N. 10 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 novembre 2019

Ordinanza del 15 novembre 2019 della Corte d'appello  di  Roma  sulle
istanze proposte da C. M. e altri. 
 
Esecuzione penale - Sospensione dell'esecuzione delle pene  detentive
  brevi - Esclusione nei confronti delle persone  condannate  per  il
  reato di cui all'art. 319 del codice penale, aggiunto  dalla  legge
  n. 3 del 2019 all'art. 4-bis della legge n.  354  del  1975  tra  i
  reati   ostativi   alla   concessione   di   determinati   benefici
  penitenziari. 
- Codice di procedura penale, art. 656, comma 9,  lettera  a),  nella
  parte in cui richiama l'art. 4-bis della legge 26 luglio  1975,  n.
  354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione  delle
  misure privative e  limitative  della  liberta'),  come  modificato
  dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n.  3
  (Misure  per  il   contrasto   dei   reati   contro   la   pubblica
  amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e  in
  materia di  trasparenza  dei  partiti  e  movimenti  politici),  in
  relazione all'art. 319 del codice penale. 
In via subordinata: Esecuzione penale -  Sospensione  dell'esecuzione
  delle pene detentive brevi - Esclusione nei confronti delle persone
  condannate per il reato di  cui  all'art.  319,  primo  comma,  del
  codice penale, aggiunto dalla legge n. 3 del  2019  all'art.  4-bis
  della legge n. 354 del 1975 tra i reati ostativi  alla  concessione
  di determinati benefici penitenziari -  Mancata  previsione  di  un
  regime transitorio che dichiari  applicabile  la  novella  ai  soli
  fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. 
- Codice di procedura penale, art. 656, comma 9,  lettera  a),  nella
  parte in cui richiama l'art. 4-bis della legge 26 luglio  1975,  n.
  354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione  delle
  misure privative e  limitative  della  liberta'),  come  modificato
  dall'art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n.  3
  (Misure  per  il   contrasto   dei   reati   contro   la   pubblica
  amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e  in
  materia di  trasparenza  dei  partiti  e  movimenti  politici),  in
  relazione all'art. 319, primo comma, del codice penale. 
(GU n.6 del 5-2-2020 )
 
                      CORTE DI APPELLO DI ROMA 
 
    La Corte di appello di Roma sez. III penale composta dai signori: 
        1) dott. Gianfranco Garofalo, Presidente rel. est.; 
        2) dott. Raffaele Montaldi, consigliere; 
        3) dott. Massimo Gustavo Mariani, consigliere; 
    Disposta  la  riunione  per  evidenti  ragioni   di   connessione
oggettiva dei procedimenti a margine segnati; 
    Riunita in Camera di consiglio, sciogliendo  la  riserva  assunta
all'udienza dell'11 novembre 2019, sentite le  parti,  ha  emesso  la
seguente ordinanza di  rimessione  alla  Corte  costituzionale  e  di
contestuale sospensione del procedimento. 
Proc. n. 1307/19 I.E. 
    Con richiesta, depositata in data 25 ottobre 2019,  gli  avvocati
Filippo Dinacci e Fabio Viglione, difensori di C. M., nato a  ...  il
..., in atto detenuto presso la Casa circondariale di ...,  in  forza
di ordine di esecuzione emesso dalla Procura generale presso la Corte
di appello di Roma in data  22  ottobre  2019,  chiedono  dichiararsi
nullo e/o inefficace l'ordine di esecuzione della  pena  o,  comunque
sospenderne gli effetti al fine  di  formulare  richiesta  di  misura
alternativa alla detenzione, o, ancora, in subordine, che la Corte di
appello sollevi questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6,
lettera b), della legge n. 3/2019, entrato in vigore  il  31  gennaio
2019, per contrasto con gli articoli 117,  7  CEDU  e  25,  comma  2,
Cost., nella misura in cui se  ne  preveda  l'applicazione  ai  fatti
commessi in data anteriore  all'entrata  in  vigore  della  legge,  e
sospenda, per l'effetto, l'esecuzione della pena detentiva in  attesa
della pronuncia della Corte costituzionale. 
Proc. n. 1309/19 I.E. 
    Con richiesta, depositata in data 28 ottobre 2019,  gli  avvocati
Filippo Dinacci e Antonio Ugo Palma, difensori di T. A., nato  a  ...
il ..., in atto detenuto presso la  Casa  circondariale  di  ...,  in
forza di ordine di esecuzione emesso dalla Procura generale presso la
Corte  di  appello  di  Roma  in  data  22  ottobre  2019,   chiedono
dichiararsi nullo e/o inefficace l'ordine di esecuzione della pena o,
comunque sospenderne gli effetti al fine di formulare  richiesta  di'
misura alternativa alla detenzione, o, ancora, in subordine,  che  la
Corte di appello sollevi  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1, comma 6, lettera b) della legge n.  3/2019,  entrato  in
vigore il 31 gennaio 2019, per contrasto con gli articoli 117, 7 CEDU
e  25,  comma  2,  Cost.,  nella  misura  in  cui   se   ne   preveda
l'applicazione ai fatti commessi in  data  anteriore  all'entrata  in
vigore della legge, e sospenda,  per  l'effetto,  l'esecuzione  della
pena detentiva in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. 
Proc. n. 1310/19 I.E. 
    Con richiesta, depositata in data 25 ottobre 2019, l'avv. Lorenzo
La Marca, difensore di S. M., nato a ... il  ...,  in  atto  detenuto
presso la Casa circondariale di ..., in forza di ordine di esecuzione
emesso dalla Procura Generale presso la Corte di appello di  Roma  in
data 22 ottobre 2019, chiede, in via preliminare, ordinarsi la revoca
o, in subordine dichiararsi inefficace l'ordine di  esecuzione  della
pena o,  comunque  sospenderne  gli  effetti  al  fine  di  formulare
richiesta di  misura  alternativa  alla  detenzione,  o,  ancora,  in
subordine, che la Corte di appello sollevi questione di  legittimita'
costituzionale dell'art.  6,  lettera  b),  della  legge  n.  3/2019,
entrato in vigore il 31 gennaio 2019, per contrasto con gli  articoli
117, 7 CEDU e 25, comma 2, Cost., nella misura in cui se  ne  preveda
l'applicazione ai fatti commessi in  data  anteriore  all'entrata  in
vigore della legge, e sospenda,  per  l'effetto,  l'esecuzione  della
pena detentiva in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. 
Proc. n. 1313/19 I.E. 
    Con richiesta, depositata in data 23 ottobre 2019,  gli  avvocati
Francesca Arico' ed Enrico Bonizzoni, difensori di P. M., nato a  ...
il ..., chiedono di sospendere gli effetti dell'ordine di  esecuzione
emesso dalla Procura generale presso la Corte di appello di  Roma  in
data 22 ottobre 2019,  al  fine  di  formulare  richiesta  di  misura
alternativa  alla   detenzione,   evidenziando   come   una   lettura
costituzionalmente orientata dell'art. 6, lettera b), della legge  n.
3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019, non possa non rilevarne
il contrasto con l'art. 25, comma 2, Cost., nella misura in cui se ne
preveda  l'applicazione  ai  fatti   commessi   in   data   anteriore
all'entrata in vigore della legge; 
    Tanto premesso, letti gli atti, 
 
                               Osserva 
 
    Con sentenza resa il 22  ottobre  2019  la  Corte  di  cassazione
confermava la sentenza n. 10010/18 emessa da questa Corte di  appello
in data 11 settembre 2018 nella parte in  cui,  in  parziale  riforma
della sentenza di primo grado: 
        C. M. veniva condannato alla pena di anni quattro e mesi  sei
di reclusione per il reato di cui all'art. 319 codice  penale,  oltre
le spese e le pene accessorie, dovendo ancora espiare, in ragione del
presofferto, la pena residua pari ad anni tre, mesi  sette  e  giorni
sei di reclusione; 
        T.  A.  veniva  condannato  alla  pena  di  anni  cinque   di
reclusione per il reato di cui all'art. 319 codice penale,  oltre  le
spese e le pene accessorie, dovendo ancora espiare,  in  ragione  del
presofferto, la pena residua pari ad anni tre, mesi undici  e  giorni
sedici di reclusione; 
        S. M. veniva condannato alla pena  di  anni  quattro  per  il
reato di cui all'art. 319 codice penale, oltre le  spese  e  le  pene
accessorie, dovendo ancora espiare, in ragione  del  presofferto,  la
pena residua di cui al richiamato ordine di esecuzione; 
    Ritenuto,  preliminarmente,  che  le   istanze   di   sospensione
dell'esecuzione cosi' come proposte risultano ammissibili. Invero,  a
mente dell'art. 656 codice procedura penale,  come  modificato  dalla
legge n. 165/98, il pubblico ministero, fermo il dovere  di  emettere
l'ordine  di  carcerazione  per  le  pene  detentive   brevi,   deve,
contestualmente, sospenderne l'esecuzione con separato provvedimento,
assegnando al condannato un termine di trenta  giorni  per  formulare
richiesta di  misure  alternative.  Ne  consegue  che,  ove  non  sia
adottato il provvedimento di sospensione,  non  essendo  prevista  la
facolta' di proporre al pubblico ministero istanza di annullamento  o
di revoca dell'ordine di  carcerazione  legittimamente  emesso,  deve
pero'  essere  consentito  al  condannato  di  rivolgere  al  giudice
dell'esecuzione un'istanza di declaratoria di inefficacia  temporanea
del provvedimento che dispone la carcerazione, e cio' in applicazione
analogica dell'art. 670 codice procedura penale (cfr. Cassazione Sez.
1, sentenza n. 25538 del 10 aprile 2018 Cc. - dep. 6  giugno  2018  -
Rv. 273105: «Il giudice dell'esecuzione non puo'  annullare  l'ordine
di esecuzione emesso dal  pubblico  ministero  senza  il  contestuale
provvedimento di  sospensione  per  pene  detentive  brevi,  ma  deve
esclusivamente dichiararlo temporaneamente inefficace per  consentire
al condannato  di  presentare,  nel  termine  di  trenta  giorni,  la
richiesta di concessione di una misura alternativa alla  detenzione»;
Cassazione sez. I, sentenza n. 2430 del 17 giugno 1999 - ud.  del  23
marzo 1999, Kola; rv 213875); 
    Tanto precisato, l'ordine di  esecuzione  di  cui  si  invoca  la
sospensione afferisce a pena detentiva infraquadriennale inflitta per
reato previsto attualmente  dall'art.  4-bis  legge  n.  354/75  come
ostativo alla applicazione di misure alternative  alla  detenzione  a
seguito della modifica introdotta dall'art.  1,  comma  6,  legge  n.
3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019; 
    Al momento dell'emissione del suddetto ordine di carcerazione gli
istanti si trovavano tutti in stato di liberta'; 
    Tutti i difensori, richiamando copiosa giurisprudenza di merito e
anche di legittimita' nonche' della CEDU, invocano l'adozione  di  un
provvedimento di sospensione  alla  stregua  di  una  interpretazione
costituzionalmente orientata del precetto di cui all'art. 1, comma 6,
della  legge  n.  3/2019  sotto  il  profilo  della   sua   possibile
interpretazione   quale   norma   sostanziale    piu'    sfavorevole,
inapplicabile retroattivamente a fatti - come nel caso  di  specie  -
commessi prima della sua entrata in vigore; 
    In subordine, in difetto delle condizioni per  simile  operazione
ermeneutica, denunciano l'illegittimita' costituzionale dell'art.  1,
comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3,  la'  dove  ha
inserito i  reati  contro  la  pubblica  amministrazione  tra  quelli
«ostativi» ai sensi dell'art. 4-bis legge 26  luglio  1975,  n.  354,
senza prevedere un regime intertemporale e, in ogni caso, laddove, ha
inserito alcuni reati contro la pubblica amministrazione, tra i quali
quello di cui all'art. 319 codice  penale,  tra  quelli  ostativi  ai
benefici di' cui all'art. 4-bis legge n. 354/1975 per  contrasto  con
gli articoli 25, comma secondo, e 7 e 117 CEDU evidenziando che: 
        avendo riguardo al combinato  disposto  degli  articoli  656,
comma 9, lettera a), codice di procedura  penale  e  4-bis  legge  26
luglio 1975, n. 354, in relazione al  delitto  di  cui  all'art.  319
codice  penale  (ormai  irrevocabilmente  ascritto  agli   imputati),
inserito nel novero dei reati di cui allo stesso art. 4-bis in virtu'
della novella del 9 gennaio  2019,  n.  3,  non  sia  piu'  possibile
sospendere l'ordine di esecuzione ai fini della richiesta  di  misure
alternative alla detenzione in stato di liberta'. In assenza  di  una
disposizione  transitoria  regolativa   dei   limiti   temporali   di
applicazione  della  nuova  disciplina,  l'emissione  dell'ordine  di
carcerazione e' pertanto «obbligata», con una  modifica  peggiorativa
del trattamento penitenziario.  Modifica  peggiorativa  «a  sorpresa»
atteso che, al momento in cui e' stato commesso il reato, ...  poteva
ragionevolmente confidare che la sanzione sarebbe rimasta nei  limiti
di operativita' delle misure alternative. Evidenzia,  pertanto,  come
tale modifica in itinere delle «regole  del  gioco»,  in  quanto  del
tutto imponderabile all'atto della commissione del reato, si ponga in
evidente  contrasto  con  l'art.  7  CEDU,  come  interpretato  nella
giurisprudenza della Corte di Strasburgo  in  situazioni  analoghe  -
rilevante ai fini dell'art. 117 Cost. -, la' dove viola il  principio
dell'affidamento  quanto  alla   prevedibilita'   delle   conseguenze
sanzionatorie (v. per tutte Grande Camera 21 dicembre 2013,  Del  Rio
Prada e. Spagna). 
    Evidenzia la Corte come, nella  motivazione  che  segue,  saranno
riportate intere parti dell'ordinanza emessa dalla  I  Sezione  della
Corte di appello di Palermo in data 23 maggio 2019, il cui  contenuto
si condivide integralmente. 
    Ritiene la Corte di non potere accedere  ad  una  interpretazione
costituzionalmente orientata  del  combinato  disposto  di  cui  agli
articoli 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale e 4-bis
legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dall'art. 1,  comma  6,
legge 9 gennaio 2019, n. 3. 
    Invero, avuto riguardo al «diritto  vivente»,  quale  si  connota
alla luce del diritto positivo e della lettura giurisprudenziale fino
ad ora consolidata a seguito della decisione delle Sezioni Unite  del
2006, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e
le misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento
del reato e  l'irrogazione  della  pena,  ma  soltanto  le  modalita'
esecutive della stessa, sono da considerarsi norme penali processuali
e non sostanziali.  Pertanto  sono  soggette  -  in  assenza  di  una
specifica disciplina transitoria - al principio tempus regit actum  e
non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel
tempo dall'art. 2 codice penale e dall'art. 25 Cost. (Sez. U n. 24S61
del 30 maggio 2006, pubblico ministero in proc. A., Rv. 233976.; Sez.
1, n. 46649 dell'11 novembre 2009, Nazar,  Rv.  245511;  Sez.  1,  n.
11580 del 5 febbraio 2013, Schifato, Rv. 2SS310. Da ultimo;  VI  Sez.
Pen. n. 535 de! 143.2019). 
    Tale principio  trova  conferma  in  una  decisione  della  Corte
costituzionale, intervenuta con riferimento alle  misure  alternative
in corso al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge  n.  152
del 1991, la quale, pur osservando che la tesi  che  afferma  che  il
principio di irretroattivita' e' dettato,  oltre  che  per  la  pena,
anche per le disposizioni  che  ne  regolano  l'esecuzione  «potrebbe
meritare una seria riflessione», tuttavia ha chiarito che  «anche  in
materie non soggette al principio di  irretroattivita'  della  legge,
(...)  ta  vanificazione  con  legge   successiva   di   un   diritto
positivamente riconosciuto da una legge precedente non puo' sottrarsi
al necessario scrutinio di ragionevolezza», con cio' assumendo che la
norma valutata - proprio l'inserimento della ostativita'  -  non  sia
soggetta al principio di irretroattivita' (cfr. Corte  costituzionale
306/93; anche Corte costituzionale 376/97 ha  affermato  il  medesimo
principio rispetto all'applicazione del regime di cui all'art. 41-bis
OP ai reati commessi prima della sua entrata in vigore  espressamente
precisando che: «... Il principio di  irretroattivita'  non  si  puo'
estendere a provvedimenti che non incidono sulla qualita' e quantita'
della pena, ma solo sulle modalita' di esecuzione della pena o  della
misura detentiva, nell'ambito  delle  regole  e  degli  istituti  che
appartengono alla competenza dell'amministrazione penitenziaria»). Il
principio va ribadito in questa sede, pur non revocandosi  in  dubbio
che, nella piu' recente giurisprudenza  della  Corte  europea  per  i
diritti  dell'uomo,  ai  fini  del  riconoscimento   delle   garanzie
convenzionali, i concetti di illecito  penale  e  di  «pena»  abbiano
assunto  una  connotazione   «antiformalista»   e   «sostanzialista»,
privilegiandosi alla qualificazione formale data dall'ordinamento, la
valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonche' alle
modalita' di esecuzione della sanzione o della misura  imposta  (caso
Del Rio Prada contro Spagna del 21 ottobre 2013). 
    Ed invero, sotto diverso aspetto, si pone in luce come la novella
normativa, nel modificare le modalita' di  esecuzione  della  pena  -
tradizionalmente ritenute avere valenza meramente processuale - abbia
nondimeno inciso direttamente sul contenuto afflittivo della  pena  e
quindi sulla stessa «natura della sanzione», di  fatto  tramutata  da
«alternativa»  in   «detentiva».   Tenuta   presente   l'impostazione
«sostanzialistica»  ed  «antiformalista»  ormai   affermatasi   nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione
ad  istituti  che  presentano  marcati  tratti  di  analogia  con  il
peculiare regime esecutivo imposto per i reati di cui al citato  art.
4-bis (richiamata nuovamente la decisione della Grande Camera del  21
dicembre 2013, Del Rio Prada e.  Spagna),  i  mutamenti  con  effetti
concretamente peggiorativi sul regime della sanzione inflitta, devono
ritenersi  avere  natura,  non  processuale,  ma   sostanziale,   con
conseguente  inapplicabilita'   retroattiva;   infine,   profili   di
incostituzionalita' si possono ravvisare nello stesso inserimento nel
novero dei reati soggetti allo speciale regime di cui al citato  art.
4-bis  dei  delitti  dei  pubblici  ufficiali  contro   la   pubblica
amministrazione, in  quanto  in  chiaro  contrasto  con  la  funzione
rieducativa della pena. 
    Cio' posto, ritiene la  Corte  che  vada,  in  linea  principale,
esaminata  la  questione,  rivestente  carattere  assorbente,   della
dedotta illegittimita' costituzionale dell'inclusione del delitto  di
cui all'art. 319, codice penale tra  quelli  ostativi  ai  sensi  del
combinato disposto di cui agli articoli 656,  comma  9  c.p.p,  4-bis
legge n. 354/1975 e 1, comma 6,  lettera  b),  legge  n.  3/2019.  Va
precisato che occorre distinguere i due piani (quello delle modifiche
delle condizioni per l'accesso alle misure alternative e quello della
sospensione dell'ordine di esecuzione  per  consentire  la  richiesta
delle misure alternative stando fuori dal  carcere),  piani  distinti
che non devono essere confusi, in quanto, in questa sede, non possono
essere fatte valere  richieste  o  questioni  di  incostituzionalita'
dell'art. 4-bis ord. pen. poiche' il giudice dell'esecuzione  non  e'
competente in materia di applicazione dei benefici penitenziari [vedi
per tutte Cassazione Sez. 1, sentenza n. 24106 del  26  maggio  2009:
«.... la competenza all'applicazione delle  misure  alternative  alla
detenzione, in ipotesi di  soggetto  che  fruisca  della  sospensione
della pena, appartiene al Tribunale di sorveglianza del luogo ove  ha
sede l'ufficio del pubblico  ministero  preposto  all'esecuzione,  in
forza della regola  posta  dall'art.  656,  comma  sesto,  codice  di
procedura penale,  la  quale  deve  ritenersi  speciale  rispetto  al
principio generale di  cui  all'art.  677  stesso  codice  ...»),  ma
possono, di contro, essere  proposte  richieste  o  essere  sollevate
questioni di incostituzionalita' dell'art. 656, comma  9,  codice  di
procedura penale, essendo pacificamente  competenza  del  giudice  di
esecuzione decidere se l'ordine di esecuzione possa essere dichiarato
temporaneamente inefficace per consentire il deposito dell'istanza di
misura alternativa (vedi per tutte Cassazione Sez I  del  13  ottobre
2008 n. 41592 ma anche Cassazione  Sez  I  852/1998:  «...  ove,  pur
essendovi tenuto il P.M. non provveda a sospendere o  a  far  cessare
l'esecuzione dell'ordine di carcerazione a  seguito  dell'istanza  di
affidamento in prova terapeutico,  il  richiedente  puo'  far  valere
eventuali doglianze mediante incidente di esecuzione, trattandosi  di
questione che investe  il  titolo  esecutivo  ...  e  il  G.E.  resta
investito  di  un  controllo  limitato  alla  verifica  del  corretto
esercizio del potere attribuito al P.M.»). 
    Tanto puntualizzato, escluso che possa procedersi ad una  lettura
costituzionalmente orientata della norma, non sostenibile  alla  luce
del granitico orientamento innanzi richiamato -  e  che  pure  questa
Corte fa proprio - sulla natura processuale della norma in  questione
(vedi, per ultima, anche la recente ordinanza  n.  1992/2019  con  la
quale la  Corte  di  cassazione,  nel  sollevare  il  problema  della
costituzionalita' della  norma  di  cui  alla  legge  n.  3/2019,  ha
ribadito l'orientamento consolidato che ritiene la norma in questione
di natura processuale), risulta rilevante nel presente procedimento e
non   manifestamente   infondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  656,  comma  9,  lettera  a),  codice   di
procedura penale come integrato dall'art. 4-bis legge 26 luglio 1975,
n. 354, a sua volta modificato dall'art.  1,  comma  6,  lettera  b),
della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui  ha  inserito  i
reati contro la pubblica amministrazione, tra  quelli  ostativi  alla
concessione di alcuni benefici penitenziari e,  nella  specie,  dalla
possibilita' di richiedere - per una pena contenuta nei quattro  anni
- le misure alternative alla detenzione  ai  sensi  dell'art.  4-bis,
legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con gli articoli 3 e  27,
comma 3 Cost. 
    Va premesso che si ritiene sussistere  in  capo  a  questa  Corte
territoriale   la   legittimazione   a   proporre   l'incidente    di
costituzionalita', essendo chiamata ad esercitare  una  effettiva  ed
attuale potestas decidendi proprio in relazione alla norma sospettata
di   incostituzionalita',    emettendo    all'esito    un    giudizio
potenzialmente definitivo  del  procedimento.  Invero,  tenuto  conto
della natura  processuale  della  norma,  con  riferimento  al  reato
ascritto  agli  odierni  istanti,  la  cui   condanna   e'   divenuta
irrevocabile il 22 ottobre 2019, ossia dopo l'entrata in vigore della
novella 3/2019, e' stato  emesso  ordine  di  esecuzione  della  pena
detentiva e non e' possibile disporre la sospensione  dell'esecuzione
ai sensi del combinato disposto dell'art. 656, comma  9,  cod.  proc.
pen. in base all'art. 4-bis ord. penit. (come novellato  nel  gennaio
2019). Ne consegue che, se la  denunciata  norma  venisse  dichiarata
incostituzionale,  tutti  i  condannati  istanti  potrebbe   ottenere
l'invocato provvedimento di sospensione dell'ordine di  carcerazione.
Diversamente, non sarebbero  ammessi  a  fruire  di  tale  beneficio.
Esiste, dunque, un chiaro collegamento giuridico fra norma della  cui
costituzionalita'  si  dubita  e  regiudicanda  all'esame  di  questo
giudice,  tale  che   il   giudizio   non   possa   essere   definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale,  che  avrebbe  ricadute  immediate  e  dirette  sulla
decisione. 
    Parimenti,   deve   ritenersi   sussistere   la   non   manifesta
infondatezza della questione proposta. 
    Si evidenziano, invero, profili di contrasto con il principio  di
ragionevolezza/eguaglianza  (art.  3  Cost.),  in  quanto  la  scelta
legislativa di  inserire  il  menzionato  reato  contro  la  pubblica
amministrazione nel regime di cui all'art. 4-bis  ord.  pen.  implica
l'estensione al delitto di cui all'art. 319  codice  penale,  di  una
peculiare «presunzione di pericolosita' che concerne i condannati per
i delitti compresi  nel  catalogo»,  che,  tuttavia,  pare  prevalere
«irragionevolmente» sull'istanza rieducativa (art.  27/3  Cost.)  che
l'accesso a misura extramuraria  senza  osservazione  in  carcere  si
impegna appunto a preservare. In particolare, la novella,  inserendo,
tra gli altri, il delitto di cui all'art. 319,  codice  penale,  come
ostativo  alla  possibilita'  di  accesso  da  liberi   alle   misure
alternative alla detenzione, da luogo  ad  un  trattamento  normativo
differenziato  di  situazioni  da  reputarsi  uguali,   quanto   alla
finalita' intrinseca alla sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalita' di
incisione  della  liberta'  personale  del  condannato,   senza   che
sussistano adeguati indicatori che possano giustificare l'eccezione. 
    Inoltre, tale ostativita' sembra  contrastare  con  il  principio
costituzionale di cui all'art. 27, comma  III  Cost.,  ossia  con  la
finalita' rieducativa della pena nella precipua  prospettiva  di  una
indebita compressione di tale principio e del principio  dei  «minimo
sacrificio necessario» che limita il ricorso  alla  massima  sanzione
custodiale, in quanto  priva  di  alcuna  indicazione  specifica  che
avvalori la necessita' di un forzoso «assaggio  di  pena»  e  di  una
previa osservazione in carcere. Cosi' esposta  la  questione,  giova,
ricordare che, di recente, con ordinanza  del  20  novembre  2018  n.
57913, la Suprema Corte  di  cassazione,  accanto  ad  una  serie  di
profili  inerenti  la  stessa  natura  dell'art.  4-bis   OP   e   le
peculiarita'  del  permesso  premio  (beneficio  richiesto  nel  caso
specifico), richiamando una parte della giurisprudenza costituzionale
che ha falcidiato le presunzioni assolute di cui all'art. 275,  comma
3, codice di procedura penale, con particolare riferimento  ai  reati
di concorso esterno e finalisticamente  mafiosi,  ha  sostanzialmente
evidenziato come tale decisione, insieme a quelle  di  segno  analogo
per altre tipologie di reato, ha portato  alla  riformulazione  della
norma ad opera della legge n. 47  del  2015.  Gli  interventi  citati
hanno un  filo  conduttore  comune:  l'affermazione  secondo  cui  le
presunzioni assolute devono essere giustificate - per essere conformi
al principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. - da peculiari
profili di pericolosita' («le  presunzioni  assolute,  specie  quando
limitano un diritto fondamentale della persona, violano il  principio
di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non
rispondono  a  dati  di  esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula dell'id quod plerumque accidit»: cfr. Corte costituzionale n.
139/2010). 
    La Corte costituzionale ha esplicitamente rimarcato che cio'  che
«vulnera i parametri costituzionali richiamati non e' la  presunzione
in se', ma il suo carattere assoluto, che implica una  indiscriminata
e totale negazione di rilevanza al principio del  "minore  sacrificio
necessario". La previsione, invece, di una presunzione solo  relativa
di adeguatezza della custodia carceraria  -  atta  a  realizzare  una
semplificazione del procedimento  probatorio,  suggerita  da  aspetti
ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile
da  elementi  di  segno  contrario  -  non   eccede   i   limiti   di
compatibilita'  costituzionale,  rimanendo   per   tale   verso   non
censurabile   l'apprezzamento   legislativo   circa   la    ordinaria
configurabilita' di esigenze cautelari nel grado piu' intenso»  (vds.
sentenze n. 110 del 2012, n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011 e  n.  265
del 2010). Dunque, i giudici delle leggi sono pervenuti a  dichiarare
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  275,  comma  3,  secondo
periodo, codice di procedura penale,  come  modificato  dall'art.  2,
comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza  sessuale,
nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con  modificazioni,
dalla legge 23 aprile  2009,  n.  38,  «nella  parte  in  cui  -  nel
prevedere che, quando sussistono  gravi  indizi  di  colpevolezza  in
ordine ai delitti  commessi  avvalendosi  delle  condizioni  previste
dall'art. 416-bis codice penale o al fine  di  agevolare  l'attivita'
delle associazioni previste dallo stesso articolo del codice  penale,
e' applicata la  custodia  cautelare  in  carcere,  salvo  che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti
che le  esigenze  cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre
misure. Nell'apprezzamento di queste ultime  risultanze,  il  giudice
dovra' valutare gli elementi specifici del caso concreto, tra i quali
l'appartenenza dell'agente ad associazioni di tipo mafioso ovvero  la
sua estraneita' ad esse». 
    Indubbiamente,   sussiste   un   ampio   margine   rimesso   alla
discrezionalita' legislativa nell'identificare  peculiari  situazioni
che suggeriscano di imporre un periodo di carcerazione in attesa  che
l'organo competente decida sulla misura  alternativa,  in  ragione  -
appunto - della particolare pericolosita' sottesa a  taluni  reati  e
posta  a  fondamento  della   ragione   ostativa   alla   sospensione
dell'ordine di esecuzione. 
    La questione, dunque, e' se  tale  presunzione  di  pericolosita'
sia, per l'ipotesi oggetto  del  presente  incidente  di  esecuzione,
irragionevole (cfr. Corte costituzionale 265/2010). In tal  senso  e'
stato reiteratamente affermato che  la  mera  gravita'  astratta  del
reato o il particolare rango del bene giuridico - cosi' come  ragioni
di particolare allarme sociale ovvero  intenti  general-preventivi  -
non possono essere di per se'  indici  di  pericolosita'  valevoli  a
fondare la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare,  come
a piu' riprese evidenziato  dalla  Corte  costituzionale  ne'  -  per
quanto sopra detto circa  la  comunanza  del  presupposto  -  possono
fondare  la  medesima  presunzione  in  sede  esecutiva.  Invero,  la
medesima ratio aveva ispirato il legislatore delegato  della  riforma
dell'ordinamento  penitenziario,  proprio  nella  riformulazione  (in
senso riduttivo e dunque diametralmente opposto all'attuale tendenza)
dell'art. 4-bis O.P. 
    In proposito, nella relazione illustrativa  dell'elaborato  della
Commissione  Orlando,  si  evidenziava  come  solo   eliminando   gli
«automatismi» e le «preclusioni impeditive o ritardanti l'avvio di un
percorso trattamentale individualizzante in  ragione  del  titolo  di
reato e  delle  caratteristiche  personali  del  condannato,  possono
evitarsi profili di illegittimita'  costituzionale»,  giustificandosi
eventuali  deroghe  solo  per  «I  casi  di  eccezionale  gravita'  e
pericolosita'  specificatamente  individuati  e  comunque  (per)   le
condanne per i delitti di mafia e terrorismo, ai quali possono essere
assimilati - quali  espressioni  degli  altri  "casi  di  eccezionale
gravita' e pericolosita' specificatamente  individuati"  -  anche  le
altre fattispecie gia' inserite nel primo comma, limitando gli  spazi
applicativi delle preclusioni, pero', alle sole ipotesi associative e
ai soggetti che rivestano un ruolo  apicale  in  seno  al  sodalizio,
fatta eccezione per alcuni delitti gia'  annoverati  nell'elencazione
del comma 1,  che,  per  loro  struttura,  implicano  l'esistenza  di
profili organizzativi. Il riferimento ultimo e'  ai  delitti  di  cui
all'art. 600 (Riduzione o mantenimento  in  schiavitu'  o  servitu'),
600-bis, comma 1, (Prostituzione minorile), 601 (Tratta di  persone),
609-octies (Violenza sessuale di gruppo)  del  codice  penale,  tutti
connotati, al di la' dell'aspetto formale di tipo monosoggettivo,  di
una sostanziale conformazione plurisoggettiva, ora per il riferimento
a modalita' organizzative che evocano la  compartecipazione  di  piu'
soggetti, ora  per  l'apprezzamento  casistico  della  corrispondente
fenomenologia   criminale».   La   soluzione   legislativa   non   e'
irragionevole solo se amplia l'orbita  applicativa  dell'art.  4-bis,
comma 1, O.P. secondo parametri di selezione oggettivi, tratti  dalla
disciplina esistente - ossia da scelte  di  politica  criminale  gia'
compiute dal legislatore - e da ragioni di ordine logico-sistematico,
che puntano a riportare il meccanismo ostativo alla  sua  ispirazione
originaria.  Invero,  il  rigido  divieto  di  accesso  ai   benefici
extramurari e' stato introdotto, da un  lato,  per  impedire  che  il
potenziale fruitore venga riassorbito nelle organizzazioni  criminali
di  appartenenza  in  caso  di  concessione  di  spazi  di  liberta';
dall'altro, per  incentivare  la  collaborazione  con  la  giustizia,
elemento  considerato  indispensabile   per   debellare   consorterie
altrimenti  impenetrabili.   Presupposto   giustificante   la   netta
preclusione disciplinata al comma I risiede  in  una  presunzione  di
stabilita' del legame criminoso, accompagnata dal  forte  rischio  di
riallacciamento  dei  contatti  con  la   criminalita'   organizzata,
terroristica o eversiva, richiamato a piu'  riprese  dall'art.  4-bis
O.P. come cardine del regime derogatorio.  Nelle  ipotesi  «di  prima
fascia» questo rischio deve essere di intensita' tale da giustificare
una presunzione superabile solo mediante una proficua collaborazione,
unico indice in grado, per legge, di sancire il  distacco  definitivo
dal sodalizio  di  appartenenza.  Dunque,  la  ratio  del  meccanismo
preclusivo  di  cui  all'art.  4-bis  ha  assolto,  fin   dalla   sua
introduzione, alla funzione di individuare puntualmente una serie  di
fattispecie delittuose considerate di  particolare  allarme  sociale,
per  riconnettervi  una  disciplina  del  trattamento   penitenziario
derogatoria rispetto a quella ordinaria, sulla base dell'assunto  che
la lotta ad alcune gravi  forme  di  criminalita'  sia  efficacemente
conducibile (anche) sul piano esecutivo della pena. 
    Se cosi' e', solo laddove la scelta legislativa  sia  conforme  a
tale spirito la disposizione novellata puo' essere immune da  censure
di irragionevolezza. 
    A tal proposito va ricordato che, nel  tempo,  la  giurisprudenza
costituzionale,  elaborata  in  sede   cautelare,   ha   imposto   al
legislatore di non creare  doppi  binari  fondati  sul  mero  allarme
sociale, bensi' su «ragioni giustificanti chiaramente riconoscibili».
Per contro, con l'art. 1, comma 6, lettera b) della legge  9  gennaio
2019, n. 3 - evocativamente  definita  «legge  spazzacorrotti»  -  il
legislatore ha sancito l'ingresso del delitto di  cui  all'art.  319,
codice penale, e di altri delitti dei pubblici  ufficiali  contro  la
pubblica  amministrazione  nel  novero  dei  reati  ostativi  di  cui
all'art. 4-bis, comma 1, legge n.  354/1975,  integrante  l'art.  656
codice di procedura penale per  effetto  del  quale  gli  autori  dei
delitti  ivi  contemplati  sono  esclusi  dall'accesso   alla   quasi
totalita' dei benefici penitenziari e delle misure  alternative  alla
detenzione, a meno che non abbiano collaborato con  la  giustizia  ai
sensi dell'art. 58-ter ord. penit. o,  in  virtu'  delle  innovazioni
apportate dalla  legge  in  commento,  «a  norma  dell'art.  323-bis,
secondo comma, del codice  penale».  Si  tratta  di  una  scelta  che
evidenzia una tendenza legislativa all'ampliamento degli  automatismi
preclusivi fondati su presunzioni assolute di pericolosita'  sociale,
tendenza che, per quanto concerne la materia penitenziaria, trova  il
suo terreno di elezione e punto di emersione principale  proprio  nel
regime di cui all'art. 4-bis O.P. 
    Nella Relazione introduttiva al d.d.l. n. 1189,  presentato  alla
Camera dei deputati il 24 settembre 2018, in Atti parl. - Camera  dei
deputati, pp.  1-2,  la  scelta  legislativa  trova  questa  testuale
spiegazione: «Il livello di corruzione percepita nel settore pubblico
e' molto alto  [...].  Recenti  studi  e  pubblicazioni,  indagini  e
procedimenti penali per fatti di corruzione gravissimi e  sistematici
(alcuni dei quali hanno avuto anche  vasta  eco  mediatica)  mostrano
come  la  corruzione  e  gli   altri   reati   contro   la   pubblica
amministrazione siano delitti seriali e pervasivi, che  si  traducono
in un fenomeno endemico, il quale alimenta mercati illegali, distorce
la concorrenza, costa alla collettivita' un prezzo  elevatissimo,  in
termini sia economici, sia sociali. Non  va  sottovalutato,  infatti,
che la distorsione delle funzioni amministrative altera i  meccanismi
della competizione fra imprese e fra individui, favorendone alcune  o
alcuni a danno di  altri,  a  prescindere  dalle  effettive  qualita'
imprenditoriali o professionali dei soggetti coinvolti. Ne  risultano
danneggiate complessivamente  l'economia,  la  crescita  culturale  e
sociale del Paese, l'immagine della  pubblica  amministrazione  e  la
fiducia stessa dei  cittadini  nell'azione  amministrativa».  Ebbene,
tale scelta legislativa con i suoi accennati caratteri estensivi  del
regime preclusivo previsto nell'art. 4-bis O.P. richiamato, per  quel
che rileva in questa sede, dall'art. 656 c.p.p.  sembra  muoversi  in
direzione contraria rispetto ai recenti orientamenti manifestati  sul
punto dalla Corte costituzionale, la quale ha gradatamente  eroso  la
severita' delle preclusioni direttamente imposte dall'art. 4-bis o  a
questo indirettamente connesse. 
    Le censure di illegittimita'  costituzionale  della  norma  hanno
avuto quale principio base di riferimento la violazione del principio
rieducativo della pena ex art. 27, comma 3 Cost. In proposito, con la
sentenza n. 306 del  1993,  la  Corte,  pur  salvando  la  disciplina
dettata  dall'art.   4-bis   in   base   alla   c.d.   teoria   della
polifunzionalita'   della   pena,   ha   tuttavia   sottolineato    -
limitatamente alla possibilita' di revoca  delle  misure  alternative
concesse  prima  dell'entrata  in   vigore   della   regolamentazione
restrittiva - l'irragionevolezza del requisito della  collaborazione,
definito pacificamente quale «uno strumento di politica  criminale  e
non [...] un indice di colpevolezza o criterio di individualizzazione
del trattamento». 
    Anche nelle pronunce 504/1995 e  137/1999  in  tema  di  permessi
premio, nonche'  445/1997  in  materia  di  semiliberta',  i  giudici
costituzionali  hanno  valorizzato  il  principio  rieducativo,   sul
versante della progressivita'  del  trattamento,  affermando  che  il
diniego  di  un  beneficio  non  puo'  essere  motivato  sulla   base
dell'assenza di collaborazione, a fronte di un  percorso  rieducativo
gia' in essere al momento di entrata in vigore  della  disciplina  di
cui all'art. 4-bis. 
    Il meccanismo preclusivo previsto dall'art. 4-bis,  comma  1,  e'
stato avallato, invece, dalla sentenza 9-24 aprile 2003, n. 135 dalla
Corte costituzionale sulla base dell'asserita  assenza  di  qualsiasi
automatismo: ad avviso della Corte, infatti, «la preclusione prevista
dall'art. 4-bis, comma 1  [...]  dell'ordinamento  penitenziario  non
[sarebbe]  conseguenza  che  discende  automaticamente  dalla   norma
censurata,  ma  deriverebbe]  dalla  scelta  del  condannato  di  non
collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale  disciplina
non precluderebbe]  pertanto  in  maniera  assoluta  l'ammissione  al
beneficio, in quanto al condannato e' comunque data  la  possibilita'
di cambiare la propria scelta» (cfr. Corte  costituzionale,  sentenza
9-24 aprile 2003, n. 135). 
    Ed ancora, con la  sentenza  239/2014,  la  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, nella parte
in  cui  non  esclude  dal  divieto  di  concessione   dei   benefici
penitenziari ivi previsto la detenzione domiciliare speciale  di  cui
all'art. 47-quinquies, nonche', per identita' di ratio, la detenzione
domiciliare contemplata all'art. 47-ter, comma 1, lettera a e  b;  in
maniera  speculare,  la  sentenza   76/2017   ha   censurato   l'art.
47-quinquies, comma I-bis, laddove preclude  alle  «madri  condannate
per taluno dei delitti di cui  all'art.  4-bis»  la  possibilita'  di
espiare la frazione di pena prevista dal comma 1 presso un istituto a
custodia attenuata o altro  luogo  di  privata  dimora,  al  fine  di
provvedere alla cura e assistenza dei figli minori degli anni dieci. 
    In entrambe le occasioni i giudici costituzionali hanno  ritenuto
prevalente l'interesse del minore, protetto dagli articoli 29,  30  e
31 Cost., sulla necessita' di difesa sociale cui e'  invece  preposta
la disciplina preclusiva. Cio' - si badi bene  -  non  in  virtu'  di
un'apodittica asserzione di superiorita' dell'uno sull'altra,  bensi'
proprio a causa dell'irragionevolezza della  presunzione  assoluta  e
del conseguente automatismo preclusivo, che escluderebbero  a  priori
qualsiasi bilanciamento tra valori contrapposti. L'orientamento cosi'
delineato e' stato, poi, riconfermato nelle  ultime  pronunce  numeri
149 e 174 del 2018, aventi a  oggetto  rispettivamente  i  meccanismi
preclusivi di cui agli articoli 58-quater,  comma  4  e  21-bis  ord.
penit., entrambi connessi all'art. 4-bis: la Corte e' pervenuta,  con
queste ultime sentenze, a dichiarare nuovamente  l'illegittimita'  di
due automatismi fondati sulla assoluta presunzione  di  pericolosita'
sociale di cui all'art. 4-bis, in quanto contrastanti con alcuni -  a
questo  punto  preminenti  -  principi  costituzionali.  Di  cruciale
importanza sono, in particolare, alcuni passaggi argomentativi  della
sentenza 149/2018, in cui la Corte  ha  censurato  la  norma  di  cui
all'art. 58-quater  per  violazione  dell'art.  27,  comma  3  Cost.,
mettendo in luce il ruolo cardine  svolto  dai  benefici  contemplati
dall'art. 4-bis, comma 1, nell'ottica del «progressivo  reinserimento
armonico della persona  nella  societa',  che  costituisce  l'essenza
della finalita' rieducativa», della quale,  peraltro,  «il  principio
della  progressivita'  trattamentale  e  flessibilita'   della   pena
costituiscono diretta attuazione». 
    Ad avviso dei giudici costituzionali, la preclusione in base alla
quale i condannati per sequestro di persona a scopo di terrorismo, di
eversione o di estorsione (articoli 289-bis e 630 codice penale)  che
abbiano cagionato la morte  del  sequestrato  «non  sono  ammessi  ad
alcuno dei benefici indicati nel  comma  1  dell'art.  4-bis  se  non
abbiano effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata
o,  nel  caso  dell'ergastolo,  almeno  ventisei   anni»,   impedisce
l'individualizzazione del trattamento e oblitera, di conseguenza, «il
principio  della  non  sacrificabilita'  della  funzione  rieducativa
sull'altare di' ogni altra,  pur  legittima,  funzione  della  pena».
Dunque, deve concludersi  che  l'orientamento  piu'  recente  esprime
un'evidente tendenza della Corte a restringere le preclusioni  legate
ai reati ostativi. 
    Anche la Suprema Corte di cassazione si  e'  mossa  nel  medesimo
senso. 
    Si intende fare riferimento alle ordinanze con le quali i giudici
del  Supremo  Collegio  hanno  sollevato  questione  di  legittimita'
costituzionale, rispettivamente: dell'art. 4-bis, comma 1 ord. penit.
per contrasto con gli articoli 3 e 27 Cost., nella parte in  cui  non
esclude dal novero dei reati ostativi di prima fascia il sequestro di
persona a scopo di estorsione ex art. 630 codice penale,  qualora  il
fatto   sia   stato   riconosciuto   di   lieve    entita',    attesa
l'irragionevolezza della presunzione di elevata pericolosita' sociale
questo specifico  specifico  caso;  dell'art.  4-bis,  comma  1,  per
violazione degli articoli 3 e 27 Cost., nella parte  in  cui  esclude
che il condannato  all'ergastolo  per  delitti  commessi  avvalendosi
delle condizioni di cui all'art. 416-bis codice penale ovvero al fine
di agevolare l'attivita' delle associazioni  ivi  previste,  che  non
abbia collaborato con la giustizia ai  sensi  dell'art.  58-ter  ord.
penit., possa essere ammesso alla fruizione di  un  permesso  premio;
infine, dell'art. 58-ter, comma I-bis ord. penit., per contrasto  con
gli articoli 3, comma 1 e 27, comma 1 e 3 Cost., nella parte  in  cui
prevede che tale disposizione non si  applica  ai  condannati  per  i
reati di cui all'art. 4-bis. 
    Dunque, se la finalita' rieducativa della pena  assume  carattere
precipuo nella fase di esecuzione, indubbiamente le scelte ampliative
del regime di rigore di cui all'art. 4-bis che il legislatore  ha  da
ultimo compiuto con la  legge  n.  3/2019  suscitano  seri  dubbi  di
legittimita' costituzionale. 
    In particolare, gli argomenti impiegati nella  sentenza  149/2018
manifestano una netta presa di posizione nel senso  della  prevalenza
della finalita' rieducativa rispetto alle altre funzioni della  pena.
Ne discende la censurabilita'  di  qualsiasi  meccanismo  legislativo
che,  attraverso  preclusioni  assolute  sostitutive   di   qualsiasi
valutazione individualizzata della personalita' e della pericolosita'
sociale, sacrifichi eccessivamente il principio rieducativo  al  fine
di soddisfare esigenze punitive ulteriori che, per quanto  legittime,
sono in ogni caso recessive a fronte della garanzia di  cui  all'art.
27 Cost. 
    Proprio queste argomentazioni, hanno trovato, peraltro, riscontro
nella piu' recente giurisprudenza costituzionale, ove si e' rimarcato
che «l'esito  dello  scrutinio  di  legittimita'»  sulle  ipotesi  di
disallineamenti tra la sospensione dell'ordine  di  esecuzione  e  la
possibilita' di  fruire  dell'affidamento  in  prova  «dipende  [...]
dall'adeguatezza degli indicatori che nella visione  del  legislatore
dovrebbero opporsi all'esigenza della coerenza  sistematica,  fino  a
poter prevalere su di essa» (cfr. Corte costituzionale,  sentenza  n.
41  del  2018,  che  ha  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 656, comma 5, codice di procedura penale, riscontrando  non
«un  mero  difetto   di   coordinamento»   bensi'   un   difetto   di
ragionevolezza - e dunque una violazione  dell'art.  3  Cost.  -  nel
mancato adeguamento legislativo - del termine previsto per sospendere
l'ordine di esecuzione della pena  detentiva,  in  modo  da  renderlo
corrispondente al termine di concessione  dell'affidamento  in  prova
allargato (quattro anni); mancato adeguamento operato  «senza  alcuna
ragione giustificatrice,  dando  luogo  a  un  trattamento  normativo
differenziato  di  situazioni  da  reputarsi  uguali,   quanto   alla
finalita' intrinseca alla sospensione dell'ordine di esecuzione della
pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalita' di
incisione della liberta' personale del condannato». 
    Cosi' la citata sentenza n. 41 del 2018, sottolineando  ancora  -
appunto con riferimento all'affidamento in prova al servizio  sociale
- che «[l]a natura servente dell'istituto [...] lo espone  a  profili
di incoerenza normativa ogni qual volta venga spezzato  il  filo  che
lega la  sospensione  dell'ordine  di  esecuzione  alla  possibilita'
riconosciuta   al   condannato   di   sottoporsi   ad   un   percorso
risocializzante che non includa il trattamento carcerario». 
    Alla stregua di tali argomenti, ritiene questa  Corte  che  possa
giungersi a rilevare un difetto  di  ragionevolezza  nell'inclusione,
rilevante - in questa  sede  -  ai  fini  della  non  sospensibilita'
dell'ordine di esecuzione emesso nei confronti degli odierni  istanti
del  delitto  di  cui  all'art.  319,  codice  penale,  attratto  ora
nell'orbita dell'art. 4-bis ord. pen. 
    Nessun  particolare   indicatore   segnala   la   necessita'   di
abbandonare «l'obiettivo di risparmiare il  carcere  al  condannato»,
segnalato come prioritario dalla stessa Corte costituzionale  con  la
sentenza n.  569  del  1989  e  perseguito  «al  massimo  grado»  dal
legislatore sin dalla legge n. 165 del 1998,  consentendo  a  chi  si
trovava  in  stato  di   liberta'   la   possibilita'   di   accedere
all'affidamento in prova, ossia una  misura  «specificamente  pensata
per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere». 
    Di qui la possibile violazione dell'art.  3  Cost.,  anche  nella
precipua prospettiva  di  una  indebita  compressione  del  principio
rieducativo (art. 27/3 Cost.), e del principio del «minimo sacrificio
necessario» che limita il ricorso alla massima sanzione custodiale. 
    La deroga ad una simile scelta, dunque, e'  deroga  al  principio
rieducativo, e come tale - per  essere  ammissibile  -  deve  trovare
fondamento in una valutazione capace di giustificare l'eccezione alla
luce  della   necessaria   tutela   di   valori   di   pari   rilievo
costituzionale, appunto «nei limiti della ragionevolezza». 
    Ora, nella scelta di  ricomprendere  tra  i  reati  «ostativi»  i
menzionati  reati  contro  la   pubblica   amministrazione,   ed   in
particolare l'art. 319 codice penale, non pare possibile rintracciare
-  tra  gli  interessi  perseguiti  dal  legislatore  e  contrapposti
all'istanza rieducativa - altre valutazioni che non siano di schietto
ordine general-preventivo e di mera «deterrenza», nulla avendo a  che
fare la misura - e il periodo di «osservazione»  intramuraria  -  con
peculiarita' trattamentali imposte dalle connotazioni strutturali del
reato in rilievo (e/o  delle  relative  tipologie  di  autore),  alla
stregua di quanto sopra esposto. Giova ricordare, a  supportare  tale
argomentare, che la Corte costituzionale, in una recente pronuncia in
tema di ergastolo, ha espressamente affermato il «principio della non
sacrificabilita'  della  funzione  rieducativa  sull'altare  di  ogni
altra, pur legittima,  funzione  della  pena»,  prima  fra  tutte  la
funzione general-preventiva, posto che tale «pur legittima» finalita'
non puo' «nella fase di esecuzione  della  pena,  operare  in  chiave
distonica  rispetto  all'imperativo  costituzionale  della   funzione
rieducativa della pena  medesima,  da  intendersi  come  fondamentale
orientamento di  essa  all'obiettivo  ultimo  del  reinserimento  del
condannato nella societa'» (cosi' la sentenza n. 149 del 2018,  punto
7,  che  ha  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale   dell'art.
58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975, nella parte  in  cui
esclude dai benefici indicati dall'art. 4-bis, comma 1, legge cit., i
condannati all'ergastolo per il delitto di cui  all'art.  630  codice
penale - e per il delitto di cui all'art. 289-bis codice penale - che
abbiano cagionato la morte del sequestrato, ove non abbiano raggiunto
la soglia dei ventisei anni di pena concretamente espiata;  decisione
che dunque riconosce «l'inderogabilita'» dell'unica  finalita'  della
pena enunciata nella Costituzione). 
    Ed in questa prospettiva e' dunque apprezzabile il contrasto  con
l'art. 27/3 Cost., nel prisma  della  valutazione  di  ragionevolezza
che, appunto, fonda e limita la legittimita' delle relative  deroghe.
La prospettata questione e' rilevante nel presente giudizio,  potendo
gli istanti, in  caso  di  dichiarata  incostituzionalita',  ottenere
l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi per loro
il termine di trenta giorni per proporre  richiesta,  da  liberi,  di
misure alternative alla detenzione per l'esecuzione della pena. 
    Alla  stregua  di  quanto  sopra  argomentato  va  sollevata   la
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  656,  comma  9,
lettera a) codice di procedura penale, come integrato dall'art. 4-bis
legge n. 354/1975, a sua  volta  modificato  dall'art.  1,  comma  6,
lettera b), legge 9 gennaio  2019,  n.  3,  nella  parte  in  cui  ha
inserito  i  reati  contro  la  pubblica   amministrazione   ed,   in
particolare, l'art. 319 c.p., tra quelli  ostativi  alla  concessione
del beneficio penitenziario di cui all'art. 4-bis,  legge  26  luglio
1975, n. 354, per contrasto con gli articoli 3, 27,  comma  3,  Cost.
Parimenti, ma in via subordinata, la prospettazione difensiva secondo
la quale l'avere il legislatore cambiato  in  itinere  le  «carte  in
tavola» senza prevedere alcuna norma transitoria presenti  tratti  di
dubbia conformita' con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art. 117 Cost.,
la' dove si traduce, per i condannati nel passaggio - «a sorpresa»  e
dunque non prevedibile - da una sanzione «senza assaggio di pena»  ad
una sanzione con necessaria incarcerazione appare non  manifestamente
infondata. 
    Tali  considerazioni,  tuttavia,  non  possono  condurre  ad  una
«interpretazione costituzionalmente orientata» di una  norma  la  cui
natura rimane, come detto, squisitamente processuale  e  soggetta  al
tempo di applicazione. 
    Pongono, al contrario, un serio  profilo  di  incostituzionalita'
per assenza di previsione  di  un  regime  intertemporale  che  renda
espressamente applicabile la nuova regola processuale ai  soli  reati
commessi  prima  dell'entrata  in   vigore   della   novella.   Tanto
puntualizzato, la questione posta all'attenzione  di  questo  giudice
dell'esecuzione puo' essere cosi' esemplificata: premesso che  l'art.
I, comma 6, lettera b)  della  recente  legge  n.  3/2019  -  che  ha
inserito nell'elenco del 4-bis ord.  pen.  anche  l'art.  319  codice
penale  -  non  prevede  alcuna  norma  di  diritto   intertemporale,
dev'essere verificato se il disposto di cui al comma  9,  lettera  a)
dell'art. 656 codice di procedura penale, nella  parte  modificata  a
seguito della novella legislativa possa  trovare  applicazione  anche
per fatti  commessi  prima  dell'entrata  in  vigore  della  predetta
novella ma in cui l'esecuzione sia iniziata successivamente. 
    Escluso che possa procedersi ad  una  lettura  costituzionalmente
orientata della  norma,  non  sostenibile  alla  luce  del  granitico
orientamento innanzi richiamato, e che pure questa Corte fa  proprio,
sulla natura processuale della norma in questione, risulta  rilevante
nel presente procedimento e non manifestamente infondata la questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 656,  comma  9,  lettera  a)
come integrato dall'art. 4-bis della legge 26 luglio  1975,  n.  354,
come modificato dell'art. 1, comma  6,  lettera  b),  della  legge  9
gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito il  reato  di  cui
all'art. 319 codice penale, tra quelli ostativi alla  concessione  di
alcuni benefici penitenziari ai sensi dell'art. 4-bis legge 26 luglio
1975, n. 354, per contrasto con gli articoli 3, 25, comma  2,  e  117
Cost. in riferimento all'art.  7  CEDU,  senza  prevedere  un  regime
transitorio che dichiari applicabile la norma ai soli fatti  commessi
successivamente alla sua entrata in vigore. 
    Per  quel  che  riguarda  la  legittimazione  di   questa   Corte
territoriale a proporre l'incidente di costituzionalita', si  rimanda
a quanto prima affermato in tema di una effettiva ed attuale potestas
decidendi   proprio   in   relazione   alla   norma   sospettata   di
incostituzionalita'. 
    Sussiste,  pertanto,  il  requisito  della  rilevanza  stante  la
pregiudizialita'   necessaria   della   questione   di   legittimita'
costituzionale rispetto alla  decisione,  sempre  subordinatamente  a
quella prospettata in via principale. 
    Parimenti,   deve   ritenersi   sussistere   la   non   manifesta
infondatezza  della  questione  proposta,  sussistendo   profili   di
incostituzionalita' dell'art. 656, comma  9,  lettera  a)  codice  di
procedura penale in base all'art. 4-bis ord. penit.  (come  novellato
nel gennaio 2019) in relazione agli articoli 3, 25, comma 2, 27 e 117
Cost. (come integrato dall'art. 7 CEDU). 
    Ed invero, il differente regime introdotto, senza  la  previsione
di una  norma  transitoria  con  riguardo  ai  reati  commessi  prima
dell'entrata in vigore della legge 3/2019, in quanto non  accessibile
ne' prevedibile al momento di commissione del fatto,  pare  porsi  in
aperto contrasto con l'interpretazione, ormai consolidatasi presso la
Corte E.D.U., con riferimento a diversi istituti implicanti, come nel
caso di specie, variazioni delle modalita' esecutive della pena. 
    In particolare, giova richiamare la sentenza  resa  dalla  Grande
Camera della Corte di Strasburgo in data 21 dicembre 2013,  nel  caso
Del Rio Prada contro Spagna, con la quale - ravvisando una violazione
dell'art. 7 CEDU, ai sensi del quale «... non  puo'  essere  inflitta
una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il  reato
e' stato  commesso»,  tale  principio  ha  applicato  al  caso  della
«redencion de penas por trabajo» (che consentiva uno sconto  di  pena
di un giorno  ogni  due  giorni  di  lavoro  intramurario),  istituto
abrogato del nuovo  codice  penale  del  1995  ma  mantenuto  in  via
transitoria  per  i  soggetti  condannati  sulla  base   del   codice
previgente,  ossia  un   istituto   assimilabile   alla   liberazione
anticipata prevista dal nostro  ordinamento.  In  particolare,  nella
richiamata sentenza, si  e'  chiaramente  delineato  il  concetto  di
«pena» e la sua «portata», evidenziando che: «Il concetto  di  "pena"
previsto all'art. 7 § 1 della Convenzione  e',  come  la  nozione  di
"diritti e doveri di carattere  civile"  e  "accusa  penale"  di  cui
all'art. 6 § 1, un concetto della Convenzione autonomo.  Per  rendere
effettiva la protezione offerta dall'art. 7, la Corte  deve  rimanere
libera di andare oltre  le  apparenze  e  valutare  da  sola  se  una
particolare misura equivale in sostanza a  una  "pena"  ai  sensi  di
questa disposizione (si vedano Welch contro Regno Unito: sentenza del
9 febbraio 1995, Serie A n. 307-A e Jamil e. Francia, 8 giugno  1995,
§ 35, Serie A n. 317-B)». Nel ribadire che «Il punto di  partenza  di
ogni valutazione dell'esistenza di  una  pena  e'  se  la  misura  in
questione e' inflitta a seguito di condanna  per  un  "reato"  si  e'
precisato  che:  "Altri  fattori  che   possono   essere   presi   in
considerazione in quanto rilevanti a tale riguardo sono la  natura  e
il fine della misura; la sua caratterizzazione  in  base  al  diritto
interno; le procedure relative all'emanazione e all'attuazione  della
misura; e la sua gravita' (si  vedano  Welch,  sopra  citata,  §  28;
Jamil, sopra citata)». 
    Inoltre, si e' puntualizzato che «Sia la Commissione sia la Corte
hanno delineato nella loro giurisprudenza  una  distinzione  tra  una
misura che costituisce in  sostanza  una  "pena"  e  una  misura  che
riguarda   "l'esecuzione"   o    "l'applicazione"    della    "pena".
Conseguentemente, se la natura e il fine  della  misura  riguarda  la
detrazione  di  pena  o  una  modifica  del  regime  di   liberazione
anticipata, essa non fa parte della pena ai  sensi  dell'art.  7  (si
vedano, tra altri precedenti  Hogben,  sopra  citata;  Hosein,  sopra
citata; L G. R. e. Svezia, n. 27032/95, decisione  della  Commissione
del 15 gennaio 1997; Grava, sopra citata, § 51; Uttley, sopra citata;
Kafkaris, sopra citata; § 142; Monne e. Francia, (dee), n.  39420/06,
1° aprile 2008; M. e. Germania,  sopra  citata,  §  121;  e  Giza  e.
Polonia, (dee), n. 1997/11, §  31,  23  ottobre  2012).  Nella  causa
Uttley, per esempio, la Corte ha ritenuto che le modifiche  apportate
alle norme sulla liberazione anticipata successivamente alla condanna
del ricorrente non gli fossero  state  "inflitte"  ma  che  facessero
parte  del  regime  generale  applicabile  ai   detenuti,   e   lungi
dall'essere punitivi, la natura e il fine  della  "misura"  erano  di
consentire la liberazione anticipata, pertanto  non  potevano  essere
considerati intrinsecamente "severe". La  Corte  ha  conseguentemente
ritenuto  che  l'applicazione  al  ricorrente  del  nuovo  regime  di
liberazione anticipata non facesse  parte  della  "pena"che  gli  era
stata inffitta». 
    «Nella causa Kafkaris, in cui delle modifiche della  legislazione
penitenziaria avevano privato dei  detenuti  che  espiavano  la  pena
dell'ergastolo - compreso il ricorrente - del diritto alle detrazioni
di pena, la Corte riteneva che le modifiche riguardavano l'esecuzione
della pena e non la pena inflitta al ricorrente, che rimaneva  quella
dell'ergastolo.  Essa  spiegava  che  benche'  le   modifiche   della
legislazione penitenziaria e delle condizioni di liberazione potevano
aver reso piu' dura la  reclusione  del  ricorrente,  non  si  poteva
interpretare che tali modifiche infliggessero una "pena" piu' pesante
di quella inflitta dal tribunale del merito.  Essa  ribadiva  a  tale
riguardo che le questioni relative  alle  politiche  di  liberazione,
alla loro modalita' di attuazione e al ragionamento che e' alla  loro
base rientrano nei poteri degli  Stati  parti  della  Convenzione  di
determinare la propria  politica  penale  (si  vedano  Achour,  sopra
citata, § 44, e Kafkaris, sopra citata, § 151). 
    Ma la medesima  Corte  ha  tuttavia  riconosciuto  anche  che  in
pratica la distinzione tra una misura che costituisce  una  "pena"  e
una misura  che  riguarda  "l'esecuzione"  e  "l'applicazione"  della
"pena" puo' non essere  sempre  chiara  (si  vedano  Kafkaris,  sopra
citata, § 142; Gurguchiani, sopra citata, § 31;  e  M.  e.  Germania,
sopra citata, § 121). 
    Per di piu' chiaramente da detta  sentenza  si'  ricava  che  «Il
termine "inflitta" utilizzato nella sua seconda frase non puo' essere
interpretato  nel  senso  di  escludere  dal  campo  di  applicazione
dell'art. 7 § 1  tutte  le  misure  introdotte  successivamente  alla
pronuncia della condanna. Essa  ribadisce  a  tale  riguardo  che  e'
estremamente  importante  che  la  Convenzione  sia  interpretata   e
applicata in modo da rendere i suoi diritti pratici ed effettivi, non
teorici e illusori (si vedano Hirsi Jamaa e Altri e. Italia [GC],  n.
27765/09, § 175, CEDO 2012, e Scoppola (n. 2), sopra citata, § 104)».
Pertanto, si e' cosi' statuito: «Alla luce di quanto sopra, la  Corte
non esclude la possibilita' che le misure adottate  dal  legislatore,
dalle  autorita'  amministrative  o  dai  tribunali   successivamente
all'inflizione della pena definitiva,  o  nel  corso  dell'espiazione
della pena, possano comportare la ridefinizione o la  modifica  della
portata della pena inflitta dal tribunale  del  merito.  Quando  cio'
accade,  la  Corte  ritiene  che  le  misure  interessate  dovrebbero
rientrare nell'ambito del divieto di applicazione  retroattiva  delle
pene  previsto  dall'art.  7  §  1   in   fine   della   Convenzione.
Diversamente, gli Stati sarebbero liberi - per esempio modificando la
legislazione o reinterpretando i regolamenti stabiliti - di  adottare
delle misure che ridefinivano retroattivamente la portata della  pena
inflitta, a svantaggio della persona condannata, quando  quest'ultima
non avrebbe potuto immaginare tale sviluppo  al  momento  in  cui  e'
stato commesso il  reato  o  e'  stata  inflitta  la  pena.  In  tali
condizioni l'art. 7 § 1 sarebbe privo di qualsiasi effetto utile  per
le persone condannate a pene  delle  quali  e'  stata  modificata  la
portata ex post facto a loro svantaggio. La Corte sottolinea che tali
modifiche devono  essere  distinte  dalle  modifiche  apportate  alla
modalita' di esecuzione della pena, che non rientrano  nel  campo  di
applicazione dell'art. 7 § 1 in fine». «Per determinare se una misura
adottata nel corso dell'esecuzione  di  una  pena  riguarda  solo  la
modalita' di esecuzione della pena o, al contrario, incide sulla  sua
portata, la Corte deve esaminare in ciascun caso che cosa  comportava
effettivamente la "pena" inflitta  in  base  al  diritto  interno  in
vigore al momento pertinente, o in altre parole,  quale  era  la  sua
natura intrinseca. Nel fare cio' essa  deve  considerare  il  diritto
interno nel suo complesso e la modalita' con cui esso  era  applicato
al momento pertinente (si veda Kafkaris, sopra citata, § 145)». 
    A supportare  il  dato  di  «non  manifesta  infondatezza»  della
questione in esame, soccorre la recente pronuncia della Suprema Corte
Sez. VI  Penale  n.  12541  del  14  marzo  2019,  nella  quale,  pur
precisandosi  che  la  questione  non  atteneva  alla   sentenza   di
applicazione della pena oggetto del ricorso in Cassazione, tuttavia i
giudici del Supremo Collegio hanno  evidenziato  che:  «...  l'omessa
previsione di una disciplina transitoria circa l'applicabilita' della
disposizione  (come  novellata)  possa  suscitare  fondati  dubbi  di
incostituzionalita' in relazione ai riverberi processuali sull'ordine
di esecuzione, in quanto non  piu'  suscettibile  di  sospensione  in
forza della previsione dell'art. 656, comma 9,  codice  di  procedura
penale». Ed invero, appare  fonte  di  ingiustificata  disparita'  di
trattamento ex art. 3 Costituzione la novella del 2019 che pone sullo
stesso piano, sotto il profilo della esecuzione della  pena,  chi  ha
commesso il reato potendo contare su un impianto  normativo  che  gli
avrebbe consentito di non scontare in carcere una pena, eventualmente
residua, inferiore a quattro anni, e chi ha commesso  o  commette  il
reato dopo l'entrata in vigore della legge  9  gennaio  2019,  n.  3,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  del  16  gennaio  2019,  n.  13.
Ancora, la norma presenta, nella parte in cui  non  ha  previsto  una
disposizione di diritto  intertemporale,  profili  di  non  manifesta
infondatezza di illegittimita' costituzionale per  contrasto  con  il
disposto del comma 2 dell'art. 25 Costituzione, per  i  suoi  indubbi
riflessi sostanziali in punto di esecuzione della pena  in  concreto,
cosi' come intesa  nella  piu'  recente  giurisprudenza  della  Corte
europea per i diritti dell'uomo, in quanto frutto di  un  cambiamento
delle regole successivo alla data del commesso reato. 
    Infine, appare contrastante con l'art.  117  perche'  l'avere  il
legislatore cambiato in itinere le regole sull'esecuzione della  pena
per taluni reati senza prevedere alcuna  norma  transitoria  presenta
tratti di non conformita' con l'art. 7 CEDU e quindi, con l'art.  117
Costituzione, laddove si traduce, per i condannati  nel  passaggio  a
sorpresa e non prevedibile, al momento della commissione  del  reato,
alla sanzione con necessaria incarcerazione. 
    La prospettata questione  e'  rilevante  nel  presente  giudizio,
potendo gli  istanti,  in  caso  di  dichiarata  incostituzionalita',
ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi
per loro il termine di  trenta  giorni  per  proporre  richiesta,  da
liberi, di misure alternative alta detenzione per l'esecuzione  della
pena. 
    Alla  stregua  di  quanto  sopra  argomentato  va  sollevata,  in
subordine rispetto a quella principale, la questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a) codice penale, come
integrato dall'art. 4-bis, legge n. 354/1975, a sua volta  modificato
dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019, n.  3,  nella
parte in cui ha inserito i reati contro la  pubblica  amministrazione
tra quelli ostativi alla concessione del beneficio  penitenziario  di
cui all'art. 4-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354, per  contrasto  con
gli articoli 3, 25, comma 2, e 117 Cost. come integrato  dall'art.  7
C.E.D.U.,  senza  prevedere  un  regime  transitorio   che   dichiari
applicabile la norma di cui all'art. 1, comma 6, lettera b), legge  9
gennaio 2019, n. 3, ai soli fatti commessi successivamente  alla  sua
entrata in vigore. Consegue la sospensione del  presente  processo  e
l'ordine  di  trasmettere  gli   atti   immediatamente   alla   Corte
costituzionale  nonche'  di  notificare  la  presente  ordinanza   al
Presidente del Consiglio dei ministri  e  comunicarla  ai  Presidenti
delle  due  Camere  del  Parlamento,  mentre  non   possono   trovare
accoglimento  le  istanze  di  sospensione  o  di  dichiarazione   di
inefficacia degli ordini di esecuzione emessi dal P.G. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto  l'art.  23  legge  11  marzo  1953,  n.  87;   la   Corte,
pronunciando  quale  giudice   dell'esecuzione,   solleva,   in   via
principale, la questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
656, comma 9, lettera a) codice di procedura penale,  come  integrato
dall'art. 4-bis, legge n. 354/1975, a sua volta modificato  dall'art.
1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019, n. 3,  nella  parte  in
cui ha inserito il reato di  cui  all'art.  319  codice  penale,  tra
quelli ostativi alla concessione del beneficio penitenziario  di  cui
all'art.  4-bis,  comma  1,  legge  26  luglio  1975,  n.  354  della
possibilita' di accesso alle misure alternative alla detenzione,  per
contrasto con gli articoli 3, 27, comma 3, Cost. 
    Solleva,  altresi',  in  via   subordinata,   la   questione   di
legittimita' costituzionale  dell'art.  656,  comma  9,  lettera  a),
codice di procedura penale, come integrato dall'art. 4-bis, legge  n.
354/1975, a sua volta modificato dall'art. 1, comma  6,  lettera  b),
legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito  il  reato
di cui all'art. 319, comma 1, codice penale tra quelli ostativi  alla
concessione del beneficio penitenziario di cui all'art. 4-bis,  comma
1, legge 26 luglio 1975, n. 354 della possibilita'  di  accesso  alle
misure alternative alla detenzione, per contrasto con gli articoli 3,
25, comma 2, e 117 Cost. in  relazione  all'art.  7  C.E.D.U.,  senza
prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile la norma  di
cui all'art. 1, comma 6, lettera b), legge 9 gennaio 2019,  n.  3  ai
soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. 
    Consegue la sospensione del presente processo. 
    Rigetta  le  richieste  di  sospensione  o  di  dichiarazione  di
inefficacia degli ordini di esecuzione emessi dal P.G. 
    Ordina, a cura della cancelleria, l'immediata trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale nonche'  la  notifica  della  presente
ordinanza alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri  e  la
comunicazione  della  stessa  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento. 
      Cosi' deciso in Roma l'11 novembre 2019 
 
                       Il Presidente: Garofalo