N. 21 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 settembre 2019
Ordinanza del 20 settembre 2019 del Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di M. R.. Processo penale - Indagini preliminari - Prove illegittimamente acquisite - Perquisizioni e ispezioni compiute dalla polizia giudiziaria fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere - Caso di assenza di flagranza di reato e di perquisizione ai sensi dell'art. 103 del d.P.R. n. 309 del 1990 senza previa autorizzazione del pubblico ministero e nel caso in cui il pubblico ministero abbia successivamente convalidato senza motivare - Mancata previsione della sanzione della inutilizzabilita' ai fini della prova anche degli esiti probatori, compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, nonche' la deposizione testimoniale in ordine a tale attivita'. - Codice di procedura penale, art. 191.(GU n.8 del 19-2-2020 )
IL TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE sezione prima penale In composizione monocratica in persona del giudice dott. Stefano Sernia. All'udienza del giorno 20 settembre 2019, udite le parti ed interrogato l'imputato, tratto in stato di arresto davanti a questo Tribunale per la convalida dell'arresto e contestuale giudizio direttissimo, nel processo nei confronti di: M R. , nato il ... letti gli atti e sentite le parti, ha pronunziato la seguente Ordinanza Si procede a seguito di arresto dell'imputato e sua presentazione davanti a questo tribunale per la convalida ed il seguente giudizio direttissimo, relativamente all'accusa di aver detenuto, in data 16 settembre 2019 e presso la propria abitazione, circa 80,57 gr. di marijuana e circa 29,54 gr. di hashish, che si assumono destinate alla cessione a terzi; posto a conoscenza delle ragioni dell'arresto, l'imputato si e' avvalso della facolta' di non rispondere. Ne consegue che principale e fondamentale fonte di prova (tutte le altre, come ad es. il sequestro e l'accertamento speditivo svolto sulla sostanza sequestrata, avendo natura derivata dalla perquisizione) e' l'esito della perquisizione domiciliare, condotta dalla polizia giudiziaria ex art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 in forza, come si' legge nel relativo verbale, di un «fondato sospetto» basato su elementi assolutamente non esplicitati, verosimilmente fonti confidenziali, nonostante ne sia vietato ogni uso processuale (argomenta ex articoli 203, 273, comma 1 bis, 240 del codice di procedura penale): divieto che, a parere del giudicante, non puo' valere solo per l'Autorita' giudiziaria, ma per qualsiasi organo pubblico chiamato a compiere atti regolati dal codice di procedura penale e da norme (come ad es. quelle di cui agli articoli 103 del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 o 41 del TULPS) comunque aventi carattere processuale e che regolamentino l'intervento dei pubblici poteri su diritti costituzionalmente tutelati: intendere diversamente condurrebbe all'assurdo per cui l'Autorita' giudiziaria, cui la Costituzione affida, tra l'altro, compiti di tutela dei diritti costituzionali dei cittadini e della persona (cfr., ad es., gli articoli 13 e 14 della Costituzione) con funzioni di controllo sui pubblici poteri ed a garanzia che questi non ledano detti diritti fuori dei casi consentiti dalla legge, non potrebbe sindacare la ricorrenza o meno di tali ultimi casi. Occorre quindi interrogarsi sulla liceita' - e conseguente utilizzabilita' - degli elementi probatori acquisiti mediante una perquisizione eseguita pacificamente al di fuori della preventiva percezione di una situazione di flagranza, dei casi di flagranza, ed in forza di una denunzia di reato anonima, e che quindi non avrebbe assolutamente potuto essere utilizzata ne' posta a fondamento di alcun provvedimento. Va infatti premesso che dall'art. 382 del codice di procedura penale si evince che la situazione di flagranza - conformemente a quella che e' la sua ratio giustificatrice dell'intervento della polizia giudiziaria - e' quella che si presenta allorche' la consumazione del reato cade sotto la percezione degli organi di polizia giudiziaria, ovvero questi rilevano direttamente sulla persona del reo tracce altamente significative che egli abbia appena commesso un delitto; non vi e' invece flagranza di reato se di esso la polizia giudiziaria abbiano notizia da parte di terzi o in forza del successivo reperimento di indizi a carico del reo (cfr. ad es. quanto statuito dalla nota sentenza della Corte di cassazione SS. UU. n. 39131 del 24 novembre 2015, che ha precisato che «E' illegittimo l'arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell'immediatezza del fatto, poiche', in tale ipotesi, non sussiste la condizione di "quasi flagranza", la quale presuppone la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi proceda all'arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l'indiziato», e va in primo luogo escluso senz'altro che quella eseguita dalla polizia giudiziaria sia stata una perquisizione in flagranza di reato. Invero, la situazione di flagranza di reato, che evidentemente si e' manifestata solo dopo la perquisizione, non puo' aver quindi svolto la funzione di preventiva legittimazione di tale atto di ricerca della prova, che la legge ordinaria (articoli 354 e 356 del codice di procedura penale) e costituzionale (articoli 13 e 14 della Costituzione) assegnano solo invia eccezionale all'ambito dei poteri della polizia giudiziaria, in deroga al principio generale per cui simili atti, limitando la liberta' personale (e la inviolabilita' del domicilio per quel che attiene alla perquisizione domiciliare), possono essere disposti solo dall'Autorita' giudiziaria e nei casi e modi previsti dalla legge. La perquisizione, come indicato nel relativo p.v. e' stata quindi eseguita dalla polizia giudiziaria senza previa autorizzazione del pubblico ministero, in assoluta autonomia, in assenza di flagranza, e quale conseguenza di «motivi di sospetto» non esplicitati ne' rappresentati all'Autorita' giudiziaria e sottratti alla possibilita' di qualsiasi vaglio. Si pone quindi il problema della liceita' della perquisizione e della utilizzabilita' dei suoi esiti, laddove la perquisizione sia stata eseguita al di fuori dei limiti e delle forme previste dalla Carta costituzionale; ed il connesso e conseguente problema della costituzionalita' della disciplina di legge ordinaria vigente, quale risultante del diritto vivente nascente dalla monolitica giurisprudenza di legittimita' - stabilmente applicata anche in sede locale dal competente Tribunale del riesame e dalla Corte di appello - che vuole utilizzabili gli esiti di tali perquisizioni, pur nei casi in cui se ne riconosca l'illegittimita'. La questione e' gia' stata sollevata, anche se sotto profili e con argomentazioni non totalmente coincidenti, da questo stesso magistrato dapprima quale GUP, con ordinanza emessa in data 5 ottobre 2017, e successivamente nuovamente e piu' approfonditamente articolata con ulteriori ordinanze emesse, sempre in veste di GUP, di cui da ultimo quella emessa all'udienza del 12 dicembre 2017, sempre questo stesso giudicante ha poi nuovamente sollevato la questione, in veste di Giudice del dibattimento, nella date del 13 settembre 2018 (in due distinti processi) e 27 settembre 2018, ed in diverse successive occasioni, anche sviluppando ulteriori argomenti e profili; non risulta ancora intervenuta alcuna pronunzia della Corte costituzionale, e pertanto, anche per la rilevabilita', nel caso presente, di profili e questioni ulteriori rispetto a quelli oggetto delle precedenti ordinanze di rimessione, la questione viene nuovamente sollevata. Delle precedenti ordinanze si riproducono in questa sede le argomentazioni comuni al caso presente, con le ulteriori specificazioni date dal caso concreto, in cui la perquisizione e' stata eseguita dalla polizia giudiziaria senza nemmeno richiedere la preventiva autorizzazione al pubblico ministero, e senza che ricorressero, o quanto meno senza che fossero esplicitati, i particolari motivi di necessita' ed urgenza che non avessero reso possibile chiedere tale preventiva autorizzazione (che l'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990, tra l'altro, prevede possa essere resa oralmente, con ulteriori problemi di costituzionalita' affrontati da questo giudicante con altre ordinanze e che, tuttavia, in questa sede non interessano). Come gia' operato con alcune delle altre ordinanze di rimessione alla Corte, questo giudicante ritiene poi di dover trarre ulteriori argomentazioni, a sostegno dell'incostituzionalita' della disciplina data dal diritto vivente, che non riconosce l'inutilizzabilita' degli esiti delle perquisizioni eseguite dalla polizia giudiziaria fuori dei casi e dei limiti in cui la legge glielo consente, alla luce della sentenza emessa in data 27 settembre 2018 dalla Prima Sezione CEDU nel caso Brazzi contro Italia. Ritiene questo giudicante dover muovere il proprio ragionamento dal rilievo della cautela mostrata dal legislatore costituzionale, che ha assegnato solo all'Autorita' giudiziaria il potere di disporre (e, deve conseguentemente ritenersi, di convalidare) atti di perquisizione ed ispezione, purche' con provvedimento motivato (il che appare implicare non solo la necessita' della forma scritta - o comunque una forma di documentazione dell'eventuale autorizzazione orale, rimanendo altrimenti inverificabile ed insondabile la sussistenza o meno del requisito motivazionale - ma anche una motivazione effettivamente pertinente alla ricorrenza di ragioni atte a giustificare la perquisizione), a garanzia della verificabilita' della effettiva ricorrenza dei presupposti e della necessita' di procedere a tali atti; ed attribuendo tale potere alla polizia giudiziaria solo in casi eccezionali ed entro ambiti ben delimitati, fissati dalla legge, e con rispetto delle garanzie di liberta' della persona. I limiti fissati dalla legge devono essere necessariamente ritenuti, in ragione della previsione costituzionale che li assiste, come invalicabili e di stretta interpretazione; sicche' deve assolutamente rigettarsi qualsiasi interpretazione che, comunque, si risolva in una vanificazione dei limiti posti al loro esercizio ad opera della polizia giudiziaria o della stessa Autorita' giudiziaria (ad es., impedendo la verifica circa il rispetto di tali limiti, ivi compreso quello della motivazione del provvedimento giurisdizionale, sia esso di autorizzazione o di convalida; o stabilendo l'irrilevanza processuale di tali violazioni), o nella lesione - sia pure mediata - della liberta' personale. Invero, l'art. 13 della Costituzione (richiamato, quanto a garanzie e forme ivi previste, dall'art. 14 della Costituzione in tema di ispezioni, perquisizioni e sequestri eseguite nel domicilio) prescrive che ogni atto di limitazione della liberta' personale - tra i quali annovera non solo l'arresto o il fermo, ma anche le perquisizioni e le ispezioni personali - sia riservato ad «atto motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»; la norma costituzionale introduce quindi una riserva di legge e di provvedimento (motivato) dell'Autorita' giudiziaria, cui puo' derogarsi solo per casi eccezionali previsti dalla legge, atteso che la norma prosegue prevedendo che solo «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorita' di pubblica sicurezza puo' adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorita' giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni efficacia». L'art. 14 della Costituzione estende agli atti di perquisizione domiciliare le garanzie dettate per le perquisizioni personali, in considerazione della primaria importanza che la tutela dell'inviolabilita' del domicilio assume quale strumento di protezione della sfera spaziale in cui si svolge l'abituale esercizio di fondamentali diritti della persona; tutela costituzionalizzata, per il tramite dell'art. 117 della Costituzione (cfr. sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349/2007), anche dall'art. 8 della Carta Europea dei Diritti dell'Uomo, che sancisce il diritto della persona al rispetto del proprio domicilio - oltre che della propria vita privata e famigliare - anche dalle ingerenze pubbliche, legittime solo se previste dalla legge e necessitate da esigenze di (per quel che qui interessa) difesa dell'ordine e prevenzione dei reati. I suddetti diritti sono quindi assistiti - a sottolinearne l'importanza nell'assetto democratico dell'ordinamento repubblicano voluto dal Legislatore costituzionale come fondato sulla tutela di quelle liberta' individuali tendenzialmente negate o fortemente compresse dal precedente regime - da un corredo di significative cautele date dalla riserva di legge, dalla riserva del potere giudiziario, dall'obbligo che questo provveda con atto motivato. Solo in casi eccezionali di necessita' ed urgenza - che spetta alla legge indicare tassativamente - agli organi di pubblica sicurezza (e cioe' alle forze di polizia, che di tali compiti sono titolari, unitamente a quelli di polizia giudiziaria) e' attribuito un potere di intervento, provvisorio e soggetto a perdere ogni effetto in caso di mancata convalida da parte dell'Autorita' giudiziaria con provvedimento che, sebbene cio' non sia espressamente previsto dalla norma costituzionale, deve ritenersi debba anch'esso essere motivato, dato che non vi e' ragione di ritenere che il Legislatore costituzionale, per l'ipotesi di particolare delicatezza costituzionale data della convalida (la cui funzione e' verificare che la polizia giudiziaria non abbia agito in tali delicatissime materie abusando dei propri poteri, fuori dei casi in cui essi sono loro riconosciuti), abbia voluto esonerare l'Autorita' giudiziaria dalla necessita' di motivare i propri provvedimenti, che in tema di atti limitativi della liberta' personale gli e' specificamente imposta dall'art. 13, comma 2, della Costituzione (e come peraltro previsto gia' in via generale dall'art. 111, comma 6, della Costituzione per tutti i provvedimenti giurisdizionali). Come si e' accennato, tali garanzie sono estese dall'art. 14 della Costituzione anche al caso delle perquisizioni, ispezioni e sequestri domiciliari, giusta il richiamo che tale norma opera alle garanzie prescritte (dall'art. 13 della Costituzione) per la tutela della liberta' personale. La presente vicenda processuale si qualifica per la circostanza che la polizia giudiziaria abbia agito non solo in assenza di reato, non solo in forza di elementi indizianti non indicati e sottratti ad ogni sindacato da parte dell'Autorita' giudiziaria, ma anche senza nemmeno richiedere - come invece imposto dall'art. 103, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 - l'autorizzazione orale del pubblico ministero, ne' indicare le particolari ragioni di necessita' ed urgenza (che, tra l'altro, neppure emergono dagli atti) che possano aver reso impossibile anche contattare il pubblico ministero di turno per richiederne l'autorizzazione. Inoltre, va osservato, neppure puo' ritenersi che tale illegittima attivita' di perquisizione sia stata altrimenti successivamente «sanata» dal provvedimento di convalida della perquisizione, risultando anzi l'assenza, in detto provvedimento, di una motivazione specificamente pertinente e non apodittica e meramente assertiva, circa la legittimita' della perquisizione, leggendosi nel provvedimento con cui il pubblico ministero ha, con unico atto (come d'uso), convalidato sia la perquisizione che il sequestro, «che l'attivita' di polizia giudiziaria che ha portato al sequestro e' stata legittimamente compiuta», senza spiegare il perche' di tale asserzione, e per il resto motivando solo sulla legittimita' del sequestro in relazione alla natura illecita della res che ne e' stata oggetto. Puo' qui tralasciarsi la considerazione di tutti i casi in cui norme speciali hanno ampliato i casi in cui alla polizia giudiziaria e' consentito procedere ad atti di ispezione e perquisizione, e ci si puo' limitare ad osservare che i casi maggiormente ricorrenti, dati dalle ipotesi di cui all'art. 4 della legge n. 152/1975, all'art. 41 TULPS, ed all'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990, pongono, a fondamento dei poteri eccezionali di perquisizione di polizia giudiziaria fuori dei casi di flagranza, la necessaria ricorrenza di situazioni oggettive («specifiche o concrete circostanze di tempo o di luogo»; «fondato motivo»; «indizio» ecc.) atte a significare una qualificata (in termini processuali) probabilita' di attuale commissione di specifici delitti (tra i quali quelli relativi alla detenzione di stupefacenti). Fuori delle ipotesi speciali appena richiamate, la polizia giudiziaria puo' procedere a perquisizione domiciliare (o personale) solo in caso di flagranza di reato; e l'Autorita' giudiziaria deve operare un controllo effettivo sulla legalita' di tali perquisizioni, emettendo quindi un decreto specificamente motivato. Ed invero, sviluppando ulteriormente l'argomento gia' svolto con le precedenti ordinanze di rimessione, va ritenuto che nel disegno costituzionale - che intende fondare uno Stato di pieno diritto, retto dal principio di legalita', con limiti ai poteri non solo della polizia gudiziaria, ma anche della stessa Autorita' giudiziaria (tra i quali la riserva di legge e l'obbligo di motivazione dei provvedimenti), e previsione di garanzie giurisdizionali a verifica e controllo del modo e dei casi in cui le forze di polizia usino dei loro poteri, al fine di evitarne l'abuso - non possano essere tollerate deroghe ai presupposti di fatto che legittimino la compressione di diritti costituzionali ad opera delle forze di Polizia, ne' deroghe ai requisiti di forma, richiesti dalla Costituzione, per i provvedimenti dell'A.G., ne' possono sussistere limiti alla verifica giurisdizionale suddetta. Ammettere quindi che la polizia giudiziaria possa procedere a perquisizione fuori dei casi di flagranza senza indicare gli elementi di fatto che giustifichino tale eccezionale deroga ai principi costituzionali, o senza nemmeno chiedere la autorizzazione orale del pubblico ministero ne' spiegare per quali ragioni impellenti non possa aver adempiuto a tale «minimum» di attivazione dei poteri di controllo dell'Autorita' giudiziaria, equivale ad acconsentire a che le forze di polizia e la stessa Autorita' giudiziaria inquirente possano aggirare le cautele che la Costituzione ha preposto a garanzia del corretto esercizio dei poteri della polizia giudiziaria, ed a garanzia che l'Autorita' giudiziaria eserciti effettivamente il potere di controllo e verifica che la Costituzione le demanda sugli atti di' polizia giudiziaria interferenti con liberta' costituzionalmente garantite. Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto conseguente, che, a fondamento della legittimita' di una perquisizione, e dell'utilizzabilita' dei suoi esiti, debba essere necessario che l'Autorita' giudiziaria abbia effettivamente preventivamente e con atto motivato autorizzato la perquisizione, o, successivamente, e sempre con atto motivato, verificato la ricorrenza della condizione di flagranza (o altra situazione prevista da norma speciale), che legittimasse l'esercizio dei poteri di accesso domiciliare o perquisizione personale in capo alla polizia giudiziaria; in caso contrario si avrebbe - oltre che degli articoli 13 e 14 della Costituzione - una violazione degli articoli 111 e 117 della Costituzione (con riferimento all'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo) essendo solo apparente la possibilita' di godere dell'esame di un giudice imparziale ed indipendente, laddove questo Giudice non abbia un adeguato potere di verifica delle circostanze costituenti elementi a carico dell'imputato. E' bene sottolineare che questo Giudice ha sottolineato i profili di possibile incostituzionalita' di interpretazioni che ammettano, a presupposto degli atti di perquisizione, elementi probatori particolarmente deboli o inutilizzabili, al solo fine di far risaltare l'importanza da riconoscersi alla tutela della liberta' personale e dell'inviolabilita' del domicilio e come tali materie siano uno dei punti qualificanti dell'effettivita' di uno Stato di diritto, come disegnato dalla Costituzione e dalla CEDU, in cui il riconoscimento di diritti fondamentali della persona e' necessariamente accompagnato dalla previsione di un Giudice non solo imparziale ed indipendente, ma anche dotato degli strumenti di verifica e controllo atti ad assicurarne l'effettiva tutela; peraltro, in uno Stato di diritto, lo Stato ed i suoi organi sono per primi vincolati al rispetto delle leggi di cui pur pretendono l'osservanza da parte dei consociati, e cio' comporta non solo l'impegno a non violare tali leggi, ma anche a garantire l'effettivo rispetto dei diritti che tali leggi prevedono ed attribuiscono. Nella giurisprudenza della Corte di cassazione si rinvengono pronunzie che statuiscono la nullita' del decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero in base a notizie confidenziali o denunzie anonime: Sez. 6, Sentenza n. 34450 del 22 aprile 2016 , che ha statuito che «Sulla base di una denuncia anonima non e' possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l'esistenza di indizi di reita'. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l'attivita' di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi estremi utili per l'individuazione di una «notitia criminis». (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto legittimi l'attivita' di perquisizione ed il sequestro di un telefono cellulare e di materiale informatico eseguiti a seguito di un'attivita' investigativa, avviata sulla base di una denuncia anonima, nel corso della quale era emersa la pubblicazione in rete di numerosi post a contenuto diffamatorio pubblicati mediante l'account creato sul social network facebook a nome dell'imputato, indagato in relazione ai reati di cui agli articoli 278, 291 e 214 del codice penale ); Sez. 6, Sentenza n. 36003 del 21 settembre 2006, che ha statuito che «Sulla base di una denuncia anonima non e' possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l'esistenza di indizi di reita'. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l'attivita' di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi estremi utili per l'individuazione di una «notitia criminis». (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che la polizia giudiziaria aveva legittimamente proceduto alla perquisizione di un'autovettura e al conseguente sequestro di sostanza stupefacente, dopo aver avviato, a seguito di una denuncia anonima, un'indagine sul posto attraverso la quale aveva acquisito la notizia di reato); Sez. 5, Ordinanza n. 37941 del 13 maggio 2004, che ha statuito che: «Il decreto di perquisizione e sequestro emesso a seguito di denuncia anonima, ed utilizzato come mezzo di acquisizione di una "notitia criminis" e non come mezzo di ricerca della prova, e' nullo. Infatti la denuncia confidenziale o anonima, che non e' inseribile agli atti e non e' utilizzabile, non puo' essere qualificata come una notizia di reato idonea a dare inizio alle indagini preliminari, cosicche' l'accusa non puo' procedere a perquisizioni, sequestri ed intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l'esistenza di indizi di reita'. La Suprema Corte ha altresi' avuto modo di osservare che, ovviamente, anche la polizia giudiziaria - laddove norme di legge le attribuiscano il potere di eseguire perquisizioni fuori dei casi di flagranza - e' tenuta al preciso rispetto dei presupposti posti da tali norme, e non puo' operare sulla base di meri sospetti: Sez. 6, Sentenza n. 40952 del 15 giugno 2017, che ha statuito che «E' configurabile l'esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza ad un pubblico ufficiale che pretende di eseguire presso il suo domicilio una perquisizione finalizzata, ai sensi dell'art. 4, legge 22 marzo 1975, n. 152, alla ricerca di armi e munizioni fondata su meri sospetti e non su dati oggettivi certi, anche solo a livello indiziario, circa la presenza delle suddette cose nel luogo in cui viene eseguito l'atto. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la mancata convalida dell'arresto per il reato previsto dall'art. 337 del codice penale all'imputato per essersi opposto alla perquisizione disposta dopo la contestazione di una contravvenzione al codice stradale, senza che fossero emersi indizi significativi circa il possesso di armi o di oggetti atti ad offendere); Si rinvengono quindi una serie di pronunzie della Suprema Corte, che a parere di questo giudicante rispondono pienamente ai principi costituzionali e internazionali nella individuazione del minimum probatorio necessario a rendere legittima una perquisizione; tuttavia, non se ne traggono le dovute conseguenze in tema di utilizzabilita' degli esiti delle perquisizioni operate al di fuori dei presupposti di legge. Il caso presente differisce poi in parte da quelli considerati dalle richiamate pronunzie della Suprema Corte; il caso che qui viene in rilievo, infatti, riguarda una perquisizione operate dalla polizia giudiziaria fuori dei casi di flagranza, in forza di «sospetti», senza aver nemmeno chiesto l'autorizzazione orale del P.m., con atto poi oggetto di una convalida che non spende una concreta argomentazione sulla legittimita' della perquisizione, atteso che, leggendo il provvedimento di convalida, ad es., non e' dato comprendere su che basi la perquisizione sia stata convalidata, se non in forza della sua fruttuosita': come a dire che, purche' abbia portato ad un risultato (il reperimento di un corpo del reato, ad es.), la perquisizione debba sempre essere convalidata, in quello che appare essere un capovolgimento concettuale della nozione di flagranza, trasformata in un «posterius» rispetto all'atto che da essa, invece, dovrebbe derivare la propria legittimita'. Stante l'inutilizzabilita' della fonte anonima o confidenziale, e l'assenza di un provvedimento adeguatamente motivato ed atto a significare l'effettivo esercizio di un potere di controllo da parte dell'Autorita' giudiziaria circa la ricorrenza dei presupposti per potersi procedere a perquisizione, e non ricorrendo le ipotesi della flagranza o le altre ipotesi previste da leggi speciali che a tanto facultizzino le forze di polizia, deve ritenersi che gli atti di perquisizione, ispezione e sequestro da queste eseguiti siano stati compiuti in violazione di un divieto, derivante dalla generale riserva di tali atti alla sola Autorita' giudiziaria; la conseguenza, in base a quanto previsto dall'art. 191 del codice di procedura penale, che sancisce la inutilizzabilita' delle prove vietate dalla legge, dovrebbe quindi essere la inutilizzabilita' degli esiti di detta perquisizione; ma la giurisprudenza della Suprema Corte, come meglio oltre si dira', e' assolutamente di segno contrario, nonostante la sanzione dell'inutilizzabilita' sembri emergere gia' direttamente a livello di previsione costituzionale. Come si e' detto, gli articoli 13 e 14 della Costituzione (che infatti richiama le garanzie dell'art. 13 della Costituzione) prevedono che «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorita' di pubblica sicurezza puo' adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorita' giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni efficacia»; cio' comporta, a parere di questo Giudice, che gli atti di ispezione, perquisizione e sequestro abusivamente compiuti dalla polizia giudiziaria o non motivatamente convalidati dall'Autorita' giudiziaria rimangano senza effetto anche sul piano probatorio; la legge ordinaria ha quindi dato attuazione alla previsione costituzionale, prevedendo casi tassativi per l'esercizio dei poteri di arresto, fermo, perquisizione, ispezione e sequestro da parte delle forze di polizia, ed ha introdotto in via generale, con l'art. 191 del codice di procedura penale, la previsione della inutilizzabilita' delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge. Invero, anche a prescindersi poi dalla gia' chiara lettera dell'art. 13, comma 3, della Costituzione, gia' le ordinarie disposizioni processuali dovrebbero condurre al risultato interpretativo della inutilizzabilita' degli esiti della perquisizione illegittima, in presenza di una norma, come l'art. 191 del codice di procedura penale, che sanziona con l'inutilizzabilita' le prove acquisite in violazione di un divieto di legge. Va tuttavia rilevato che il diritto vivente, quale discendente dalla monolitica interpretazione che la giurisprudenza ha offerto delle norme di legge (in particolare, proprio dell'art. 191 del codice di procedura penale) dettate a sanzione di inutilizzabilita' dell'assunzione di prove vietate dalla legge, non assegna conseguenze di inutilizzabilita' agli esiti delle perquisizioni ed ispezioni compiute dalle forze di polizia fuori dei casi in cui la legge glielo consente, o in esecuzione di un atto giurisdizionale illegittimo. Affermando anzi l'utilizzabilita' probatoria del corpo di reato e delle cose pertinenti al reato acquisite grazie a tali perquisizioni ed ispezioni, anche se avvenute in violazione di un divieto, la giurisprudenza della Suprema Corte, a parere di questo Giudice, vanifica le garanzie costituzionali, dando luogo ad un diritto vivente che si pone in contrasto con esse, come meglio oltre si dira'. Come si e' osservato, l'esecuzione di una perquisizione fuori dei casi o delle forme imposte dalla Costituzione e dalla legge che ne sia attuazione, dovrebbe condurre all'inutilizzabilita' probatoria degli esiti della perquisizione e del sequestro, in forza di quanto previsto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, che espressamente statuiscono che detti atti, nei casi suddetti, «si intendono revocati e restano privi di ogni efficacia»: con linguaggio la cui chiarezza non e' stata forse finora adeguatamente apprezzata, il Legislatore costituzionale aveva cioe' chiaramente introdotto la sanzione dell'inutilizzabilita' degli esiti degli atti di polizia giudiziaria illegittimamente invadenti la sfera della liberta' personale. Ed invero, la sanzione delle «revoca e perdita di ogni efficacia» e' dalla norma costituzionale assegnata non solo alla illegittima esecuzione di atti di arresto o di fermo, ma genericamente e complessivamente al caso dell'adozione dei «provvedimenti» di polizia, in materia di liberta' personale, fuori dei casi previsti dalla legge; e - a meno di voler affermare che il Legislatore costituzionale abbia impiegato con imprecisione e scarsa padronanza la lingua italiana - i provvedimenti in questione non possono non essere che tutti quelli contemplati dalla norma stessa, e quindi anche le ispezioni e le perquisizioni personali, che l'art. 13 della Costituzione tutti ricomprende nell'ambito degli atti che limitano la liberta' personale. Non appare quindi corretta l'interpretazione che voglia limitare la previsione costituzionale della «perdita di efficacia» ai soli provvedimenti soppressivi della liberta' personale, quali l'arresto ed il fermo, atteso che l'art. 13 della Costituzione utilizza una formula omnicomprensiva (i «provvedimenti provvisori» adottabili dalla p.g.) che a tutti i provvedimenti da detta norma contemplati risulta riferirsi, come evincibile anche dalla disciplina adottata dall'art. 14 della Costituzione, che espressamente li richiama «nominatim» («ispezioni, perquisizioni o sequestri») prevedendone l'adottabilita' da parte della polizia giudiziaria «secondo le garanzie prescritte per la tutela della liberta' personale». Cio' precisato, va osservato che l'unica efficacia perdurante nel tempo (e di cui la norma costituzionale si e' preoccupata di prevedere la cessazione), che puo' ipotizzarsi rispetto ad atti di perquisizione o ispezione che siano gia' stati compiuti e terminati nella loro esecuzione (come e' necessariamente, dato che ne e' prevista la convalida entro novantasei ore al massimo dalla loro esecuzione), e' solo quella che attiene alla loro capacita' probatoria; la sanzione di perdita dell'efficacia equivale quindi a quella - nel linguaggio che il codice di procedura repubblicano ha adottato quarant'anni dopo l'approvazione della Costituzione - della inutilizzabilita' introdotta dall'art. 191 del codice di procedura penale per le prove assunte in violazione di un divieto di legge. E' bene poi precisare che, se l'art. 13 della Costituzione riconnette la conseguenza delle perdita di efficacia degli atti di polizia, alla circostanza che essi non vengano convalidati dall'Autorita' giudiziaria. in un termine dato, la ratio della norma costituzionale sarebbe senz'altro frustrata se la convalida si risolvesse in una pura forma non esprimente un effettivo controllo circa la legalita' dell'atto di polizia giudiziaria; di qui la prescrizione (a parere di questo Giudice evincibile dal comma 2 dell'art. 13 della Costituzione, come si e' gia' osservato) che l'atto di convalida debba essere motivato, poiche' e' solo con un atto avente tali caratteristiche che l'art. 13 della Costituzione consente che l'Autorita' giudiziaria incida sulla liberta' personale: e non avrebbe senso prevedere la necessita' dell'atto motivato allorche' l'Autorita' giudiziaria, titolare in via ordinaria di tale potere, proceda di sua iniziativa, e non gia' allorche' debba verificare che la polizia giudiziaria non abbia esorbitato dai (od addirittura abusato dei) casi del tutto eccezionali in cui la legge le concede di intervenire in materia di liberta' personale. E' quindi ovvio che, nel sistema delineato dall'art. 13 della Costituzione, la convalida operi in quanto espressione di un effettivo potere di verifica in ordine alla concreta ricorrenza dei presupposti legali di esecuzione della perquisizione personale (non e' un caso, ad es., che lo stesso art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 prevede, come peraltro e' ovvio, che l'Autorita' giudiziaria convalidera' la perquisizione «ove ne ricorrano i presupposti»), e non sia sufficiente un mero provvedimento di convalida assolutamente immotivato sulla ravvisabilita' della situazione legittimante la perquisizione, personale o domiciliare: situazione che, nel vigente sistema, e' data fondamentalmente dalla ricorrenza della flagranza del reato o dalla ricorrenza di fondate ragioni che inducano a ritenere che sia in corso l'esecuzione di un delitto in materia di stupefacenti o armi (con riferimento alle due norme - gli articoli 103 del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 e 41 TULPS - legittimanti la perquisizione fuori dei casi di flagranza, di maggiore rilevanza statistica). Peraltro, non solo le norme nazionali, costituzionali e di legge ordinaria, impongono che la polizia giudiziaria proceda a perquisizioni solo nei casi tassativamente stabiliti dalla legge, e che il loro operato sia sottoposto ad un effettivo controllo da parte dell'Autorita' giudiziaria. Infatti, a proposito della necessita' di una valutazione concreta e condivisibile da parte dell'Autorita' giudiziaria, circa la ricorrenza di ragioni adeguatamente giustificatrici dello esercizio del potere di perquisizione, va anche richiamata, per l'assoluta importanza della fonte, che assegna alla decisione rilievo costituzionale ex art. 117 della Costituzione, la sentenza 16 marzo 2017, Modestou c. Grecia, con la quale la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (d'ora in poi per brevita' CEDU) ha ritenuto essersi verificata violazione dell'art. 8 Cedu, in un caso in cui era stata eseguita perquisizione presso il domicilio personale e professionale del ricorrente senza alcun controllo giurisdizionale ex ante e sulla scorta di un mandato di perquisizione generico; ne' era stato previsto un immediato controllo giurisdizionale ex post, considerato che la Corte d'appello, adita dal ricorrente, aveva respinto la doglianza non solo piu' di due anni dopo la perquisizione in questione, ma nemmeno indicando neppure i motivi «rilevanti e sufficienti» giustificativi della perquisizione: sentenza dalla quale si trae quindi conferma che, secondo le norme della CEDU, nella vincolante interpretazione offertane dalla Corte EDU, l'Autorita' giudiziaria debba operare una illustrazione motivata (e condivisibile) delle ragioni della perquisizione, al fine di rendere verificabile la legittimita' dell'esercizio del relativo potere; statuizione che, se vale per le perquisizioni autorizzate dall'Autorita' giudiziaria, deve a maggior ragione valere per quelle operate direttamente dalla polizia giudiziaria e successivamente convalidate dalla Autorita' giudiziaria. Poiche' quindi e' ad un provvedimento adeguatamente motivato che l'art. 13 della Costituzione ricollega la salvezza degli effetti dell'operato della polizia giudiziaria, ne consegue che, sebbene le nullita' degli atti per difetto di motivazione siano generalmente rilevabili solo su eccezione di parte, in questo caso debba invece ritenersi che la ricorrenza di un atto di convalida adeguatamente motivato, nella sua funzione costituzionale di salvezza degli effetti dell'atto di polizia giudiziaria, sia un elemento della fattispecie «sanante» la cui ricorrenza debba essere verificata d'ufficio; cosi' come dovra' verificarsi che, a prescindere da quanto eventualmente affermato col provvedimento di convalida (si pensi ad es. all'ipotesi di una motivazione non pertinente alle ragioni giustificatrici della perquisizione, come e' nel caso in oggetto; o ad una motivazione non aderente ai dati fattuali emergenti dagli atti; o che da questi tragga conclusioni assolutamente illogiche o assolutamente non giustificate), ricorressero effettivamente i presupposti perche' la polizia giudiziaria esercitasse i suoi poteri previsti in via del tutto eccezionale. Tanto premesso, va peraltro preso atto che tali esiti epistemologici sono estranei alla interpretazione accolta dalla giurisprudenza assolutamente dominante che, a far data dall'insegnamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza 5021 del 27 marzo 1996, ha ritenuto la piena utilizzabilita' probatoria degli esiti delle perquisizioni e sequestri eseguiti dalla polizia giudiziaria al di fuori dei casi previsti dalla legge, pur prendendo le mosse da statuizioni di principio di segno apparentemente opposto alle conclusioni finali. In realta', con la suddetta sentenza, le Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione hanno in primo luogo affermato a chiare lettere che la conseguenza di un'attivita' di illecita acquisizione della prova, nello specifico una perquisizione illegittima, non puo' limitarsi a mere sanzioni amministrative, disciplinari o penali nei confronti dell'autore dell'illecito, ma deve comportare l'inutilizzabilita' della prova stessa, statuendo che: «non e' certamente difficile riconoscere che allorquando una perquisizione sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non nei «casi» e nei «modi» stabiliti dalla legge, cosi' come disposto dall'art. 13 della Costituzione, si e' in presenza di un mezzo di ricerca della prova che non e' piu' compatibile con la tutela del diritto di liberta' del cittadino, estrinsecabile attraverso il riconoscimento dell'inviolabilita' del domicilio. L'illegittimita' della ricerca di una prova, pur quando non assuma le dimensioni dell'illiceita' penale (cfr. art. 609 c.p.), non puo' esaurirsi nella mera ricognizione positiva dell'avvenuta lesione del diritto soggettivo, come presupposto per l'eventuale applicazione di sanzioni amministrative o penali per colui o per coloro che ne sono stati gli autori. La perquisizione, oltre ad essere un atto di investigazione diretta, e' il mezzo piu' idoneo per la ricerca di una prova preesistente e, quindi, diviene partecipe del complesso procedimento acquisitivo della prova, a causa del rapporto strumentale che si pone tra la ricerca e la scoperta di cio' che puo' essere necessario o utile ai fini della indagine : nessuna prova, diversa da quelle che possono formarsi soltanto nel corso del procedimento, potrebbe essere acquisita al processo se una sua ricerca non sia stata compiuta e questa non abbia avuto esito positivo. Se e' vero che una perquisizione, quale mezzo di ricerca di una prova, non puo' essere a quest'ultima assimilata e, quindi, e' di' per se' stessa sottratta alla materiale possibilita' di essere suscettibile di una diretta utilizzazione nel processo penale, e' altrettanto vero che il rapporto funzionale che avvince la ricerca alla scoperta non puo' essere fondatamente escluso. Ne consegue che il rapporto tra perquisizione e sequestro non e' esauribile nell'area riduttiva di una «nera consequenzialita' cronologica, come si era affermato in numerose pronunce di questa Corte prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, e com'e' stato, anche in epoca successiva, qualche volta, ribadito (cfr.Sez.1- 17 febbraio 1976 ric. Cavicchia ;Sez. VI-23 gennaio 1973 ric.Ferraro; Sez. V- 24 novembre 1977 ric.Manussardi; Sez.1-15 marzo 1984 ric.Zoccoli; Sez.VI-24 aprile 1991 ric.Lione; Sez. V-12 gennaio 1994 ric.Vetralla, etc): la perquisizione non e' soltanto l'antecedente cronologico del sequestro, ma rappresenta lo strumento giuridico che rende possibile il ricorso al sequestro.» Proseguiva inoltre la Corte osservando che, pur vero che esista una distinzione concettuale tra la perquisizione, quale mezzo di ricerca della prova, ed il sequestro quale strumento di acquisizione della prova, cio' non ha alcuna rilevanza ai fini della inutilizzabilita' della prova acquista a seguito di una perquisizione illegittima, atteso che: «la stessa utilizzabilita' della prova e' pur sempre subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento acquisitivo che si sottragga, in ogni sua fase, a quei vizi che, incidendo negativamente sull'esercizio di diritti soggettivi irrinunciabili, non possono non diffondere i loro effetti sul risultato che, attraverso quel procedimento, sia stato conseguito. Del resto, non puo' neppure ignorarsi che e' lo stesso ordinamento processuale ad aver riconosciuto il rapporto funzionale esistente tra perquisizione e sequestro : l'art. 252 codice procedura penale impone il sequestro delle "cose rinvenute a seguito della perquisizione" e l'art. 103 comma VII° dello stesso codice espressamente sancisce l'inutilizzabilita' dei risultati delle perquisizioni allorquando queste sono state eseguite in violazione delle particolari garanzie di cui debbono fruire i difensori per poter esercitare congruamente il diritto di difesa. E non si vede perche' a diverse ed opposte conclusioni dovrebbe pervenirsi quando una perquisizione sia stata comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative che assicurano, in concreto, l'attuazione di quella ineludibile garanzia costituzionale, nei limiti in cui essa e' stata riconosciuta dall'art. 13 comma 2° della Costituzione: si tratta pur sempre di un procedimento acquisitivo della prova che reca l'impronta ineludibile della subita lesione ad un diritto soggettivo, diritto che, per la sua rilevanza costituzionale, reclama e giustifica la piu' radicale sanzione di cui l'ordinamento processuale dispone, e cioe' l'inutilizzabilita' della prova cosi' acquisita in ogni fase del procedimento.» Il prosieguo della statuizione della Suprema corte si risolveva peraltro, ed alquanto sorprendentemente, nella pratica vanificazione della portata di tali principi appena enunciati; continuava infatti detta sentenza affermando comunque valido il sequestro, perche' atto dovuto, allorche' avesse ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato; pertanto, di fatto, l'unico sequestro che sarebbe stato inutilizzabile a fini probatori, sarebbe stato quello gia' di per se' inutile e che non avrebbe quindi comunque dovuto essere disposto, perche' non relativo ne' al corpo del reato, ne' a cose pertinenti al reato; affermava infatti la Suprema corte a SSUU: «Orbene, se e' vero che l'illegittimita' della ricerca della prova del commesso reato, allorquando assume le dimensioni conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a tutela dei diritti soggettivi oggetto di specifica tutela da parte della Costituzione, non puo', in linea generale, non diffondere i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di acquisire, e' altrettanto vero che allorquando quella ricerca, comunque effettuata, si sia conclusa con il rinvenimento ed il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e' lo stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti: in questa specifica ipotesi, e ancorche' nel contesto di una situazione non legittimamente creata, il sequestro rappresenta un "atto dovuto", la cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilita' penali, quali che siano state, in concreto, le modalita' propedeutiche e funzionali che hanno consentito l'esito positivo della ricerca compiuta. Con cio' non si intende affatto affermare che l'oggetto del sequestro, a causa della sua intrinseca illiceita', ovvero per il rapporto strumentale che esso puo' esprimere in relazione al reato commesso, possa, per cio' solo, dissolvere quella connessione funzionale che lega la perquisizione alla scoperta ed all'acquisizione di cio' che si cercava, ma si vuole soltanto precisare che allorquando ricorrono le condizioni previste dall'art. 253 comma l° codice procedura penale gli aspetti strumentali della ricerca. pur rimanendo partecipi del procedimento acquisitivo della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di un obbligo giuridico che trova la sua fonte di legittimazione nello stesso ordinamento processuale ed ha una sua razionale ed appagante giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia giudiziaria non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente legati al suo "status", qualunque sia la situazione - legittima o no - in cui egli si trovi ad operare». Tali statuizioni avrebbero potuto, in verita', risolversi nell'asserzione della legittimita' del sequestro, ferma restando la inutilizzabilita' probatoria del suo oggetto; ma le SS.UU., invece, concludevano osservando che gli agenti di polizia giudiziaria avrebbero poi potuto testimoniare sugli esiti della perquisizione, ferma restando l'inutilizzabilita' di essa in quanto tale (e cioe', par di capire, con inutilizzabilita' solo del verbale che ne documenta modalita', tempo, luoghi e risultato). Da tale arresto delle Sezioni Unite ha tratto origine e sviluppo una giurisprudenza che si e' ancorata unicamente alle statuizioni circa la legittimita' ed utilizzabilita' a fini probatori del sequestro, rimanendo apparentemente dimentica dell'insegnamento e dei principi affermati dalle stesse SS.UU. nella prima parte della propria statuizione, e che probabilmente avrebbero meritato una riflessione e sviluppo ulteriori: come, ad es., quella che volesse limitare l'utilizzabilita' probatoria del sequestro alla res in quanto tale, cioe' nella sua materiale idoneita' a provare la sussistenza del fatto (si pensi al rinvenimento di un'arma o di sostanza stupefacenti, idonei a provare i reati di detenzione illecita di tali oggetti) ed a fungere da eventuale supporto di tracce di reato (impronte digitali, materiale biologico suscettibile di comparazione del DNA) aventi carattere individualizzante: interpretazione, questa, sostenuta da questo Giudice in precedenti procedimenti, ma non condivisa dai Giudici competenti per i successivi gradi, che si sono sempre rimessi alla giurisprudenza che si e' richiamata e che delle citate SS.UU. coglieva, sostanzialmente, solo quanto risultante dal dispositivo e dalla massima. Come si e' detto, la successiva giurisprudenza di legittimita' di' e' monoliticamente assestata su tali esiti interpretativi, confermando reiteratamente la legittimita' del sequestro conseguente ad una perquisizione illegittima, e la sua piena utilizzabilita' probatoria; si citano, ad es., ed in assenza di pronunzie di segno contrario, che lo scrivente magistrato non e' riuscito a rinvenire: Sez. 3, Ordinanza n. 3879 del 14 novembre 1997; Sez. 1, Sentenza n. 2791 del 27 gennaio 1998, Sez. 5, Sentenza n. 6712 del 7 dicembre 1998, Sez. 3, Sentenza n. 1228 del 17 marzo 2000, Sez. 4, Sentenza n. 8052 del 2 giugno 2000, Sez. 6, Sentenza n. 3048 del 3 luglio 2000, Sei 2, Sentenza n. 12393 del 10 agosto 2000, Sei 1, Sentenza n. 45487 del 28 settembre 2001, Sez. 1 Sentenza n. 41449 del 2 ottobre 2001, Sez. 1, Sentenza n. 497 del 5 dicembre 2002, Sez. 5, Sentenza n. 1276 del 17 dicembre 2002, Sez. 2, Sentenza n. 26685 del 14 maggio 2003, Sez. 2, Sentenza n. 26683 del 14 maggio 2003, Sez. 1, Sentenza n. 18438 del 28 aprile 2006, Sez. 2, Sentenza n. 40833 del 10 ottobre 2007, Sez. 6, Sentenza n. 37800 del 23 giugno 2010, Sez. 1, Sentenza 17. 42010 del 28 ottobre 2010, Sez. 2, Sentenza n. 31225 del 25 giugno 2014, Sez. 3, Sentenza n. 19365 del 17 febbraio 2016 (quest'ultima addirittura nel senso della legittimita' di perquisizioni ordinate od eseguite in forza di sole fonti confidenziali), Sez. 2, Sentenza n. 15784 del 23 dicembre 2016, Sez. 5, Sentenza n. 32009 del 8 marzo 2018. Anche le sentenze gia' richiamate in precedenza, che pur affermavano l'illegittimita' del sequestro o della perquisizione (o intercettazione) operate in forza di fonti confidenziali o anonime, sembrano in realta' essersi arrestate (tranne che per il caso delle intercettazioni, e verosimilmente in quanto per esse gia' esiste un sistema puntualmente codificato di inutilizzabilita' delle stesse, che funge da ancoraggio giuridico-culturale all'accettazione di ulteriori ipotesi di inutilizzabilita') al mero rilievo dell'illegittimita' dell'atto (e dell'obbligo di restituzione della res), senza trarne sino in fondo le conseguenze relative al regime di inutilizzabilita' probatoria. Alla luce dei richiamati principi espressi dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, questo giudicante ritiene che le norme vigenti, per come interpretate dalla giurisprudenza assolutamente prevalente (e tale da dar luogo ad un vero e proprio diritto vivente, che condurrebbe - e gia' ha condotto in altri casi - alla riforma della sentenza che questo Giudice dovesse adottare discostandosi da esso), non siano rispettose del dettato costituzionale, ed in particolare degli articoli 3, 13, 14 e 117 (con riferimento all'art. 8 della Convenzione EDU) della Costituzione, nella parte in cui le norme di diritto ordinario consentono l'utilizzabilita' processuale - mediante deposizione testimoniale di chi abbia operato la perquisizione od ispezione illegittima, o la lettura od altra forma di utilizzazione del verbale di quanto risultante dalla perquisizione e dal sequestro - della valenza probatoria degli esiti di una perquisizione o ispezione e di quanto eventualmente sequestrato in occasione dell'esecuzione di tali atti, allorche' tali atti di ricerca della prova siano stati eseguiti dalla polizia giudiziaria senza il rispetto dei presupposti e delle forme dettati dalla legge, o convalidati dall'Autorita' giudiziaria fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria Lo consentano, o con forme tali da rendere meramente apparente l'effettivo esercizio del potere di verifica presupposto di quello di convalida; tra tali casi, deve farsi rientrare quello della polizia giudiziaria che proceda a perquisizione ex art. 103 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90 fiori dei casi di flagranza, senza chiedere l'autorizzazione orale al Pubblico ministero e senza che ricorrano casi di necessita' o urgenza che rendano impossibile il contatto con il Pubblico ministero, nonche' quello della convalida di tali perquisizioni, emessa dal Pubblico ministero senza esprimere le ragioni atte a giustificare la violazione del domicilio o della liberta' personale, integrate dagli di perquisizione domiciliare o personale. L'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza della illegittimita' della perquisizione sulla utilizzabilita' dei suoi esiti si risolverebbe quindi, del tutto paradossalmente, nella teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine (e sempre, ovviamente, che la Corte costituzionale ne abbia dichiarato l'incostituzionalita') le leggi contrarie ai principi costituzionali, ma efficacissimi ed inattaccabili gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino. Tale giurisprudenza, inoltre: a) sembra operare una confusione di piani tra il sequestro inutilizzabile ed il sequestro inutile probatoriamente, posto che, di fatto, e data l'estensione concettuale della nozione di cose pertinenti al reato, finisce con escludere la validita' - in caso di perquisizione illegittima - solo del sequestro inutile: il che e' assolutamente inconferente rispetto alle tematiche e problematiche poste dall'art. 191 codice di procedura penale; b) non considera che il sequestro non e' una prova, ma il mezzo che serve ad assicurare al processo la res che puo' essere fonte di prova; c) non considera che la valenza probatoria di una determinata res e' generalmente data non dalla sola cosa in se' (la quale puo' generalmente provare la sussistenza del fatto ma non necessariamente chi lo abbia commesso, se non nel caso in cui sulla res siano rinvenibili tracce biologiche, papillari o di altro genere che ne permettano la riconducibilita' ad un determinato soggetto), ma anche dalle circostanze del suo rinvenimento, specie allorche' si tratti appunto del corpo del reato, essendo il suo possesso (svelato dalla perquisizione) ad essere indizio grave di commissione del reato stesso; d) non osserva che, pertanto, cio' che sommamente rileva non e' tanto la legittimita' del sequestro, quanto quella della perquisizione tramite la quale si e' rinvenuta la res (con suo successivo sequestro), atteso che e' la perquisizione che generalmente comprova quella relazione personale tra la cosa indiziante di delitto e l'autore dello stesso; e) non avverte che la ratio della norma di cui all'art. 191 codice di procedura penale, che prevede l'inutilizzabilita' delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge, e' quella di offrire un valido presidio ai diritti costituzionalmente garantiti, disincentivandone le violazioni finalizzate all'acquisizione della prova, rendendone inutilizzabili gli esiti probatori (si veda ad es. la disciplina della inutilizzabilita' delle intercettazioni illegittime ex art. 271 codice di procedura penale; si pensi all'inutilizzabilita' ex art. 188 codice di procedura penale di una confessione assunta sotto tortura o sotto l'effetto di metodi che possano influire ulle capacita' di autodeterminazione della persona dichiarante; si considerino le conseguenze di un'acquisizione di tabulati del traffico telefonico eseguita dalla polizia giudiziaria in assenza di provvedimento motivato dell'Autorita' giudiziaria); f) non assegna adeguato valore alla circostanza che una perquisizione domiciliare o personale, eseguita da chi non ne ha il potere, e' un caso tipico di prova vietata dalla legge ed in violazione di' diritti costituzionali della persona (cfr. articoli 13 e 14 della Costituzione; art. 8 CEDU), e la conseguenza deve necessariamente essere la inutilizzabilita' dei suoi risultati (come previsto dall'art. 13 comma 3 della Costituzione), conformemente a quella che e' la ratio dell'art. 191 codice di procedura penale che, inibendo l'utilizzabilita' degli esiti delle prove vietate perche' assunte in violazione di diritti costituzionali, intende appunto scoraggiare la violazione di quei diritti costituzionali; g) non considera che ritenere altrimenti, lasciando aperta la possibilita' di una sorta di «sanatoria» ex post, legata agli esiti della perquisizione, equivale a negare la tutela del cittadino dai possibili abusi della polizia giudiziaria: tutela assicurata in via generale ed astratta dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, ma che verrebbe vanificata dall'incentivazione agli abusi per mancanza di conseguenze processuali relative alla inutilizzabilita' dei loro risultati; ed i drammatici fatti di Genova e di Bolzaneto appaiono esserne storica conferma e dimostrazione. Quella discendente dalla citata sentenza delle SS.UU. n. 5021 del 27 marzo 1996 appare quindi essere un'interpretazione dalla scarsa tenuta logica, idonea a fungere da vera e propria mina di irrazionalita', che si presta ad introdurre trattamenti irrispettosi del principio di eguaglianza delle situazioni processuali equiparabili: si pensi alla gia' richiamata giurisprudenza che riconosce la non utilizzabilita' di altre prove vietate, quali gli anonimi e le fonti confidenziali, nemmeno ai fini della legittimazione di una perquisizione. Tali considerazioni devono invece condurre a ritenere che una perquisizione eseguita in forza di elementi non utilizzabili, e senza che ricorresse gia' una preesistente situazione di flagranza, sia non solo illegittima, ma anche improduttiva di elementi utilizzabili ai fini della prova in danno dell'imputato, atteso che cio' non solo e' imposto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, ma anche da una piana lettura dell'art. 191 codice procedura penale rispettosa dei principi costituzionali, ma allo stato negata dal diritto vivente, il quale ultimo si pone pertanto in contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 13, 14 e 3 della Costituzione. Nei casi considerati ricorrerebbero infatti, a parere di questo Giudice, i presupposti di applicabilita' della conseguenza della inutilizzabilita' processuale ai sensi dell'art. 191 codice di procedura penale, in base ad una piana lettura della norma ed alla ratio della stessa, come colta al punto f) che precede; ed infatti, appare evidente che l'Autorita' giudiziaria - allorche' autorizza una perquisizione in forza di elementi inutilizzabili o senza il provvedimento formale imposto dalla Costituzione - o la polizia giudiziaria, allorche' proceda ad un atto di perquisizione fuori dei casi a lei consentiti, compiano un atto che e' loro vietato - e non semplicemente un atto irrituale o nullo, come pure talora si e' sostenuto in talune pronunzie della Corte di cassazione - atteso che sia la legge ordinaria che quella costituzionale prevedono una riserva del potere di perquisizione all'Autorita' giudiziaria, a sua volta subordinato al rispetto dei limiti posti dalla legge, nella delineazione di una serie di garanzie a tutela della effettivita' dello Stato di diritto (e delle liberta' individuali che questo deve garantire), in cui i poteri della polizia, degli organi amministrativi e della stessa Autorita' giudiziaria sono sottoposti al principio di legalita', nei casi che coinvolgono l'esercizio di diritti costituzionali fondamentali dei privati (quali la liberta' personale e quella domiciliare, che ex art. 14 comma 2 della Costituzione e' "aggredibile" solo "negli stessi casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della liberta' personale"). L'interpretazione dominante che, invece, comunque consente di «recuperare» ed utilizzare gli esiti delle perquisizioni illegittime, negando l'applicabilita' del divieto posto dall'art. 191 codice di procedura penale all'utilizzabilita' probatoria del corpo del reato o di cosa pertinente al reato e degli altri elementi conoscitivi acquisiti a seguito di perquisizione illegittima, e che riconosca effetti sananti all'atto con cui il Pubblico ministero affermi la legittimita' della perquisizione con motivazione apodittica o meramente assertiva, appare pertanto negare concreta attuazione a quanto previsto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione in ordine alla perdita di efficacia della perquisizione e delle ispezioni e dei sequestri ad esse conseguenti, allorche' eseguiti in violazione dei divieti; l'art. 191 codice di procedura penale, come esistente nel diritto vivente, appare quindi in contrasto con i predetti articoli 13 e 14 della Costituzione. Non e' peraltro fuori luogo osservare, come peraltro da tempo rilevato non solo dalla dottrina, ma anche dalla Suprema corte, che la ragione d'essere della disciplina delle inutilizzabilita' stabilita dall'art. 191 codice di procedura penale non e' tanto di ordine etico (e cioe', il rifiuto del legislatore di riconoscere valore probatorio ad atti illeciti), quanto di ordine politico-costituzionale, essendosi rilevato che l'effettivita' della tutela dei valori costituzionali che piu' facilmente vengono lesi in caso di assunzione di prova in violazione di un divieto, riposa nel negare ogni utilizzabilita' a quanto cosi' venga acquisito: atteso che, grazie a tale divieto di utilizzabilita', si scoraggeranno e disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con modalita' illegali (e talora francamente illecite), che violano i diritti costituzionali a cui presidio sono appunto posti i divieti rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali. La giurisprudenza formatasi sulla scorta della citata Corte di cassazione SS.UU. 5021/1996 realizza, pertanto, anche una violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto del tutto irragionevolmente ed a fronte di una palese identita' di ratio, nega la conseguenza dell'inutilizzabilita' di cui all'art. 191 codice di procedura penale a casi del tutto sovrapponibili ad altri (per certi versi addirittura meno gravi) per i quali la legge espressamente la prevede: basti pensare, ad es., non solo alle ipotesi di intercettazioni eseguite d'iniziativa dalla polizia giudiziaria e quindi in assenza di decreto motivato dell'Autorita' giudiziaria (caso sanzionato di inutilizzabilita' dall'art. 271 codice di procedura penale, avente la medesima ratio dell'art. 191 codice di procedura penale), ma anche al caso dell'acquisizione dei tabulati del traffico telefonico eseguito senza provvedimento motivato del Pubblico ministero, ipotesi che le stesse SS.UU. della Suprema Corte di cassazione hanno ritenuto dar luogo ad un'ipotesi di inutilizzabilita' della prova perche' acquista in violazione di un divieto di legge (cfr. Sei. U, Sentenza n. 21 del 13/07/1998). L'interpretazione stabilizzatasi dell'art. 191 codice di procedura penale, in tema di conseguenza di una perquisizione illegittima e di legittimita', per contro, del conseguente sequestro, si risolve quindi nell'operare anche una ingiustificata disparita' di trattamento tra indagati in situazioni del tutto analoghe, con conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione. Sempre in tema di violazione dell'art. 3 della Costituzione, appare necessario rilevare come tale norma si atteggi a scrigno in cui e' racchiuso e riassunto il principio di necessaria razionalita' dell'ordinamento dello Stato di diritto disegnato dalla Costituzione; razionalita' che risulta gravemente violata dalla corrente interpretazione circa la utilizzabilita' degli esiti delle perquisizioni illegittime; e cio' in quanto che: a) l'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza della illegittimita' della perquisizione sulla utilizzabilita' dei suoi esiti si risolve attualmente, in maniera del tutto paradossale, nella teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine le leggi incostituzionali (argomenta ex art. 30 comma 3 e 4 legge n. 87/1953), e la loro efficacia sospendibile dal giudice ordinario che ne ravvisi un possibile contrasto con le norme costituzionali, ma efficacissimi - e non disapplicabili ne' discutibili dal Giudice - e quindi inattaccabili, anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino; b) la suddetta interpretazione appare realizzare una negazione radicale dei principi dello Stato di diritto quale tratteggiato dalla Costituzione, racchiuso in germe nell'art. 3 della Costituzione (come gia' si e' osservato), e piu' in particolare sviluppato dall'art. 2 della Costituzione, in quanto finisce per risolversi nell'assenza di effettive garanzie contro violazioni dei diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali appare senz'altro rientrare quello alla liberta' personale, laddove invece il suddetto art. 2 della Costituzione impone alla Repubblica non solo di riconoscere tali diritti, ma di garantirli: il che implica la necessaria adozione di tutte le cautele necessarie non solo a punire, ma prima di tutto a scoraggiare la violazione di tali diritti; e la sanzione dell'inutilizzabilita' probatoria che discenderebbe dall'art. 191 codice di procedura prnale (nella lettura che risulterebbe dall'operazione di ortopedia costituzionale che questo Giudicante ritiene necessaria), nel deprivare di effetti processuali il risultato «probatorio» di tali violazioni, costituisce la prima e piu' efficace forma di garanzia che uno Stato di diritto possa assicurare ai diritti della persona; c) l'interpretazione che si avversa, inoltre, nega lo Stato di diritto quale configurato dall'art. 97 comma 3 della Costituzione, che vuole - con norma generale che appare applicabile anche alle definizione dei poteri dell'Autorita' giudiziaria e degli organi di polizia - l'azione dei pubblici poteri sottomessa al principio di legalita'; se, come gia' si e' osservato, in uno Stato di diritto, lo Stato ed i suoi organi sono per primi vincolati al rispetto delle leggi di cui pur pretendono l'osservanza da parte dei consociati, e se cio' comporta non solo l'impegno a non violare tali leggi, ma anche a garantire l'effettivo rispetto dei diritti che tali leggi prevedono ed attribuiscono, appare innegabile che ammettere l'efficacia - e per di piu' nel processo penale ed in aggressione ai diritti di liberta' - degli atti compiuti dai pubblici poteri in violazione di un divieto, appare negare anche il principio di legalita' di cui all'art. 97 della Costituzione, oltre ad attribuire all'azione illegale degli organi statuali una prevalenza sui diritti costituzionali dei consociati, che appare realizzare, sotto questo profilo, una ulteriore palese violazione dell'art. 3 della Costituzione, in un ordinamento che vuole centrali i diritti inviolabili della persona - e quindi quanto meno gli stessi sullo stesso piano di quelli della collettivita' e dello Stato - ma finisce invece per violare tale condizione di pari importanza per assegnare prevalenza all'interesse alla repressione dei reati; d) l'interpretazione di cui si contesta la costituzionalita', inoltre, viola l'art. 3 della Costituzione anche perche', del tutto irrazionalmente, convive con quella che riconosce l'inutilizzabilita' di prove che la legge vieta gia' solo in virtu' della loro non verificabilita' (scritti anonimi, fonti confidenziali), ed altresi' la nega a prove acquisite in diretta violazione di un divieto scaturente dalla legge (anche costituzionale) e che, comunque, si caratterizzano anch'esse per una ridotta verificabilita': si pensi appunto a come l'insondabilita' degli elementi che hanno spinto la pg alla perquisizione non consenta di verificare la genuinita' ed affidabilita' della "catena indiziaria" e di escludere che possano essere stati proprio i terzi autori della propalazione confidenziale o anonima, o addirittura - come talora e' purtroppo accaduto le stesse forze di polizia, ad introdurre nell'abitazione la «res illicita» costituente supposta prova del reato; cosi' evidenziandosi, sotto tale profilo, anche un contrasto con l'art. 24 della Costituzione, per l'evidente limite che la tesi dell'utilizzabilita' pone all'esplicazione del diritto di difesa, introducendo nell'ambito delle prove utilizzabili elementi di cui sia di fatto impossibile verificare approfonditamente la genuinita'. L'interpretazione consolidatasi si pone infine in contrasto con l'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, e quindi in contrasto con l'art. 117 della Costituzione che impone allo Stato italiano il rispetto delle Convenzioni internazionali, in quanto si risolve nel non adottare efficaci disencentivi agli abusi delle forze di polizia, e di qualsiasi organo dello Stato in genere, che, limitando la liberta' della persona, si risolvano in indebite interferenze nella sua vita privata o nel suo domicilio, non giustificate da oggettive esigenze di prevenzione o repressione dei reati; e sull'importanza internazionale del rispetto di tali diritti fondamentali, ai sensi dell'art. B della CEDU, si richiama la gia' menzionata sentenza 16 marzo 2017, Modestou c. Grecia, della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nonche', come si era anticipato, la piu' recente sentenza emessa in data 27 settembre 2018 dalla Prima Sezione CEDU nel caso BRAZZI contro ITALIA. Con tale ultima sentenza, in particolare, la Corte EDU ha osservato che la Convenzione EDU impone che, nell'ambito delle perquisizioni «il diritto interno offra garanzie adeguate e sufficienti contro l'abuso e l'arbitrarieta' (ricino, sopra citata, § 40, e Gutsanovi c. Bulgaria, n. 34529/10, § 220, CEDU 2013», garantendo "«controllo effettivo» delle misure contrarie all'articolo 8 della Convenzione (Lambert c. Francia, 24 agosto 1998, § 34, Recueil des arrets et decisions 1998-V)", pur osservando che «il fatto che una richiesta di mandato sia stata oggetto di un controllo giurisdizionale, non costituisce necessariamente, di per se', una garanzia sufficiente contro gli abusi», di talche' la Corte EDU ha ritenuto essenziale "esaminare le circostanze particolari del caso di specie e valutare se il quadro giuridico e i limiti applicati ai poteri esercitati costituissero una protezione adeguata contro il rischio di ingerenze arbitrarie delle autorita' (K.S e M.S. c. Germania, n. 33696/11, § 45, 6 ottobre 2016)». Sulla base di tali premesse concettuali, la Corte EDU giungeva a ritenere che, allorche' (come e' nel caso oggetto del presente processo) la perquisizione venga ordinata dalla Procura in una fase precoce del procedimento penale (si noti che la fonte confidenziale risulta essere l'unico elemento che la polizia giudiziaria abbia avuto a propria disposizione), il rispetto dell'art. 8 della CEDU comporta "che una perquisizione effettuata in questa fase deve offrire garanzie adeguate e sufficienti per evitare che venga usata per fornire alle autorita' incaricate dell'inchiesta elementi compromettenti su persone non ancora identificate come sospettate di aver commesso un reato (Modestou c. Grecia, n. 51693/13, § 44, 16 marzo 2017). In tale ordine di idee, la Corte EDU e' pervenuta ad affermare che lo stesso Pubblico ministero dovrebbe richiedere, nelle fasi iniziali delle indagini, in cui non vi sia materiale indiziario acquisito, un'autorizzazione ad un Giudice prima di ordinare una perquisizione, o quanto meno l'ordinamento dovrebbe garantire la possibilita' di un controllo post factum, in ordine alla legittimita' della perquisizione; rilevato che l'ordinamento italiano non prevedeva l'autonoma impugnabilita' del decreto di perquisizione in quanto tale (e che, nel concreto, non essendo stato rinvenuto alcun elemento di prova ed adottato alcun provvedimento di sequestro, tale controllo non era stato neanche possibile per via mediata attraverso il riesame di tale genere di provvedimento), la Corte ha quindi ritenuto esservi stata una violazione dei diritti della parte istante. Proseguiva poi la Corte osservando che «l'assenza di un controllo giurisdizionale ex ante puo' essere compensata dalla realizzazione di un controllo giurisdizionale ex post facto della legittimita' e della necessita' della misura», rammentando, a tal proposito, "di avere ammesso che, in alcune circostanze, il controllo della misura contraria all'articolo 8 effettuato dai giudici penali fornisce una riparazione adeguata per l'interessato, dal momento che il giudice procede a un controllo effettivo della legittimita' e della necessita' della misura contestata e, se del caso esclude dal processo penale gli elementi di prova raccolti (Panarisi c. Italia, n. 46794/99, §§ 76 e 77, 10 aprile 2007, Uzun c. Germania, n. 35623/05, §§ 71 e 72, CEDU 2010 (estratti), e Trabajo Rueda c. Spagna, n. 32600/12, § 37, 30 maggio 2017).....omissis paragrafi 46-51 ...52. Vi e' stata dunque violazione dell'articolo 8 della Convenzione. La lettura della sentenza permette quindi di rilevare che, nella giurisprudenza della Corte EDU: a) la perquisizione costituisce un'ingerenza nella vita privata e nella liberta' domiciliare della persona; b) tale ingerenza e' legittima solo se giustificata dalla ricorrenza di preesistenti elementi indiziari o di sospetto che indichino, nel destinatario della perquisizione, l'autore di un reato le cui tracce possano essere reperite mediante perquisizione domiciliare; c) l'ordinamento interno deve assicurare validi ed effettivi strumenti di controllo che garantiscano almeno una verifica ex post in ordine alla effettiva ricorrenza delle condizioni legittimanti l'ingerenza suddetta; d) tra tali strumenti di controllo ex post, ove altri non siano stati attivabili od abbiano concretamente operato, deve essere ricompresa l'esclusione degli esiti della perquisizione dal materiale probatorio utilizzabile. Ne consegue che: 1) se il Pubblico ministero rilascia un'autorizzazione orale, o emette un decreto di convalida privo di effettiva motivazione, tali atti, non costituendo cio' garanzia dell'effettivo esercizio di un potere di controllo circa la ricorrenza dei presupposti legittimanti la perquisizione, non valgono a renderla legittima; 2) le fonti confidenziali, in quanto non verificabili e quindi insuscettibili di controllo ex ante, non possono essere utilizzate per disporre perquisizioni; 3) laddove una perquisizione sia stata eseguita in virtu' di elementi non verificabili o insufficienti a giustificarla, il giudice penale debba escludere dal novero degli elementi probatori utilizzabili quelli acquisiti mediante la suddetta perquisizione. Pertanto, anche alla luce dei principi di cui all'art. 8 CEDU, «costituzionalizzati» per il tramite della disposizione dell'art. 117 della Costituzione, la perquisizione eseguita dalla polizia giudiziaria fuori dei casi di flagranza, senza nemmeno aver chiesto l'autorizzazione orale del Pubblico ministero, senza che vi fosse impedimento a chiederla, ed in virtu' di un «fondato sospetto» fondato su elementi non esplicitati e verosimilmente consistenti in fonti confidenziali o anonime ed in assenza, peraltro, di provvedimento di convalida dotato di effettiva e concreta motivazione, non era consentita, e gli esiti dovrebbero essere ritenuti inutilizzabili; la lettura dell'art. 191 codice di procedura penale offerta dal diritto vivente, come cristallizzato nelle sentenze gia' richiamate, lo esclude, e cio' la rende incostituzionale. A parere di questo giudicante, la conseguenza della dedotta incostituzionalita' e' anche il divieto di relazione e testimonianza, per gli operatori di polizia giudiziaria, in ordine al risultato delle attivita' di ispezione, perquisizione e sequestro indebitamente eseguite; tale divieto, invero, appare conseguire alla perdita di ogni efficacia di tali attivita'; ammettere tali deposizioni, peraltro, equivarrebbe a vanificare tale divieto e la ratio sottostante ai divieti di utilizzabilita' di cui all'art. 191 codice di procedura penale. Questo giudicante e' chiamato a decidere se accogliere o meno la richiesta di convalida dell'arresto e di emissione di misura cautelare, nonche' ammettere il conseguente rito direttissimo (di cui la legittimita' dell'arresto e la sua conseguente convalida sono presupposto di ammissibilita': cfr. art. 449 comma 2 codice di procedura penale); e tale decisione puo' fondarsi unicamente sugli esiti della perquisizione illegittima, che costituiscono l'unico materiale probatorio a disposizione; le questioni di costituzionalita' relative all'utilizzabilita' di tale materiale sono quindi assolutamente rilevanti nel presente giudizio, ed impongono la sospensione del processo e la rimessione della questione alla Corte costituzionale. Poiche' non e' possibile mantenere la limitazione della liberta' personale dell'imputato in forza di norme della cui legittimita' costituzionale si dubita fortemente, ed in ogni caso la sospensione del presente processo non ha effetti sulla decorrenza del termine complessivo di 96 ore previsto dall'art. 13 comma 3 della Costituzione per la convalida, e la perdita di efficacia dell'arresto, l'imputato va immediatamente rimesso in liberta'.
P.Q.M. Visti gli articoli 1 legge costituzionale n. 1/1948, e 23 della legge n. 87/1953, Dichiara d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 191 codice di procedura penale, per contrasto con gli articoli 2, 3, 13, 14, 24, 97 commi 3 e 117 della Costituzione (quanto a quest'ultima norma, con riferimento ai principi di cui all'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo), nella parte in cui non prevede che la sanzione dell'inutilizzabilita' ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori - ivi compreso, oltre alla relazione personale tra persona e corpo del reato o cosa pertinente al reato, anche il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato - degli atti di perquisizione ed ispezione domiciliare e personale compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere, ed in particolare allorche', fuori del caso di flagranza di reato, si sia proceduto a perquisizione ai sensi dell'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990: a) senza aver chiesto la previa autorizzazione, anche orale, del Pubblico ministero, e senza che risulti esservi stata impossibilita' di farlo; b) nel caso in cui il Pubblico ministero abbia successivamente convalidato la perquisizione senza motivare concretamente in ordine a quali fossero gli elementi la cui ricorrenza integrasse le valide ragioni che legittimassero la perquisizione; Ordina la notificazione della presente ordinanza al difensore dell'imputato, all'imputato, al Pubblico ministero, ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, e la sua comunicazione ai Presidenti dei due rami del Parlamento; Dispone la successiva trasmissione della presente ordinanza e di' copia degli atti del procedimento, unitamente alla prova dell'esecuzione delle notificazioni e delle comunicazioni previste dalla legge, alla Corte costituzionale per la decisione della questione di costituzionalita' cosi' sollevata; Sospende il procedimento sino alla decisione della Corte costituzionale ed Ordina l'immediata liberazione dell'imputato. Lecce, 20 settembre 2019 Il Giudice: Sernia