N. 50 SENTENZA 9 gennaio - 12 marzo 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Ordinamento penitenziario  -  Detenzione  domiciliare  -  Divieto  di
  applicazione ai condannati per i c.d. reati  ostativi  (in  specie,
  rapina aggravata) di cui all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975
  - Denunciata irragionevolezza nonche'  violazione  della  finalita'
  rieducativa  della  pena  e  dei  principi  di   personalizzazione,
  gradualita'  e  proporzionalita'  nell'esecuzione  delle   sanzioni
  detentive - Non fondatezza delle questioni. 
- Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 47-ter, comma 1-bis. 
- Costituzione, artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma. 
(GU n.12 del 18-3-2020 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Aldo CAROSI; 
Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  47-ter,
comma  1-bis,  della  legge   26   luglio   1975,   n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative  della  liberta'),  promosso  dalla  Corte  di
cassazione, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di
M. M., con ordinanza del  1°  marzo  2019,  iscritta  al  n.  89  del
registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visto  l'atto  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 23 ottobre  2019  il  Giudice
relatore Francesco Vigano', sostituito per la redazione  dal  Giudice
Nicolo' Zanon; 
    deliberato nella camera di consiglio del 9 gennaio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 febbraio 2019, iscritta  al  n.  89  del
registro ordinanze  2019,  la  Corte  di  cassazione,  sezione  prima
penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27,
primo e terzo comma, della Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1-bis, della legge  26  luglio
1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della liberta'), nella  parte  in
cui, prevedendo la detenzione domiciliare per l'espiazione della pena
non superiore a due anni, anche se  costituente  residuo  di  maggior
pena, quando non ricorrano i presupposti per l'affidamento  in  prova
al servizio sociale e  la  detenzione  domiciliare  risulti  comunque
idonea a scongiurare il  pericolo  di  commissione  di  altri  reati,
esclude l'applicabilita' della stessa misura in caso di condanna  per
i reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. 
    1.1.- La Corte di cassazione e' investita  del  ricorso  proposto
avverso un'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di  Firenze,  che,
chiamato a decidere  su  una  istanza  di  affidamento  in  prova  al
servizio  sociale  con   contestuale,   alternativa,   richiesta   di
detenzione  domiciliare,  ha  provveduto  al  rigetto  della   prima,
dichiarando inammissibile la seconda. La parte richiedente M.  M.  e'
detenuta presso la Casa circondariale di Pisa,  in  espiazione  della
pena di due anni e sei mesi di reclusione, applicata, ai sensi  degli
artt. 444 e seguenti del codice di procedura penale, dal Giudice  per
le indagini preliminari del Tribunale di Massa, con sentenza  del  20
giugno 2017, poi divenuta irrevocabile. La sentenza concerne i reati,
uniti dal vincolo della continuazione, di tentata  rapina  aggravata,
realizzata mediante minaccia consistita nel puntare contro la vittima
una pistola giocattolo priva di tappo rosso, e di  rapina  aggravata,
consumata mediante minaccia consistita nel puntare contro la  vittima
un  coltello,  con  impossessamento  della  somma  di  180  euro.  Il
rimettente precisa che la sentenza  di  applicazione  della  pena  ha
riconosciuto, in favore dell'imputata, le circostanze  attenuanti  di
cui all'art. 62, comma 1, numeri 4)  e  6),  del  codice  penale,  in
relazione  alla  speciale  tenuita'  del  danno   e   all'intervenuto
risarcimento,   nonche'   le   circostanze   attenuanti    generiche,
equivalenti alle aggravanti contestate. 
    1.2.- In punto di rilevanza della questione sollevata,  la  Corte
di cassazione premette che risultano infondati i  motivi  di  ricorso
diversi da quello  relativo  alla  declaratoria  di  inammissibilita'
dell'istanza di detenzione domiciliare. 
    Il   rimettente   argomenta   poi   che   la   declaratoria    di
inammissibilita' dell'istanza di detenzione domiciliare  avanzata  da
M. M. risulta conforme al  dato  normativo  ed  al  diritto  vivente.
Secondo quest'ultimo, l'art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit.,  nel
disciplinare mediante un richiamo al precedente art. 4-bis le ipotesi
preclusive della detenzione domiciliare, evoca unicamente il catalogo
dei reati elencati nella disposizione  richiamata,  e  non  anche  la
disciplina  riservata,  in  quella  sede,  ai  reati   medesimi.   Di
conseguenza, la condanna per uno dei delitti in questione sarebbe  di
per se'  ostativa  all'applicazione  della  misura  della  detenzione
domiciliare, restando irrilevante l'insussistenza di collegamenti del
condannato con la criminalita' organizzata, terroristica o  eversiva,
che invece puo' essere valorizzata nel contesto direttamente regolato
dall'art. 4-bis ordin. penit. (sono citate le sentenze della Corte di
cassazione, sezione  prima  penale,  27  aprile  2011,  n.  20145;  9
dicembre 2010, n. 44572; 27 maggio 2010, n. 27557; 7 luglio 2006,  n.
30804). 
    Il giudice a quo condivide l'orientamento dominante  ed  osserva:
«essendo gia' previsto dall'art. 4-bis che l'assegnazione  al  lavoro
esterno, i permessi premio e le misure  alternative  alla  detenzione
possono essere concessi ai detenuti o internati solo se sussistono le
condizioni ivi espressamente enunciate,  le  ulteriori  disposizioni,
che in relazione a specifici benefici o misure escludono  i  soggetti
condannati per i reati di cui all'art. 4-bis,  non  avrebbero  ragion
d'essere e significato alcuno se fossero da intendere  riferite  alle
condizioni preclusive gia' poste dall'art.  4-bis  anziche'  al  mero
catalogo dei reati in esso indicati». 
    Solo  con  la  rimozione  della  preclusione  prevista  dall'art.
47-ter, comma 1-bis, ordin. penit., quindi, sarebbe ipotizzabile  per
il giudizio a quo un esito di annullamento dell'ordinanza  impugnata,
con rinvio al Tribunale di sorveglianza affinche' valuti  nel  merito
la  sussistenza  delle  condizioni  per  l'accesso  di  M.  M.   alla
detenzione  domiciliare  richiesta.  Di  qui,  la   rilevanza   della
questione sollevata. 
    1.3.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
premette che l'art. 4-bis ordin. penit. - introdotto dall'art. 1  del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti  in  tema
di lotta alla  criminalita'  organizzata  e  di  trasparenza  e  buon
andamento    dell'attivita'    amministrativa),    convertito,    con
modificazioni, nella  legge  12  luglio  1991,  n.  203  -  reca  una
disciplina speciale, a carattere restrittivo, per la concessione  dei
benefici penitenziari  a  determinate  categorie  di  detenuti  o  di
internati, che si presumono socialmente  pericolosi  in  ragione  del
tipo di reato per il quale la detenzione o l'internamento sono  stati
disposti;  disciplina   la   cui   genesi   risale   alla   "stagione
emergenziale" di lotta alla criminalita' organizzata verificatasi  al
principio degli anni Novanta dello scorso secolo. 
    Il rimettente rileva poi che il citato art. 4-bis ordin. penit. -
come modificato dal decreto-legge 8 giugno 1992,  n.  306  (Modifiche
urgenti al nuovo  codice  di  procedura  penale  e  provvedimenti  di
contrasto alla criminalita' mafiosa), convertito, con  modificazioni,
nella legge 7 agosto 1992, n. 356 e  dal  decreto-legge  23  febbraio
2009, n.11 (Misure urgenti in materia  di  sicurezza  pubblica  e  di
contrasto  alla  violenza  sessuale,  nonche'   in   tema   di   atti
persecutori), convertito, con modificazioni, nella  legge  23  aprile
2009, n. 38 - pone una disciplina differenziata  riguardo:  ai  reati
con matrice o sfondo associativo (cosiddetti reati di prima  fascia),
per i quali la concessione dei benefici penitenziari  e'  subordinata
all'utile  collaborazione  del  condannato   con   la   giustizia   e
all'acquisizione  di  elementi  tali  da  escludere  l'attualita'  di
collegamenti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva
(commi 1 e 1-bis); ad un complesso di altri reati  (cosiddetti  reati
di seconda fascia, tra cui  la  rapina  aggravata),  considerati  dal
legislatore sintomatici  di  una  particolare  pericolosita'  sociale
dell'autore,   per   i    quali    e'    necessario    l'accertamento
dell'insussistenza di collegamenti con la  criminalita'  organizzata,
terroristica o eversiva (comma 1-ter); ad un  ulteriore  catalogo  di
reati (cosiddetti reati di terza fascia), per i quali la  concessione
dei benefici penitenziari puo' avvenire sulla scorta di una complessa
valutazione circa la personalita' del condannato e la sua  evoluzione
(comma 1-quater). 
    1.4.- In tale tessuto ordinamentale - prosegue il rimettente - si
inserisce  l'art.   47-ter,   comma   1-bis,   ordin.   penit.,   che
introdurrebbe una presunzione  assoluta  di  inidoneita'  contenitiva
della  detenzione  domiciliare  di  tipo   ordinario,   rispetto   ai
condannati  per  certuni  titoli  di  reato,  ritenuti  di  per   se'
espressivi di piu' accentuata  pericolosita',  in  ragione  del  loro
inserimento in una qualunque delle fasce  istituite  dall'art.  4-bis
ordin. penit. 
    1.5.- Il giudice a quo ritiene che il citato art.  47-ter,  comma
1-bis, ordin. penit., si ponga in contrasto con gli  artt.  3,  primo
comma, e 27, primo e terzo comma,  Cost.,  «potendo  dubitarsi  della
intrinseca ragionevolezza della preclusione assoluta cosi' istituita,
e della sua conformita' ai principi di rieducazione e di personalita'
e proporzionalita' che dovrebbero sorreggere la risposta punitiva  in
ogni momento della sua attuazione». 
    1.5.1.- La Corte di  cassazione  osserva  che  la  giurisprudenza
costituzionale sembra orientata in linea di principio  ad  escludere,
in materia  di  benefici  penitenziari,  la  legittimita'  di  rigidi
automatismi, e a richiedere  invece  valutazioni  individualizzate  e
fondate su una prognosi  ragionevole  circa  l'utilita'  di  ciascuna
misura a far procedere il condannato  sulla  via  dell'emenda  e  del
reinserimento sociale (sono citate le sentenze n. 149  del  2018,  n.
291 e n. 189 del 2010, n. 255 del 2006 e n. 436 del 1999). 
    Sarebbero  pertanto  incompatibili  con  tale  opzione  di  fondo
«previsioni, come quella oggetto di scrutinio, che precludano in modo
assoluto l'accesso a un beneficio penitenziario in  ragione  soltanto
della particolare gravita' del titolo  di  reato  commesso,  riflessa
dall'inclusione di quest'ultimo in un catalogo (quello ex art.  4-bis
della legge n. 354 del 1975) cui  si  ricollegano,  a  vari  livelli,
indici presuntivi di  pericolosita'  che  -  a  prescindere  da  ogni
considerazione circa l'estrema eterogeneita'  dei  titoli  inclusi  -
parrebbero potersi ritenere legittimi solo nella misura  in  cui  gli
stessi risultino, in concreto, agevolmente vincibili». Si osserva, in
particolare, che  il  censurato  art.  47-ter,  comma  1-bis,  ordin.
penit., impedirebbe l'accesso alla detenzione  domiciliare  anche  ai
condannati  per  i  quali  il   fondamento   della   presunzione   di
pericolosita' dovrebbe essere  escluso  proprio  ai  sensi  dell'art.
4-bis ordin. penit.,  per  l'avverarsi  dei  presupposti  fissati  in
quella sede, cioe' la prestata utile collaborazione con la  giustizia
(ove  richiesta),  la  rescissione  o   mancata   instaurazione   dei
collegamenti con il crimine organizzato e gli eventuali progressi nel
percorso di rieducazione. 
    Esigenze di deterrenza rispetto a determinate tipologie di  reati
- prosegue il rimettente -  non  potrebbero  legittimare  scostamenti
dall'imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena,
che, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 149 del  2018,
deve «declinarsi nella fase esecutiva  come  necessita'  di  costante
valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei
progressi compiuti  dal  singolo  condannato  durante  l'intero  arco
dell'espiazione della pena». 
    La disposizione censurata, pertanto, si  paleserebbe  affetta  da
«irragionevolezza intrinseca  [...]  in  relazione  al  valore  della
responsabilita'  penale  personale  e   alla   necessaria   finalita'
rieducativa   della   pena».   Irragionevolezza   non   sfuggita   al
legislatore, il quale, in sede di attuazione della delega di modifica
dell'ordinamento penitenziario, contenuta nella legge 23 giugno 2017,
n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura  penale  e
all'ordinamento penitenziario), aveva  preconizzato  la  soppressione
della disposizione censurata, poi pero' non realizzata. 
    1.5.2.- Ad avviso del rimettente, tale  irragionevolezza  sarebbe
particolarmente evidente in relazione al delitto di rapina aggravata,
per il quale M. M. e' stata condannata,  posto  che  si  tratta  d'un
reato cosiddetto di seconda fascia,  «[s]icuramente  estraneo,  nella
fattispecie  strutturale  e  nelle  piu'   frequenti   manifestazioni
empiriche, a contesti di crimine organizzato - elemento che, in senso
contrario, connota, di massima, i reati della  fascia  antecedente  -
[...]. Con il paradosso che [...] per la rapina  aggravata  non  vige
alcuna  generale  presunzione   di   immeritevolezza   del   relativo
condannato rispetto al beneficio penitenziario, la cui concessione e'
solo circondata da maggiori cautele, temporali e istruttorie». 
    Del resto - osserva il giudice a quo - la rapina  aggravata  puo'
assumere in concreto una  dimensione  di  ridotta  offensivita',  non
sintomatica di una pericolosita'  contenibile  solo  mediante  misure
carcerarie. Tale ipotesi ricorrerebbe con riferimento  alla  condotta
di M. M., che non ha commesso ulteriori  e  piu'  gravi  delitti;  ha
utilizzato quali armi  un  coltello  e  una  pistola  giocattolo;  ha
sottratto una somma di  esiguo  importo,  risarcendo  in  seguito  il
danno; e' stata assoggettata ad  una  pena  modesta,  in  parte  gia'
espiata in regime cautelare attenuato (arresti domiciliari).  Non  e'
stato, inoltre, rilevato alcun collegamento della condannata  con  la
criminalita' organizzata e risulta dalla  relazione  dell'Ufficio  di
esecuzione penale esterna la possibilita' di reinserimento familiare. 
    1.5.3.- Neppure potrebbe sostenersi, ad  avviso  del  rimettente,
che il  divieto  assoluto  della  detenzione  domiciliare  ordinaria,
rispetto al condannato per uno dei  delitti  di  cui  all'art.  4-bis
ordin. penit.,  sia  giustificabile  in  base  all'estraneita'  della
detenzione domiciliare al circuito rieducativo e trattamentale. 
    La detenzione domiciliare  realizzerebbe  infatti  una  modalita'
meno afflittiva di esecuzione della pena (sono richiamate le sentenze
n. 165 del 1996, n. 532 del 2002 e n.  350  del  2003),  e,  dopo  la
riforma realizzata con la legge 27 maggio  1998,  n.  165  (Modifiche
all'articolo 656 del codice di procedura  penale  ed  alla  legge  26
luglio 1975, n. 354,  e  successive  modificazioni)  -  cui  si  deve
l'introduzione,  nel  corpo  dell'art.  47-ter  ordin.  penit.,   del
censurato comma  1-bis  -  parteciperebbe  alla  ordinaria  finalita'
rieducativa e di reinserimento sociale della pena, non  essendo  piu'
tale beneficio limitato alla protezione dei "soggetti  deboli"  prima
previsti  come  destinatari  esclusivi  della  misura,   ma   essendo
applicabile in tutti i casi di condanna a pena non  superiore  a  due
anni (anche se residuo di maggior  pena),  salva  la  valutazione  di
idoneita' ad evitare il pericolo di recidiva (e' citata  la  sentenza
n. 422 del 1999). 
    Dalle pronunce n. 239 del 2014 e n.  173  del  1997  della  Corte
costituzionale si trarrebbe conferma che la detenzione domiciliare  -
pur  indubbiamente   caratterizzata   da   finalita'   umanitarie   e
assistenziali - e'  partecipe  a  pieno  titolo  della  finalita'  di
rieducazione e  reinserimento  sociale  del  condannato,  costituente
l'obiettivo comune di tutte le misure  alternative  alla  detenzione,
come  dimostrerebbero  sia  il  requisito  negativo  di  fruibilita',
rappresentato dalla insussistenza  del  pericolo  di  commissione  di
ulteriori delitti, sia la disciplina delle modalita'  di  svolgimento
della misura e delle ipotesi di revoca. 
    La misura sarebbe inoltre assistita da prescrizioni  a  contenuto
risocializzante,  alla  cui  formulazione   ed   al   cui   controllo
concorrerebbero gli Uffici  di  esecuzione  penale  esterna  previsti
dall'art. 72 ordin. penit. 
    Alla luce della funzione (anche)  rieducativa  e  risocializzante
della detenzione domiciliare, risulterebbe  irragionevole  precludere
ai condannati per i reati di cui all'art.  4-bis  ordin.  penit.  (e,
comunque,  ai  condannati  per  rapina  aggravata)   l'accesso   alla
particolare  forma  di  detenzione  domiciliare  prevista   dall'art.
47-ter, comma 1-bis, ordin. penit., per le pene detentive inferiori a
due anni di reclusione, senza attribuire alcun rilievo alla  concreta
pericolosita' del soggetto, desumibile dalla  sua  condotta  o  dalla
sussistenza di collegamenti con la  criminalita'  organizzata,  cosi'
violando  altresi'  i  principi  della   personalita'   e   finalita'
rieducativa  della  pena  e   il   principio   della   progressivita'
trattamentale. 
    1.5.4.- Con specifico riguardo a quest'ultimo principio, la Corte
di cassazione evidenzia infine che il condannato per uno dei  delitti
elencati  dall'art.  4-bis  ordin.   penit.   puo'   essere   ammesso
all'affidamento in prova al  servizio  sociale  di  cui  all'art.  47
ordin. penit., ove sussistano le condizioni enunciate in tale  norma,
mentre non potrebbe mai fruire della detenzione domiciliare  prevista
dal citato art. 47-ter, comma 1-bis, nonostante  quest'ultima  misura
abbia  carattere  maggiormente  contenitivo  e  risulti  dunque  piu'
idonea, semmai, a fronteggiarne la residua pericolosita' sociale. 
    Il  rimettente  riconosce  che  la  Corte  costituzionale,  nella
sentenza n. 338 del 2008, ha ritenuto l'affidamento in  prova  misura
non omogenea rispetto alla  semiliberta',  ed  ha  escluso  per  tale
ragione l'irrazionalita' della scelta legislativa di  parificare,  ai
fini della concessione dell'affidamento in prova,  la  posizione  dei
condannati per i reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit.  e  quella
dei  condannati  per  altri  reati,  e  nel  contempo  differenziare,
riguardo alle  stesse  categorie,  i  presupposti  per  l'accesso  al
beneficio della semiliberta', che puo' essere concesso ai  condannati
per i reati di cui al citato art. 4-bis dopo un periodo di espiazione
di pena piu' lungo rispetto a quello previsto per la generalita'  dei
condannati. Tale percorso argomentativo non potrebbe tuttavia  essere
riproposto per la fattispecie della detenzione domiciliare,  poiche',
in quest'ultimo caso, i condannati per i reati di cui all'art.  4-bis
ordin. penit. sono totalmente esclusi dalla  possibilita'  di  fruire
dell'istituto previsto dall'art. 47-ter, comma 1-bis, ordin.  penit.,
ossia  di  una  misura  che  forma  «parte  integrante  [...]  di  un
ordinamento    penitenziario    partecipe    dei     valori     della
risocializzazione».  Una  cosi'  marcata   diversificazione   tra   i
requisiti di ammissione all'affidamento in prova  e  alla  detenzione
domiciliare eccederebbe i margini della pur ampia discrezionalita' di
cui gode il legislatore nella conformazione degli istituti di diritto
penitenziario   e    sembrerebbe    contraria    all'imperativo    di
risocializzazione del condannato, da attuarsi,  secondo  la  sentenza
della Corte costituzionale n. 149 del 2018, «attraverso la previsione
da parte del legislatore - e la concreta  concessione  da  parte  del
giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino,  in
risposta al percorso di cambiamento gia' avviato,  il  giusto  rigore
della  sanzione  inflitta  per  il  reato  commesso,   favorendo   il
progressivo reinserimento del condannato nella societa'». 
    1.6.-  L'insieme  di  tali  considerazioni   induce   dunque   il
rimettente a dubitare della conformita' agli artt. 3, primo comma,  e
27, primo e terzo comma, Cost., del  divieto  assoluto  di  fruizione
della detenzione domiciliare di cui  all'art.  47-ter,  comma  1-bis,
ordin. penit., previsto da quest'ultima  disposizione  a  carico  dei
condannati per uno dei reati di cui  all'art.  4-bis  della  medesima
legge. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
siano dichiarate inammissibili o infondate. 
    2.1.- Sotto il primo  profilo,  l'interveniente  afferma  che  la
preclusione alla concessione della detenzione domiciliare  in  favore
di M. M. deriverebbe unicamente dall'orientamento  giurisprudenziale,
richiamato dalla Corte di cassazione, secondo cui  la  mera  condanna
per uno dei  reati  di  cui  all'art.  4-bis  ordin.  penit.  risulta
ostativa alla  concessione  del  beneficio,  senza  che  rilevino  le
ulteriori condizioni previste nella  disposizione  appena  citata.  E
poiche'   la   Corte   rimettente,    adottando    un'interpretazione
costituzionalmente    orientata,    avrebbe    potuto    determinarsi
diversamente,   la   questione   sollevata   dovrebbe    considerarsi
inammissibile. 
    Le questioni sarebbero altresi' inammissibili, in quanto «la pena
(e le connesse conseguenziali modalita' di espiazione) derivano da un
accordo accusa/difesa cristallizzatosi nella presa d'atto del Giudice
che ha emesso il provvedimento [...] divenuto irrevocabile». 
    2.2.- Le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate. 
    La circostanza che il  delitto  di  rapina  aggravata  possa,  in
determinati casi, assumere caratteristiche  di  modesta  offensivita'
non varrebbe a connotare, nel senso della irragionevolezza, la scelta
discrezionale del legislatore di includere detto  reato,  foriero  di
allarme sociale, nell'elenco di cui all'art. 4-bis ordin. penit. 
    Nemmeno sarebbe irragionevole, del resto, la  scelta  legislativa
di  precludere  l'accesso  alla  detenzione  domiciliare,  ai   sensi
dell'art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit.,  ai  condannati  per  i
reati elencati  all'art.  4-bis.  Anzitutto,  detta  preclusione  non
assumerebbe i caratteri di una presunzione assoluta di  pericolosita'
del  condannato,  atteso  che  quest'ultimo   puo'   essere   ammesso
all'affidamento in prova al servizio  sociale,  ove  ne  ricorrano  i
presupposti. In secondo luogo, nel consentire  ai  condannati  per  i
delitti di  cui  all'art.  4-bis  ordin.  penit.  l'accesso  al  solo
affidamento in prova - misura  «dalle  caratteristiche  trattamentali
piu' spiccate»,  la  cui  concessione  e'  subordinata  a  condizioni
particolarmente stringenti  -  il  legislatore  avrebbe  mostrato  di
ritenere insufficiente, in relazione a reati di particolare gravita',
la  misura  della  detenzione  domiciliare,  le  cui  caratteristiche
rieducative e trattamentali sarebbero «meno evidenti». Si tratterebbe
di una scelta non irrazionale, operata in un  ambito  riservato  alla
discrezionalita' del legislatore e, percio', insindacabile. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 febbraio 2019 (r.o. n. 89 del 2019),  la
Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,  ha   sollevato,   in
riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27,  primo  e  terzo  comma,
della  Costituzione,   questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 47-ter, comma 1-bis, della legge 26  luglio  1975,  n.  354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative  e  limitative  della  liberta'),  nella  parte   in   cui,
prevedendo la detenzione domiciliare per l'espiazione della pena  non
superiore a due anni, anche se costituente residuo di  maggior  pena,
quando non ricorrano i presupposti  per  l'affidamento  in  prova  al
servizio sociale e la detenzione domiciliare risulti comunque  idonea
a scongiurare il pericolo di  commissione  di  altri  reati,  esclude
l'applicabilita' della stessa misura in caso di condanna per i  reati
di cui all'art. 4-bis ordin. penit. 
    Il giudice rimettente  deve  valutare  il  ricorso,  proposto  da
persona condannata per i  delitti  di  tentata  rapina  e  di  rapina
aggravata, contro un provvedimento del Tribunale di sorveglianza che,
nel respingere per ragioni di merito una richiesta di affidamento  in
prova  al  servizio  sociale,   ha   dichiarato   inammissibile   una
concorrente istanza  di  detenzione  domiciliare  a  norma  dell'art.
47-ter, comma 1-bis, ordin. penit. La Corte di  legittimita'  esclude
il fondamento delle censure mosse, nella  prospettiva  del  vizio  di
motivazione,  alla  decisione  concernente  l'affidamento  in  prova,
passando cosi' all'esame  del  provvedimento  impugnato  nella  parte
concernente la detenzione domiciliare. Anche in questo caso,  secondo
il giudice rimettente,  il  ricorso  contro  la  decisione  censurata
dovrebbe essere respinto. 
    In effetti - osserva la Corte rimettente - l'ultimo  periodo  del
comma  1-bis  dell'art.  47-ter  ordin.  penit.  esclude  in   radice
l'applicabilita' della detenzione domiciliare  ai  condannati  per  i
delitti di cui al precedente art. 4-bis, finanche  nei  casi  in  cui
l'accesso ad altri benefici sarebbe consentito in forza  della  norma
appena citata (ad esempio per  l'apporto  collaborativo  prestato  ad
indagini), posto che  una  giurisprudenza  consolidata  riferisce  il
richiamo contenuto nell'art. 47-ter  al  solo  elenco  di  reati  che
compare nella disposizione richiamata, e  non  all'intera  disciplina
recata da quest'ultima. 
    Poiche' ne deriva una preclusione non superabile, la disposizione
censurata sarebbe fondata sulla presunzione assoluta  di  inidoneita'
della detenzione domiciliare quale strumento per il  trattamento  del
condannato e la prevenzione di nuovi reati, presunzione a  sua  volta
collegata a una valutazione di marcata pericolosita' del soggetto che
abbia commesso uno dei reati elencati nel citato  art.  4-bis  ordin.
penit. 
    La  giurisprudenza  costituzionale,   tuttavia,   tenderebbe   ad
escludere la legittimita' di presunzioni  assolute  nella  disciplina
dell'esecuzione delle  pene  detentive,  privilegiando  strumenti  di
valutazione individuale circa l'idoneita' delle scelte  trattamentali
a fini  di  risocializzazione  del  condannato,  pur  restando  ferma
l'esigenza di prevenire  la  commissione  di  reati  ulteriori  (sono
citate le sentenze n. 149 del 2018, n. 291 e n. 189 del 2010, n.  255
del 2006 e n. 436 del 1999). Secondo la Corte di cassazione,  d'altra
parte, il caso  di  specie  assumerebbe  valore  paradigmatico  della
irragionevolezza della presunzione assoluta di  pericolosita',  viste
le modalita' esecutive dei  fatti  (commessi  con  armi  finte  o  da
taglio),  la  modestia  del  profitto   ricavatone,   l'atteggiamento
successivo al reato (risarcimento del danno), l'assenza di segnali di
collegamento con ambiti di criminalita' organizzata. 
    In breve, la disciplina censurata contrasterebbe  con  l'art.  3,
primo comma, Cost. in quanto irragionevole, sia  perche'  fondata  su
una presunzione arbitraria, suscettibile  di  agevole  smentita,  sia
perche' espressiva di una preclusione  non  superabile  neppure  alla
luce delle condizioni che, invece, consentono l'accesso ad  ulteriori
benefici proprio per i reati elencati nell'art. 4-bis  ordin.  penit.
Benefici  -  osserva  il  giudice  rimettente   -   che   comprendono
l'affidamento in prova al  servizio  sociale,  applicabile  in  luogo
della detenzione domiciliare, pur  trattandosi,  sempre  a  dire  del
rimettente, di una misura con  caratteristiche  meno  contenitive  di
quelle della misura preclusa. 
    La disciplina in questione contrasterebbe, nel contempo,  con  la
direttiva costituzionale di finalizzazione rieducativa della pena, da
cui discenderebbero i principi di  personalizzazione,  gradualita'  e
proporzionalita' nell'esecuzione delle sanzioni detentive  (art.  27,
commi primo e terzo, Cost.). 
    La Corte di cassazione aggiunge che la  normativa  censurata  non
potrebbe trovare giustificazione neppure con  riguardo  a  specifiche
caratteristiche della misura  in  considerazione.  Se  la  detenzione
domiciliare palesava in origine una  dominante  funzione  umanitaria,
assicurando tutela a soggetti svantaggiati, a partire  dalla  novella
cui si deve l'inserimento del comma 1-bis nel corpo dell'art.  47-ter
(art. 4, comma 1, lettera a, della  legge  27  maggio  1998,  n.  165
recante «Modifiche all'articolo 656 del codice di procedura penale ed
alla legge 26 luglio  1975,  n.  354,  e  successive  modificazioni»)
l'istituto si sarebbe  a  pieno  titolo  inserito  nel  quadro  degli
strumenti di trattamento utili alla risocializzazione del  condannato
(sono citate le sentenze n. 239 del 2014 e n. 422 del 1999). 
    La preclusione assoluta, in definitiva, non  si  giustificherebbe
ne'  per  le  caratteristiche  eterogenee  delle  condotte   cui   si
riferisce, ne' in base  ad  una  pretesa  inefficienza  trattamentale
della misura preclusa. 
    2.- L'Avvocatura generale dello Stato, intervenuta in giudizio in
rappresentanza del Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  formula
preliminarmente due eccezioni di inammissibilita'. 
    2.1- Assume, in primo luogo, che la Corte rimettente non  avrebbe
sperimentato una soluzione interpretativa  conforme  a  Costituzione,
utile a consentire che, per i reati  di  cui  all'art.  4-bis  ordin.
penit.,  la  detenzione  domiciliare  venga  applicata  alle   stesse
condizioni  che  legittimano,  per  le  varie  fasce  di  reati,   la
concessione di altri benefici  penitenziari,  in  applicazione  dello
stesso art. 4-bis. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il giudice  a  quo  ha  condiviso  l'orientamento  dominante  (da
ultimo, Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 27 aprile
2011, n. 20145), secondo cui la disposizione censurata non recepisce,
mediante il richiamo ai delitti dell'art.  4-bis  ordin.  penit.,  la
disciplina derogatoria  contenuta  in  tale  disposizione  quanto  al
divieto di accesso ai cosiddetti benefici penitenziari,  ma  solo  il
suo  elenco  di  reati,  per  i  quali   introduce   un   trattamento
differenziale. 
    Nel caso di specie, del resto, il giudice rimettente si e'  fatto
carico   della   verifica   circa   la   possibilita'   di    fornire
un'interpretazione conforme, dando conto delle ragioni per  cui  tale
verifica si e' conclusa con esito negativo. E in ripetute  e  recenti
occasioni questa Corte ha chiarito che, laddove il  rimettente  abbia
considerato la possibilita' di una interpretazione idonea a eliminare
il dubbio di legittimita'  costituzionale,  e  l'abbia  motivatamente
scartata,  la  valutazione  sulla  correttezza  o  meno  dell'opzione
ermeneutica  prescelta  riguarda  non  gia'  l'ammissibilita'   della
questione sollevata, bensi' il merito di essa (ex multis, sentenze n.
241 e n.189 del 2019; sentenza n. 135 del 2018). 
    2.2.- In secondo luogo,  eccepisce  l'Avvocatura  generale  dello
Stato che il rimettente non avrebbe  considerato  che,  nel  caso  di
specie,  la  pena  da  eseguire  (con  le  «connesse   conseguenziali
modalita' di espiazione») discende da una sentenza di applicazione di
pena su richiesta delle parti  (art.  444  del  codice  di  procedura
penale), dunque da un accordo del quale era stata partecipe anche  la
persona ricorrente. 
    Nemmeno tale eccezione e' fondata. 
    L'Avvocatura generale  dello  Stato  sembra  presupporre  che  la
persona interessata avrebbe concordato (e quindi  "voluto")  la  pena
anche quanto al profilo  dell'inapplicabilita',  in  fase  esecutiva,
della detenzione domiciliare di cui al comma 1-bis  dell'art.  47-ter
ordin. penit., e da tale presupposto ricava l'inammissibilita'  delle
censure sollevate. 
    Anche ad ammettere che un tale presupposto sia plausibile, non ne
deriverebbe  l'inammissibilita'   delle   censure   di   legittimita'
costituzionale,  che  il  rimettente  riferisce  al  contenuto  della
disposizione, a prescindere da  qualunque  "volonta'  negoziale"  dei
destinatari di essa. Giova, comunque, precisare che l'accordo tra  le
parti, nel rito speciale di cosiddetto patteggiamento,  investe  solo
l'applicazione  delle   pene   principali,   restando   evidentemente
sottratte al patto le vicende  del  titolo  esecutivo  poi  scaturito
dalla  sentenza,  ed   a   maggior   ragione   le   misure   previste
dall'ordinamento  penitenziario   per   favorire   il   percorso   di
risocializzazione, che dipendono dal concreto  andamento  della  fase
esecutiva e prescindono completamente da ogni logica negoziale. 
    3.- Nel merito, le questioni non sono fondate. 
    3.1.- I dubbi di compatibilita'  costituzionale  sollevati  dalla
Corte  di  cassazione  muovono  essenzialmente,   in   primo   luogo,
dall'assunto  che   la   disposizione   censurata   conterrebbe   una
presunzione  assoluta  di  pericolosita'.  E'  quindi  richiamata,  a
sostegno dell'illegittimita'  costituzionale,  la  giurisprudenza  di
questa Corte che afferma l'irragionevolezza di una  tale  presunzione
(nonche' la violazione anche  dell'art.  27,  primo  e  terzo  comma,
Cost., nel caso di presunzioni  operanti  sul  campo  dell'esecuzione
penale) tutte le volte  in  cui  sia  agevole  formulare  ipotesi  di
accadimenti  contrari  alla  generalizzazione  posta  a  base   della
presunzione stessa. 
    Questo primo argomento non coglie tuttavia nel segno,  in  quanto
solo in parte conferente alla disciplina  censurata.  La  preclusione
indicata dal rimettente si fonda  bensi'  su  una  logica  presuntiva
(quella che tipicamente utilizza il titolo del reato  commesso  quale
misuratore in astratto della pericolosita' del condannato), ma  trova
fondamento concomitante in elementi che discendono  dalla  necessaria
valutazione giudiziale del caso concreto. Il soggetto che patisce  la
preclusione,  cioe'  l'impossibilita'  di  accedere  alla  detenzione
domiciliare, non e' infatti individuato su base presuntiva  assoluta,
solo in ragione del titolo del reato commesso. 
    Innanzi tutto, quando la pena detentiva irrogata o applicata deve
eseguirsi con trattamento  intramurario,  anche  se  la  sua  entita'
avrebbe  in  astratto  consentito  un  provvedimento  di  sospensione
condizionale (salvo si tratti, come nel caso di specie, di  pena  che
costituisca il residuo di una sanzione  eccedente  i  limiti  fissati
nell'art. 163 codice penale), cio' significa che non vi e' stata  una
prognosi favorevole sui futuri comportamenti dell'interessato, oppure
che si e' in presenza  di  precedenti  ostativi  e,  dunque,  di  una
recidiva. 
    Inoltre, e soprattutto, il soggetto cui l'accesso alla detenzione
domiciliare  e'  precluso  dalla  disposizione  censurata  sconta  un
presupposto negativo implicito nella disciplina in questione, e cioe'
il fatto di non trovarsi neppure nelle condizioni  utili  per  essere
affidato in prova ai servizi sociali ai  sensi  dell'art.  47  ordin.
penit. Una situazione, quest'ultima,  che  non  dipende  dall'entita'
delle soglie di pena (quelle compatibili con l'affidamento sono  piu'
elevate  di  quelle  indicate  all'art.  47-ter  ordin.  penit.),  ma
necessariamente consegue (come nel caso di specie)  alla  valutazione
giudiziale,   effettuata   in   concreto,   che   ha   concluso   per
l'impossibilita' di contenere il rischio della commissione  di  nuovi
reati, anche ricorrendo alle puntuali e  tipiche  prescrizioni  della
misura dell'affidamento. 
    In  definitiva,  il  soggetto   interessato   dalla   preclusione
censurata non e' solo l'autore di un determinato reato ma, in ciascun
caso  concreto,  e'  persona  dalla  pericolosita'  non   contenibile
attraverso i presidi tipici della misura di cui  all'art.  47  ordin.
penit. 
    3.2.- Il secondo argomento al quale il giudice a quo ricorre  per
sostenere la fondatezza delle questioni  sollevate  consiste  in  una
asserita contraddittorieta' della disciplina censurata, tenuto  conto
del tessuto normativo in cui si inserisce. 
    Da un lato infatti la legge  (ed  in  particolare  l'art.  4-bis,
comma 2, ordin. penit.), per i reati di cui alla cosiddetta  "seconda
fascia",  consente  al  condannato,  quando  manchino  elementi   che
indicano  l'attualita'  di  suoi  collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata, di accedere ai permessi premio, al lavoro esterno,  alla
semiliberta', alla  liberazione  anticipata,  oltreche'  alla  stessa
misura extramuraria dell'affidamento in prova. Dall'altro lato,  alla
stessa persona, condannata per gli stessi reati,  il  periodo  finale
del comma 1-bis dell'art. 47-ter ordin. penit. impedisce comunque  di
accedere alla detenzione domiciliare. 
    Il rimettente reputa che tale contraddizione andrebbe  eliminata,
nel senso che l'assenza di elementi dimostrativi del collegamento con
il crimine organizzato dovrebbe consentire l'accesso alla  detenzione
domiciliare nella stessa misura in cui consente l'applicazione  delle
altre misure ricordate. 
    Neppure questo argomento e', tuttavia, risolutivo.  La  simmetria
ricercata dal giudice a quo non e' infatti indispensabile al fine  di
garantire la ragionevolezza  (o,  meglio,  la  non  irragionevolezza)
della disciplina in considerazione. La preclusione censurata e' parte
di una trama generale che valorizza le peculiarita' delle varie forme
di  esecuzione  della  pena,  e  al  tempo  stesso  traccia  percorsi
alternativi che instradano i singoli casi anche  in  base  alle  loro
caratteristiche concrete. 
    Ben vero, in altre parole,  che  anche  un  soggetto  scarsamente
pericoloso nonostante  il  titolo  del  reato  commesso  incontra  la
preclusione qui in esame. Tuttavia, lo stesso soggetto puo'  accedere
a misure diverse e per certi  versi  perfino  piu'  favorevoli  della
detenzione domiciliare, e, se cio' non accade, la ragione risiede pur
sempre nella erroneita' della premessa, cioe' nella constatazione che
ricorrono invece, nel suo caso, elementi concretamente sintomatici di
un'apprezzabile  pericolosita'  (sia  pure  nell'ottica   restrittiva
dell'art. 4-bis ordin. penit.). 
    A ben vedere, presunta in assoluto non e'  la  pericolosita'  del
soggetto,  ma  l'inefficacia  rieducativa   e   preventiva   di   una
particolare misura. 
    Nel suo complesso, in definitiva,  la  disciplina  censurata  non
risulta  insensibile  alle  opportunita'  di  risocializzazione   che
sempre, in ciascuno dei  casi  condotti  all'attenzione  del  giudice
competente, possono essere collegate alle misure in discussione. 
    3.3.-   La   Corte   di    cassazione    non    solo    argomenta
l'irragionevolezza  di  una  disciplina  che,  riguardo   alle   pene
concernenti reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit.,  non  parifica
le condizioni di accesso alla detenzione domiciliare a  quelle  utili
per l'ammissione ad altri benefici penitenziari. L'assunto  ulteriore
del rimettente e' che - semmai - la detenzione  domiciliare  dovrebbe
essere applicabile con maggiore larghezza rispetto all'affidamento in
prova, poiche' presenterebbe un effetto di restrizione  piu'  intenso
della misura non detentiva, e potrebbe quindi fronteggiare situazioni
di pericolosita' piu' marcata. 
    Anche questo argomento non coglie nel segno. Questa Corte ha gia'
valutato negativamente casi nei quali, nella  materia  penitenziaria,
il «punto  centrale  dell'argomentazione  del  giudice  a  quo  [era]
costituito  dalla  individuazione  di  una  sorta  di   rapporto   di
continenza» tra misure con diversi presupposti di  accesso,  «con  la
conseguenza che sarebbe irragionevole consentire allo stesso soggetto
l'accesso  al  regime  piu'  favorevole  e  precludere,  invece,   la
concessione del beneficio meno favorevole, da ritenersi incluso, come
parte minore, nel primo» (sentenza n. 338 del 2008, riferita  ad  una
pretesa assimilazione tra affidamento in prova e semiliberta'). 
    Tra  le  varie  misure  previste  dalla  legge   sull'ordinamento
penitenziario e dal codice penale - ferma restando la  necessita'  di
distinguerle secondo il criterio fondamentale dell'esecuzione interna
od esterna al carcere (sentenza n. 32 del 2020)  -  non  puo'  essere
infatti costruita  una  sorta  di  graduatoria,  che  le  classifichi
secondo una scala ascendente di severita', muovendo, in  particolare,
da quelle che  presenterebbero  minore  analogia  con  la  reclusione
intramuraria, fino a quelle che con quest'ultima dovrebbero  in  tesi
esibire piu' forti analogie.  In  realta',  le  misure  in  questione
mirano al  contenimento  del  rischio  di  recidiva  anche,  ed  anzi
soprattutto, mediante una  progressione  del  percorso  trattamentale
finalizzato alla risocializzazione del condannato e, quindi,  al  suo
reinserimento nella societa'. In altre parole, non ha  fondamento  la
pretesa  di  riscontrare  corrispondenza  assoluta  tra  livello   di
pericolosita' del condannato stesso  (misurato,  oltretutto,  secondo
criteri largamente presuntivi)  e  maggiore  o  minore  "somiglianza"
delle  singole  misure  al  contenimento  estremo,  assicurato  dalla
detenzione  in  carcere  (senza  permessi,  senza   lavoro   esterno,
eccetera). 
    Laddove si tratti di confrontare misure che si  eseguono,  tutte,
completamente al di fuori dell'ambiente carcerario, l'aspettativa  di
comportamenti corretti da parte  del  condannato  e'  in  gran  parte
legata al suo stesso autocontrollo. Nondimeno, ogni istituto presenta
caratteristiche complesse, segnate da un particolare  equilibrio  tra
strumenti di sorveglianza e controllo  (cui  si  collega  l'efficacia
deterrente delle "sanzioni" previste per  il  caso  della  violazione
degli obblighi tipici di ciascuna misura) ed effetto  risocializzante
delle prescrizioni imposte e  del  trattamento  curato  dagli  organi
preposti alla fase esecutiva. Il dosaggio variabile  tra  limitazioni
della liberta' personale e  attivita'  mirate  al  reinserimento  del
condannato, sotto la supervisione degli uffici di esecuzione  penale,
consente in altre parole un certo adeguamento  della  fase  esecutiva
della pena alle esigenze del caso concreto. 
    Ben vero che la considerazione della detenzione domiciliare quale
misura priva di funzionalita' risocializzante e' recessiva, alla luce
delle  modifiche  via  via  introdotte  dal   legislatore   e   della
riflessione  condotta  in  proposito  dalla  giurisprudenza  e  dalla
comunita' degli studiosi: giacche' si tratta, comunque, di una  forma
di esecuzione della  pena  (sentenza  n.  350  del  2003),  che  puo'
arricchirsi di prescrizioni non necessariamente strumentali alle sole
e basilari esigenze di  vita  dell'interessato  (il  finalismo  delle
prescrizioni in chiave  di  risocializzazione  e'  stato  valorizzato
anche dalla giurisprudenza  di  legittimita':  da  ultimo,  Corte  di
cassazione, sezione prima penale, 5 giugno 2018, n. 56703). 
    Nondimeno, e di  converso,  l'affidamento  in  prova  implica  la
possibilita' di prescrizioni tanto stringenti da risolvere la misura,
a sua volta, in uno strumento  di  limitazione  anche  marcata  della
liberta' personale (con obblighi sanzionati di non  uscire  in  orari
determinati, con divieto di frequentazione di luoghi  e  persone),  e
nel contempo valorizza al  massimo  grado  l'affidamento  ai  servizi
sociali,  quale  supporto   per   un   percorso   di   riabilitazione
puntualmente guidato  e  sostenuto,  e  dunque,  almeno  in  potenza,
particolarmente efficace. L'osservanza del programma e' favorita  tra
l'altro dalla  prospettiva  di  una  revoca  per  l'elusione  di  una
qualsiasi parte significativa delle  prescrizioni,  e  non  solo  per
l'abbandono del domicilio fuori dai casi consentiti. 
    Insomma, specialmente grazie  alla  duttilita'  consentita  dalla
relativa disciplina, la misura  dell'affidamento  puo'  efficacemente
fronteggiare la pericolosita'  segnalata  dalla  qualita'  del  reato
commesso, anche  quando  si  tratti  di  fattispecie  compresa  negli
elenchi dell'art. 4-bis ordin. penit. E se, come avviene nel caso che
ha dato origine  alle  presenti  questioni,  si  e'  stimato  o  puo'
stimarsi che neppure prescrizioni particolarmente severe varrebbero a
conseguire risocializzazione e, nel contempo, prevenzione, se ne puo'
concludere che la preclusione dell'accesso ad una misura ancora  meno
articolabile, come la detenzione domiciliare, non presenta  connotati
di irragionevolezza  e  non  viola  il  principio  di  finalizzazione
rieducativa della pena. 
    3.4.- E' certo configurabile un diverso assetto  dei  presupposti
per l'accesso alla detenzione domiciliare "ordinaria", nel quadro  di
un eventuale complessivo riordino delle discipline per  l'accesso  ai
benefici penitenziari. 
    Con legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale,  al
codice di  procedura  penale  e  all'ordinamento  penitenziario),  il
Parlamento aveva in effetti delegato il Governo ad  adottare  decreti
legislativi di riforma della materia,  sollecitando  tra  l'altro  la
«revisione delle modalita' e dei presupposti di accesso  alle  misure
alternative, sia con riferimento ai presupposti  soggettivi  sia  con
riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso  alle
stesse [...]» (art. 1, comma 85, lettera b). Il conseguente schema di
decreto legislativo,  trasmesso  alle  Camere  il  15  gennaio  2018,
prevedeva in particolare - all'art. 15, comma 1, numero 4) - incisive
modifiche dell'art. 47-ter, comma  1-bis,  ordin.  penit.,  cosi'  da
elevare  la  soglia  di  pena  suscettibile  di  esecuzione  in  sede
domiciliare e soprattutto, per quanto qui interessa, da eliminare  il
regime  di  accesso  particolare  in  relazione  ai  reati   elencati
nell'art. 4-bis ordin. penit. 
    Non attuata,  per  questa  parte,  la  delega,  l'equilibrio  che
attualmente caratterizza la disciplina censurata costituisce comunque
espressione di discrezionalita', opinabile sul piano delle scelte  di
politica  penitenziaria,  ma  non  in  contrasto  con  il   principio
costituzionale di finalizzazione rieducativa  della  pena  (art.  27,
primo e  terzo  comma,  Cost.),  e  non  irragionevole  al  punto  da
integrare una lesione ex art. 3 Cost. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 47-ter, comma 1-bis, della legge 26  luglio  1975,  n.  354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della  liberta'),  sollevate,  in  riferimento
agli  artt.  3,  primo  comma  e  27,  primo  e  terzo  comma,  della
Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione  prima  penale,  con
l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 2020. 
 
                                F.to: 
                       Aldo CAROSI, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2020. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA