illecito amministrativo  de  quo  non  sia
adeguatamente  motivata,  rileva   di   ufficio   la   questione   di
illegittimita'  costituzionale  per  eventuale  contrasto   con   gli
articoli 3, 117  Cost.  della  norma  successive  (al  suddetto  art.
36-bis) piu' favorevole di cui all'art. 4, lettera b legge 4 novembre
2010,  n.  183,  nella  parte  in  cui  essa  non  prevede   la   sua
applicabilita' retroattiva a fatti commessi antecedentemente alla sua
entrata  in  vigore,  cio'  in  base  al  principio  del  favor  rei,
applicabile secondo un orientamento consolidato della  Corte  europea
del diritti dell'uomo anche in materia di illeciti amministrativi che
abbiano natura convenzionalmente penale in base a determinati criteri
individuati dalla giurisprudenza della stessa. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Questa Corte ritiene  che  sia  rilevante  e  non  manifestamente
infondata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
dell'art. 4, lettera b legge  4  novembre  2010,  n.  183  (Collegato
lavoro), che ha modificato l'art. 3, comma  4  del  decreto-legge  22
febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla  legge  23
aprile 2002, n. 73, gia' modificato  dall'art.  36-bis  comma  7  del
decreto-legge n. 223/2006, nella parte in cui,  dopo  aver  stabilito
che «Le sanzioni di cui al comma  3  (secondo  cui:  «Ferma  restando
l'applicazione  delle  sanzioni  gia'  previste  dalla  normativa  in
vigore, in caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva
comunicazione di instaurazione del rapporto di favore  da  parte  del
datore di lavoro privato, con la sola esclusione del datore di lavoro
domestico, si applica altresi' la  sanzione  amministrativa  da  euro
1.500 a euro 12.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorata  di
euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo.  L'importo  della
sanzione e' da  euro  1.000  a  euro  8.000  per  ciascun  lavoratore
irregolare, maggiorato di euro 30 per  ciascuna  giornata  di  lavoro
irregolare, nel  caso  in  cui  il  lavoratore  risulti  regolarmente
occupato  per  un  periodo  lavorativo  successivo.  L'importo  delle
sanzioni civili connesse all'evasione  del  contributi  e  del  premi
riferiti a ciascun lavoratore irregolare di cui ai periodi precedenti
e' aumentato del 50 per cento»)  non  trovano  applicazione  qualora,
dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente  assolti,
si evidenzi comunque la volonta' di non occultare il  rapporto»,  non
prevede  la  sua  applicabilita'   retroattiva   a   fatti   commessi
antecedentemente alla sua entrata in vigore. 
    In ordine alla questione inerente la mancata  previsione  di  una
norma che  applichi  il  principio  della  retroattivita'  della  lex
mitior, si osserva quanto segue. 
    In primo luogo, la rilevanza della questione in relazione al caso
in esame emerge in modo evidente. 
    Infatti,  innanzitutto  appare  essere  infondato  il  motivo  di
appello incidentale «subordinato» formulato dalla N I, srl e F O  con
riguardo alla asserita violazione degli articoli  14,  17,  18  della
legge n. 689/81, e della legge 241/90. 
    Infatti, le sezioni unite della  Corte  di  Cassazione,  aderendo
all'indirizzo  giurisprudenziale  maggioritario,  hanno  sancito   il
principio secondo  cui  il  procedimento  per  l'irrogazione  di  una
sanzione amministrativa pecuniaria,  di  cui  all'art.  18  legge  24
novembre 1981 n. 689, non  si  deve  concludere  necessariamente  nel
termine di  trenta  giorni  (ora  novanta  giorni)  previsto  in  via
generale,  per  la  conclusione  del   procedimento   amministrativo,
dall'art. 2 della legge n. 241 del 1990, ed applicabile in assenza di
diverso termine specifico stabilito per legge o da regolamento. 
    Infatti, la legge n. 689  del  1981  delinea  un  procedimento  a
carattere contenzioso con una precisa scansione temporale a  garanzia
degli interessati (novanta giorni per la notifica  della  violazione,
se  non  vi  e'  stata  la   contestazione   immediata   (art.   14).
Coerentemente, quindi, la legge n. 689 del  1981  non  prevede  alcun
termine per la conclusione della fase decisioria del procedimento ivi
disciplinato,  essendo   finalizzata   la   durata   di   tale   fase
all'esercizio del diritto di difesa da parte dell'interessato ed alla
necessita di assicurare un migliore esercizio dei poteri sanzionatori
della pubblica amministrazione. In assenza di altri termini specifici
previsti della legge n. 689 del 1981 deve ritenersi  che  il  termine
massimo per l'adozione dell'ordinanza -  ingiunzione  sia  quello  di
cinque anni previsto dall'art. 28 della stessa legge  legge  689  del
1981, decorrenti dal giorno in cui la violazione  e'  stata  commessa
(Cassazione civile, SS.UU., sentenza 27/04/2006 n. 9591). 
    La rilevanza della questione emerge poi in quanto si  rileva  che
risulta prodotta della parte appellata la denuncia  nominativa  INAIL
depositata presso la sede di Napoli in data 7 febbraio  2007,  quindi
in data anteriore alla ispezione de  qua;  pertanto,  deve  ritenersi
infondato il motivo di appello laddove  l'appellante  deduce  che  la
comunicazione all'INAIL sarebbe stata effettuata in data  9  febbraio
2007. 
    Pertanto, in  sede  di  valutazione  dell'appello  principale  la
rilevanza della questione  di  illegittimita'  costituzionale  emerge
perche' l'eventuale  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. art. 4 lettera b) della legge 4 novembre 2010, n. 183 nella
parte in cui non prevede la sua applicabilita' retroattiva in base al
principio  del  favor  rei,  comporterebbe  la  possibilita'  di  non
applicare nei confronti della sig.ra F O e della N I sas di  F  O  la
sanzione ex art. 3, comma 4 del decreto-legge 22  febbraio  2002,  n.
12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73,
gia'  modificato  dall'art.  36-bis  comma  7  del  DL  n.  223/2006,
applicata con la ordinanza ingiunzione de qua,  in  quanto  la  parte
opponente ha prodotto in giudizio la denuncia nominativa obbligatoria
INAIL, trasmessa in data  antecedente  a  quella  della  ispezione  e
dell'accertamento della violazione. 
    In secondo luogo, la non manifesta infondatezza  della  questione
discende dal rilievo che  nella  fattispecie  in  esame,  secondo  un
orientamento consolidato della Corte europea dei  diritti  dell'uomo,
le garanzie di cui alla Convenzione  europea  dei  diritti  dell'uomo
(CEDU) si applicano a tutti i  precetti  di  carattere  afflittivo  a
prescindere  dalla   loro   qualificazione   come   sanzioni   penali
nell'ordinamento di provenienza. 
    Il riferimento e' in primis alla sentenza Engel  c.  Paesi  Bassi
dell'8 giugno 1976, ove si legge che «se gli Stati contraenti fossero
nella piena discrezionalita'  nel  classificare  un  illecito  penale
quale disciplinare invece che penale, o di perseguire l'autore di  un
reato misto sul piano disciplinare, piuttosto che sul  piano  penale,
il funzionamento delle clausole fondamentali di cui agli articoli 6 e
7   sarebbe   subordinato   alla   loro   sovrana    volonta'.    Una
discrezionalita'  cosi'  estesa   potrebbe   condurre   a   risultati
incompatibili con le finalita' e con l'oggetto della Convenzione. 
    Con la sentenza Engel, la Corte europea del diritti dell'uomo  ha
in particolare individuato tre criteri al fini  della  qualificazione
penale   di   una   sanzione:   la   classificazione    dell'illecito
nell'ordinamento nazionale, l'intrinseca natura  dell'illecito  e  la
severita' della sanzione applicabile, utilizzati in via alternativa o
cumulativa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo  allo  scopo  di
assicurare  la  uniforme  applicazione  di  uno  standard  minimo  di
garanzie in tutti gli Stati-parte. 
    Nell'ambito   del   suddetti   criteri,   il   parametro    della
classificazione dell'illecito nell'ordinamento nazionale  rappresenta
soltanto un punto di partenza  per  l'analisi  condotta  dalla  Corte
europea. Il criterio della natura dell'illecito  e'  invece  il  piu'
elastico, in quanto fa leva su una pluralita' di indici come:  a)  la
cerchia dei  destinatari  del  precetto,  che  deve  rivolgersi  alla
generalita' dei  cittadini,  e  non  inserirsi  esclusivamente  nella
disciplina  interna  di  un  gruppo  contrassegnato  da  uno   status
speciale; b)  la  finalita'  della  sanzione  comminata  dalla  norma
incriminatrice, che deve avere carattere deterrente e punitivo; c) la
qualificazione penalistica prevalente nel panorama degli  ordinamenti
nazionali; d) il collegamento della sanzione  con  l'accertamento  di
una  infrazione  (con   esclusione,   quindi,   delle   mere   misure
preventive). Infine, il criterio della severita'  della  sanzione  fa
riferimento alla gravita' delle  conseguenze  previste  dalla  legge;
puo' trattarsi, in particolare, di pene detentive o  pene  pecuniarie
di rilevante entita'. 
    In applicazione dei suddetti criteri, sono state ricondotte  alla
materia penale alcune significative ipotesi di  sanzioni  qualificate
nell'ordinamento interno conte sanzioni amministrative. 
    All'uopo e' opportuno richiamare la  sentenza  del  27  settembre
2011, Menarini contro Italia, e la sentenza del 4 marzo 2014,  Grande
Stevens ed altri contro Italia, nelle  quali  la  Corte  europea  del
diritti dell'uomo ha ritenuto di natura «penale», ai sensi  dell'art.
6 della CEDU, rispettivamente le sanzioni amministrative  in  materia
di concorrenza (art. 15, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 -  Norme
per la  tutela  della  concorrenza  e  del  mercato)  e  le  sanzioni
amministrative in materia di manipolazione del mercato (art.  187-ter
del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 - Testo  unico  delle
disposizioni in materia  di  intermediazione  finanziaria,  ai  sensi
degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52). 
    Si tratta quindi di stabilire se la sanzione di cui all'art. art.
3, comma 4 del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002,  n.  73,  gia'  modificato
dall'art. 36-bis comma 7 del DL n. 223/2006,  concernente  l'illecito
amministrativo di impiego di lavoratori subordinati senza  preventiva
comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro  da  parte  del
datore di lavoro privato, possa qualificarsi anch'essa come  «penale»
alla luce del criteri individuati dalla  giurisprudenza  della  Corte
europea del diritti dell'uomo. 
    Non e' in proposito dirimente il  fatto  che  la  fattispecie  in
esame  sia  qualificata  dal  nostro  ordinamento   quale   «sanzione
amministrativa», dal momento che i criteri  individuati  dalla  Corte
europea  del  diritti  dell'uomo  possono   essere   utilizzati   sia
cumulativamente che alternativamente e che, come sopra precisato,  le
indicazioni fornite dal diritto interno  hanno  un  valore  meramente
relativo (Sentenza Corte europea del diritti dell'uomo, 4 marzo  2014
causa Grande Stevens e altri c. Italia). 
    Sotto il profilo della natura della sanzione, si  puo'  osservare
che in relazione alla fattispecie sanzionata de qua, proprio  per  il
suo  particolare  avvertito  disvalore,  in  quanto  e'   finalizzata
all'aggiramento delle norme lavoristiche, previdenziali e fiscali, e'
prevista una triplice sanzione: penale (art. 37, comma  1,  legge  n.
689/1981),  «civile»  (art.  116,  comma  8,  lettera  b),  legge  n.
388/2000),  e  amministrativa   pecuniaria»   (art.   3,   comma   3,
decreto-legge n.  12/2002)  sulla  base  del  medesimo  comportamento
materiale consistente nell'«omissione o falsita' di  registrazione  o
denuncia obbligatorie», cioe'  in  un  comportamento  che  presuppone
l'impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di
instaurazione del rapporto di lavoro. 
    Tale triplice sanzione e' dovuta alla  tradizionale  impostazione
funzione   afflittiva,   repressiva   e   deterrente   della    norma
sanzionatoria  de  qua,  derivante  dalla  esigenza  di   tutela   di
beni-interessi riferibili alla  collettivita'  e  in  particolare  di
tutela della persona e posizione giuridica del lavoratore nel  nostro
ordinamento. 
    La natura afflittiva della  sanzione  amministrativa  de  qua  si
desume anche dalla  sua  entita',  la  quale  e'  proporzionata  alla
gravita' del fatto commesso in violazione della norma sanzionatoria e
dove in base al numero  di  giorni  di  lavoro  effettivo  svolto,  a
prescindere, dunque, dalla entita' del danno cagionato. 
    Per verificare  la  natura  afflittiva  della  suddetta  sanzione
amministrativa de qua, inoltre, sebbene nel caso in esame la sanzione
sia stata applicata nel suo ammontare minimo, occorre,  innanzitutto,
considerare la pena massima prevista in astratto, a prescindere dalla
sanzione inflitta in concreto (sentenza Engel c. Paesi  Bassi  dell'8
giugno 1976. § 82 e sentenza Dubus S.A.  c.  Francia  dell'11  giugno
2009, § 37). 
    Dunque, la suddetta sanzione puo' essere, poi, confrontata con la
sanzione penale detentiva di cui  all'art.  37,  comma  1,  legge  n.
689/1981 (che prevede una pena fino a  un  massimo  di  due  anni  di
reclusione, senza  la  previsione  di  alcun  minimo)  attraverso  la
conversione della pena detentiva in pena pecuniaria; in  particolare,
la sanzione penale massima («convertita» in pena pecuniaria:  182.500
euro) puo' essere rapportata a una sanzione amministrativa pecuniaria
massima corrispondente all'impiego di circa 20 lavoratori  irregolari
per non piu' di trenta giorni (182.500 : 9.000 = 20,27), o  di  circa
10 lavoratori irregolari per non piu' di sessanta giorni  (182.500  :
18.000 = 10,13) o, infine, di circa 5 lavoratori irregolari per  piu'
di sessanta giorni (182.500 : 36.000 = 5,06). 
    Pertanto, ai sensi dell'art. 3, comma 3, decreto-legge n. 12/2002
(come recentemente novellato), il datore di  lavoro  che  impiega  un
solo  lavoratore  subordinato  senza  preventiva   comunicazione   di
instaurazione del rapporto di lavoro si vede applicare,  per  ciascun
lavoratore, una sanzione pecuniaria che puo' variare da un minimo  di
1.500 euro (se l'utilizzo non supera i  trenta  giorni  di  effettivo
lavoro) a un massimo di 36.000 euro (se l'utilizzo supera i  sessanta
giorni di effettivo lavoro). 
    Dunque, dato il meccanismo di computo di cui all'art. 3, comma 3,
decreto-legge n. 12/2002, si rischia di  incappare  in  una  sanzione
amministrativa pecuniaria tanto piu' elevata, quanto maggiore  e'  il
numero dei lavoratori  impiegati  irregolarmente,  a  fronte  di  una
sanzione penale che, invece, non solo rimane fissa nella sua  entita'
massima («reclusione fino a due anni»), ma che, in realta' puo' anche
essere meramente virtuale nella (presumibile) ipotesi di  concessione
della sospensione condizionale della pena. 
    Da tutto quanto sopra evidenziato, emerge secondo questa Corte la
natura certamente afflittiva e quindi  sostanzialmente  penale  della
sanzione de qua. Dalla natura «penale», ai sensi  della  CEDU,  della
sanzione in esame discende, ad  avviso  di  questa  Corte  d'Appello,
l'applicabilita' alla stessa del principio di legalita' penale di cui
all'art. 7 della CEDU. 
    Detta norma, secondo l'interpretazione della Corte di Strasburgo,
rinvenibile nelle sentenze 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia,
e del 24 gennaio 2012, Mihai Toma contra Romania, il carattere penale
della sanzione non implica che debba vigere solo il  principio  della
irretroattivita'  delle  leggi  penali  piu'  severe,  ma  anche,   e
implicitamente, il principio della retroattivita' della legge  penale
piu' favorevole o meno severa. 
    Detto principio si traduce nella regola  dell'applicazione  della
legge penale piu' favorevole, anche se  posteriore  alla  commissione
del reato. 
    Tanto considerato,  ad  avviso  del  giudice  a  quo  si  profila
un'ipotesi di contrasto  fra  l'art.  4  lettera  b)  della  legge  4
novembre 2010, n. 183 e l'art. 117 della Costituzione,  in  relazione
al parametro interposto dell'art. 7 CEDU. In particolare, si  ritiene
che la scelta di non  ricorrere  al  principio  della  retroattivita'
della norma che prevede la non applicazione delle  sanzioni  previste
dall'art. art. 3, comma 4 del decreto-legge 22 febbraio 2002, n.  12,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23  aprile  2002,  n.  73,
modificato dall'art. 36-bis comma 7 del DL n. 223/2006 in materia  di
illecito amministrativo di impiego di  lavoratori  subordinati  senza
preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di  favore  da
parte del datore di lavoro privato, norma di  natura  sostanzialmente
penale, si ponga in contrasto con l'art. 3 Cost.  e  con  i  principi
uguaglianza e di ragionevolezza. Si richiama in proposito la sentenza
n. 393 del 2006, in cui la Corte costituzionale ha chiarito  che  «il
livello  di  rilevanza  dell'interesse   preservato   dal   principio
retroattivita'  della  lex  mitior  -  quale  emerge  dal  grado   di
protezione accordatogli dal diritto interno, oltre  che  dal  diritto
internazionale convenzionale e dal diritto comunitario  -  impone  di
ritenere che il valore da esso tutelato puo'  essere  sacrificato  da
una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo». 
    In  tale  pronuncia  la  Corte  costituzionale,  in  sintesi,  ha
affermato che, sebbene  il  principio  dell'applicazione  retroattiva
della lex mitior non sia assoluto, tuttavia la sua deroga deve essere
giustificata da gravi motivi di interesse generale (sentenze  n.  236
del 2011 e n. 393 del 2006 Corte cost.), superando a questi  fini  un
vaglio positivo di ragionevolezza, e non un mero vaglio  negativo  di
non manifesta irragionevolezza.  Devono  cioe'  essere  positivamente
individuati gli interessi superiori, di rango almeno  pari  a  quello
del principio in discussione, che ne giustifichino il sacrificio. 
    Orbene,  nel  caso  in  esame,  non  sarebbe  ravvisabile  alcuna
giustificazione, men  che  meno  di  rango  costituzionale,  tale  da
legittimare il sacrificio del trattamento  piu'  favorevole  previsto
dall'art. 4 lettera b della legge 4 novembre 2010, n. 183, in  quanto
da tale normativa non emergono gravi motivi di interesse generale che
possano fondare tale sacrificio. 
    Occorre,  d'altra  parte   rammentare   che   la   stessa   Corte
costituzionale  qui  adita  e'  stata  recentemente  investita  della
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della  legge  24
novembre  1981,  n.  689,  nella  parte  in  cui   non   prevede   la
retroattivita' in  mitius  nella  generale  disciplina  dell'illecito
amministrativo, in relazione agli articoli 3 e 117, primo comma della
Costituzione, quest'ultimo con riferimento agli articoli 6 e 7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    In tale occasione, la  Corte  costituzionale  ha  dichiarato  non
fondata la questione di legittimita'  Costituzionale,  statuendo  che
non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestate dalla CEDU, come
interpretate dalla Corte di Strasburgo, l'affermazione di un  vincolo
di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata,  da
parte degli ordinamenti  interni  del  singoli  Stati  aderenti,  del
principio  della  retroattivita'  della  legge  piu'  favorevole,  da
trasporre nel sistema  delle  sanzioni  amministrative»  (cfr.  Corte
cost., sentenza 20 luglio 2016, n. 193). 
    La Corte costituzionale ha anche precisato che l'applicazione del
principio della retroattivita' della lex mitior e'  subordinato  alla
«preventiva   valutazione   della   singola   sanzione   (qualificata
amministrativa dal diritto interno) come «convenzionalmente  penale»,
alla luce del cosiddetti criteri Engel (cosi'  denominati  a  partire
dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera - 8 giugno 1976,  Engel
e altri contro Paesi Bassi e costantemente ripresi  dalle  successive
sentenze in argomento)». 
    Il motivo del rigetto, secondo la medesima  Corte,  si  ricollega
alla  circostanza  che  non  sia  possibile  desumere  dal   principi
affermati dalla Corte europea  del  diritti  dell'uomo  un'estensione
generalizzata del principio della  retroattivita'  della  legge  piu'
favorevole   con   riguardo   all'intero   sistema   delle   sanzioni
amministrative. 
    Va rimarcato, tuttavia, che la questione qui prospettata  non  si
riferisce  alla  generalita'  delle   sanzioni   amministrative,   ma
unicamente  a  una  previsione  normativa  di  carattere   certamente
afflittivo (secondo i criteri Engel  sopra  citati),  atteso  che  il
presente  giudizio   ha   per   oggetto   una   sanzione   pecuniaria
qualificabile come penale alla luce  dei  criteri  individuati  dalla
giurisprudenza della Corte europea del diritti dell'uomo. 
    Profilandosi, in tal senso, un contrasto tra la previsione di cui
all'art. 4, lettera  b)  legge  4  novembre  2010,  n.  183,  che  ha
modificato l'art. 3, comma 4 del decreto-legge 22 febbraio  2002,  n.
12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73,
gia' modificato dall'art. 36-bis  comma  7  del  DL  n.  223/2006  in
materia  di  illecito  amministrativo  di   impiego   di   lavoratori
subordinati  senza  preventiva  comunicazione  di  instaurazione  del
rapporto di lavoro da parte del datore di  lavoro  privato,  che  non
prevede la retroattivita' di tale normativa piu' favorevole, con  gli
articoli 3 e 117 della Costituzione,  quest'ultima  in  relazione  al
parametro interposto dell'art. 7  della  CEDU,  si  ritiene  pertanto
necessario rimettere alla Corte costituzionale la  valutazione  della
compatibilita' dell'art. art. 4, lettera b) della  legge  4  novembre
2010, n. 183 con le norme della Costituzione sopra richiamate, atteso
che la scelta operata dal legislatore non appare ragionevole. 
    Difatti, e' un illecito che ha anche  rilievo  penale:  pertanto,
non vi sono ragioni per escludere  l'applicazione  della  legge  piu'
favorevole  in  tale  specifico  campo,  come  e'  avvenuto  per   le
violazioni tributarie. 
    E' opportuno rilevare che il denunciato  contrasto  non  potrebbe
essere  risolto  ricorrendo  a   un'interpretazione   conforme   alla
Convenzione EDU e ai parametri costituzionali. 
    Infatti,  anche  se  nel  caso  di  specie,  a  differenza  della
questione esaminata dalla recente sentenza della Consulta n.  63/2019
di  incostituzionalita'  della  norma  sanzionatoria  in  materia  di
rivelazione di informazioni privilegiate, la norma piu' favorevole de
qua non prevede  espressamente  il  divieto  della  sua  applicazione
retroattiva, tuttavia si rileva che l'art. 1 della legge n.  689/1981
prevede  espressamente  il  divieto  di  retroattivita'  delle  norme
sanzionatorie e che esiste una innegabile consolidata  giurisprudenza
di  legittimita'  (Corte  di  Cassazione   sentenza   n.   4114/2016;
Cassazione, Sezioni Unite del 28 giugno 2012) che in  piu'  occasioni
ha ribadito la  non  applicabilita',  in  assenza  di  una  specifica
disposizione normativa, del principio della retroattivita' della  lex
mitior   di   matrice   penalistica   al   settore   degli   illeciti
amministrativi (in quanto *non recepito* nell'art. 1 della  legge  n.
689/1981) che risponde, invece,  al  distinto  principio  del  tempus
regit actum. 
    Tale  impostazione  si  fonda  sul   rifiuto   generalizzato   di
un'applicazione analogica dell'art. 2, secondo comma, codice  penale,
anche alla luce  dell'art.  14  delle  disposizioni  sulla  legge  in
generale,  e  sulla  considerazione  del  casi  nei  quali  opera  il
principio della retroattivita' della lex mitior come casi settoriali,
non estensibili oltre il loro ristretto ambito di applicazione. 
    Si aggiunge, inoltre, che la  norma,  una  volta  affermatane  la
natura sostanzialmente penale, pare in netto contrasto anche  con  il
principio di cui all'art. 49 della  Carta  del  diritti  fondamentali
dell'Unione europea, il quale  stabilisce  che  «se,  successivamente
alla commissione del reato, la legge prevede  l'applicazione  di  una
pena piu' lieve, occorre applicare quest'ultima». 
    Nel caso in esame, pertanto, appare opportuno verificare  se  una
disposizione normativa che, in  questa  particolare  fattispecie,  di
sicuro rilievo penale, non abbia previsto tale  effetto  retroattivo,
si ponga o meno in contrasto  con  i  principi  costituzionali  sopra
richiamati. 
 
                              P. Q. M. 
 
    La Corte di appello di Napoli, sezione prima civile, 
    Visto l'art. dell'art. 4 lettera b della legge 4  novembre  2010,
n. 183, 
    Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza: 
      solleva la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4
lettera b della legge 4 novembre 2010, n. 183 nella parte in cui  non
prevede  la  sua  applicazione  retroattiva   piu'   favorevole,   in
violazione degli articoli 3, 117 Cost.; 
      per l'effetto, sospende il giudizio in corso sino all'esito del
giudizio incidentale di legittimita' costituzionale; 
      dispone  che,  a  cura  della  cancelleria,  gli   atti   siano
immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale e che la  presente
ordinanza sia notificata alle parti in causa  nonche'  al  Presidente
del Consiglio del ministri e che sia anche comunicata  ai  Presidenti
delle due Camere del Parlamento. 
        Napoli, li' 25 maggio 2019 
 
                       Il Presidente: Tabarro 
 
                                  Il consigliere relatore: Del Franco