N. 137 SENTENZA 25 maggio - 2 luglio 2021

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Assistenza e  solidarieta'  sociale  -  Prestazioni  assistenziali  -
  Soggetti condannati per reati  di  particolare  allarme  sociale  -
  Revoca, per  chi  e'  gia'  stato  condannato,  dell'indennita'  di
  disoccupazione, dell'assegno  sociale,  della  pensione  sociale  e
  della  pensione  per  gli  invalidi  civili  -  Applicabilita'  nei
  confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla
  detenzione in  carcere  -  Violazione  del  diritto  all'assistenza
  sociale - Illegittimita' costituzionale in parte qua. 
Assistenza e  solidarieta'  sociale  -  Prestazioni  assistenziali  -
  Soggetti condannati per reati  di  particolare  allarme  sociale  -
  Applicazione,   quale    sanzione    accessoria,    della    revoca
  dell'indennita'  di  disoccupazione,  dell'assegno  sociale,  della
  pensione sociale  e  della  pensione  per  gli  invalidi  civili  -
  Applicabilita' nei confronti di coloro  che  scontino  la  pena  in
  regime alternativo alla detenzione in carcere - Disciplina a regime
  - Illegittimita' costituzionale in via consequenziale in parte qua. 
- Legge 28 giugno 2012, n. 92, art. 2, commi 58 e 61. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 25 e 38. 
(GU n.27 del 7-7-2021 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela  NAVARRETTA,  Maria  Rosaria  SAN
  GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 61,
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), promossi  dal
Tribunale ordinario di Fermo, sezione lavoro, con  ordinanza  del  16
luglio 2019 e dal Tribunale ordinario di Roma, sezione prima  lavoro,
con ordinanza del 6 febbraio 2020, iscritte, rispettivamente,  al  n.
234 del registro ordinanze 2019 e al n.  68  del  registro  ordinanze
2020 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri  1
e 26, prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visti gli atti di costituzione di  R.  D.L.,  nella  qualita'  di
tutore di G. T., e dell'Istituto nazionale della  previdenza  sociale
(INPS), nonche' gli atti d'intervento del  Presidente  del  Consiglio
dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  25  maggio  2021  il  Giudice
relatore Giuliano Amato; 
    uditi gli avvocati Fabio Cassisa per R. D.L., nella  qualita'  di
tutore di G. T., Patrizia Ciacci per l'INPS e l'avvocato dello  Stato
Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 25 maggio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Il  Tribunale  ordinario  di  Fermo,  sezione  lavoro,   con
ordinanza del 16 luglio 2019 (reg. ord. n. 234 del 2019) - emessa nel
procedimento tra R. D.L., nella  qualita'  di  tutore  di  G.  T.,  e
l'Istituto nazionale della  previdenza  sociale  (INPS)  -  Direzione
provinciale di Fermo - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,  25
e 38 della Costituzione,  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art.  2,  comma  61,  della  legge  28  giugno   2012,   n.   92
(Disposizioni in materia di riforma del mercato  del  lavoro  in  una
prospettiva di crescita). 
    La disposizione censurata prevede che: «[e]ntro  tre  mesi  dalla
data di entrata in vigore della presente  legge,  il  Ministro  della
giustizia, d'intesa con il Ministro  del  lavoro  e  delle  politiche
sociali, trasmette agli enti titolari dei relativi rapporti  l'elenco
dei soggetti gia' condannati con sentenza passata in giudicato per  i
reati di cui al comma 58, ai  fini  della  revoca,  con  effetto  non
retroattivo, delle prestazioni di cui al  medesimo  comma  58,  primo
periodo». 
    1.1.- Premette il rimettente che le  questioni  traggono  origine
dal  giudizio  concernente  la  legittimita'  dei  provvedimenti   di
sospensione, prima, e di revoca, poi, delle prestazioni assistenziali
concesse,  adottati  dall'INPS  nei  confronti  di  G.  T.  ai  sensi
dell'art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, giudizio in cui la
parte  ricorrente  ha  sollevato   la   questione   di   legittimita'
costituzionale della suindicata disposizione sotto diversi profili. 
    1.2.- Le questioni  sarebbero  senz'altro  rilevanti,  in  quanto
l'eventuale  illegittimita'  costituzionale  delle  norme   censurate
comporterebbe  il   venir   meno   del   presupposto   dei   suddetti
provvedimenti di sospensione e revoca assunti dall'INPS, riconoscendo
al ricorrente nel giudizio a  quo  il  diritto  al  ripristino  delle
prestazioni  previdenziali   revocategli,   indipendentemente   dalla
dimostrazione in capo allo stesso  dell'insussistenza  dei  mezzi  di
sostentamento, presupposto non oggetto di specifica contestazione  da
parte dell'INPS. 
    1.3.- Le questioni sarebbero poi non manifestamente infondate. 
    1.3.1.- In primo luogo,  vi  sarebbe  una  lesione  dell'art.  38
Cost.,  in  quanto,  nell'applicarsi  a  tutti  i  condannati,  senza
distinguere tra detenuti e soggetti ammessi a  scontare  la  pena  in
regime alternativo (come la detenzione domiciliare), la  disposizione
censurata inciderebbe sul diritto al  mantenimento  e  all'assistenza
sociale riconosciuto in favore di ogni cittadino inabile al lavoro  e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere. Il soggetto  gia'  ammesso
al regime di detenzione domiciliare sarebbe cosi' privato  dell'unico
mezzo di assistenza riconosciutogli dall'ordinamento,  senza  nemmeno
la possibilita' di ripresentare  apposita  domanda  all'INPS  per  la
rivalutazione dei presupposti, atteso che l'art. 2, comma  59,  della
legge n. 92 del 2012 concede ai soggetti a cui  le  prestazioni  sono
state  revocate  di  beneficiare  nuovamente  delle  stesse,   previa
presentazione di apposita domanda, soltanto  dopo  che  la  pena  sia
stata completamente eseguita. 
    In secondo luogo, le norme oggetto  di  censura  contrasterebbero
con l'art. 25 Cost., poiche', stabilendo la revoca delle  prestazioni
previdenziali anche nei confronti dei soggetti  gia'  condannati  con
sentenza  passata  in  giudicato,  violerebbero   il   principio   di
irretroattivita' della legge penale, dovendo  essere  riconosciuta  a
tale sanzione, in base a una lettura sostanzialistica, natura penale. 
    Infine,  sarebbe  leso  anche  l'art.  3  Cost.,  in  quanto,  se
applicata senza alcuna distinzione ai collaboratori di giustizia,  la
disposizione censurata risulterebbe  irragionevole  nel  trattare  in
maniera uniforme ipotesi differenti. 
    2.- Con atto depositato il 10 gennaio 2020 si  e'  costituito,  a
sostegno degli argomenti dell'ordinanza di rimessione, R. D.L., nella
qualita' di tutore di G. T. 
    2.1.- La difesa della parte privata afferma che G. T.  e'  un  ex
collaboratore di giustizia, condannato per reati commessi dal 1995 al
2003 e attualmente  in  regime  di  detenzione  domiciliare,  nonche'
portatore di handicap e invalido totale e permanente, con conseguente
inabilita'  lavorativa;  in  virtu'  delle  condizioni  di   assoluta
indigenza economica, inoltre, allo stesso e'  stato  riconosciuto  il
diritto a percepire la pensione d'invalidita' civile. 
    A decorrere dal mese di  maggio  2017  e'  stata  revocata  detta
prestazione,  con  la  richiesta  di  restituzione  delle  mensilita'
versate dal 1° marzo 2017. 
    Di qui l'indiscutibile rilevanza della questione per la decisione
nel giudizio a quo sotto il profilo dell'art. 38 Cost., in quanto  la
pensione d'invalidita' civile costituirebbe la  sua  unica  fonte  di
reddito e non vi sarebbero  ulteriori  redditi  in  capo  agli  altri
componenti il nucleo familiare. 
    Allo stesso modo la questione sarebbe rilevante sotto il  profilo
dell'art. 25 Cost., poiche' la normativa censurata  istituirebbe  una
vera e  propria  sanzione  amministrativa  accessoria  alla  condanna
penale,  che  non  potrebbe  essere  applicata  retroattivamente,  in
considerazione del principio di irretroattivita' della legge penale. 
    La normativa in esame, infine, nella  parte  in  cui  dispone  la
revoca dei benefici assistenziali e previdenziali  per  i  condannati
per reati di particolare gravita' e allarme sociale,  non  opererebbe
alcuna distinzione con riferimento ai collaboratori di giustizia, ne'
alcuna deroga e o esenzione  per  tale  categoria  di  soggetti,  con
rilevanza della questione anche sotto il profilo dell'art. 3 Cost. 
    2.2.- In punto di non manifesta infondatezza premette  la  difesa
della parte privata che l'art. 2, comma 58, della  legge  n.  92  del
2012   prevede   la   revoca   dell'indennita'   di   disoccupazione,
dell'assegno sociale, della pensione sociale e della pensione per gli
invalidi civili, quale sanzione accessoria alla condanna per i  reati
di cui agli artt. 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e  422  del
codice penale, nonche'  per  i  delitti  commessi  avvalendosi  delle
condizioni previste dal predetto  art.  416-bis  ovvero  al  fine  di
agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo   stesso
articolo. Il successivo comma 61, invece,  dispone  la  revoca  delle
medesime prestazioni  e  per  i  medesimi  reati  nei  confronti  dei
soggetti  gia'  condannati  con   sentenza   passata   in   giudicato
all'entrata in vigore della stessa disposizione. 
    2.2.1.- Cio' premesso,  in  riferimento  all'art.  25  Cost.,  la
revoca delle prestazioni  rappresenterebbe  certamente  una  sanzione
accessoria alla condanna penale. 
    Sarebbe evidente, infatti, la  natura  afflittiva  della  revoca,
anche in  termini  di  sacrificio  che  il  condannato  e'  tenuto  a
sopportare,  privando  lo  stesso,  in  assenza  di  altre  forme  di
assistenza, dei mezzi di sussistenza e mantenimento. La  sanzione  in
oggetto, inoltre, non avrebbe alcuna attinenza o connessione  con  il
reato o i reati  commessi,  con  la  conseguenza  che  la  privazione
imposta al reo risponderebbe a una finalita' di  carattere  puramente
punitivo e non preventivo. 
    Riconosciuta la natura  penale  alla  sanzione  accessoria  della
revoca  delle   prestazioni   assistenziali,   pertanto,   troverebbe
necessariamente applicazione il  principio  d'irretroattivita'  della
legge penale di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., che si applica
anche alle pene accessorie (si richiama la sentenza  della  Corte  di
cassazione, sezione quarta penale, 23 novembre 2010 - 27 dicembre, n.
45355). Principio che, alla luce  della  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo, a partire dalla sentenza della  grande
camera 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi,  e'  comunque
applicabile anche alle sanzioni amministrative  riconducibili  a  una
sfera lato sensu penale (sono richiamate le sentenze di questa  Corte
n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010). 
    2.2.2.- La disposizione censurata, laddove interpretata nel senso
di   consentire   l'esclusione   dall'erogazione    del    contributo
assistenziale anche a soggetti che non versano in stato di detenzione
in  carcere,  sarebbe  altresi'  costituzionalmente  illegittima  per
evidente violazione dell'art. 38 Cost., in riferimento agli artt. 2 e
3 Cost., a maggior ragione nei confronti di coloro  che  scontano  la
pena in regime alternativo a causa delle gravissime patologie da  cui
sono affetti e dell'incompatibilita' del loro stato di salute con  la
detenzione in carcere. 
    2.2.2.1.- L'art. 38 Cost., infatti, prevede  che  ogni  cittadino
inabile al lavoro e sprovvisto dei  mezzi  necessari  per  vivere  ha
diritto  al  mantenimento  e  all'assistenza  sociale,  dettando   un
principio assoluto che  non  ammetterebbe  deroghe  o  eccezioni,  in
stretto collegamento con l'art. 2 Cost., che tutela  e  garantisce  i
diritti  inviolabili  della   persona,   imponendo   un   dovere   di
solidarieta' economica e sociale non solo agli individui, ma anche  e
soprattutto allo Stato. 
    Il riconoscimento del diritto  all'assistenza  prescinderebbe  da
qualunque altra valutazione  se  non  il  bisogno,  convenzionalmente
individuato nel mancato  possesso  di  redditi  propri  superiori  ai
limiti previsti dalla legge (si  richiamano  le  sentenze  di  questa
Corte n. 22 del 1969, n. 29 del 1968 e  n.  27  del  1965).  Esso  si
configurerebbe,  quindi,  come  diritto  inviolabile,  nonche'  quale
strumento di garanzia per la liberazione dal bisogno e per  il  pieno
sviluppo della persona umana (viene richiamata la sentenza di  questo
Corte n. 286 del 1987). 
    In quanto interesse della collettivita' e compito dello Stato, la
sicurezza sociale non potrebbe  essere  ridotta  a  mera  aspirazione
programmatica, ma sarebbe  un  precetto  immediatamente  applicabile,
atto  a  creare  veri  e  propri  diritti  di  prestazione,  operante
nell'ordinamento, sia come parametro di legittimita'  costituzionale,
sia come norma di principio esplicante  effetti  sull'interpretazione
dell'ordinamento legislativo (si richiamano  le  sentenze  di  questa
Corte n. 160 del 1974,  n.  80  del  1971  e  n.  22  del  1969).  Il
legislatore, pertanto, non potrebbe frustrare la protezione  prevista
dalla   Costituzione,   prevedendo   l'attribuzione    di    benefici
insignificanti o l'erogazione di prestazioni irrisorie (e' richiamata
la sentenza costituzionale n. 497 del 1988), ne'  fissando  requisiti
troppo gravosi o condizioni vessatorie ai fini  del  godimento  delle
prestazioni in oggetto (sono richiamate le sentenze di  questa  Corte
n. 345 del 1999, n. 1143 e n. 206 del 1988). 
    Pertanto, il diritto alla pensione  o  all'assegno  d'invalidita'
civile, in quanto misura volta a garantire i mezzi di mantenimento  a
chi e' inabile al lavoro, non  potrebbe  essere  negato  tout  court,
sulla base di una qualificazione soggettiva (quella di  essere  stati
condannati per determinati reati) degli  aventi  diritto,  in  quanto
sarebbe  la  terminologia  stessa  della  norma  «[o]gni   cittadino»
(estesa, peraltro, anche oltre questo apparente limite dalla sentenza
di  questa  Corte  n.  432   del   2005)   a   escludere   una   tale
discriminazione. 
    2.2.2.2.-   Altresi'   frustrati   sarebbero   i   principi    di
ragionevolezza, proporzionalita'  e  certezza  del  diritto  (vengono
richiamate sul punto le sentenze di questa Corte n. 70 del  2015,  n.
316 del 2010 e n. 349 del 1985). 
    Infatti, il legislatore non potrebbe limitare le prestazioni  per
determinate  categorie  di  soggetti,  ad   esempio   prevedendo   un
discrimine fra cittadini  e  stranieri  legalmente  soggiornanti  nel
territorio dello Stato (sono richiamate le sentenze di  questa  Corte
n. 22 del 2015 e n. 40 del 2013). 
    D'altronde, gia' con la sentenza n. 3 del 1966  questa  Corte  ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 28, comma 2,  numero
5), cod. pen., ove si prevedeva, per i  soggetti  nei  confronti  dei
quali fosse disposta l'interdizione perpetua dai  pubblici  uffici  a
seguito di sentenza penale  di  condanna,  la  perdita  di  stipendi,
pensioni e assegni a carico dello Stato o di un altro ente  pubblico.
A tale pronuncia (i cui principi  avrebbero  trovato  conferma  nelle
sentenze n. 288 del 1983 e n. 83 del 1979),  non  a  caso,  ha  fatto
seguito la legge 8 giugno 1966, n.  424  (Abrogazione  di  norme  che
prevedono la perdita, la riduzione o la sospensione delle pensioni  a
carico dello Stato o di altro Ente  pubblico),  con  cui  sono  state
abrogate tutte quelle disposizioni  che  prevedevano,  a  seguito  di
condanna penale o di provvedimento disciplinare, la  riduzione  o  la
sospensione  del  diritto  del  dipendente  al  conseguimento  e   al
godimento della pensione e di ogni  altro  assegno  o  indennita'  da
liquidarsi  in  conseguenza  della   cessazione   del   rapporto   di
dipendenza. 
    2.2.3.- Ove applicata indistintamente anche ai  collaboratori  di
giustizia, la normativa in esame  contrasterebbe  poi  con  l'art.  3
Cost. 
    Detta equiparazione giuridica e normativa, infatti,  non  sarebbe
giustificata da  esigenze  di  ordine  punitivo  ed  economico  e  si
porrebbe in netto contrasto  con  tutta  la  disciplina  attinente  i
collaboratori di giustizia, di cui in particolare al decreto-legge 15
gennaio 1991, n. 8 (Nuove norme in materia di sequestri di persona  a
scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni  di  giustizia,
nonche' per la protezione e il trattamento  sanzionatorio  di  coloro
che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni,  in
legge 15 marzo 1991, n. 82. 
    Tale normativa, infatti, si muoverebbe nella  direzione  inversa,
con una netta distinzione, anche e soprattutto di carattere punitivo,
tra coloro che si dissociano dalla criminalita' organizzata e  coloro
che, invece, restano legati dal vincolo di affiliazione col sodalizio
criminale organizzato. 
    Sarebbe dunque irragionevole che lo Stato, per un verso  appresti
in favore del collaboratore di giustizia e del suo  nucleo  familiare
sussidi economici per il reinserimento sociale (durante il periodo di
collaborazione) e, per  altro  verso,  i  medesimi  soggetti  possano
essere esclusi dalle  forme  di  assistenza  sociale  (all'esito  del
periodo di collaborazione). 
    L'applicazione indiscriminata della  pena  accessoria  in  esame,
imposta senza  alcuna  considerazione  della  specificita'  dei  casi
concreti,  sembrerebbe  in  definitiva   ledere   il   principio   di
uguaglianza, che  impone  trattamenti  differenziati  per  situazioni
diverse, confliggendo anche con gli artt. 27, terzo comma, e 1 Cost.,
giacche' non  consentirebbe,  in  ordine  a  detta  pena  accessoria,
l'individualizzazione della sanzione tale da farle assolvere alla sua
funzione. 
    2.3.- In  data  15  settembre  2020  la  difesa  di  R.  D.L.  ha
presentato istanza  di  riunione  del  giudizio  con  quello  di  cui
all'ordinanza  iscritta  al  n.  68  del  registro  ordinanze   2020,
censurando quest'ultima la medesima  disposizione  e  per  motivi  in
buona parte sovrapponibili. 
    3.- Con atto depositato il 20 gennaio 2020 si  e'  costituito  in
giudizio l'INPS,  argomentando  l'inammissibilita'  e  l'infondatezza
delle questioni. 
    3.1.- In via preliminare la difesa  dell'INPS  eccepisce  plurime
ragioni d'inammissibilita'. 
    3.1.1.- In primo luogo, difetterebbe nell'ordinanza di rimessione
la ricostruzione  completa  e  sistematica  del  fatto,  non  venendo
evidenziati  i  motivi  della  disposta  revoca   della   prestazione
richiesta, ne' tantomeno se alcune  circostanze  fattuali,  quali  la
detenzione  domiciliare  o  l'effettiva  e  comprovata  qualita'   di
collaboratore di giustizia di G. T.,  siano  rilevanti  in  punto  di
manifesta infondatezza della questione, in quanto elementi  idonei  e
sufficienti a giustificare un diverso trattamento. 
    Tali  elementi  non  potrebbero  essere   desunti,   secondo   la
giurisprudenza costituzionale, dagli atti  del  giudizio  a  quo  (si
richiamano le sentenze n. 79 del 1996 e n. 451 del 1989,  nonche'  le
ordinanze n. 119 del 2002 e n. 300 del 1999,  di  questa  Corte),  in
virtu' del principio di autosufficienza dell'ordinanza di  rimessione
(sono richiamate le sentenze n. 310 del 2000 e  n.  242  del  1999  e
l'ordinanza n. 98 del 1999 di questa Corte). 
    3.2.- In secondo luogo, le questioni sarebbero inammissibili  per
difetto di rilevanza nel giudizio a quo (si richiama  l'ordinanza  n.
282 del 1998 di questa Corte). 
    L'eventuale accoglimento, infatti,  non  potrebbe  condurre  alla
pronuncia di condanna alla prestazione richiesta nel giudizio a  quo,
non essendo state ivi esaminate dal giudice rimettente le preliminari
eccezioni  dell'INPS  in  punto  di  inammissibilita'  della  domanda
giudiziale  per  mancanza  di  preventiva  domanda  amministrativa  e
assenza  di  produzione  documentale  in  merito  alla  qualita'   di
collaboratore di giustizia o di ex collaboratore. 
    3.3.- Infine, il giudice a  quo  avrebbe  omesso  di  effettuare,
anche  solo  in  via   ipotetica,   una   possibile   interpretazione
costituzionalmente orientata della norma  censurata,  in  assenza  di
ogni pronuncia  della  Corte  di  cassazione  in  sede  civile  (sono
richiamate le ordinanze di questa Corte n. 198 del 2013,  n.  15  del
2011, n. 322, n. 192 e n. 110 del 2010, n. 310 del 2009 e n. 226  del
2008). 
    3.4.- In ogni caso, il comma 61 dell'art 2 della legge n. 92  del
2012 sarebbe esente dai dubbi di legittimita' costituzionale avanzati
dal giudice rimettente. 
    3.4.1.- I commi da 58 a 63 della medesima legge istituiscono  uno
speciale statuto d'indegnita', connesso alla  commissione  di  taluni
reati di particolare allarme sociale.  Alla  sua  ratio  non  sarebbe
estraneo il rilievo criminologico che ai  medesimi  reati  faccia  da
sfondo l'accumulazione o comunque il possesso  di  capitali  illeciti
incompatibili con i predetti  trattamenti  (e'  richiamata  Corte  di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 15 marzo 2019, n. 11581). 
    3.4.1.1.- La normativa sopra  citata  introdurrebbe  un  distinto
regime applicativo del medesimo istituto: quello ai sensi  del  comma
58, diretto ai soggetti condannati dopo  l'entrata  in  vigore  della
legge, necessiterebbe inderogabilmente  di  un  previo  provvedimento
giudiziale; quello di cui al  comma  61,  rivolto  ai  soggetti  gia'
condannati, prima dell'entrata in vigore della  legge,  con  sentenza
passata in giudicato, ne prescinderebbe. Nel primo caso,  si  avrebbe
una sanzione accessoria, conseguente alla sentenza di condanna per  i
reati ivi indicati e applicata dal  giudice;  nel  secondo  caso  una
misura, di natura civile, comportante la revoca  di  una  prestazione
assistenziale precedentemente erogata, con effetto ex nunc. 
    Del resto, una diversa interpretazione porrebbe in una situazione
di maggior favore taluni condannati  rispetto  ad  altri  e,  quindi,
un'ingiusta disparita', atteso che la  ratio  della  norma  del  2012
sarebbe diretta a escludere la prosecuzione dei  pagamenti  a  carico
della  collettivita',  in  favore  di  soggetti   che   siano   stati
riconosciuti responsabili di reati di particolare allarme sociale. 
    Non mancherebbero, del resto, interventi  di  natura  civilistica
con connotati simili, come l'esclusione dal diritto alla pensione  di
reversibilita' o indiretta ovvero alla liquidazione  dell'una  tantum
per  i  familiari  superstiti  condannati  con  sentenza  passato  in
giudicato, per i delitti di cui agli artt. 575, 584 e 586 cod.  pen.,
in danno dell'iscritto o del pensionato, prevista dall'art. 1,  comma
1, della legge 27 luglio  2011,  n.  125  (Esclusione  dei  familiari
superstiti condannati per omicidio del pensionato o  dell'iscritto  a
un ente di previdenza dal diritto alla pensione di  reversibilita'  o
indiretta), la cui efficacia decorre  dall'entrata  in  vigore  della
legge. 
    La disposizione censurata non esigerebbe di  essere  giustificata
sul piano della retroattivita', poiche' essa non regolerebbe in  modo
nuovo fatti del passato, ma disporrebbe per  il  futuro,  attribuendo
rilievo di  requisito  negativo  o  di  condizione  ostativa,  per  i
soggetti gia' condannati con sentenza irrevocabile, all'accesso  alle
prestazioni  assistenziali;  il  che  non  implicherebbe  altro   che
l'operativita' della legge una volta avvenuta la  trasmissione  degli
elenchi all'ente previdenziale e  non  una  retroattivita'  in  senso
tecnico (si richiamano Corte di  cassazione,  sezioni  unite  civili,
sentenza 19 dicembre 2018, n. 32781 e la sentenza di questa Corte  n.
118 del 1994). 
    3.4.1.2.- Quand'anche la revoca assumesse  natura  sanzionatoria,
il principio d'irretroattivita' non sarebbe predicabile nei confronti
della disposizione censurata per la sua natura non punitiva,  essendo
destinata ad assolvere una funzione riparatoria, volta a operare solo
in ambito civile. 
    Cio' troverebbe conferma anche nelle disposizioni di cui al comma
63 dell'art. 2 della legge n. 92 del 2012, che destina le  somme  dei
provvedimenti di revoca al Fondo di  rotazione  per  la  solidarieta'
alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste  estorsive  e
dell'usura e agli interventi in favore delle vittime del terrorismo e
della criminalita' organizzata. Tanto piu' che il patrimonio netto di
tale fondo sarebbe progressivamente diminuito, a  causa  di  prelievi
delle sue disponibilita' per soddisfare le piu' diverse esigenze  del
bilancio dello Stato. 
    3.4.2.- La questione risulterebbe inammissibile e infondata anche
con riferimento all'art. 38 Cost. 
    3.4.2.1.- La disposizione censurata, infatti,  non  attribuirebbe
rilievo alcuno alla circostanza che il beneficiario  del  trattamento
assistenziale sconti la pena della reclusione  attraverso  la  misura
alternativa  della  detenzione  domiciliare,  rilevando  sotto   tale
profilo esclusivamente - ai sensi del comma 59 dell'art 2 della legge
n. 92 del 2012 - che la pena sia stata completamente eseguita. 
    Il rimettente, quindi, non avrebbe correttamente  individuato  la
disposizione  censurata,  posto  che  lo  scrutinio  avrebbe   dovuto
estendersi necessariamente anche al comma 59 del  medesimo  articolo,
con evidenti e  susseguenti  profili  di  inammissibilita',  giacche'
sarebbe  tale  norma  a  consentire  il  ripristino  del  trattamento
assistenziale  all'effettiva  espiazione   della   pena,   sia   pure
prevedendo la presentazione di  nuova  domanda  amministrativa  e  il
permanere degli elementi costitutivi del diritto. 
    3.4.2.2.- Escludere l'applicabilita' della revoca alla detenzione
domiciliare, poi, finirebbe per urtare con il medesimo  principio  di
ragionevolezza,  creando  trattamenti  differenziati   fra   soggetti
reclusi e soggetti sottoposti a misure alternative. 
    La presunta lesione ai principi  di  solidarieta'  sociale  e  di
assistenza  economica  nell'ipotesi  della   detenzione   domiciliare
andrebbe valutata, inoltre, pur sempre alla  stregua  di  altrettanti
valori aventi pari se non superiore dignita' costituzionale,  che  il
legislatore avrebbe inteso salvaguardare in via prevalente (disvalore
sociale dell'azione commessa, tutela della  sicurezza  e  dell'ordine
pubblico, esborso economico eccessivo a carico della collettivita'). 
    Le finalita' di assistenza e solidarieta' sociale  in  favore  di
tali soggetti che versano  in  condizioni  di  bisogno  sottese  alle
prestazioni assistenziali,  pertanto,  arretrerebbero  di  fronte  al
particolare disvalore di condotte gravemente antisociali commesse  da
quei soggetti, lasciando  prevalere  altre  finalita'  solidaristiche
maggiormente degne  di  tutela,  che  non  muterebbero  nel  caso  di
detenzione domiciliare. 
    3.4.3.-  In  riferimento  all'art  3  Cost,  la  qualita'  di  ex
collaboratore di giustizia non potrebbe mai rilevare e  assumere  una
valenza ai fini del riacquisto di un requisito di  meritevolezza,  se
non al prezzo di  conferire  un'ultrattivita'  alle  disposizioni  di
natura speciale che regolano la collaborazione prestata con lo Stato. 
    La revoca apparirebbe tutt'altro che  irragionevole,  essendo  la
finalita' della  legge  censurata  proprio  quella  di  una  generale
riduzione della spesa pubblica, anche per mezzo di  risparmi  diretti
nei confronti di soggetti che, per aver commesso reati di particolare
allarme sociale, non sarebbero meritevoli del sostegno  previsto  per
chi, invece, non abbia commesso reati di tal genere. 
    In questa prospettiva la norma si armonizzerebbe con il quadro di
valori   disegnato   dalla   Costituzione   e   con   il    principio
dell'equilibrio di bilancio previsto dall'art. 81 Cost. 
    4.- Con atto depositato il 22 gennaio  2020  e'  intervenuto  nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. 
    4.1.- L'ordinanza di rimessione, in primo luogo, non  conterrebbe
la descrizione della fattispecie concreta sottoposta al giudizio, con
conseguente  inammissibilita'  delle  questioni  alla   stregua   del
costante orientamento della giurisprudenza costituzionale (tra tutte,
e' richiamata l'ordinanza n. 71 del 2019 di questa Corte). 
    4.2.- In secondo luogo, le censure sarebbero  comunque  infondate
nel merito. 
    4.2.1.- Sarebbe infatti erroneo l'assunto secondo  cui  la  norma
censurata violerebbe il divieto di retroattivita' della legge  penale
sancito dall'art. 25  Cost.,  prevedendo,  invece,  un  mero  effetto
extra-penale della condanna, conseguente al sopravvenuto  difetto  di
un  requisito  soggettivo  per  il   mantenimento   dell'attribuzione
patrimoniale di durata, piuttosto che a una pena in senso sostanziale
(e' richiamata la gia' citata sentenza della Corte di  cassazione  n.
11581 del 2019). 
    4.2.2.- Altrettanto infondati  sarebbero  gli  altri  profili  di
illegittimita' costituzionale prospettati dal rimettente. 
    4.2.2.1.- Inconferente sarebbe il richiamo all'art. 38 Cost.,  in
relazione all'ipotesi di soggetti ammessi  al  regime  di  detenzione
domiciliare, sol che si consideri che il legislatore  avrebbe  inteso
ricollegare la sospensione  dei  trattamenti  di  assistenza  sociale
eventualmente  spettanti  alla  commissione  di  reati  di   consueto
caratterizzati dall'accumulazione, o comunque  dalla  disponibilita',
d'ingenti capitali illeciti. 
    Inoltre,  l'istituto   della   detenzione   domiciliare   per   i
collaboratori di giustizia, di cui all'art. 16-nonies del d.l.  n.  8
del 1991, come convertito, introdotto dall'art. 14,  comma  1,  della
legge 13 febbraio  2001,  n.  45  (Modifica  della  disciplina  della
protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che  collaborano
con la giustizia nonche' disposizioni  a  favore  delle  persone  che
prestano testimonianza), rappresenterebbe di  per  se'  un  beneficio
penitenziario  e  potrebbe  essere  discriminatorio  trasformarlo  in
occasione o presupposto per il sorgere o il mantenimento del  diritto
ad altro tipo di trattamento. 
    Infine, la citata sentenza di questa Corte n.  3  del  1966,  pur
dichiarando l'illegittimita' della privazione degli  stipendi,  delle
pensioni e degli assegni in caso d'interdizione dai pubblici  uffici,
ha comunque precisato che «non intende escludere in via  assoluta  la
possibilita' di misure del genere di quella  in  esame  a  carico  di
trattamenti economici traenti titolo da un rapporto di lavoro». 
    5.- In prossimita' dell'udienza la difesa di  R.  D.L.  e  l'INPS
hanno presentato  memorie,  ribadendo  e  integrando  le  conclusioni
rassegnate negli atti di costituzione. 
    5.1.- La parte privata,  in  particolare,  oltre  a  integrare  i
profili di merito, contesta le eccezioni d'inammissibilita' sollevate
dall'INPS. 
    5.1.1.- Per quanto sintetica sia stata l'esposizione dei fatti da
parte del giudice a quo, infatti, l'ordinanza di rimessione avrebbe i
caratteri di autosufficienza richiesti ai fini dell'esame nel  merito
e a sostegno dei dubbi di legittimita' costituzionale. 
    Come piu' volte ribadito da  questa  Corte,  del  resto,  sarebbe
sufficiente  che  il  giudice  rimettente  proponga  una  motivazione
plausibile   con   riguardo   alla   rilevanza    della    questione,
riconoscendosi finanche forme implicite di  motivazione,  sempreche',
dalla descrizione della fattispecie, il carattere pregiudiziale della
questione emerga con immediatezza ed  evidenza  (sono  richiamate  le
sentenze n. 120 del 2015, n. 201 del 2014 e n. 369 del 1996). 
    5.1.2.- Con specifico riferimento all'eccezione d'irrilevanza, il
ricorrente nel giudizio a quo avrebbe  promosso  senza  riscontro  il
preventivo ricorso amministrativo, non potendo,  peraltro,  attestare
l'estinzione  della  pena,  condizione  richiesta  dalla   norma   in
questione per il ripristino della misura assistenziale e, proprio per
questo, si sarebbe trovato  costretto  a  ricorrere  alla  competente
autorita' giudiziaria. 
    Quanto alla presunta carenza dei presupposti socio-economici,  il
ricorrente prudenzialmente avrebbe  prodotto  in  giudizio  tutta  la
documentazione anagrafica  e  reddituale  attestante  la  sussistenza
delle condizioni per il mantenimento del beneficio assistenziale. 
    5.1.3.- In riferimento alla mancata prova ad  opera  della  parte
privata nel  giudizio  a  quo  sulla  qualita'  di  collaboratore  di
giustizia  e  sulla  cessazione  di  tale   status,   tale   qualita'
emergerebbe per tabulas dall'esame del cumulo giuridico in atti,  dal
quale si evincerebbe che  l'interessato  ha  piu'  volte  beneficiato
dell'attenuante  a  effetto  speciale   di   cui   all'art.   8   del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti  in  tema
di lotta alla  criminalita'  organizzata  e  di  trasparenza  e  buon
andamento    dell'attivita'    amministrativa),    convertito,    con
modificazioni, in legge 12 luglio 1991, n. 203,  prevista  unicamente
per i collaboratori di giustizia ammessi allo speciale  programma  di
protezione, a differenza di altre attenuanti a effetto speciale. 
    Inoltre, dall'esame  del  provvedimento  di  cumulo  in  atti  si
evincerebbe che il soggetto, pur essendo stato condannato a una  pena
complessiva di oltre 22  anni  di  reclusione,  e'  stato  ammesso  a
scontare la pena in regime alternativo della  detenzione  domiciliare
ex  art.  47-ter  della  legge  26  luglio  1975,   n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative  e  limitative  della  liberta').  La  qual  cosa   sarebbe
possibile unicamente grazie all'operativita' della speciale normativa
prevista per i collaboratori di giustizia. 
    Quanto alla cessazione di tale status,  fermo  restando  che  nel
corso del giudizio a quo il ricorrente avrebbe dedotto  e  comprovato
di aver richiesto invano  al  Servizio  centrale  di  protezione  del
Ministero della giustizia di attestare tale circostanza, tanti e tali
sarebbero gli elementi presenti negli atti del giudizio a quo, da non
potersene dubitare. 
    5.1.4.- Nel merito, in riferimento alla violazione  dell'art.  25
Cost., la fattispecie in esame non sarebbe qualificabile come un mero
effetto extra-penale della condanna, ma come una vera e propria  pena
accessoria (e'  richiamata  la  sentenza  della  Corte  di  giustizia
dell'Unione  europea,  grande  sezione,  20  marzo  2018,  in   causa
C-524/15). 
    In riferimento alle censure relative agli artt. 38, nonche' 2 e 3
Cost., nel caso dei collaboratori di giustizia non sarebbe  vero  che
la ratio della norma possa rinvenirsi anche nella considerazione  che
ai reati ostativi  alla  fruizione  dei  benefici  faccia  da  sfondo
l'accumulazione, o comunque il possesso, di  capitali  illeciti,  con
quei benefici incompatibili. Infatti, per  poter  essere  ammessi  al
programma di protezione e' necessario versare  il  danaro  frutto  di
attivita'  illecite,  specificando  dettagliatamente  tutti  i   beni
posseduti o controllati e le altre utilita', i  quali  sono  soggetti
all'immediato sequestro da parte dell'autorita' giudiziaria. 
    5.2.- Venendo alla memoria dell'INPS, la stessa  si  sofferma  in
particolare sulle ragioni di non fondatezza delle questioni. 
    5.2.1.- In primo luogo, l'Istituto precisa come la  revoca  della
prestazione assistenziale non abbia effetto retroattivo e vi  sia  la
possibilita', una volta espiata la pena, di  accedere  nuovamente  al
beneficio, laddove soccorrano  gli  altri  presupposti  voluti  dalla
legge. Tale scelta terrebbe conto del fine  rieducativo  della  pena,
ossia del completamento del percorso di  risocializzazione  volto  al
recupero e al reinserimento del reo nella societa'. 
    5.2.2.- In  secondo  luogo,  la  disposizione  in  esame  non  si
porrebbe in contrasto con l'art. 38 Cost. 
    La  scelta  del  legislatore  sarebbe  infatti   frutto   di   un
bilanciamento fra diversi principi costituzionali, in  primis  quelli
volti all'attuazione degli inderogabili doveri di solidarieta'  della
comunita' statale (art. 2 Cost.), nei confronti di chi, a causa delle
azioni  di  associazioni  terroristiche  e  mafiose,  abbia  sofferto
pregiudizio o abbia sacrificato la vita; il  che  sarebbe  comprovato
dal vincolo di destinazione  delle  somme  all'apposito  fondo  delle
vittime. D'altronde, tutte  le  prestazioni  assistenziali  sarebbero
frutto di un corrispettivo solidaristico,  per  quanto  doverosamente
offerto al progresso materiale o spirituale del  Paese  da  parte  di
ciascun soggetto e rappresenterebbero pur sempre un riconoscimento  e
una valorizzazione del concorso  dell'assistito  al  progresso  della
societa' attraverso la sua partecipazione  sociale  (art.  4  Cost.),
circostanza questa certamente non  ricorrente  in  soggetti  ritenuti
colpevoli di siffatti gravi reati. 
    5.2.3.- Ne' potrebbe rilevare il  fatto  che  il  condannato  sia
stato ammesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare. 
    Trattandosi  di  un  beneficio  a  istanza  di  parte,   infatti,
l'interessato dovrebbe astrattamente prevedere che,  in  ragione  del
crimine commesso, non potrebbe  fare  affidamento  sulla  prestazione
assistenziale, tenuto conto altresi' che, ai sensi dell'art.  47-ter,
comma  5,  della  legge  n.  354  del  1975,  «[n]essun  onere  grava
sull'amministrazione penitenziaria per il  mantenimento,  la  cura  e
l'assistenza  medica  del  condannato  che  trovasi   in   detenzione
domiciliare». 
    5.2.4.- Con  riferimento  alla  condizione  di  collaboratore  di
giustizia, infine,  la  stessa  rileverebbe  solo  ed  esclusivamente
nell'ambito  del  processo  penale  e  nei  limiti  dell'accordo  tra
l'imputato e lo Stato; non,  invece,  in  ambito  civile,  avendo  il
legislatore   subordinato   la   corresponsione   della   provvidenza
all'effettiva espiazione della pena. 
    Un'eventuale diversita' di trattamento, inoltre,  si  presterebbe
alle medesime censure d'illegittimita'  costituzionale,  introducendo
un ulteriore beneficio, non previsto dalla legislazione emergenziale,
discriminatorio nei confronti di chi tale  collaborazione  non  abbia
prestato. 
    6.- Il Tribunale ordinario di Roma,  sezione  prima  lavoro,  con
ordinanza del 6 febbraio 2020 (reg. ord. n. 68 del 2020) - emessa nel
procedimento tra G. A., nella qualita' di tutore di M. F., e l'INPS -
ha sollevato, in riferimento agli artt.  2,  3  e  38,  primo  comma,
Cost., questioni di legittimita' costituzionale  dell'art.  2,  comma
61, della legge n. 92 del 2012. 
    6.1.- Premette il rimettente che M. F.  e'  titolare  di  assegno
sociale, revocato dall'INPS a decorrere dal  l°  marzo  2017,  avendo
egli riportato condanne per i reati di cui al comma 58 della medesima
legge; con successiva nota del 28 giugno  2018  lo  stesso  e'  stato
invitato  a  restituire  la  somma  di  euro  3.191,65,   in   quanto
indebitamente  corrisposta  nel  periodo  marzo-luglio  2017.   Nella
specie, come da informativa giunta dal  Dipartimento  della  pubblica
sicurezza con nota del 22 novembre 2019, M. F. risulta essere  un  ex
collaboratore di giustizia e, dal  18  ottobre  2012,  in  regime  di
detenzione domiciliare ai sensi dell'art. 47-ter della legge  n.  354
del 1975. 
    6.1.1.- Esperito senza riscontro ricorso in  via  amministrativa,
la parte ricorrente nel giudizio  a  quo  ha  dedotto  la  natura  di
sanzione  accessoria  della  revoca  e,  pertanto,  avendo  riportato
condanne passate in giudicato prima della  entrata  in  vigore  della
legge n. 92 del 2012, l'applicazione della sanzione sarebbe contraria
al  principio  costituzionale   di   irretroattivita'   della   pena.
Evidenziato che a suo beneficio e'  stata  applicata  la  circostanza
attenuante di  cui  all'art.  8  del  d.l.  n.  152  del  1991,  come
convertito, in quanto collaboratore di  giustizia,  la  difesa  della
parte  privata   ha   sostenuto   che,   secondo   un'interpretazione
costituzionalmente  orientata  e  in   ossequio   al   principio   di
uguaglianza  sostanziale,  non  potrebbe  applicarsi  detta  sanzione
accessoria a chi, gia' appartenente ad  associazione  mafiosa,  abbia
rescisso  ogni  vincolo,  indebolendo  con   le   sue   dichiarazioni
l'associazione. Tenuto conto altresi' che sta scontando  la  pena  in
regime  di  detenzione   domiciliare,   persistendo   i   presupposti
intrinseci per  la  corresponsione  del  diritto  al  mantenimento  e
all'assistenza  sociale  ai  sensi  dell'art.  38  Cost.,  la   parte
ricorrente  ha  chiesto  la  condanna  dell'INPS  a  ripristinare  il
trattamento pensionistico-assistenziale e alla  corresponsione  delle
mensilita' sospese e non erogate. 
    6.1.2.- Il giudice a  quo  ritiene  manifestamente  infondata  la
questione in riferimento all'art. 25 Cost., dovendosi  escludere  che
la  revoca  abbia  natura  di  sanzione  penale  accessoria,   bensi'
configurandosi come un mero effetto extra-penale della  condanna  (si
richiama la citata sentenza della Corte di cassazione  n.  11581  del
2019). 
    Non sarebbe possibile,  invece,  procedere  a  un'interpretazione
della norma censurata nel senso  di  escludere  l'applicazione  della
misura  ai  collaboratori  di  giustizia,  in  assenza  di  qualsiasi
indicazione in tal senso da  parte  della  disciplina  in  questione.
L'esigenza d'incentivare la collaborazione con la giustizia da  parte
di  soggetti  coinvolti  nelle  organizzazioni  criminali  di  stampo
mafioso,  d'altronde,  sarebbe  gia'  soddisfatta,  oltre  che  dalla
previsione di una specifica circostanza attenuante, da una  serie  di
benefici espressamente contemplati  dal  legislatore,  nell'esercizio
della sua discrezionalita' nell'individuare  i  limiti  delle  misure
premiali (art. 9 del d.l. n. 8 del 1991, come convertito). 
    6.2.-  La  questione  sarebbe  rilevante  e  non   manifestamente
infondata in riferimento all'art. 38,  primo  comma,  Cost.,  nonche'
agli artt. 2 e 3 Cost. 
    6.2.1.- Infatti, vero e' che  il  legislatore  ha  istituito  uno
speciale statuto di indegnita' connesso alla commissione di reati  di
particolare gravita',  tali  da  giustificare,  durante  l'esecuzione
della pena, il venir meno di trattamenti assistenziali che trovano il
loro fondamento  nel  generale  dovere  di  solidarieta'  dell'intera
collettivita' nei confronti dei soggetti svantaggiati; la ratio della
norma, inoltre, si rinverrebbe  anche  nella  considerazione  che  ai
reati  ostativi  alla  fruizione  dei  benefici  faccia   da   sfondo
l'accumulazione, o comunque il possesso, di  capitali  illeciti,  con
quei benefici incompatibili. 
    Tuttavia, se la revoca dei benefici per coloro  che  scontano  la
pena in istituto  non  comporta  il  rischio  di  non  poter  neppure
disporre dei mezzi minimi per alimentarsi e per  avere  un  ricovero,
chi versi in regime di detenzione domiciliare correrebbe il  concreto
rischio di non poter disporre - a causa della condizione  di  eta'  e
della connessa incapacita', presunta ex lege, di  svolgere  qualsiasi
proficuo  lavoro  -  di  alcun   mezzo   di   sussistenza.   Il   che
determinerebbe  un  pregiudizio  per  i  diritti  inviolabili   della
persona, quali quello all'alimentazione e, in definitiva, alla  vita;
diritti che sono insuscettibili di patire deroghe o compressioni, non
potendo lo statuto d'indegnita' giungere fino a porre in pericolo  la
sopravvivenza del condannato, ne' la collettivita' tollerare  che  al
proprio interno vi siano (in forza di  legge  e  non  gia'  per  mere
contingenze di fatto) persone che debbano restare  prive  del  minimo
vitale. 
    6.2.2.-  Da  qui  il  dubbio  di  illegittimita'   costituzionale
sull'art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui
impone all'INPS la revoca dell'assegno sociale, senza possibilita' di
valutazione delle condizioni personali ed economiche  del  condannato
in regime di detenzione domiciliare. 
    7.- Con atto depositato il 9 luglio  2020  si  e'  costituito  in
giudizio l'INPS, sostenendo l'inammissibilita' e l'infondatezza delle
questioni, con argomentazioni per buona parte analoghe  a  quelle  di
cui all'atto di costituzione nel giudizio relativo  all'ordinanza  n.
234 del 2019. 
    7.1.-   In   primo   luogo,   la   difesa   dell'INPS   eccepisce
l'inammissibilita'  della  questione  per  contraddittorieta'   della
motivazione. 
    Il  rimettente,  infatti,  da  un  lato   affermerebbe   che   la
disposizione in esame abbia  inciso  nella  materia  dell'assistenza,
introducendo un nuovo requisito negativo per l'insorgenza del diritto
alla   percezione   dell'assegno   sociale,   dall'altro   riterrebbe
irrilevante tale requisito. 
    7.2.- In secondo luogo, la questione risulterebbe infondata. 
    D'altronde, anche per il reddito di  cittadinanza,  regolato  dal
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in  materia
di  reddito  di  cittadinanza  e  di   pensioni),   convertito,   con
modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, la  cui  ratio  sarebbe
pressoche' identica a quella dell'assegno sociale, il beneficio e' da
sospendersi non solo in  caso  di  condanna  penale  per  particolari
reati, ma anche nell'ipotesi di custodia cautelare. Sul punto  questa
Corte, con la sentenza n. 122 del 2020, muovendo dal presupposto  che
il provvedimento di sospensione altro non e' che la  conseguenza  del
venir meno di un requisito necessario alla concessione del beneficio,
ha affermato che esso rientra per cio' stesso tra i casi  in  cui  la
giurisprudenza   costituzionale   riconosce   la   legittimita'    di
sospensione,  revoca  o  decadenza,   anche   attraverso   meccanismi
automatici.  La  sospensione  e'  cosi'  espressione  di  una  scelta
discrezionale del legislatore nel determinare  i  destinatari  di  un
beneficio  economico,  che  non  si  presenta   affetta   da   quella
irrazionalita' «manifesta e irrefutabile» che impone la  declaratoria
d'illegittimita' costituzionale. 
    8.- Con atto depositato il 14  luglio  2020  e'  intervenuto  nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate inammissibili e infondate. 
    8.1.-  Nel  richiamarsi  alle  osservazioni   di   cui   all'atto
d'intervento relativo al giudizio sull'ordinanza  n.  234  del  2019,
l'Avvocatura  premette  che  l'assegno  sociale  e'  una  prestazione
assistenziale che  ha  sostituito  la  precedente  pensione  sociale,
prevista a tutela dei cittadini anziani e bisognosi alla  assistenza,
in attuazione del primo comma dell'art.  38  Cost.  (si  richiama  la
sentenza  di  questa  Corte  n.  157  del  1980).  L'assegno  sociale
costituisce cosi' una nuova prestazione assistenziale,  erogata  agli
ultrasessantacinquenni per far fronte al particolare stato di bisogno
derivante dall'indigenza, risultando altre prestazioni  -  assistenza
sanitaria, indennita' di accompagnamento - preordinate  a  soccorrere
lo  stato  di  bisogno  derivante  da   grave   invalidita'   o   non
autosufficienza, insorte in un momento  nel  quale  non  vi  e'  piu'
ragione per annettere  significato  alla  riduzione  della  capacita'
lavorativa, elemento che, per  contro,  caratterizza  le  prestazioni
assistenziali  in  favore  dei  soggetti  infrasessantacinquenni  (e'
richiamata la sentenza di questa Corte n. 12 del 2019). 
    Nondimeno,   il   legislatore   puo'   legittimamente   prevedere
specifiche   condizioni   per   il   godimento   delle    prestazioni
assistenziali eccedenti i bisogni primari della persona, purche' tali
condizioni non siano manifestamente irragionevoli ne' intrinsecamente
discriminatorie.  Cosi',  ad  esempio,  non  sarebbe   manifestamente
irragionevole che il permesso di soggiorno  UE  per  soggiornanti  di
lungo periodo sia il  presupposto  per  godere  dell'assegno  sociale
(cosi' la sentenza di questa Corte n. 50 del 2019). 
    8.2.- Cio' premesso, la legge n. 92 del 2012 non indica il limite
temporale entro il quale individuare il passaggio in giudicato  della
sentenza ai fini della revoca dell'assegno sociale; tuttavia, sarebbe
evidente che il legislatore abbia inteso far riferimento ai  soggetti
condannati con sentenza passata in giudicato alla entrata  in  vigore
della legge n. 92 del 2012, o al  massimo  con  sentenza  passata  in
giudicato nei successivi tre mesi (si richiama Tribunale di  Catania,
sezione lavoro, sentenza 15 gennaio 2020). 
    Con riferimento al caso  di  specie,  il  soggetto  in  questione
risulta in regime di detenzione domiciliare dal 18 ottobre 2012, data
successiva all'entrata in vigore della  legge  in  esame  (18  luglio
2012). Al momento di  presentare  l'istanza  diretta  a  ottenere  il
beneficio della detenzione domiciliare, quindi, l'interessato avrebbe
dovuto almeno astrattamente sapere che tale scelta non sarebbe  stata
accompagnata dal supporto assistenziale dell'assegno INPS, in ragione
del tipo di crimine per il quale era stato condannato. 
    Peraltro, la revoca dell'assegno sociale e' correlata alla durata
della pena da scontare. Nell'ordinanza  di  rimessione,  invece,  non
sarebbe dato conoscere  il  periodo  residuo  di  pena  da  scontare,
potendosi  solo  evincere  che  nelle  condizioni  in  cui  versa  il
ricorrente,  sarebbe  precluso  l'accesso   a   qualsivoglia   misura
assistenziale. 
    Infine, non sarebbe stata valutata la  possibilita'  (contemplata
dall'art. 47-ter della legge n. 354 del  1975)  di  espiare  la  pena
presso un istituto pubblico  (alternativo  alla  propria  abitazione)
idoneo all'esecuzione della pena. 
    Dal  complesso  degli  argomenti,  pertanto,   dovrebbe   dedursi
l'inammissibilita' della questione. 
    8.3.- La pronuncia invocata del giudice a quo,  inoltre,  mirando
al mantenimento di una prestazione a carico dello Stato in favore del
condannato in regime di detenzione domiciliare, dovrebbe  assimilarsi
a quelle  additive  di  prestazione,  con  inevitabili  ricadute  sul
sistema  finanziario  (art.  81  Cost.).  Il  minor   risparmio,   in
particolare, andrebbe a  incidere  sul  Fondo  di  rotazione  per  la
solidarieta' alle vittime dei reati di tipo mafioso. 
    Aspetti la cui regolazione  rientrerebbe  nella  discrezionalita'
del legislatore. 
    9.- In prossimita' dell'udienza l'INPS ha depositato una memoria,
in buona parte analoga a quella presentata nel giudizio di cui al  n.
234 del registro ordinanze 2019. 
    9.1.- Con particolare riferimento all'assegno sociale, benche' si
tratti di una prestazione a carattere  assistenziale,  finalizzata  a
sovvenire ai bisogni essenziali di vita di chi si trovi in uno  stato
di disagio economico, essa  sarebbe  pur  sempre  condizionata  dalla
percezione di redditi non ostativi  -  non  solo  dell'aspirante,  ma
anche del coniuge - e subordinata  all'assolvimento  dell'obbligo  di
comunicazione dei dati reddituali. 
    Inoltre, l'art. 47-ter della legge n. 354 del 1975  consentirebbe
al condannato ultrasettantenne, che versi in  stato  di  bisogno,  di
accedere al  beneficio  della  detenzione  domiciliare  in  un  luogo
pubblico di cura, assistenza ed accoglienza. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il  Tribunale  ordinario  di  Fermo,  sezione  lavoro,  e  il
Tribunale ordinario di Roma, sezione prima lavoro, con due  ordinanze
di contenuto parzialmente analogo, iscritte rispettivamente al n. 234
del registro ordinanze 2019 e al n. 68 del registro  ordinanze  2020,
hanno sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 2,
comma 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in  materia
di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). 
    1.1.-  La  disposizione  censurata,  in  tema  di  revoca   delle
prestazioni assistenziali, prevede che: «[e]ntro tre mesi dalla  data
di  entrata  in  vigore  della  presente  legge,  il  Ministro  della
giustizia, d'intesa con il Ministro  del  lavoro  e  delle  politiche
sociali, trasmette agli enti titolari dei relativi rapporti  l'elenco
dei soggetti gia' condannati con sentenza passata in giudicato per  i
reati di cui al comma 58, ai  fini  della  revoca,  con  effetto  non
retroattivo, delle prestazioni di cui al  medesimo  comma  58,  primo
periodo». 
    2.- In virtu' dell'identita' della disposizione censurata e della
parziale coincidenza dei motivi di censura i  giudizi  devono  essere
riuniti per essere decisi con un'unica sentenza. 
    3.- Secondo il Tribunale di Fermo l'art. 2, comma 61, della legge
n. 92 del 2012 violerebbe gli artt. 3, 25 e 38 della Costituzione. 
    3.1.- In primo luogo, la revoca delle  prestazioni  previdenziali
nei confronti dei soggetti gia' condannati con  sentenza  passata  in
giudicato al momento dell'entrata in vigore della  legge  n.  92  del
2012 contrasterebbe con il principio di irretroattivita' della  legge
penale ex art. 25 Cost., dovendo essere riconosciuta alla revoca,  in
base a una lettura sostanzialistica, natura di sanzione penale. 
    3.2.- In secondo luogo, nell'applicarsi  a  tutti  i  condannati,
senza distinguere tra detenuti e soggetti ammessi a scontare la  pena
in regime alternativo (come nel caso della  detenzione  domiciliare),
la  disposizione  oggetto  di  censura  inciderebbe  sul  diritto  al
mantenimento e all'assistenza sociale riconosciuto in favore di  ogni
cittadino dall'art. 38 Cost., privando il soggetto  dell'unico  mezzo
di assistenza riconosciutogli dall'ordinamento. 
    3.3.- Da ultimo, se applicata  senza  alcuna  distinzione  per  i
collaboratori di giustizia, la  disposizione  censurata  risulterebbe
irragionevole nel trattare in maniera uniforme ipotesi differenti. 
    4.- In via  preliminare  devono  essere  esaminate  le  eccezioni
d'inammissibilita' sollevate dall'Istituto nazionale della previdenza
sociale  (INPS),  costituito  in  giudizio,  e  del  Presidente   del
Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio e  rappresentato  per
mezzo  dell'Avvocatura   generale   dello   Stato,   per   incompleta
ricostruzione del fatto - non emergendo dall'ordinanza di  rimessione
i motivi della revoca della prestazione richiesta, ne'  la  rilevanza
di talune circostanze fattuali - e  per  difetto  di  rilevanza,  non
essendo state esaminate nel giudizio a quo le  preliminari  eccezioni
in punto di inammissibilita' della domanda giudiziale per mancanza di
preventiva domanda amministrativa e dei  presupposti  socio-economici
del beneficio. 
    4.1.- Le eccezioni sono fondate. 
    4.1.1.-  L'ordinanza  di  rimessione  risulta  molto  concisa   e
lacunosa, rinviando alle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
come indicate dalla parte ricorrente  nel  ricorso  introduttivo  del
giudizio a quo. 
    In particolare, quanto ai provvedimenti di sospensione  e  revoca
della pensione d'invalidita' civile da parte dell'INPS,  agli  stessi
e' fatto un mero cenno, senza tra l'altro precisare neppure quale sia
la prestazione assistenziale revocata. 
    Non  sono  specificate,  altresi',  le  ragioni  alla  base   del
provvedimento   dell'INPS,   quali   gli   estremi   della   condanna
irrevocabile antecedente all'entrata  in  vigore  della  disposizione
impugnata - per uno dei reati ivi previsti - ne' le modalita' con cui
e' stato applicato il provvedimento di revoca, ne' la sua  decorrenza
temporale. 
    Neppure viene fatto espresso  riferimento  alla  qualita'  di  ex
collaboratore   di   giustizia   della   parte   privata,   parimenti
costituitasi in giudizio per mezzo del suo tutore, ne' all'espiazione
della pena in regime di detenzione domiciliare. 
    Quanto alle condizioni economiche  del  ricorrente  nel  giudizio
principale, anche per queste non vi e' alcuna specificazione. 
    Infine, l'ordinanza  nulla  dice  riguardo  alla  previa  domanda
amministrativa da parte del ricorrente nel giudizio a quo, nonche' al
possesso da parte dello stesso dei  presupposti  socio-economici  del
beneficio economico oggetto di revoca. 
    4.1.2.- Com'e'  noto,  gli  elementi  essenziali  ai  fini  della
rilevanza della questione non possono essere desunti dagli  atti  del
giudizio a quo (sentenze n. 79 del 1996 e n. 451 del 1989;  ordinanze
n. 119 del 2002 e n. 300 del  1999),  dovendo  la  motivazione  della
stessa  ordinanza   risultare   autosufficiente   a   individuare   i
presupposti del giudizio di legittimita' costituzionale (sentenza  n.
310 del 2000; ordinanze n. 242 e n. 98 del 1999). 
    Nel caso di specie,  come  sottolineato,  tali  elementi  non  si
trovano nell'ordinanza di  rimessione,  ma  al  piu'  possono  essere
desunti, e solo in parte, dagli ulteriori atti di causa. 
    Tali lacune, di conseguenza, comportano l'inammissibilita'  delle
questioni di legittimita' costituzionale sollevate dal  Tribunale  di
Fermo. 
    5.- L'ordinanza di rimessione del Tribunale di  Roma,  per  parte
sua, prospetta la lesione - ad opera dell'art.  2,  comma  61,  della
legge n. 92 del 2012 - dell'art. 38, primo comma, Cost, nonche' degli
artt. 2 e 3 Cost. 
    5.1.- La disposizione censurata,  infatti,  imponendo  la  revoca
dell'assegno sociale a chi versi in regime di detenzione domiciliare,
comporterebbe il rischio che tale soggetto  sia  privato  -  a  causa
della condizione di eta' e della connessa  incapacita',  presunta  ex
lege,  di  svolgere  qualsiasi  proficuo  lavoro  -  dei   mezzi   di
sussistenza. La qual cosa realizzerebbe un oggettivo pregiudizio  per
i diritti inviolabili della persona - quali quello alla alimentazione
e, in definitiva,  alla  vita  -  diritti  insuscettibili  di  patire
deroghe o compressioni. 
    6.-  In  via  preliminare  deve  essere   rigettata   l'eccezione
d'inammissibilita' delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
sollevata  dalla  difesa  dell'INPS,  costituito  in  giudizio,   per
contraddittorieta' della motivazione, poiche' il  rimettente,  da  un
lato affermerebbe  l'incidenza  della  disposizione  censurata  sulla
materia dell'assistenza, introducendo un nuovo requisito negativo per
l'insorgenza  del  diritto  alla  percezione  dell'assegno   sociale,
dall'altro riterrebbe irrilevante tale requisito. 
    6.1.- Il giudice a  quo,  infatti,  riconosce  alla  disposizione
impugnata la natura di nuovo requisito ostativo al mantenimento della
provvidenza economica, ma ritiene  tale  previsione  -  se  applicata
indistintamente e senza poter tener conto  di  specifiche  situazioni
personali  dei  soggetti  interessati,  specie  quelli  in  stato  di
detenzione  domiciliare  -  idonea  a  determinare   una   violazione
dell'art. 38 Cost. 
    Non si ravvisano, pertanto, elementi di contraddittorieta'  nella
motivazione dell'ordinanza di rimessione. 
    7.- Parimenti non fonate  sono  le  eccezioni  d'inammissibilita'
sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri,  intervenuto  in
giudizio e rappresentato per  mezzo  dell'Avvocatura  generale  dello
Stato  -  tra  l'altro  formulate  in  stretta  correlazione  con  le
argomentazioni di merito - in quanto non sarebbe  stata  valutata  la
possibilita' per il condannato di scontare la detenzione  domiciliare
in un istituto pubblico ex art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n.
354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sulla  esecuzione  delle
misure privative e limitative della liberta'), ne' verrebbe  indicato
dal rimettente il quantum della pena residua da scontare. 
    7.1.- Da una parte,  infatti,  la  possibilita'  di  scontare  la
detenzione domiciliare in istituti pubblici non rileva nel giudizio a
quo. Tale previsione legislativa, al piu', potrebbe costituire motivo
di non fondatezza delle  questioni  e  non  d'inammissibilita'  delle
stesse. 
    Dall'altra parte, il fatto  che  l'ordinanza  di  rimessione  non
indichi  la  parte  residua  della  pena  da  scontare  non   risulta
rilevante, potendosi comunque desumere che il condannato si trova  in
regime di detenzione domiciliare  e,  dunque,  in  una  modalita'  di
espiazione della pena  incompatibile,  ai  sensi  della  disposizione
censurata, con l'erogazione dell'assegno sociale. 
    8.- Nel merito le questioni sono fondate. 
    8.1.-  Al  fine  di  poter  meglio  inquadrare  la   natura   del
provvedimento di revoca di cui alla disposizione  censurata,  risulta
opportuno  ricostruire  la   disciplina   complessivamente   prevista
dall'art. 2, commi da 58 a 61, della legge n. 92 del 2012. 
    8.1.1.- Il comma 58 dispone che,  nel  pronunciare  condanna  per
taluni reati di particolare  allarme  sociale  -  quali  i  reati  di
associazione terroristica, attentato per finalita' terroristiche o di
eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione,
associazione di stampo mafioso, scambio elettorale, strage e  delitti
commessi per agevolare le associazioni di stampo mafioso - il giudice
applichi, in sentenza, la sanzione accessoria  della  revoca  di  una
serie determinata di prestazioni assistenziali, ossia l'indennita' di
disoccupazione, l'assegno sociale, la pensione sociale e la  pensione
per gli invalidi civili. 
    Il comma 59 stabilisce che l'erogazione di tali provvidenze possa
essere ripristinata, a domanda dell'interessato e ove ne sussistano i
presupposti  previsti  dalla  normativa  di  riferimento,  una  volta
espiata la pena. 
    Il comma 60 impone l'obbligo di tempestiva comunicazione all'ente
previdenziale competente dei  provvedimenti  adottati  ai  sensi  del
comma 58, ai fini della loro immediata esecuzione. 
    Il comma 61, oggetto di censura, infine, prevede che,  entro  tre
mesi dall'entrata in vigore della legge n. 92 del 2012,  il  Ministro
della  giustizia,  d'intesa  con  il  Ministro  del  lavoro  e  delle
politiche sociali, trasmetta agli enti titolari dei relativi rapporti
l'elenco  dei  soggetti  gia'  condannati  con  sentenza  passata  in
giudicato per i reati di cui al comma 58, ai fini della  revoca,  con
effetto non retroattivo,  delle  prestazioni  previste  dal  medesimo
comma 58, primo periodo. 
    8.1.2.- L'intervento del  legislatore  crea,  in  tal  modo,  uno
"statuto d'indegnita'" per la percezione di  determinare  provvidenze
pubbliche da parte  di  chi  sia  risultato  colpevole  di  peculiari
delitti,  secondo  un'impostazione   rinvenibile   anche   in   altre
disposizioni legislative,  tra  le  quali,  ad  esempio,  quelle  sul
reddito di cittadinanza previste dal decreto-legge 28  gennaio  2019,
n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di
pensioni), convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019,  n.
26), gia' oggetto d'esame da parte di questa Corte (sentenze  n.  126
del 2021 e n. 122 del 2020). 
    La devoluzione dei risparmi di spesa al Fondo di rotazione per la
solidarieta' alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle  richieste
estorsive e dell'usura e agli interventi in favore delle vittime  del
terrorismo  e   della   criminalita'   organizzata,   inoltre,   pare
configurare  l'intervento  legislativo  anche   quale   concorso   al
finanziamento   di   tale   fondo,   considerato    il    progressivo
depauperamento dello stesso (come ricordato dall'atto di costituzione
dell'INPS). 
    8.2.- Cio' precisato, l'art. 38, primo comma, Cost.  prevede  che
ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per
vivere  ha  diritto  al  mantenimento   e   all'assistenza   sociale,
configurando cosi' un dovere di solidarieta' economica e  sociale  in
capo allo Stato e alla comunita' complessivamente intesa. 
    Sin  dalle  sue  piu'  risalenti  pronunce,   questa   Corte   ha
sottolineato che il primo  comma  dell'art.  38  Cost.  configura  un
dovere  di  solidarieta',  che  deve  informare  la  normativa  della
pubblica assistenza e beneficenza a favore di chi versi in condizioni
di  indigenza  per  inabilita'  allo  svolgimento  di  una  attivita'
remunerativa,  prescindendosi  da  precorse  qualita'  e   situazioni
personali e da servizi resi allo Stato.  Il  secondo  comma,  invece,
anch'esso ispirato a criteri di solidarieta' sociale, ma con speciale
riguardo ai lavoratori,  impone  che  in  caso  di  eventi,  i  quali
incidono sfavorevolmente sulla loro  attivita'  lavorativa,  siano  a
essi assicurate provvidenze atte a garantire la  soddisfazione  delle
esigenze di vita (tra le tante, sentenze n. 22 del 1969 e n.  27  del
1965). 
    8.2.1.- Il dovere di cui al primo  comma  si  esprime  attraverso
specifiche misure  di  assistenza  economica,  basate  principalmente
sullo stato di bisogno del beneficiario. 
    Tra queste rientra  senz'altro  l'assegno  sociale,  oggetto  del
giudizio a quo, di cui all'art. 3, comma  6,  della  legge  8  agosto
1995, n.  335  (Riforma  del  sistema  pensionistico  obbligatorio  e
complementare). 
    Si tratta di  una  provvidenza  che  ha  sostituito  la  pensione
sociale, erogata a soggetti con eta' superiore  a  65  anni  (dal  1°
gennaio 2019 superiore a 67 anni), in possesso di un  reddito  al  di
sotto  delle  soglie  stabilite   annualmente   dalla   legge.   Tale
prestazione assistenziale e' volta a  far  fronte  a  un  particolare
stato di bisogno derivante dall'indigenza,  risultando  invece  altre
prestazioni sociali - quali, ad  esempio,  l'assistenza  sanitaria  o
l'indennita' di accompagnamento - preordinate a soccorrere  lo  stato
di bisogno derivante  da  grave  invalidita'  o  non  autosufficienza
(sentenze n. 12 del 2019 e n. 400 del 1999). 
    Proprio l'erogazione al solo scopo di far fronte  allo  stato  di
bisogno evidenzia  la  natura  meramente  assistenziale  dell'assegno
sociale, che pertanto si differenzia da altre  provvidenze,  motivate
anche da ulteriori finalita',  come  il  gia'  ricordato  reddito  di
cittadinanza, che non ha natura meramente assistenziale, ma anche  di
reinserimento lavorativo e per tali ragioni legato a piu'  stringenti
requisiti, obblighi e condizioni (sentenza n. 126 del 2021). 
    8.2.2.-  Vero  e'  che   il   legislatore   puo'   legittimamente
circoscrivere la platea  dei  beneficiari  delle  stesse  prestazioni
sociali, purche' le sue scelte rispettino rigorosamente il canone  di
ragionevolezza; trattandosi  di  provvidenze  a  tutela  di  soggetti
fragili,  infatti,  le  eventuali  limitazioni   all'accesso   devono
esprimere  un'esigenza  chiara   e   razionale,   senza   determinare
discriminazioni (sentenze n. 50 del 2019, n. 166 del 2018, n. 133 del
2013 e n. 432 del 2005). 
    La  possibilita'  di  modulare   la   disciplina   delle   misure
assistenziali, pertanto, non puo' pregiudicare quelle prestazioni che
si configurano come misure di sostegno indispensabili  per  una  vita
dignitosa,  come  la  pensione  d'inabilita'   civile,   diretta   al
sostentamento della persona, nonche' alla salvaguardia di  condizioni
di vita accettabili e alla tutela di bisogni primari  della  persona,
al fine di garantire un minimo vitale di sussistenza a  presidio  del
nucleo  essenziale  e  indefettibile  del  diritto  al  mantenimento,
garantito a ogni cittadino inabile al lavoro  (sentenza  n.  152  del
2020). Cosi' anche per le provvidenze destinate al soddisfacimento di
bisogni primari e volte alla garanzia per  la  stessa  sopravvivenza,
come l'indennita'  di  comunicazione  o  quella  di  accompagnamento,
nonche' la pensione per i ciechi o per i sordi, la  cui  attribuzione
comporta il coinvolgimento di una serie di principi, tutti di rilievo
costituzionale (tra cui l'art. 2 Cost.) (si vedano le sentenze n. 230
e n. 22 del 2015, n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010). 
    Per la percezione dell'assegno sociale, questa Corte ha  ritenuto
ammissibile la fissazione di specifiche condizioni, quale il possesso
del permesso di  soggiorno  di  lungo  periodo  dell'Unione  europea,
condizione  esclusa,  invece,  per  le  prestazioni  sopra   indicate
(sentenza n. 50 del  2019).  Si  trattava  pero'  di  condizioni  non
irragionevoli in quanto espressive della necessita' per lo  straniero
extra-comunitario  di  comprovare,  ai  fini   dell'accesso   a   una
provvidenza non legata allo stato di salute, un  inserimento  stabile
nella nostra societa'. 
    8.3.- Cio' premesso, la revoca dei trattamenti  assistenziali  di
cui alla disposizione oggetto di censura - ivi inclusa  la  specifica
provvidenza in discussione nel giudizio a quo  -  puo'  concretamente
comportare il rischio che il condannato ammesso a scontare la pena in
regime di detenzione domiciliare o in altro regime  alternativo  alla
detenzione in carcere, poiche' non a carico dell'istituto carcerario,
non disponga di sufficienti mezzi per la propria sussistenza. 
    8.3.1.- Lo "statuto d'indegnita'" definito dal  legislatore  pone
in pericolo, in tal  modo,  la  stessa  sopravvivenza  dignitosa  del
condannato, privandolo del minimo vitale, in violazione dei  principi
costituzionali (artt. 2, 3 e 38 Cost.), su cui si  fonda  il  diritto
all'assistenza. 
    E' pur vero che i condannati per i reati di cui all'art. 2, comma
58, della legge n. 92 del 2012 hanno gravemente violato il  patto  di
solidarieta' sociale  che  e'  alla  base  della  convivenza  civile.
Tuttavia, attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano
comunque assicurati i mezzi necessari per vivere. 
    Cio' non accade qualora la revoca riguardi il condannato  ammesso
a scontare la pena in regime alternativo al carcere, che deve  quindi
sopportare le spese per il proprio mantenimento, le quali,  ove  egli
sia privo di mezzi adeguati, potrebbero essere garantite  solo  dalle
ricordate provvidenze pubbliche. 
    8.3.2.- Proprio tale diversita' di  effetti  della  revoca  delle
prestazioni  sociali  su  chi  si  trova  in  stato   di   detenzione
domiciliare (o in altra forma alternativa di espiazione  della  pena)
rispetto a chi e' detenuto in carcere determina una violazione  anche
dell'art. 3 Cost., trattando allo stesso modo  situazioni  soggettive
del tutto differenti. 
    Tener conto di  tale  diversita'  di  situazioni,  anzi,  risulta
presumibilmente  coerente  con  la  stessa  volonta'  dell'intervento
legislativo, che  ha  stabilito  l'incompatibilita'  tra  determinate
provvidenze pubbliche e l'essere stati condannati in  via  definitiva
per reati giudicati particolarmente gravi. E' ben possibile, infatti,
che per tali reati il legislatore abbia pensato alla sola  detenzione
in carcere  come  regime  di  espiazione  della  pena,  senza  quindi
prevedere deroghe allorche' ricorrano  peculiari  situazioni,  legate
all'eta'  avanzata  del  condannato,  alla   presenza   di   precarie
condizioni di salute, nonche', per particolari reati quali quelli  di
cui al giudizio a quo, anche alla collaborazione con la giustizia. 
    Risulta cosi' violato  lo  stesso  principio  di  ragionevolezza,
perche' l'ordinamento valuta un soggetto meritevole di accedere forme
alternative di detenzione, ma lo priva  poi  dei  mezzi  per  vivere,
ottenibili, in virtu' dello stato di bisogno, solo dalle  prestazioni
assistenziali. 
    8.4.- Deve, pertanto, dichiararsi l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui
- richiamando il comma 58, primo periodo - prevede  la  revoca  delle
prestazioni, comunque denominate in base alla  legislazione  vigente,
quali l'indennita' di disoccupazione, l'assegno sociale, la  pensione
sociale e la pensione per  gli  invalidi  civili,  nei  confronti  di
coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione  in
carcere. 
    8.5.- Ai sensi dell'art. 27 della legge  11  marzo  1953,  n.  87
(Norme  sulla  costituzione   e   sul   funzionamento   della   Corte
costituzionale), dalla declaratoria  d'illegittimita'  costituzionale
del comma 61 dell'art. 2 della legge n. 92 del 2012  consegue,  negli
stessi limiti, anche quella del comma 58 del medesimo  articolo,  ove
si  prevede,  a  regime,  la  revoca  delle   ricordate   prestazioni
assistenziali con la sentenza di condanna per i reati previsti  dalla
stessa disposizione. 
    L'illegittimita' della revoca, infatti, deriva dal pregiudizio al
diritto all'assistenza per chi necessiti dei mezzi per  sopravvivere,
che deve essere  comunque  garantito  a  ciascun  individuo,  pur  se
colpevole di determinati reati. Pregiudizio  che  resta  il  medesimo
anche quando la revoca venga disposta dalla sentenza di condanna  per
i reati commessi successivamente alla data di entrata in vigore della
legge n. 92 del 2012, ossia nella fattispecie di cui al comma 58. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  2,  comma
61, della legge 28 giugno 2012, n. 92  (Disposizioni  in  materia  di
riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella
parte in cui prevede la revoca delle prestazioni, comunque denominate
in  base   alla   legislazione   vigente,   quali   l'indennita'   di
disoccupazione, l'assegno sociale, la pensione sociale e la  pensione
per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena
in regime alternativo alla detenzione in carcere; 
    2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell'art.  27  della
legge  11  marzo  1953,  n.  87  (Norme  sulla  costituzione  e   sul
funzionamento   della   Corte    costituzionale),    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 58, della legge  n.  92  del  2012,
nella parte in cui prevede  la  revoca  delle  prestazioni,  comunque
denominate in base alla legislazione vigente, quali  l'indennita'  di
disoccupazione, l'assegno sociale, la pensione sociale e la  pensione
per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena
in regime alternativo alla detenzione in carcere; 
    3)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 61, della legge  n.  92  del  2012,
sollevate dal  Tribunale  ordinario  di  Fermo,  sezione  lavoro,  in
riferimento agli artt. 3, 25 e 38 della Costituzione, con l'ordinanza
indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 maggio 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                      Giuliano AMATO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2021. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA