N. 27 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 2 marzo 2020

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria  il 2  marzo  2020  (del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri). 
 
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione  Veneto  -  Disposizioni
  per il recupero dei sottotetti  a  fini  abitativi  -  Finalita'  -
  Condizioni e limiti di applicazione - Titolo abitativo e contributo
  di costruzione. 
- Legge  della  Regione  Veneto  23  dicembre  2019,  n.  51   (Nuove
  disposizioni per il recupero  dei  sottotetti  a  fini  abitativi),
  artt. 1, comma 1; 2, commi 1, 2 e 3; e 3. 
(GU n.15 del 8-4-2020 )
    Ricorso ai sensi dell'art. 127 Cost. del Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  Generale  dello
Stato, nei cui uffici domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12; 
    Contro la Regione del Veneto, in persona del Presidente in carica
per l'impugnazione della legge regionale del Veneto 23 dicembre 2019,
n. 51, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione  del  Veneto
n. 150 del 27 dicembre  2019,  recante  «Nuove  disposizioni  per  il
recupero dei sottotetti a fini abitativi», in relazione: 
      all'art. 1, comma 1°; 
      all'art. 2, commi 1°, 2° e 3°; 
      all'art. 3. 
    La legge regionale del Veneto n. 51 del  2019  ha  la  finalita',
enunciata nel suo art. 1, comma 1°, di promuovere  «il  recupero  dei
sottotetti a fini abitativi con l'obiettivo di contenere  il  consumo
di suolo attraverso un piu' efficace riutilizzo dei volumi  esistenti
e la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente,  favorendo  la
messa in opera di interventi  tecnologici  per  il  contenimento  dei
consumi energetici, nel rispetto delle caratteristiche tipologiche  e
morfologiche    degli    edifici    nonche'    delle     prescrizioni
igienico-sanitarie riguardanti le condizioni di abitabilita'»,  fatto
«salvo quanto previsto all'art. 2». 
    Tale art. 2, rubricato «Condizioni e limiti di applicazione», nei
suoi primi tre commi dispone quanto segue: 
      «1. Il recupero dei  sottotetti  consentito  purche'  risultino
legittimamente realizzati alla data del 6 aprile 2019. Il regolamento
edilizio comunale determina le condizioni e i limiti per il  recupero
a fini abitativi dei  sottotetti,  fermo  restando  il  rispetto  dei
seguenti parametri: 
        a) l'altezza utile media di 2,40 metri per i  locali  adibiti
ad abitazione, di 2,20 metri per i  Comuni  montani  disciplinati  ai
sensi della legge regionale  28  settembre  2012,  n.  40  «Norme  in
materia di unioni montane» e di 2,20 metri per  i  locali  adibiti  a
servizi, quali corridoi, disimpegni, ripostigli  e  bagni.  L'altezza
utile media sara' calcolata dividendo il volume utile della parte del
sottotetto la cui altezza superi 1,60 metri, ridotto a 1,40 metri per
i comuni montani, per la relativa  superficie  utile;  gli  eventuali
spazi di altezza inferiore ai minimi devono  essere  chiusi  mediante
opere murarie o arredi fissi e ne puo' essere consentito  l'uso  come
spazio di servizio destinato a guardaroba  e  a  ripostiglio.  Per  i
locali con soffitto a volta, l'altezza media e' calcolata come  media
aritmetica tra l'altezza dell'imposta e quella del colmo misurata con
una tolleranza fino al 5 per cento; 
        b) il rapporto illuminante deve essere pari o superiore a  un
sedicesimo; 
        c) i progetti di recupero devono prevedere  idonee  opere  di
isolamento  termico  anche  ai  fini  del  contenimento  di   consumi
energetici che devono essere conformi alle prescrizioni  tecniche  ed
energetiche ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005,  n.  192
«Attuazione  della  direttiva  2002/91/CE  relativa   al   rendimento
energetico nell'edilizia»; 
        d) il recupero dei sottotetti  e'  consentito  esclusivamente
per  l'ampliamento  delle  unita'  abitative  esistenti  e  non  puo'
determinare un aumento del numero delle stesse. 
    2. Gli interventi edilizi finalizzati al recupero dei sottotetti,
devono avvenire senza alcuna modificazione della sagoma dell'edificio
esistente, delle altezze di colmo e di gronda nonche' delle linee  di
pendenza delle falde, fatta salva la necessita' di  inspessire  verso
l'esterno  le  falde  di  copertura  per  garantire  i  requisiti  di
rendimento energetico. il regolamento edilizio comunale determina  le
tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione al fine  di
rispettare  gli  aspetti   paesistici,   monumentali   e   ambientali
dell'edificio sul quale si intende intervenire. 
    3.  Fatte  salve  le  diverse  previsioni  del  piano  regolatore
comunale per gli edifici soggetti a tutela ai sensi degli articoli 13
e 17 della legge regionale 23  aprile  2004,  n.  11  «Norme  per  il
governo del territorio e in  materia  di  paesaggio»  e  della  parte
seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.  42  «Codice  dei
beni culturali e del paesaggio ai sensi dell'art. 10  della  legge  6
luglio 2002, n. 137», nel regolamento edilizio puo'  essere  prevista
la  ulteriore  esclusione  di  determinate  tipologie  edilizie   dal
recupero a  fini  abitativi  dei  sottotetti  con  deliberazione  del
Consiglio comunale. In particolare sono esclusi interventi  ricadenti
in  aree  soggette  a  regime  di  inedificabilita'  sulla  base   di
pianificazioni territoriali sovraordinate, in  aree  a  pericolosita'
idraulica o  idrogeologica  i  cui  piani  precludano  interventi  di
ampliamento volumetrico o di superficie». 
    Il successivo art. 3, intitolato «Titolo abilitativo e contributo
di costruzione», stabilisce quanto segue: 
    «1. Gli  interventi  diretti  al  recupero  dei  sottotetti  sono
classificati come ristrutturazione edilizia  ai  sensi  dell'art.  3,
comma 1, lettera d) del decreto del  Presidente  della  Repubblica  6
giugno 2001, n. 380 «Testo unico  delle  disposizioni  legislative  e
regolamentari in materia edilizia». 
    2.  Gli  interventi  previsti  dal  comma  1  sono   soggetti   a
segnalazione certificata di inizio di attivita' (SCIA), ai sensi  del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e comportano
la  corresponsione  di  un  contributo  commisurato  agli  oneri   di
urbanizzazione primaria e secondaria ed al costo  di  costruzione  di
cui all'art. 16 del medesimo decreto, calcolati sulla volumetria resa
abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti  in  ciascun  comune
per le opere di nuova costruzione. 
    3.  I   comuni   possono   deliberare   l'applicazione   di   una
maggiorazione,  nella  misura  massima  del  venti  per   cento   del
contributo di costruzione dovuto, da destinare  preferibilmente  alla
realizzazione di interventi di  riqualificazione  urbana,  di  arredo
urbana e  di  valorizzazione  del  patrimonio  comunale  di  edilizia
residenziale. 
    4. Gli interventi di recupero dei sottotetti restano  subordinati
al reperimento degli spazi per parcheggi pertinenziali in misura  non
inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di  costruzione
soggetta alla ristrutturazione, salvo quanto  disposto  dal  comma  4
dell'art. 2» 
    Nella seduta del 21 febbraio 2010, il Consiglio dei  ministri  ha
deliberato di impugnare la legge regionale in esame, in relazione  ai
suoi articoli 1, comma 1°, 2, commi 1°, 2 ° e 3° e 3,  ritenendo  che
tali disposizioni «violano gli articoli 3 e  97  della  Costituzione,
sotto il profilo della ragionevolezza, l'art. 32 della  Costituzione,
che riconosce la tutela  [del]la  salute  come  fondamentale  diritto
dell'individuo, in contrasto altresi'  con  la  competenza  esclusiva
dello Stato in materia di tutela del paesaggio di cui  all'art.  117,
secondo comma lettera s)  della  Costituzione,  e  [con  i]  principi
fondamentali in materia di governo  del  territorio  e  tutela  della
salute,  e  quindi  con  il   terzo   comma   dell'art.   117   della
Costituzione». 
    Il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  propone,  pertanto,
ricorso ai sensi dell'art. 127 Cost. per i seguenti 
 
                               Motivi 
 
1) Violazione degli articoli 3 e 32 della Costituzione. In  relazione
all'art. 117, comma terzo, violazione di principi fondamentali  nelle
materie, di legislazione concorrente, della «tutela della  salute»  e
del «governo del territorio». 
    Le disposizioni dell'art. 1, comma 1° e dell'art.  2,  comma  1°,
della legge regionale si pongono in contrasto  con  il  disposto  del
decreto del Ministro della  Sanita'  del  5  luglio  1975  e  s.m.i.,
recante «Modificazioni alle istruzioni ministeriali  20  giugno  1896
relativamente all'altezza minima ed  ai  requisiti  igienico-sanitari
principali dei locali d'abitazione», il quale, all'art. 1, stabilisce
che: 
      l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione
e' fissata in m. 2,70,  riducibili  a  m.  2,40  per  i  corridoi,  i
disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti  ed  i  ripostigli  (comma
1°); 
      nei comuni montani al di sopra dei m. 1000 sul livello del mare
puo' essere consentita,  tenuto  conto  delle  condizioni  climatiche
locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione  dell'altezza
minima dei locali abitabili a m. 2,55 (comma 2°); 
      le altezze minime previste nel primo e  secondo  comma  possono
essere derogate entro i limiti gia' esistenti  e  documentati  per  i
locali di abitazione  di  edifici  situati  in  ambito  di  comunita'
montane  sottoposti  ad  interventi  di  recupero   edilizio   e   di
miglioramento   delle   caratteristiche   igienico-sanitarie   quando
l'edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del  luogo
meritevoli di conservazione ed  a  condizione  che  la  richiesta  di
deroga sia  accompagnata  da  un  progetto  di  ristrutturazione  con
soluzioni alternative atte a garantire,  comunque,  in  relazione  al
numero  degli   occupanti,   idonee   condizioni   igienico-sanitarie
dell'alloggio,  ottenibili   prevedendo   una   maggiore   superficie
dell'alloggio e dei vani abitabili  ovvero  la  possibilita'  di  una
adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e  tipologia
delle finestre, dai riscontri d'aria trasversali  e  dall'impiego  di
mezzi di ventilazione naturale ausiliaria (comma 3°). 
    Il medesimo decreto  ministeriale  5  luglio  1975,  all'art.  5,
prevede, poi, quanto segue: 
      «Tutti i locali degli alloggi, eccettuati  quelli  destinati  a
servizi  igienici,  disimpegni,  corridoi,  vani-scala  e  ripostigli
debbono fruire  di  illuminazione  naturale  diretta,  adeguata  alla
destinazione d'uso. 
    Per ciascun locale d'abitazione, l'ampiezza della  finestra  deve
essere proporzionata in modo da assicurare un valore di fattore  luce
diurna medio non inferiore al 2%, e comunque la superficie finestrata
apribile non dovra' essere  inferiore  a  1/8  della  superficie  del
pavimento. 
    Per gli  edifici  compresi  nell'edilizia  pubblica  residenziale
occorre assicurare,  sulla  base  di  quanto  sopra  disposto  e  dei
risultati  e  sperimentazioni  razionali,  l'adozione  di  dimensioni
unificate di finestre e, quindi, dei relativi infissi». 
    Ne' le disposizioni regionali in questione appaiono coerenti  con
la disciplina contenuta  nel  decreto  del  Ministro  dello  sviluppo
economico del 26 giugno 2015, recante «Applicazione delle metodologie
di  calcolo  delle  prestazioni  energetiche  e   definizione   delle
prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici» che,  all'Allegato
1, punto 2.3 («Prescrizioni»), n. 4,  stabilisce  che  «nel  caso  di
installazione di impianti  termici  dotati  di  pannelli  radianti  a
pavimento o a  soffitto  e  nel  caso  di  intervento  di  isolamento
dall'interno, le altezze minime dei locali di abitazione previste  al
primo e al secondo comma, del decreto  ministeriale  5  luglio  1975,
possono essere derogate, fino a un massimo di  10  centimetri.  Resta
fermo che nei comuni montani al di sopra dei metri 1000  sul  livello
del mare  puo'  essere  consentita,  tenuto  conto  delle  condizioni
climatiche locali e della locale tipologia  edilizia,  una  riduzione
dell'altezza minima dei locali abitabili a metri 2,55». 
    Le  disposizioni  del  decreto   ministeriale   5   luglio   1975
costituiscono diretta attuazione della normativa nazionale in materia
di igiene e di suolo pubblico negli aggregati urbani. 
    Al riguardo, vale richiamare le  considerazioni  contenute  nella
sentenza n. 1997 del 2014 della Sezione IV del  Consiglio  di  Stato,
secondo la quale «le  norme  in  tema  di  altezza  minima  ed  aereo
illuminazione (...), seppur previste dal decreto del  Ministro  della
Sanita'  del  5  luglio  1975  (e  quindi  da  norme   di   carattere
regolamentare) costituiscono diretta attuazione degli  articoli  218,
344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie del 27  luglio  1934,
n. 126. Il carattere secondario  della  fonte  non  toglie  che  esse
attengano direttamente alla salubrita' e vivibilita' degli  ambienti,
ossia  a  condizioni  tutelate  direttamente  da  norme  primarie   e
costituzionali.  In  questi  casi,   cioe',   la   norma   secondaria
concretizza   il   generico   imperativo   della    norma    primaria
sostanziandone il contenuto minimo inderogabile in direzione  di  una
tutela  della  salute  e  sicurezza  degli  ambienti.   La   verifica
dell'abitabilita' non  puo'  prescinderne.  Del  resto,  una  diversa
interpretazione  che  giungesse  a  sostenere  la  derogabilita'  dei
requisiti minimi di salubrita', per il sol fatto  di  essere  fissati
con norma regolamentare si porrebbe sicuramente in contrasto  con  il
principio di ragionevolezza di cui  all'art.  3  della  Costituzione,
oltre che con l'art. 32 della stessa». (1) 
    Queste condivisibili considerazioni del  Consiglio  di  Stato  si
attagliano,  mutatis  mutandis,  anche  alle  disposizioni  regionali
oggetto del presente motivo di ricorso, che contengono una disciplina
a regime per il recupero dei sottotetti a fini  abitativi  (tanto  e'
vero che all'art. 5, comma 3,  si  dispone  che  «Le  volumetrie  dei
sottotetti  recuperate  ai  sensi  della  presente  legge  non   sono
computabili ai fini dell'applicazione degli  articoli  6  e  7  della
legge regionale 4 aprile 2019, n 14»). 
    Queste disposizioni violano, dunque, l'art. 3 e l'art.  32  della
Costituzione  in  quanto  si  discostano,  senza   che   emerga   una
ragionevole giustificazione, dai parametri  individuati  dallo  Stato
con il decreto ministeriale del 5 luglio 1975. 
    Le disposizioni in questione si pongono altresi' in contrasto con
i principi fondamentali nelle materie della tutela della salute e del
governo del territorio, stabiliti nel medesimo decreto  ministeriale,
cui -  per  le  ragioni  sopra  indicate  -  puo'  essere  attribuita
efficacia precettiva e  inderogabile,  tale  da  costituire  efficace
fonte di delimitazione della concorrente competenza regionale,  cosi'
come e' stato ripetutamente affermato, in un  ambito  di  regolazione
contiguo a quello qui  in  esame,  con  riferimento  alla  disciplina
contenuta nel decreto interministeriale 2 aprile 1968,  n.  1444,  in
materia di limiti inderogabili di densita' edilizia, di altezza e  di
distanza fra i fabbricati (si confronti, per tutte,  la  sentenza  n.
134 del 2014). 
2) Violazione dell'art. 9 della Costituzione. In  relazione  all'art.
117, comma secondo,  lettera  2),  Cost.  violazione  della  potesta'
legislativa  esclusiva  dello  Stato  nella  materia  della   «tutela
dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». Violazione  del
principio di leale collaborazione. 
    La disposizione di cui all'art. 2, comma 2, della legge regionale
impone, opportunamente, che il recupero dei sottotetti avvenga  senza
alcuna modificazione  della  sagoma  dell'edificio  esistente,  delle
altezze di colmo e di gronda, nonche' delle linee di  pendenza  delle
falde, fatta eccezione per l'ispessimento  delle  falde  al  fine  di
garantire  i  requisiti  di  rendimento  energetico.  Sono   escluse,
pertanto, le modificazioni piu' significative dell'aspetto  esteriore
degli edifici che potrebbero derivare dal  recupero  in  questione  e
avere rilevanza paesaggistica. 
    Va tuttavia osservato che il recupero dei sottotetti puo' rendere
necessaria l'apertura di finestre a raso e la creazione di abbaini  o
di  altre  tipologie  di  aperture,  onde  assicurare   i   requisiti
illuminotecnici e di aerazione, ai fini dell'abitabilita' dei  locali
sottotetto. 
    Al riguardo, la norma regionale in esame demanda  al  regolamento
edilizio comunale la  determinazione  delle  «tipologie  di  apertura
nelle falde e ogni altra condizione alfine di rispettare gli  aspetti
paesistici, monumentali  e  ambientali  dell'edificio  sul  quale  si
intende intervenire». 
    Inoltre, al comma 3°, con riguardo  alla  tutela  monumentale  di
competenza statale, vengono fatte salve le diverse disposizioni della
Parte II del Codice dei beni culturali e del paesaggio. 
    Per quanto concerne  la  tutela  paesaggistica,  la  clausola  di
salvezza viene invece riferita alle  «diverse  previsioni  del  piano
regolatore comunale per gli edifici soggetti a tutela ai sensi  degli
articoli 13 e 17 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 - "Norme
per il governo del territorio e in materia di paesaggio"», dunque  ai
soli contenuti del piano regolatore comunale. 
    Ora, anche l'introduzione di aperture nei  tetti  puo'  rivestire
una rilevanza paesaggistica, in particolare  nell'ambito  dei  centri
storici o dell'edilizia storica extraurbana. 
    La determinazione delle «tipologie di apertura nelle falde e ogni
altra condizione alfine di rispettare gli aspetti paesaggistici»  non
puo',  pertanto,  essere  demandata,  per  gli  ambiti   territoriali
sottoposti a tutela paesaggistica, ai regolamenti edilizi o ai  piani
urbanistici comunali, ma deve  essere  regolata  necessariamente  dal
Piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice dei
beni culturali e del paesaggio, o dalla  disciplina  d'uso  dei  beni
paesaggistici, di cui agli articoli 140, 141 e 141-bis  del  medesimo
Codice. 
    Per tale ragione le citate  disposizioni  regionali  invadono  la
sfera di competenza esclusiva riservata  allo  Stato  dall'art.  117,
secondo comma, lett. s), della Costituzione, e pregiudica l'interesse
costituzionale alla tutela del paesaggio, tutelato dall'art. 9  della
Costituzione, che costituisce valore primario e assoluto (si veda  la
sentenza n. 367 del 2007 della Corte). 
    Gia' con la sentenza n. 9 del 2004 la Corte aveva  chiarito  come
rientri  tra  le  attivita'  costituenti  tutela,  riservata  in  via
esclusiva allo Stato, quella diretta «a conservare i beni culturali e
ambientali», ossia diretta «principalmente ad impedire  che  il  bene
possa  degradarsi  nella  sua  struttura  fisica  e  quindi  nel  suo
contenuto culturale». 
    Questa riserva  di  competenza  statale  sulla  tutela  dei  beni
culturali si giustifica anche  in  ragione  della  «peculiarita'  del
patrimonio storico-artistico italiano, formato in  grandissima  parte
da opere nate nel corso di oltre venticinque  secoli  nel  territorio
italiano  e  che  delle  vicende  storiche  del  nostro  Paese   sono
espressione  e  testimonianza.  Essi  vanno  considerati   nel   loro
complesso come un  tutt'uno,  anche  a  prescindere  dal  valore  del
singolo bene isolatamente considerato». 
    In  termini  piu'  generali,  la  Corte  ha  precisato  che   sul
territorio vengono a trovarsi di fronte - tra gli altri -  «due  tipi
di  interessi  pubblici  diversi:  quello  alla   conservazione   del
paesaggio,  affidato  allo  Stato,  e  quello  alla   fruizione   del
territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367  del  2007,
cit.). 
    Fermo  restando  che  la  tutela  del  paesaggio  e  quella   del
territorio sono necessariamente distinte,  rientra  nella  competenza
legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le  ipotesi
di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi.  Se  il
legislatore regionale potesse definire  a  propria  discrezione  tale
linea, la conseguente difformita' normativa che  si  avrebbe  tra  le
varie Regioni produrrebbe rilevanti  ricadute  sul  «paesaggio  (...)
della Nazione» (art. 9 Cost.), inteso come «aspetto  del  territorio,
per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che  e'  di  per
se' un valore costituzionale» (sentenza n. 367 del 2007), e sulla sua
tutela (sentenza n. 309 del 2011). 
    Le disposizioni contrastano anche con la scelta  del  legislatore
statale di rimettere alla pianificazione la disciplina d'uso dei beni
paesaggistici   (c.d.    vestizione    dei    vincoli),    ai    fini
dell'autorizzazione degli  interventi:  scelta,  questa,  esplicitata
negli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei  beni  culturale  e  del
paesaggio,  costituenti  norme  interposte  rispetto   al   parametro
costituzionale di cui agli articoli 9 e 117, secondo comma, lett.  s)
della Costituzione. 
    Al riguardo, occorre tenere presente che la parte III del  Codice
dei beni culturali e del paesaggio delinea  un  sistema  organico  di
tutela  paesaggistica,  inserendo  i   tradizionali   strumenti   del
provvedimento   impositivo   del   vincolo   e    dell'autorizzazione
paesaggistica  nel  quadro  della  pianificazione  paesaggistica  del
territorio, che  deve  essere  elaborata  concordemente  da  Stato  e
Regione. 
    Tale  pianificazione  concordata  prevede,  per   ciascuna   area
tutelata, le c.d. prescrizioni d'uso (e cioe' i criteri  di  gestione
del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria)  e  stabilisce
la tipologia delle trasformazioni compatibili e  di  quelle  vietate,
nonche' le condizioni delle eventuali trasformazioni. 
    Il   legislatore   nazionale,   nell'esercizio   della   potesta'
legislativa esclusiva in materia, ha assegnato al piano paesaggistico
una   posizione   di   assoluta   preminenza   nel   contesto   della
pianificazione territoriale. Gli articoli 143, comma 9, e 145,  comma
3, del Codice di  settore  stabiliscono,  infatti,  l'inderogabilita'
delle previsioni del predetto strumento da parte di piani,  programmi
e progetti nazionali o regionali di  sviluppo  economico  e  la  loro
cogenza rispetto  agli  strumenti  urbanistici,  nonche'  l'immediata
prevalenza  del  piano  paesaggistico  su  ogni  altro   atto   della
pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte  cost.  n.  180
del 2008). 
    Si  tratta  di  una  scelta  di  principio  la  cui  validita'  e
importanza e'  gia'  stata  affermata  piu'  volte  dalla  Corte,  in
occasione  dell'impugnazione  di  leggi  regionali  che   intendevano
mantenere  uno  spazio  decisionale  autonomo   agii   strumenti   di
pianificazione dei Comuni e delle  Regioni,  eludendo  la  necessaria
condivisione delle scelte attraverso uno strumento di  pianificazione
sovracomunale, definito d'intesa tra lo Stato e a Regione. 
    La Corte ha, infatti, affermato l'esistenza di un vero e  proprio
obbligo, costituente un  principio  inderogabile  della  legislazione
statale, di  elaborazione  congiunta  del  piano  paesaggistico,  con
riferimento ai beni vincolati (sent. n. 86 del 2019) e  ha  rimarcato
che  l'impronta  unitaria  della  pianificazione  paesaggistica   «e'
assunta a valore  imprescindibile,  non  derogabile  dal  legislatore
regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una
metodologia uniforme nel rispetto delta legislazione  di  tutela  dei
beni culturali  e  paesaggistici  sull'intero  territorio  nazionale»
(sent. n. 182 del 2006; cfr. anche sent. n. 272 del 2009). 
    La legge regionale in esame, e in particolare l'art. 2, commi  2°
e 3°, confliggono dunque con la  normativa  statale,  laddove  affida
esclusivamente agli strumenti urbanistici la disciplina  che  regola,
per i beni paesaggistici, le possibili trasformazioni delle coperture
degli edifici potenzialmente anche molto rilevanti. 
    Basti  pensare,  in  proposito,  all'eventualita'  della  diffusa
introduzione di finestre a  raso  o  abbaini  sulle  coperture  delle
unita' edilizie che compongono il tessuto dei centri storici tutelati
sotto il profilo paesaggistico. 
    Questo profilo di illegittimita' non viene meno per il fatto  che
la disciplina regionale non esclude la necessita' di munirsi, per gli
interventi relativi  a  beni  tutelati,  anche  dei  l'autorizzazione
paesaggistica, in quanto la normativa regionale comunque consente,  a
monte e in astratto, possibili ampie trasformazioni degli immobili  e
quindi del contesto tutelato, a scapito della sua  «conservazione»  e
«integrita'». 
    Viene pertanto compromessa la  possibilita'  di  una  valutazione
complessiva  della  trasformazione  del  contesto   tutelato,   quale
dovrebbe  avvenire  nell'ambito  del  Piano  paesaggistico,  adottato
previa intesa con lo Stato e attualmente in itinere, rimettendo  alla
Soprintendenza una (mera) valutazione caso per caso degli interventi. 
    La norma regionale, peraltro, cosi' come  configurata  si  presta
anche  a   ingenerare   possibili   equivoci   nell'utenza,   essendo
suscettibile di indurre  l'erronea  aspettativa  di  una  valutazione
favorevole anche in sede paesaggistica  nel  caso  di  interventi  in
linea con i regolamenti edilizi o i piani  regolatori  comunali,  con
l'ulteriore rischio di incrementare il contenzioso. 
    Occorre, infine, anche rilevare la violazione  del  principio  di
leale collaborazione, atteso che da anni e' in corso con  la  Regione
Veneto il tavolo di copianificazione per l'elaborazione congiunta del
Piano paesaggistico regionale, ai sensi degli articoli 135 e 143  del
Codice, sede istituzionalmente deputata al confronto sulle  questioni
in esame. 
    Va ricordato al riguardo che, secondo l'insegnamento della  Corte
costituzionale, il principio di leale collaborazione «deve presiedere
a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni», atteso  che
la sua elasticita' e la sua adattabilita' lo rendono  particolarmente
idoneo a regolare in modo dinamico rapporti in questione,  attenuando
i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti (cosi' in particolare,
tra le tante, Corte cost. n. 31 del 2006). In particolare,  la  Corte
ha chiarito che «il principio di leale collaborazione, anche  in  una
accezione minimale, impone alle parti che  sottoscrivono  un  accordo
ufficiale in una sede istituzionale  di  tener  fede  ad  un  impegno
assunto» (cosi' ancora la sentenza richiamata). 
    La  scelta  della  Regione  del  Veneto  di  assumere  iniziative
unilaterali,  al  di  fuori  del  percorso  di  collaborazione   gia'
proficuamente avviato con lo Stato, si pone, pertanto,  in  contrasto
anche con il predetto principio. 
3) In relazione all'art. 117, comma  terzo,  violazione  di  principi
fondamentali nella materia del «governo del territorio». 
    Si  e'  visto  che  l'art.  3  della  legge  regionale  impugnata
stabilisce, ai commi 1° e 2°, che gli interventi diretti al  recupero
dei sottotetti sono classificati come  ristrutturazione  edilizia  ai
sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 380 del 2001  («Testo  unico  delle  disposizioni
legislative  e  regolamentari  in  materia  edilizia»)  e  che   tali
interventi previsti  sono  soggetti  a  segnalazione  certificata  di
inizio di' attivita' (c.d. «SCIA»)  ai  sensi  di  tale  decreto  del
Presidente della Repubblica,  comportando  la  corresponsione  di  un
contributo  commisurata  agli  oneri  di  urbanizzazione  primaria  e
secondaria e al costo di costruzione di cui all'art. 16 del  medesimo
decreto,  calcolati  sulla  volumetria,  resa  abitativa  secondo  le
tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere  di  nuova
costruzione. 
    Queste previsioni, nell'assoggettare gli  interventi  diretti  al
recupero   dei   sottotetti   -   correttamente   qualificati   quali
ristrutturazioni edilizie ai sensi dell'art. 3, comma i, lettera  d),
del decreto del Presidente della Repubblica  n.  380  del  2001  -  a
segnalazione  certificata  di  inizio  attivita',  violano  le  norme
interposte contenute negli articoli 10, comma  1°,  lettera  c),  23,
comma 01, lett. a) e 22, comma 1°, lett. e) del medesimo testo  unico
dell'edilizia. 
    Le indicate norme statali, infatti, esigono, per simili tipologie
di intervento, il permesso di costruire  o  la  SCIA  alternativa  al
permesso di costruire. 
    Il mero  riferimento  operato  dalla  disposizione  regionale  in
parola alla «segnalazione certificata di inizio di  attivita'  (SCIA)
ai sensi del decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.  380  del
2001», considerata anche la genericita' del richiamo al  testo  unico
dell'edilizia, non appare sufficiente  a  indicare  correttamente  il
titolo   richiesto   dalla   normativa   statale   ai   fini    della
realizzabilita' dei predetti interventi. 
    Infatti, come noto, le disposizioni del  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 380 del 2001 riguardano  anche  la  SCIA  di  cui
all'art. 22 del medesimo testo unico. 
    Le norme  regionali  quindi,  nella  misura  in  cui  violano  le
disposizioni sopra richiamate  del  testo  unico  dell'edilizia,  che
costituiscono  principi  fondamentali  in  materia  di  governo   del
territorio, si pongono in contrasto  con  l'art.  117,  terzo  comma,
della Costituzione. 

(1) Nella medesima decisione il Consiglio di Stato, occupandosi della
    disciplina  del  condono  edilizio,   ha   chiarito   che   «puo'
    sicuramente escludersi un'automatica corrispondenza  tra  condono
    ed abitabilita'. Come chiarito da Corte costituzionale n. 256/96,
    «la disciplina del condono non vale ad escludere ogni obbligo  da
    parte del Comune di accertamento delle condizioni  di  salubrita'
    ai  fini  dell'abitabilita'  degli  edifici...»  «Ne'  rileva»  -
    prosegue la Corte - «la  circostanza  che  l'art.  35,  ventesimo
    comma, preveda, a seguito  della  concessione  in  sanatoria,  il
    rilascio del certificato di abitabilita' o  agibilita'  anche  in
    deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari,  purche'  non
    sussista contrasto con le  disposizioni  vigenti  in  materia  di
    sicurezza  statica  e  di  prevenzione  degli  incendi  e   degli
    infortuni, poiche' la deroga non riguarda, i requisiti  richiesti
    da disposizioni legislative». Ne deriva che «deve escludersi  una
    automaticita'  assoluta   nel   rilascio   del   certificato   di
    abitabilita' pur  nella  piu'  semplice  forma  disciplinata  dal
    decreto del Presidente della Repubblica n. 425 del 1994 a seguito
    di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune  verificare
    che al momento del rilascio del certificato di abitabilita' siano
    osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 del  testo
    unico delle leggi sanitarie  (rectius,  di  cui  all'art.  4  del
    decreto del Presidente della Repubblica n.  425  del  1994),  ma,
    altresi', quelle previste  da  altre  disposizioni  di  legge  in
    materia  di  abitabilita'  e  servizi   essenziali   relativi   e
    rispettiva normativa tecnica, quali quelle a tutela  delle  acque
    dall'inquinamento, quelle sul consumo energetico, ecc.» 
 
                              P. Q. M. 
 
    Alla stregua di quanto precede  si  confida  che  codesta  Ecc.ma
Corte vorra'  dichiarare  l'illegittimita'  dell'art.  1,  comma  1°,
dell'art. 2, commi 1°, 2° e 3° e dell'art. 3, della  legge  regionale
del Veneto 23 dicembre 2019, n. 51. 
    Si produrra' copia autentica della  deliberazione  del  Consiglio
dei ministri del 21 febbraio 2020, con l'allegata relazione. 
      Roma, 24 febbraio 2020 
 
                 L'Avvocato dello Stato: Fiorentino