N. 172 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 agosto 2020

Ordinanza del 26 agosto 2020  del  Consiglio  di  Stato  sul  ricorso
proposto da Vigoriti Federico contro  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri e altri. 
 
Impiego pubblico - Riforma  degli  onorari  dell'Avvocatura  generale
  dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici - Previsione che
  i compensi professionali del personale dell'Avvocatura dello  Stato
  sono computati  ai  fini  del  raggiungimento  del  limite  massimo
  retributivo di cui all'art. 23-ter, comma 1, del  decreto-legge  n.
  201  del  2011,  quale  risulta  da  una  lettura   omnicomprensiva
  dell'inciso "a carico delle finanze pubbliche". 
- Decreto-legge  24  giugno  2014,  n.  90  (Misure  urgenti  per  la
  semplificazione e la trasparenza amministrativa e per  l'efficienza
  degli uffici  giudiziari),  convertito,  con  modificazioni,  nella
  legge 11 agosto 2014,  n.  114,  art.  9,  comma  1,  in  combinato
  disposto con l'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge  6  dicembre
  2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e  il
  consolidamento dei conti pubblici), convertito, con  modificazioni,
  nella legge 22 dicembre 2011, n. 214. 
(GU n.50 del 9-12-2020 )
 
                        IL CONSIGLIO DI STATO 
              in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) 
 
    Ha pronunciato la presente sentenza non definitiva sul ricorso in
appello iscritto al  numero  di  registro  generale  8496  del  2019,
proposto da: 
        Vigoriti Federico,  rappresentato  e  difeso  dagli  avvocati
Felice Laudadio e Ferdinando Scotto, con domicilio digitale  come  da
Pec Registri di giustizia; 
    Contro: 
        Presidenza  del  Consiglio  dei  ministri,  in  persona   del
Presidente del Consiglio pro  tempore  e  Ministero  dell'economia  e
delle  finanze,  in  persona  del  Ministro  pro   tempore,   nonche'
Avvocatura generale dello  Stato  ed  Avvocatura  distrettuale  dello
Stato di Napoli, in persona dei rispettivi legali rappresentanti  pro
tempore, rappresentati e  difesi  ex  lege  dall'Avvocatura  generale
dello Stato, presso i cui uffici in Roma,  via  dei  Portoghesi,  12,
sono elettivamente domiciliati; 
    Per  la  riforma  della  sentenza  del  Tribunale  amministrativo
regionale per la Campania - sede di Napoli, Sezione IV, n. 3338/2019,
resa tra le parti; 
    Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio della  Presidenza  del
Consiglio dei ministri, del Ministero dell'economia e delle  finanze,
dell'Avvocatura generale dello Stato e  dell'Avvocatura  distrettuale
dello Stato di Napoli; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 luglio 2020 -  tenuta
ai sensi e con le modalita' di cui all'art. 84,  commi  5  e  6,  del
decreto-legge n. 18 del  2020,  convertito  con  modificazioni  dalla
legge n. 27 del 2020, come da verbale - il Cons. Valerio Perotti; 
    Visto l'art. 36, comma 2 del Codice del processo amministrativo; 
    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. 
 
                                Fatto 
 
    L'avvocato dello Stato  Vigoriti  Federico,  in  servizio  presso
l'Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli, proponeva ricorso al
Tribunale amministrativo della Campania per l'annullamento: 
        del provvedimento (di  estremi  ignoti)  con  cui  era  stata
effettuata  della  trattenuta  sui  compensi  professionali  di   cui
all'art. 21 regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione  del
testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza
e difesa in giudizio dello Stato e  sull'ordinamento  dell'Avvocatura
dello Stato), relativa al primo quadrimestre del 2015,  nella  misura
di lordi euro 7.799,64,  operata  per  il  ritenuto  superamento  del
limite retributivo di  cui  all'art.  23-ter  decreto  legislativo  6
dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,
l'equita' e il consolidamento dei  conti  pubblici),  convertito  con
modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214,  anche  ai  sensi
degli articoli 13 decreto legislativo 24 aprile 2014, n.  66  (Misure
urgenti per la competitivita' e  la  giustizia  sociale),  convertito
dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, e 9 decreto-legge 24 giugno  2014,
n. 90  (Misure  urgenti  per  la  semplificazione  e  la  trasparenza
amministrativa  e  per   l'efficienza   degli   uffici   giudiziari),
convertito dalla legge 11 agosto 2014, n. 114; 
    nonche' per l'accertamento e la declaratoria: 
        del diritto dell'avvocato dello Stato Vigoriti Federico  alla
liquidazione in suo favore, integrale  e  senza  decurtazioni,  degli
emolumenti dovuti ai sensi degli articoli 21  del  regio  decreto  30
ottobre 1933, n. 1611; 61 del regio decreto 30 ottobre 1933, n.  1612
(Approvazione del regolamento per l'esecuzione del testo unico  delle
leggi e delle norme  giuridiche  sulla  rappresentanza  e  difesa  in
giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello  Stato)
ed  1  della  legge  23  dicembre  1993,  n.  559  (Disciplina  della
soppressione  delle  gestioni  fuori   bilancio   nell'ambito   delle
amministrazioni dello Stato),  relativi  al  primo  quadrimestre  del
2015, «nonche' a tutti  i  successivi  percipiendi,  sia  per  quanto
concerne  i  3/10  che  i  7/10,  di  cui  alle  modalita'  legali  e
regolamentari di riparto,  ed  in  particolare  senza  che  ne  venga
operata la trattenuta di cui all'art.  23-ter  del  decreto-legge  n.
201/2011  cit.,  ne'  alcuna  altra  ritenuta,  oltre   interessi   e
rivalutazione monetaria del credito». 
    Il  ricorrente  chiedeva  inoltre,   in   via   subordinata,   il
risarcimento del danno da inadempimento  dell'obbligo  di  pagamento,
ovvero dal ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo. 
    Con sentenza 17 giugno 2019, n. 3338, il giudice adito respingeva
il ricorso, nelle sue molteplici articolazioni. 
    Avverso  tale  sentenza  il   ricorrente   interponeva   appello,
circoscrivendolo a due soli dei motivi di  impugnazione  dedotti  nel
precedente grado di giudizio e precisamente: 
        1) Omessa motivazione su un punto decisivo della controversia
- Omessa decisione - Violazione di legge e in  particolare  dell'art.
23-ter del decreto-legge n. 201/2011. 
        L'appellante ribadiva, in particolare, che  dovessero  essere
esclusi dal computo del tetto retributivo gli importi  introitati,  a
carico delle controparti soccombenti, delle spese  di  lite  poste  a
carico - della parte privata soccombente e quantificate  dal  giudice
(cd. «spese vinte»), in quanto  non  provenienti  dalle  casse  dello
Stato. 
        2) Incompatibilita'  difensiva  -  Espunzione  dal  fascicolo
processuale   degli   atti   documenti   depositati   dal   difensore
dell'amministrazione - Vizio della motivazione - Motivazione mancante
ovvero apparente. 
        Ad avviso del ricorrente sussisterebbe infatti  un  interesse
comune  a  tutti  gli  Avvocati  dello  Stato,  ivi  compreso  quello
specificamente incaricato della trattazione dell'odierno contenzioso,
all'oggetto  specifico  della   causa,   all'attualita'   ovvero   in
prospettiva futura (per gli avvocati e procuratori dello Stato il cui
trattamento retributivo  ancora  non  raggiunga  il  «tetto»  di  cui
trattasi); per l'effetto, tutto il personale  togato  dell'Avvocatura
dello Stato  verrebbe  a  versare  in  una  oggettiva  condizione  di
conflitto  di  interessi  in  ordine  all'auspicata  «cessazione   di
efficacia delle norme censurate di incostituzionalita',  ovvero  alla
loro corretta applicazione nei sensi di cui al ricorso». 
    Si  costituivano  in  resistenza  le  amministrazioni  appellate,
eccependo l'infondatezza del gravame e  conseguentemente  chiedendone
la reiezione. 
 
                               Diritto 
 
    Ritiene il Collegio di dover innanzitutto esaminare - per ragioni
logiche e sistematiche - le censure dedotte con il secondo motivo  di
appello, sull'asserita incompatibilita' di  tutti,  in  pratica,  gli
avvocati e procuratori dello Stato a difendere l'amministrazione  nel
presente giudizio, in quanto tutti necessariamente ed indistintamente
portatori - nell'attualita' o in prospettiva futura - di un interesse
personale contrapposto a quello dell'ente patrocinato. 
    Il motivo e' inammissibile e, comunque, infondato. 
    In  primo  luogo,  infatti,  non  e'  dato  individuare  in  capo
all'odierno  appellante  un  interesse  rilevante  e   giuridicamente
tutelabile a dolersi dell'attribuzione, ad un  determinato  organo  o
soggetto, del patrocinio legale delle proprie controparti processuali
(prescritto, peraltro, come  necessario  ed  inderogabile):  a  tutto
concedere, le sole legittimate a sollevare un ipotetico conflitto  di
tale natura sarebbero  le  amministrazioni  patrocinate,  secondo  le
disposizioni di legge vigenti. 
    Nel merito, la doglianza e' comunque senza pregio. 
    L'appellante  sostiene  infatti  -  anche  alla  luce  di  quanto
previsto dal Codice etico dell'Avvocatura dello Stato in ordine  agli
obblighi di astensione del personale togato dalla  trattazione  degli
affari legali - che qualsiasi avvocato o procuratore dello Stato  non
potrebbe mai assumere la  difesa  delle  amministrazioni  attualmente
evocate  in  giudizio,  avendo  necessariamente  un  interesse   alla
decisione della causa nel  senso  auspicato  dall'appellante,  avendo
questa ad oggetto la corretta interpretazione  (ed  applicazione)  di
una norma di diritto che prima o poi - in ragione della  progressione
di carriera e del conseguente incremento  retributivo  -  verrebbe  a
trovare applicazione per ciascuno di essi. 
    Cosi' argomentando, pero', l'appellante  impropriamente  confonde
ed assimila la persona fisica del singolo  avvocato  (o  procuratore)
dello Stato che di volta in volta viene incaricato della  trattazione
del singolo affare con l'Ufficio cui questi appartiene. 
    Come bene rilevato dal primo giudice, infatti, e' l'Ufficio  che,
e per espressa volonta'  della  legge,  assume  istituzionalmente  il
patrocinio delle controversie  in  cui  e'  parte  un'amministrazione
dello Stato e lo svolge in maniera impersonale. In  questo  contesto,
non assume rilievo la persona fisica, avvocato  o  procuratore  dello
Stato, che in concreto e' incaricato di espletare  il  patrocinio  in
giudizio, di tale che e' da escludersi in radice la  configurabilita'
di una situazione di incompatibilita', fattispecie  che  riguarda  le
persone fisiche e non gli uffici dello Stato. Il che supera qualsiasi
altro  rilievo  sul  tema,  come  circa  il  carattere   legale   del
patrocinio, la fonte della sua attribuzione e  la  non  oppositivita'
dell'interesse dedotto al riguardo. 
    Venendo poi al merito, dunque al primo motivo di appello, ritiene
il Collegio che sussistano i presupposti di rilevanza e non manifesta
infondatezza per rimettere alla Corte costituzionale la questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 1,  del  decreto-legge
24 giugno 2014, n. 90 (convertito con modificazioni  dalla  legge  11
agosto 2014, n. 114), nel combinato disposto con  l'art.  23-ter  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (convertito, con modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214), per contrasto con gli articoli
3, 23, 36, 53 e 81 della Costituzione. 
    Il detto art. 9 dispone, al comma 1:  «I  compensi  professionali
corrisposti amministrazioni pubbliche di' cui all'art.  1,  comma  2,
del  decreto  legislativo  30  marzo  2001,  n.  165,  e   successive
modificazioni, agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse,
ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato, sono  computati
ai fini del raggiungimento del limite  retributivo  di  cui  all'art.
23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011,  n.  201,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011,  n.  214,  e  successive
modificazioni». 
    A sua volta, il richiamato art. 23-ter del decreto-legge  n.  201
del 2011 prevede: «Con  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, previo parere delle  competenti  Commissioni  parlamentari,
entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della  legge  di
conversione  del  presente  decreto,  e'  definito   il   trattamento
economico annuo onnicomprensivo di chiunque  riceva  a  carico  delle
finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito  di  rapporti
di  lavoro  dipendente  o  autonomo  con  pubbliche   amministrazioni
statali, di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in
regime di diritto pubblico di cui all'art.  3  del  medesimo  decreto
legislativo, e successive modificazioni,  stabilendo  come  parametro
massimo di riferimento il trattamento economico del primo  presidente
della Corte di Cassazione. Ai fini dell'applicazione della disciplina
di cui al presente comma devono essere computate in  modo  cumulativo
le somme comunque erogate all'interessato a carico del medesimo o  di
piu' organismi, anche nel caso di pluralita' di  incarichi  conferiti
da uno stesso organismo nel corso dell'anno». 
    Il rapporto tra le due norme e' di espressamente  ricondurre  (ad
opera dell'art.  9)  all'oggetto  dell'art.  23-ter  una  particolare
tipologia di attribuzioni economiche, ossia i «compensi professionali
corrisposti dalle amministrazioni pubbliche» - per quanto  rileva  ai
fini del presente giudizio - agli avvocati e procuratori dello  Stato
(le cd. «propine»). 
    Nel  caso  di  specie,  l'appellante  evidenza  come  sia   stato
decurtato dai compensi  di  sua  spettanza,  relativamente  al  primo
quadrimestre del 2015 (ed in particolare alla quota dei 7/10  -  cfr.
infra) ed in applicazione dell'art. 23-ter decreto-legge n.  201  del
2011, l'importo lordo di euro 7.799,64. Corollario  dell'applicazione
delle norme citate  e'  altresi',  in  via  automatica,  l'esclusione
dell'appellante da tutte le successive quote di riparto degli onorari
relativi al 2015, con analogo trattamento anche per  tutti  gli  anni
successivi, senza limite di tempo. 
    Quanto sopra da' il segno della  rilevanza  della  questione,  ai
fini della decisione del giudizio di appello: e'  infatti  appena  il
caso di evidenziare che la mancata  corresponsione  degli  emolumenti
lamentata dall'appellante discende in  modo  automatico  e  vincolato
dalla necessita' di dare applicazione al richiamato art. 9 (ovvero da
una lettura  onnicomprensiva  dell'inciso  «a  carico  delle  finanze
pubbliche» di cui  all'art.  23-ter,  che  vi  faccia  ricadere  ogni
importo a qualunque titolo corrisposto -  e  cio'  in  ragione  della
formulazione generalista della disposizione -  da  un'amministrazione
pubblica) al fine del calcolo delle relative spettanze (retributive o
premiali). 
    Al fine di enucleare in maniera precisa le ragioni che portano  a
dubitare della legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma  primo,
del  decreto-legge  n.   90   del   2014   (nonche'   della   lettura
onnicomprensiva, in parte qua, dell'art. 23-ter del decreto-legge  n.
201 del 2011, di cui si e' appena detto) occorre ricordare  l'assetto
normativo in cui si colloca la disciplina contenuta  in  quest'ultima
disposizione, cosi come bene descritto dalla sentenza  costituzionale
26 maggio 2017, n. 124, della quale  si  riportano  i  passaggi  piu'
rilevanti. 
    La disciplina del limite massimo alle retribuzioni (di  cui  agli
articoli 23-ter del decreto-legge n. 201 del 2011 e 13, comma 1,  del
decreto-legge n. 66 del 2014) costituisce il paradigma  generale  cui
ricondurre la materia delle attribuzioni  economiche  della  pubblica
amministrazione in favore dei propri dipendenti,  ad  essa  dovendosi
fare riferimento, ad esempio, anche le previsioni in tema  di  cumulo
tra pensioni e retribuzioni a carico delle  finanze  pubbliche.  Tale
disciplina si iscrive in un contesto di risorse limitate, che  devono
essere ripartite in maniera congrua e trasparente. 
    «Il limite delle risorse disponibili» - precisa sempre  la  detta
sentenza costituzionale - «immanente al settore pubblico, vincola  il
legislatore a scelte coerenti, preordinate  a  bilanciare  molteplici
valori di rango costituzionale, come le parita' di trattamento  (art.
3 della Costituzione), il diritto a  una  retribuzione  proporzionata
alla quantita' e alla qualita' del lavoro svolto e comunque idonea  a
garantire un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma della
Costituzione), il diritto a un'adeguata  tutela  previdenziale  (art.
38, secondo  comma  della  Costituzione),  il  buon  andamento  della
pubblica amministrazione (art. 97 della Costituzione)». 
    Ancora, «nel settore pubblico  non  e'  precluso  al  legislatore
dettare  un  limite  massimo  alle  retribuzioni  e  al  cumulo   tra
retribuzioni  e  pensioni,  a  condizione  che  la  scelta,  volta  a
bilanciare  i  diversi  valori  coinvolti,  non  sia   manifestamente
irragionevole. 
    In tale ottica, si richiede il rispetto  di  requisiti  rigorosi,
che salvaguardino l'idoneita'  del  limite  fissato  a  garantire  un
adeguato   e   proporzionato    contemperamento    degli    interessi
contrapposti. Il fine prioritario della razionalizzazione della spesa
deve tener  conto  delle  risorse  concretamente  disponibili,  senza
svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalita' elevate». 
    Nella  specie,  rileva  la  Corte  costituzionale,  l'indicazione
precisa  di  un  limite  massimo  alle  retribuzioni  pubbliche   non
confligge con i principi appena richiamati. 
    Invero, la disciplina  in  esame,  pur  dettata  dalla  difficile
congiuntura  economica  e  finanziaria,  trascende  la  finalita'  di
conseguire risparmi immediati e si inquadra  in  una  prospettiva  di
lungo periodo, di talche' la circostanza che la relazione tecnica non
computi  i  risparmi  attesi  non   e'   di   per   se'   sintomatica
dell'irragionevolezza della norma. 
    Le molteplici  variabili  in  gioco  precludono  una  valutazione
preventiva  ponderata  e  credibile.  Non  a  caso,   nel   dibattito
parlamentare,  che  prelude  all'approvazione  dell'art.  23-ter  del
decreto-legge n. 201 del 2011, si e' attribuito alla norma  censurata
un impatto quantificabile solo «a consuntivo». 
    In questa prospettiva va considerato il vincolo  di  destinazione
che la legge assegna alle risorse derivanti  dall'applicazione  delle
norme censurate, stabilendo che siano destinate annualmente al  Fondo
per l'ammortamento dei titoli di Stato (art.  23-ter,  comma  4,  del
decreto-legge n. 201 del 2011 ed art. 1, comma 474,  della  legge  n.
147 del 2013), appartenente a una contabilita' speciale di tesoreria. 
    La disciplina del limite alle retribuzioni  pubbliche  e',  nella
sostanza,  una  misura  di   contenimento   della   spesa   pubblica,
analogamente  ad  altri  capillari  interventi   altrove   introdotti
(decreto-legge 31 maggio 2010, n.  78,  recante  «Misure  urgenti  in
materia  di   stabilizzazione   finanziaria   e   di   competitivita'
economica», convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  30  luglio
2010,  n.  122;  decreto-legge  6  luglio  2011,   n.   98,   recante
«Disposizioni   urgenti   per   la   stabilizzazione    finanziaria»,
convertito, con modificazioni, dalla legge 15  luglio  2011,  n.  11;
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per
la revisione della spesa  pubblica  con  invarianza  dei  servizi  ai
cittadini», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012,
n. 135; decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante «Misure  urgenti
per la  competitivita'  e  la  giustizia  sociale»,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n.  89;  decreto-legge  24
giugno 2014, n. 90, recante «Misure urgenti per la semplificazione  e
la  trasparenza  amministrativa  e  per  l'efficienza  degli   uffici
giudiziari», convertito, con modificazioni,  dalla  legge  11  agosto
2014, n. 114). 
    Inoltre, sin dalle prime  applicazioni,  riferibili  all'art.  3,
commi 43 e seguenti, della legge 24 dicembre 2007,  n.  244,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (legge finanziaria 2008)»,  le  disposizioni  sui  limiti
retributivi si affiancano usualmente ad obblighi di pubblicita' degli
incarichi. 
    Il contenimento della spesa non e' fine in se', e in tali casi si
mostra  coerente  con  altri  obiettivi  intesi  a   valorizzare   la
conoscenza della gestione delle risorse pubbliche. 
    La  disciplina  primaria  vagliata  dalla  Corte   costituzionale
persegue  pertanto   «finalita'   di   contenimento   e   complessiva
razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di  garanzia  degli
altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate. 
    La non irragionevolezza delle scelte del legislatore  si  combina
con la valenza generale del limite retributivo, che si  delinea  come
misura di razionalizzazione, suscettibile  di  imporsi  a  tutti  gli
apparati amministrativi (sentenza  n.  153  del  2015,  con  riguardo
all'imposizione di tale limite alle autonomie territoriali). 
    Il limite retributivo,  dapprima  riferito  alle  amministrazioni
statali, in base all'art. 3, comma 43, della legge 24 dicembre  2007,
n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale
e pluriennale dello Stato  (Legge  finanziaria  2008)»,  ha  via  via
attratto nella sua orbita anche le pubbliche amministrazioni  diverse
da quelle statali, le autorita' amministrative indipendenti (art.  1,
commi  471  e  475,  della  legge  n.  147  del  2013),  le  societa'
partecipate  in  via  diretta  o  indiretta   dalle   amministrazioni
pubbliche (art. 13, comma 2, lettera c, del decreto-legge n.  66  del
2014). 
    Infine, a conferma di tale linea evolutiva della legislazione, il
limite massimo retributivo di 240.000  euro  annui  e'  stato  esteso
anche agli amministratori, al personale dipendente, ai  collaboratori
e ai  consulenti  del  soggetto  affidatario  della  concessione  del
servizio pubblico radiofonico,  televisivo  e  multimediale,  la  cui
prestazione professionale non sia stabilita da tariffe  regolamentate
(art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n.  198,
recante "Istituzione del Fondo  per  il  pluralismo  e  l'innovazione
dell'informazione e deleghe al Governo  per  la  ridefinizione  della
disciplina del sostegno  pubblico  per  il  settore  dell'editoria  e
dell'emittenza radiofonica e televisiva locale, della  disciplina  di
profili pensionistici dei giornalisti e della  composizione  e  delle
competenze  del  Consiglio  nazionale  dell'Ordine  dei  giornalisti.
Procedura per l'affidamento  in  concessione  del  servizio  pubblico
radiofonico, televisivo e multimediale"». 
    La giurisprudenza costituzionale pertanto considera dirimente che
tale misura di contenimento della  spesa  abbia  valenza  generale  -
ossia operi in maniera analoga ed omogenea per tutte le categorie  di
pubblici funzionari (coerentemente  a  un  orientamento  consolidato:
cfr. sentenze n. 178 del 2015 e n. 310 del 2013). 
    Premesso quanto sopra, vanno ancora precisati  due  elementi,  al
fine di definire il quadro giuridico da cui scaturisce l'incidente di
costituzionalita'. 
        1) In primo luogo, va chiarito in cosa esattamente consistano
i  «compensi  professionali»  (ovvero  «propine»)  corrisposti   agli
avvocati e procuratori dello Stato,  cui  fa  riferimento  l'art.  9,
comma primo, del decreto-legge n. 90 del 2014. 
        Ai sensi dell'art. 21 del regio decreto n. 1611 del 1933,  la
corresponsione delle  quote  di  spettanza  dei  singoli  avvocati  e
procuratori dello Stato avviene  su  base  quadrimestrale,  ai  sensi
dell'art. 61 del regio decreto n. 1612 del 1933, il quale prevede che
«la loro  ripartizione  e'  fatta  alla  fine  di  ogni  quadrimestre
dell'esercizio finanziario». 
        Attualmente, per effetto del combinato disposto dell'art.  9,
commi 2, 4 e 6, del decreto-legge  n.  90  del  2014,  le  competenze
difensive degli avvocati e procuratori dello Stato sono limitate alle
somme per onorari  e  diritti  liquidate  in  sentenza.  La  novella,
infatti - come evidenziato nella sentenza della Corte  costituzionale
n. 236 del 10 novembre 2017 (nella  Gazzetta  Ufficiale  15  novembre
2017,  n.  46,  1ª  Serie  speciale)  -  rispetto   alle   voci   che
originariamente  componevano   tali   emolumenti   ha   neutralizzato
integralmente la quota relativa al «compensato» (che erano, per  loro
natura,  a  carico  del  bilancio   delle   singole   amministrazioni
patrocinate), mantenendo la pretesa prendere parte alla  ripartizione
del «riscosso» (le cd. «spese liquidate»), costituito come  detto  da
quanto versato dalle controparti  soccombenti  -  sebbene  nella  sua
totalita' ma in termini percentuali ridotti rispetto a prima. 
        Giova poi rilevare che, quanto ai criteri  di  formazione  ed
imputazione dei predetti compensi professionali, risulta - in sintesi
- quanto segue, alla luce di quanto esposto, da  ultimo,  nel  «Piano
triennale  di  prevenzione  della  corruzione  e  della   trasparenza
2019-2021» dell'Avvocatura dello Stato. 
        La  Ragioneria  generale  dello   Stato   invia   mensilmente
all'Avvocatura generale, che lo dirama a tutte le sedi  distrettuali,
l'estratto conto delle entrate sul capitolo 3518, capo X, art. 1  del
bilancio dello Stato, su cui confluiscono tutte le somme  riscosse  a
titolo di competenze. 
        Dall'estratto  conto  mensile  gli  addetti  all'area   della
liquidazione rilevano gli estremi delle quietanze di competenza della
propria sede da registrare  nel  sistema  informativo  e,  attraverso
apposita    funzione    dell'applicativo    gestionale,    provvedono
all'elaborazione e alla stampa delle ricevute. 
        In particolare, ai sensi dell'art. 21 del  regio  decreto  n.
1611 del 1933, l'Avvocatura generale  dello  Stato  e  le  Avvocature
distrettuali nei giudizi rispettivamente trattati  curano  l'esazione
delle competenze di avvocato e di  procuratore  nei  confronti  delle
controparti se tali competenze sono poste a carico delle  controparti
stesse per disposto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione. 
        Con l'osservanza delle disposizioni contenute nel  titolo  II
della legge 25 novembre 1971, n. 1041, le somme in questione  vengono
ripartite per sette decimi tra gli avvocati e procuratori di  ciascun
ufficio in base alle norme del regolamento e per tre decimi in misura
uguale fra tutti gli avvocati e procuratori dello Stato. 
        La ripartizione ha luogo una volta che i titoli, in  base  ai
quali le somme sono state riscosse, siano divenuti  irrevocabili:  le
sentenze per passaggio in giudicato, le rinunce per accettazione e le
transazioni, ecc., 
        Le dettagliate modalita' di esazione e  di  ripartizione  dei
detti onorari sono poi  stabilite  dal  decreto  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri del 29 febbraio 1972. 
        Come previsto all'art. 61 del regio decreto n. 1612 del 1933,
la  ripartizione  delle  competenze  di  avvocato  e  di  procuratore
devolute all'Avvocatura dello Stato,  ai  termini  dell'art.  21  del
regio decreto 1611 del  1933,  vanno  ripartire  alla  fine  di  ogni
quadrimestre dell'esercizio finanziario.  Pertanto,  l'ultimo  giorno
dei mesi di aprile, agosto e  dicembre,  il  personale  addetto  alla
liquidazione provvede alla chiusura della contabilita' quadrimestrale
di competenza della propria sede ed all'elaborazione  del  rispettivo
rendiconto. 
        Il rendiconto viene prodotto in triplice copia e firmato  per
l'attestazione  di  veridicita'   delle   scritture   contabili   dal
Segretario  generale  per  la  sede   centrale   e   dagli   avvocati
distrettuali per le sedi territoriali. 
        Al rendiconto  informatizzato  sono  allegati:  il  prospetto
delle somme riscosse, gli elenchi delle quietanze di versamento delle
somme esatte nel quadrimestre e divenute divisibili e di  quelle  non
ancora divenute divisibili; l'elenco delle somme esatte e versate nei
precedenti   quadrimestri   e   divenute    divisibili    nell'ultimo
quadrimestre e di quelle non ancora divenute divisibili; i  prospetti
di riparto tra il personale delle  somme  divenute  nel  quadrimestre
divisibili. Gli elenchi  sono  divisi  anche  per  data  di  esercizi
finanziari diversi in funzione del riversamento di somme al  capitolo
4439. Dopo aver effettuato la verifica  dei  rendiconti  delle  somme
esatte a titolo di onorari di causa da tutte le  sedi  e  versate  in
Tesoreria, al Capo X -  Capitolo  3518,  art.  1  -  dello  stato  di
previsione  dell'entrata  del   bilancio   dello   Stato,   l'Ufficio
trattamento economico e di quiescenza degli  avvocati  e  procuratori
dello Stato deve richiedere  all'Ufficio  centrale  del  bilancio  la
riassegnazione  delle  sopradette  somme  versate,  al  capitolo   di
bilancio 4439; l'ufficio predetto provvede, infine, alla ripartizione
delle quote secondo quanto previsto dalla  legge  e  dai  regolamenti
interni. 
        E' dunque palese da un lato la natura  retributiva  di  detti
emolumenti, seppure calcolati nei modi differenziati teste'  esposti;
da un altro la loro provvista non a carico sostanziale  del  bilancio
dello Stato, ma dei soggetti soccombenti in giustizia verso lo Stato:
dunque la loro intrinseca estraneita'  a  obiettivi  di  contenimento
della finanza pubblica. Lo Stato e' solo il soggetto che li  riscuote
dai terzi e li redistribuisce, ma non ne e' l'avente diritto  ne'  ne
e' gravato. 
        Tali  competenze  non  sono   dovute   per   il   sol   fatto
dell'attivita' lavorativa svolta, bensi' hanno una funzione per cosi'
dire di remunerazione «premiale», essendo devolute non sulla base  di
criteri connotati da mero automatismo  (quale,  a  titolo  d'esempio,
l'anzianita' di ruolo), bensi' «in base  al  rendimento  individuale,
secondo criteri  oggettivamente  misurabili  che  tengano  conto  tra
l'altro  della  puntualita'  negli  adempimenti  processuali»  (cosi'
l'art. 9, comma 5 decreto-legge n. 90 del 2014), previsti da appositi
regolamenti dell'Avvocatura  dello  Stato  (attualmente  si  veda  il
decreto 28 ottobre 2014, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale  del  12
novembre 2014, n. 263). 
        2) In secondo luogo, va chiarito cosa  debba  intendersi  con
l'espressione   «a    carico    delle    finanze    pubbliche»    che
contraddistingue, ai sensi dell'art. 23-ter del decreto-legge n.  201
del 2011, gli «emolumenti o retribuzioni» da computare  ai  fini  del
raggiungimento  del  cd.  «tetto  massimo  retributivo»  su  cui   si
controverte. 
        Ritiene il Collegio - alla luce del rilievo della  richiamata
sentenza costituzionale n. 236 del  2017  (specificamente,  al  punto
9.6.4), che evidenzia come non possano considerarsi «a  carico  delle
finanze pubbliche» gli importi costituenti le cd.  «spese  liquidate»
(o  «spese   vinte»,   secondo   l'accezione   ivi   utilizzata)   da
corrispondersi ad avvocati e procuratori  dello  Stato  -  che  detti
importi vadano esclusi dal computo del «trattamento  economico  annuo
onnicomprensivo» di cui alla norma in esame. 
    La rilevazione della sentenza costituzionale riflette la speciale
disciplina contabile applicabile ai detti emolumenti. 
    In particolare, l'art. 1 della legge n. 559  del  1993  prescrive
che i fondi gia' costituiti  dalle  singole  Avvocature  distrettuali
(mediante  accredito  diretto  dei  diritti  ed  onorari   di   causa
corrisposti  dalle  controparti  soccombenti,  in  ipotesi  di   loro
condanna alle spese di lite -  cd.  «spese  liquidate»),  come  sopra
spettanti  per  legge  e   regolamento   attuativo,   siano   versati
nell'apposito capitolo dello stato  di  previsione  dell'entrata  del
bilancio dello Stato (n. 3518, art. 1, capo X, rubrica 2, Cat. XI) al
solo  scopo  del  successivo  riparto  quadrimestrale,   cui   questi
emolumenti sono vincolati. 
    La norma, in particolare, prevede: «Le competenze di cui all'art.
21 del testo  unico  delle  leggi  e  delle  norme  giuridiche  sulla
rappresentanza e difesa in giudizio dello  Stato  e  sull'ordinamento
dell'Avvocatura dello Stato, approvato con regio decreto  30  ottobre
1933, n. 1611, come modificato dall'art.  27  della  legge  3  aprile
1979, n. 103, sono  versate  ad  apposito  capitolo  dello  stato  di
previsione  dell'entrata  del  bilancio  dello   Stato   per   essere
riassegnate,  con  decreti  del  Ministro  del  tesoro,  ad  apposito
capitolo di spesa, da  iscrivere  nello  stato  di  previsione  della
Presidenza del Consiglio dei ministri, rubrica 41 - Avvocatura  dello
Stato, al quale sono imputati i relativi pagamenti»). 
    Si e' dunque in presenza di un vincolo ex  lege  di  destinazione
delle somme affluenti su detto capitolo (vincolato) in  favore  delle
persone degli  Avvocati  e  Procuratori  dello  Stato,  cui  consegue
l'obbligo  per  il  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze,   di
riassegnale nel competente capitolo (parimenti vincolato) del proprio
stato di previsione della spesa  (capitolo  4439)  e  di  emettere  i
relativi ordini di pagamento. 
    Del resto, le  somme  in  questione  sono  riscosse  direttamente
dall'Avvocatura  dello  Stato  non  per  conto  dell'amministrazione,
bensi' nella sua qualita' di distrattaria ex lege  (ex  art.  21  del
regio decreto n. 1611 del 1933). Al riguardo, anche la giurisprudenza
della Suprema Corte (cfr. Cassazione civ., III, 23  maggio  2000,  n.
6723) da tempo riconosce che non puo' attribuirsi  effetto  estintivo
(dell'obbligazione, derivante dalla condanna di una parte alle  spese
del giudizio), al pagamento effettuato a mezzo di  assegno  intestato
al  titolare  pro  tempore  dell'organo  dell'amministrazione  difesa
dall'Avvocatura erariale, che non ha  legittimazione  a  ricevere  il
pagamento. 
    La conclusione cui giunge  la  sentenza  costituzionale  risponde
inoltre a principi di logica,  ove  si  consideri,  come  detto,  che
quelli su cui si controverte non sono - come lo erano invece un tempo
le  cd.  «spese  compensate»  -  importi  prelevati  dai  bilanci  di
previsione delle amministrazioni patrocinate (e, per  tali,  «a  loro
carico»),  ma  sono  somme  versate  perlopiu'  da  soggetti  privati
(riscossi  dall'Avvocatura  dello  Stato  nella   sua   qualita'   di
distrattaria  ex  lege),  dunque  non  alimentate  dalla   fiscalita'
generale. Dunque la loro corresponsione ai destinatari  non  riflette
una spesa pubblica, cioe' un  prelievo  retributivo  a  carico  delle
finanze pubbliche, ma un semplice passaggio di valuta proveniente  ab
extra e dalla legge delegato all'ufficio dell'Avvocatura erariale. Ne
consegue che la natura  economica  di  queste  somme  le  fa  restare
estranee al perimetro di applicazione di una  legge  di  contenimento
della spesa pubblica. 
    A ragionare diversamente - ossia a una lettura  «onnicomprensiva»
del richiamato art. 23-ter, non  incentrata  sul  contenimento  della
spesa  pubblica   ma   indistintamente   comprensiva   di   qualsiasi
attribuzione retributiva a carico di un soggetto pubblico formalmente
proveniente dalla pubblica amministrazione - si verrebbe da un lato a
contraddire la richiamata rilevazione del giudice delle leggi, sia la
ratio manifestamente ispiratrice (e  giustificatrice)  della  novella
legislativa (come delineata sempre dalla Corte  costituzionale  nella
precedente sentenza n. 124 del 2017): vale a  dire,  si  assegnerebbe
alla norma una diversa funzione, di ordine  strettamente  politico  e
sociale, di mera  equiordinazione  delle  retribuzioni  pubbliche  di
tutti i pubblici dipendenti (salvo, si intende, i casi  di  eccezione
nominati dalla legge). 
    Del resto, la previsione di cui all'art.  23-ter,  comma  1,  che
introduce un limite retributivo fisso  ed  inderogabile,  e'  in  se'
manifestamente derogatoria, una volta raggiunto il tetto massimo, del
fondamentale principio generale - espresso dall'art. 36, comma  primo
della Costituzione - di proporzionalita' tra lavoro  e  retribuzione,
alla luce della quantita' e qualita' del primo. Sicche', proprio  per
questa sua manifesta criticita' costituzionale (cui  si  aggiunge  la
manifesta disparita' di  trattamento  con  i  livelli  elevati  della
dirigenza privata, non sottoposta ad analogo limite), va in ogni caso
considerata eccezionale e di  stretta  interpretazione:  anche  sotto
tale  profilo,  pertanto,  non  pare   costituzionalmente   legittima
l'interpretazione onnicomprensiva di detta norma. 
    L'intervento  legislativo,   del   resto,   si   giustifica   con
l'obiettivo di ridurre, in modo omogeneo e  generalizzato,  la  spesa
pubblica (in particolare, quella corrente)  per  far  fronte  ad  una
perdurante  crisi  economica,  «cosi'  da  realizzare  un  definitivo
risparmio degli esborsi gravanti sulla collettivita'», non  anche  in
quello di «realizzare una acquisizione di risorse per la copertura di
pubbliche spese»,  ponendo  in  essere  un  prelievo  sostanzialmente
tributario al  ristretto  carico  di  alcune  categorie  di  pubblici
dipendenti, in via definitiva ed attingendo a  fondi  (finanziati  da
introiti non rivenienti dalla fiscalita' generale, ne' imputabili  ad
amministrazioni dello Stato) sui quali  e'  impresso  un  particolare
vincolo legislativo di scopo - in favore dei dipendenti medesimi. 
    La particolare natura di tali fondi e' specifica  dell'Avvocatura
dello Stato: solo per essa la legge ha eliminato la possibilita' -  a
far  data  dall'entrata  in  vigore  dell'art.   9,   comma   6   del
decreto-legge n. 90 del 2014 - di  percepire  compensi  professionali
nei «casi di pronunciata compensazione  integrale  delle  spese,  ivi
compresi  quelli  di  transazione  dopo  sentenza   favorevole   alle
amministrazioni»,    ossia    contabilmente    «a    carico»    delle
amministrazioni patrocinate. 
    Alla luce dei rilievi che precedono e dei  richiamati  precedenti
della  Corte  costituzionale,  appare   dunque   non   manifestamente
infondata - e  rilevante  al  fine  della  decisione  della  presente
controversia  -  la  questione   circa   l'incostituzionalita',   per
contrasto con gli articoli 3, 23, 36, 53 e 81  della  Costituzione  -
dell'art. 9, comma 1, del decreto-legge n. 90 del 2014,  nella  parte
in  cui,  non  escludendoli   espressamente,   riconduce,   in   modo
automatico, questi tra i «i compensi  professionali  corrisposti  ...
[al]  personale  dell'Avvocatura  dello  Stato,  [...]  ai  fini  del
raggiungimento del limite retributivo  di  cui  all'art.  23-ter  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201». 
    Posto che la legge ha fatto venir meno qualsiasi onere  economico
a  carico  delle  amministrazioni  patrocinate  -  i  «compensi»   in
questione derivando esclusivamente dalle somme effettivamente versate
dalle controparti soccombenti in giudizio -  la  generica  previsione
dell'art. 9, comma 1, cit. si manifesta come in  realta'  finalizzata
ad effettuare  uno  speciale  prelievo  tributario  ad  personam,  in
violazione dei consolidati principi espressi in materia  dal  giudice
delle leggi: con cio' negando al tempo stesso la ragionevolezza e  la
parita' di trattamento, la riserva di legge sulle  prestazioni  (qui:
lavorative)  imposte,  il  principio  di  capacita'  retributiva,  il
principio  di   proporzionalita'   della   retribuzione   al   lavoro
effettivamente reso, il principio del rapporto tra  entrate  e  spese
pubbliche: tutti espressi  dalle  disposizioni  costituzionali  sopra
citate. 
    Al riguardo, in particolare, dell'art. 53 della Costituzione,  va
rammentato che (cfr. Corte costituzionale n. 236 del 2017; n. 96  del
2016; n. 178 e n. 70 del 2015; n. 154 del 2014; n. 310 e n.  304  del
2013; n. 233 del 2012), «una fattispecie  deve  ritenersi  di  natura
tributaria,  indipendentemente  dalla  qualificazione   offerta   dal
legislatore, laddove si riscontrino tre indefettibili  requisiti:  la
disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare
una  definitiva  decurtazione  patrimoniale  a  carico  del  soggetto
passivo; la decurtazione  non  deve  integrare  una  modifica  di  un
rapporto sinallagmatico;  le  risorse,  connesse  ad  un  presupposto
economicamente rilevante e  derivanti  dalla  suddetta  decurtazione,
debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese». 
    Ritiene il Collegio che sussistano tali presupposti, nel caso  di
specie. 
    Quanto al primo profilo, la  decurtazione  patrimoniale  disposta
per effetto dell'art. 9 del decreto-legge n. 90 del 2014 ha carattere
permanente e definitivo, tali  requisiti  caratterizzando  il  limite
retributivo introdotto dall'art. 23-ter del decreto-legge n. 201  del
2011, cui la prima norma fa rinvio. 
    D'altra parte, a seguire Corte costituzionale, n.  236  del  2017
(sia pure  in  relazione  a  questione  diversa  rispetto  al  «tetto
stipendiale» su cui si verte), il ricorso di primo  grado  era  stato
proposto dopo che effettivamente l'amministrazione aveva  iniziato  a
decurtare il quantum debeatur (come documentato dall'appellante),  di
talche' si verteva «su situazioni giuridiche soggettive»  ormai  gia'
maturate, «vale  a  dire  quelle  inerenti  ai  giudizi  definiti  da
provvedimenti depositati dopo l'emanazione del regolamento di cui  al
comma 5». 
    Ritiene il Collegio integrati  anche  i  presupposti  di  cui  al
secondo profilo (che piu' direttamente si collegano agli articoli 3 e
36 della Costituzione), in ragione del quale la decurtazione non deve
essere espressione e conseguenza  di  una  modifica  di  un  rapporto
sinallagmatico (nella specie, di un emolumento di natura  retributiva
e proporzionale connesso ad un rapporto di  lavoro  pubblico  statale
«non contrattualizzato»), 
    In particolare,  sempre  nel  solco  tracciato  dalla  richiamata
sentenza costituzionale n. 236 del 2017, non ricorrono i  presupposti
a suo tempo ivi individuati per escluderlo. 
    Oggetto del contendere, infatti, non e' - come allora - il mutato
regime  di  calcolo  dei  compensi  professionali   di   avvocati   e
procuratori  dello   Stato   (relativamente   al   quale   la   Corte
costituzionale aveva rilevato come il nuovo regime giuridico -  lungi
dall'esaurirsi   in   una   riformulazione   delle   percentuali   di
partecipazione  alle  cd.  «propine»  -  avesse  in  realta'  operato
un'autentica modifica del sinallagma contrattuale, venendo il diritto
alle stesse «modulato differentemente in ragione del rendimento degli
avvocati dipendenti»): oggetto dell'odierna questione  e'  invece  la
legittimita' dell'inclusione di  tali  compensi,  sebbene  costituiti
solo da somme «non a carico» delle amministrazioni patrocinate, nella
base di calcolo del cd. «tetto stipendiale». 
    In breve, la natura giuridica (come la  composizione)  delle  cd.
«spese liquidate» (il «riscosso», secondo l'espressione  usata  nella
sentenza n. 236 del 2017) non  ha  subito  modifiche  a  opera  della
novella legislativa, che ha fatto salva la  disciplina  previgente  a
quel proposito. 
    Del  pari,  la  computabilita'  di  tali  introiti  ai  fini  del
raggiungimento del «tetto stipendiale» non e' nemmeno  effetto  della
ponderazione del rendimento degli avvocati dipendenti  (che  fondava,
per la sentenza n. 236, il mutamento del  rapporto  sinallagmatico  a
base della specifica situazione remunerativa incisa dalla novella). 
    Consegue  pertanto  la   realta'   di   una   mera   decurtazione
patrimoniale, e con carattere non temporaneo ma di definitivita':  il
che riconduce la fattispecie  nel  novero  dei  casi  di  imposizione
tributaria anomala ed implicita, secondo l'insegnamento  della  dalla
Corte costituzionale. 
    Sussiste infine anche il terzo presupposto, ossia la destinazione
delle somme non corrisposte al finanziamento della spesa pubblica, in
ragione  di  quanto  previsto  dall'art.   23-ter,   comma   4,   del
decreto-legge n.  201  del  2011,  a  mente  del  quale  «Le  risorse
rivenienti dall'applicazione delle misure di cui al presente articolo
sono annualmente versate al Fondo per l'ammortamento  dei  titoli  di
Stato». 
    Posta,  dunque,  la  natura  intrinsecamente   tributaria   della
decurtazione disposta dalla novella  in  disamina,  va  rilevato  che
l'imposizione introdotta dalle disposizioni censurate (si  ribadisce,
l'art. 9, comma 1, del decreto-legge n. 90 del 2014 e - limitatamente
alla lettura onnicomprensiva della revisione «a carico delle  finanze
pubbliche» ivi contenuta - l'art. 23-ter, comma 1, del  decreto-legge
n. 201 del 2011) incide su  una  particolare  voce  remunerativa  che
compone, a carico di terzi e non dello Stato, un  reddito  lavorativo
complessivo. Il quale  e'  per  intero  gia'  sottoposto  a  prelievo
tributario, in condizioni di parita' con tutti gli  altri  percettori
di reddito di lavoro. 
    Il che manifesta un'ulteriore violazione anche dell'art. 3  della
Costituzione, per l'evidente bis in idem del prelievo tributario e la
disparita' con altri  corrispondenti  lavoratori,  sia  pubblici  che
privati; e comunque contraddice il principio  generale  dell'art.  53
della Costituzione sulla capacita' contributiva, che - affermando che
«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della
loro capacita' contributiva», lega l'obbligo di concorrere alle spese
pubbliche alla effettiva capacita' contributiva.  La  norma  primaria
risultante da quanto esposto, infatti, provoca che sia  colpita  piu'
gravemente, a  parita'  di  capacita'  contributiva  per  redditi  di
lavoro, la categoria cui appartiene l'appellante. 
    Nel caso specifico degli avvocati e procuratori dello  Stato,  la
novella invero ha introdotto senza ragione -  in  ragione  di  quanto
detto  sulla  natura  delle  cd.   «propine»   -   un   elemento   di
discriminazione  (dal  che  anche  la  violazione  del  principio  di
ragionevolezza  ex  art.  3  della  Costituzione)  in   danno   della
particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati che
beneficia della titolarita' dei compensi professionali in discorso. 
    Nemmeno si potrebbe sostenere che l'intervento legislativo  abbia
finalita' «perequativa»,  trattandosi  di  privilegium  odiosum  che,
avendo per destinataria un'unica categoria di percettori di  reddito,
va a vulnerare solo questi ultimi  e  con  esclusivo  riferimento  ai
compensi di cui trattasi. 
    Inoltre,  va  considerato  che  comunque   una   restrizione   al
trattamento economico che annulli completamente, per chi ha raggiunto
il tetto, questa modalita' di retribuzione proporzionale  potrebbe  a
tutto concedere solo essere temporanea: quando invece la norma e'  ad
efficacia sine die.  Sicche'  anche  da  questo  punto  di  vista  la
disciplina censurata, proprio in ragione del carattere  di  prelievo,
appare di dubbia costituzionalita' in quanto non  temporanea,  bensi'
strutturalmente connotata quale modificazione permanente. 
    A tal riguardo, deve riconoscersi (cfr. Corte  costituzionale  23
dicembre   2019,   n.    288)    che    l'eventuale    «temporaneita'
dell'imposizione non costituisce un argomento sufficiente  a  fornire
giustificazione  a  un'imposta,  che  potrebbe   comunque   risultare
disarticolata dai principi costituzionali»,  di  talche',  a  maggior
ragione, deve concludersi che la definitivita' del  prelievo  fiscale
(qui,  per  di  piu',  in  forma  occulta,  il   che   manifestamente
contraddice il principio per cui  «Nessuna  prestazione  personale  o
patrimoniale puo' essere imposta se non in base alla legge»,  di  cui
all'art. 23 della Costituzione), ancor piu' rimarchi l'illegittimita'
di quest'ultimo, ove giustappunto disancorato dai  predetti  principi
(ex articoli 3, 23 e 53 della Costituzione). 
    Nel  caso  di  specie,  di  fatto   e'   stata   integrata,   con
l'imposizione di un prelievo forzoso sulle sole «spese liquidate»  di
competenza  degli   avvocati   e   procuratori   dello   Stato,   una
«discriminazione qualitativa» che, in termini pratici,  aggrava,  pur
senza esplicitarlo, gli effetti della progressione tributaria. 
    Invece il principio dell'eguaglianza tributaria,  desumibile  dal
combinato disposto degli articoli 3 e 53 della  Costituzione,  impone
che «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche
o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata  da  adeguate
giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione  degenera
in arbitraria  discriminazione»  (cosi'  gia'  Corte  costituzionale,
sentenza n. 10 del 2015). 
    Ancora, la scelta del legislatore di computare i compensi di  cui
trattasi - per effetto del piu' volte richiamato art. 9, comma primo,
decreto-legge n. 90 del 2014 - ai fini  del  raggiungimento  del  cd.
«tetto stipendiale» e' incoerente con  la  natura  «premiale»  (sulla
base del «rendimento  individuale»)  impressa  a  tali  compensi  dal
successivo comma 5 del medesimo art. 9, con  cio'  contraddicendo  il
principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione. 
    In effetti, sul presupposto che gli onorari  in  questione  siano
per loro natura estranei agli emolumenti contemplati dall'art. 23-ter
del decreto-legge n. 201 del  2011  (la  loro  riconduzione  in  tale
ambito essendo dovuta ad una successiva norma ad hoc quale l'art.  9,
comma primo cit.), il fatto che  con  l'avanzare  dell'anzianita'  di
servizio - cui e' notoriamente correlata la progressione  stipendiale
- il diritto alla loro percezione progressivamente si riduca  sino  a
venir meno, all'apice  della  carriera,  palesemente  contraddice  la
dichiarata  volonta'  legislativa  di  ricondurre  tale  attribuzione
economica  alla  «bravura»  ed  efficienza  del  singolo  avvocato  o
procuratore dello Stato nello svolgimento del su servizio. 
    Invero, e' dato  di  comune  esperienza  che  con  il  progredire
dell'anzianita' di servizio - tanto piu' in un  contesto  di  elevata
specializzazione quale quello delle professioni legali -  matura  una
maggiore esperienza in campo lavorativo, si' che il predetto art.  9,
comma primo finisce in concreto - con automatismo  vincolato,  scevro
da qualsiasi considerazione  del  caso  concreto  -  per  danneggiare
proprio il personale avente maggiore esperienza e quindi -  in  linea
generale - di potenziale maggior produttivita'. 
    Sotto un ulteriore profilo, infine, le  norme  censurate  (recte,
gli  effetti  che  da  esse  discendono)  vanno  contro  il  generale
principio di cui all'art. 81, comma primo della Costituzione, laddove
«Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio
bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e  delle  fasi  favorevoli
del ciclo economico». 
    Invero - posto che le entrate in questione resterebbero prelevate
si' ai debitori ma poi  incamerate  dallo  Stato,  non  venendo  piu'
distribuite una volta raggiunto il «tetto» individuale: sicche' ci si
troverebbe  di  fronte  ad  un  ulteriore  prelievo  dissimulatamente
tributario  -  diviene  giocoforza  rilevare  che  detto  particolare
prelievo di detta  parte  del  «riscosso»  che  sarebbe  spettato  ad
avvocati e procuratori dello Stato di per se'  prescinde,  nel  modus
operandi, da adeguamenti alle mutate condizioni del ciclo  economico.
Dunque, e'  un  meccanismo  nemmeno  destinato  a  ridurre  la  spesa
corrente, quanto (come in precedenza gia' adombrato) ad aumentare  le
entrate tributarie palesi o, come queste, dissimulate. 
    E cio' nonostante l'intervento sia stato rappresentato alla  luce
del contingente peggioramento della  congiuntura  economica:  che  e'
presupposto  sempre  preso  in  considerazione  dalla  giurisprudenza
costituzionale al fine del riscontro di legittimita' (in  primis,  di
ragionevolezza) di diversi profili del quadro  normativo  anche  qui,
sotto questi profili, sospettato di incostituzionalita'. 
    In  virtu'  delle  ragioni  esposte,  e   poiche'   la   presente
controversia  non  puo'  essere  definita   indipendentemente   dalla
risoluzione delle delineate questioni di legittimita' costituzionale,
il giudizio va sospeso e vanno rimesse alla Corte costituzionale,  ai
sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1  e
dell'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, le questioni di legittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma primo, del decreto-legge n. 90  del
2014 nonche', nei termini della indicata sua lettura onnicomprensiva,
dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge n.  201  del  2011,  per
contrasto con agli articoli 3, 23, 36, 53 e 81 della Costituzione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale  (Sezione  Quinta),
non  definitivamente  pronunciando  sull'appello  come  in   epigrafe
proposto, respinge il secondo motivo di impugnazione. 
    Visti  gli  articoli  134  della  Costituzione,  1  della   legge
costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953,
n.  87,  dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondata,   in
relazione agli articoli 3, 23, 36, 53 e  81  della  Costituzione,  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9,  comma  1,  del
decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (nonche', nei termini di  cui  in
motivazione, dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6  dicembre
2011, n. 201). 
    Sospende il giudizio in corso e ordina  l'immediata  trasmissione
degli atti  alla  Corte  costituzionale.  Ordina  che  a  cura  della
segreteria la presente sentenza, non definitiva sia  notificata  alle
parti e sia comunicata al Presidente del Consiglio dei ministri. 
    Cosi' deciso in Roma nella  Camera  di  consiglio  del  giorno  9
luglio 2020 con l'intervento dei magistrati: 
        Giuseppe Severini, Presidente 
        Fabio Franconiero, consigliere 
        Valerio Perotti, consigliere, estensore 
        Stefano Fantini, consigliere 
        Giuseppina Luciana Barreca, consigliere 
 
                       Il Presidente: Severini 
 
 
                                                 L'estensore: Perotti