N. 130 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 giugno 2021

Ordinanza del 4 giugno  2021  del  Consiglio  di  Stato  sul  ricorso
proposto da Frasca Alfonso e Di Lullo Leonardo c/Comune  di  Castello
del Matese e altri. 
 
Elezioni - Elezioni del Sindaco e del Consiglio comunale  nei  Comuni
  con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti -  Liste  elettorali  -
  Rappresentanza di candidati di entrambi i sessi - Omessa previsione
  della necessaria rappresentanza di entrambi i  generi  nelle  liste
  elettorali nei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. 
Elezioni - Elezioni del Sindaco e del Consiglio comunale  nei  Comuni
  con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti -  Liste  elettorali  -
  Rappresentanza di candidati di entrambi i sessi  -  Esclusione  dal
  regime sanzionatorio, sub specie "esclusione  della  lista",  delle
  liste  elettorali  presentate  in   violazione   della   necessaria
  rappresentativita' di entrambi i sessi in riferimento ai Comuni con
  popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. 
- Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
  sull'ordinamento degli enti locali), art. 71, comma 3-bis;  decreto
  del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico
  delle leggi per la composizione e la elezione  degli  organi  delle
  Amministrazioni comunali), art. 30, lettere d-bis) ed e). 
(GU n.37 del 15-9-2021 )
 
                        IL CONSIGLIO DI STATO 
               in sede giurisdizionale (Sezione Terza) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 9883 del 2020, proposto da Alfonso Frasca, Leonardo
di Lullo, rappresentati e  difesi  dall'avvocato  Maurizio  Ricciardi
Federico, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia
contro  Comune  di  Castello  del  Matese,  Ministero   dell'interno,
Sottocommissione elettorale circondariale di Piedimonte  Matese,  non
costituiti in giudizio; Ufficio territoriale del Governo di  Caserta,
in persona del legale rappresentante  pro  tempore,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria  ex  lege
in Roma, via  dei  Portoghesi,  n.  12;  nei  confronti  di  Giuseppe
Zappulo, Antonio Zappulo,  Antonio  Iuliano  rappresentati  e  difesi
dall'avvocato Carlo Sarro, con  domicilio  eletto  presso  Io  studio
dell'avvocato Leopoldo Di Bonito  in  Roma,  piazza  dei  Martiri  di
Belfiore, n. 2; 
    per  la  riforma  della  sentenza  del  Tribunale  amministrativo
regionale per la Campania (Sezione seconda) n. 06185/2020,  resa  tra
le parti; 
    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio di  Giuseppe  Zappulo,
di Antonio Zappulo, di Antonio luliano  e  dell'Ufficio  territoriale
del Governo di Caserta; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visto l'art. 25  del  d.l.  del  28  ottobre  2020  n.  137/2020,
convertito dalla legge n. 176/2020; 
    Visto l'art. 6, comma 1, lett. e)  del  decreto-legge  1°  aprile
2021 n. 44  con  il  quale  e'  stato  prorogato  il  regime  per  lo
svolgimento delle udienze da remoto fino  alla  data  del  31  luglio
2021; 
    Relatore nell'udienza pubblica, tenutasi da remoto, del giorno 15
aprile 2021 il Cons. Stefania Santoleri; dato atto della presenza per
gli appellanti dell'avvocato Federico Maurizio Ricciardi; 
    Sulla rilevanza 
    1. Con il ricorso di primo grado, proposto dinanzi  al  Tribunale
amministrativo regionale della Campania, sede di Napoli, i ricorrenti
sig. Alfonso Frasca e Leonardo Di Lullo, nella qualita' di elettori e
componenti della  lista  elettorale  n.  1  «Castello  Unita»,  hanno
rappresentato di aver partecipato alla competizione  per  il  rinnovo
del consiglio comunale  presso  il  Comune  di  Castello  del  Matese
(avente popolazione inferiore ai  5.000  abitanti)  previsto  per  la
tornata del 21 e del 22 settembre 2020. 
    Alla competizione elettorale  erano  state  presentate  due  sole
liste, segnatamente: 
      la lista n. 1  denominata  «Castello  Unita»,  composta  da  10
candidati, tra i quali vi sono i ricorrenti; 
      la lista n. 2 denominata «Le due Torri», composta di soli sette
candidati, tutti uomini. All'indomani della presentazione delle liste
e della  successiva  approvazione  da  parte  della  Sottocommissione
elettorale circondariale, i ricorrenti avevano  lamentato  presso  la
medesima Commissione l'illegittima ammissione della lista  avversaria
(«Le due Torri»), in virtu' della  riscontrata  assenza  nella  lista
della componente femminile (cd. «quota rosa») prescritta, secondo  la
loro prospettazione, dall'art. 71, comma 3-bis,  decreto  legislativo
n. 267/2000, a pena della ricusazione della  lista,  in  applicazione
dell'art. 30, lettera e), decreto del Presidente della Repubblica  n.
570/60. 
    Hanno quindi rilevato che il  loro  reclamo  era  stato  respinto
dalla  Sottocommissione  elettorale,   nominata   per   vagliare   la
regolarita' della  presentazione  delle  liste,  atteso  che  sarebbe
mancata, nella normativa elettorale, una  esplicita  comminatoria  di
esclusione in caso di violazione del principio relativo alla  parita'
di genere per i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti. 
    In questo modo, il risultato elettorale  sarebbe  stato  alterato
dalla mancata ricusazione della lista «Le due Torri», cui sono  stati
attribuiti tre seggi in danno degli appelIanti. 
    Essendo state presentate due sole liste nelle elezioni  comunali,
la  ricusazione  della  lista  «Le  due  Torri»  avrebbe   comportato
l'attribuzione dei tre seggi alla  medesima  assegnati  ai  candidati
della «Castello  Unita»:  poiche'  i  ricorrenti  si  sono  collocati
nell'ordine  come  secondo  e  terzo  dei  non  eletti,  in  caso  di
esclusione   dell'altra   lista   partecipante   alla    competizione
elettorale, tali seggi sarebbero stati loro assegnati. 
    A seguito della proclamazione  degli  eletti  e  della  convalida
intervenuta con delibera del Consiglio comunale n. 5  del  9  ottobre
2020, gli appellanti avevano proposto ricorso  dinanzi  al  Tribunale
amministrativo  della  Campania-Napoli  affinche'  venisse  accertata
l'illegittimita'  dell'operato  amministrativo  e,   contestualmente,
venisse ricusata ovvero estromessa la  lista  «Le  due  Torri»  dalla
competizione elettorale, consentendo, in tal modo, di  rettificare  i
risultati elettorali e recuperare la posizione utile  per  la  nomina
come consiglieri comunali lasciati liberi dai  tre  controinteressati
eletti. 
    Con sentenza n. 6185/2020  del  16  dicembre  2020  il  Tribunale
amministrativo  regionale  per  la  Campania,  sede  di  Napoli,  pur
riconoscendo «aspetti di assoluta novita' dell'oggetto»  ha  respinto
il ricorso ritenendo che l'art. 2 comma 1, lettera c) numero 1) della
legge n. 215/2012, con il quale sono  state  apportate  modifiche  al
decreto legislativo n. 267/2000 ed al decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 570/1960, pur prevedendo  un  controllo  e  un  diretto
intervento delle commissioni  elettorali  circondariali  al  fine  di
garantire la rappresentanza di  entrambi  i  sessi  nelle  liste  dei
candidati con specifico riguardo ai comuni con popolazione  inferiore
ai 5.000 abitanti, non prevede misure  sanzionatone  a  carico  delle
liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi. 
    La stessa sentenza ha escluso la  possibilita'  di  ricorrere  ad
un'interpretazione analogica delle disposizioni previste per i comuni
con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, ritenendo  la  normativa
elettorale non soggetta a tale opzione ermeneutica. 
    Avverso tale sentenza e' stato ritualmente proposto appello. 
    Lamentano in particolare in esso i ricorrenti che il  Giudice  di
prime cure avrebbe  errato  nel  respingere  il  ricorso,  in  quanto
l'intento perseguito dal legislatore con la legge n. 215/2012 sarebbe
quello di garantire la ferma ed inderogabile  presenza  in  lista  di
entrambi i sessi, cosi come sancito  a  chiare  lettere  nella  prima
parte dell'art. 71, co. 3-bis, T.U.E.L., come modificato dall'art. 2,
comma 1, della suddetta legge; tale prescrizione troverebbe  completa
attuazione nella lettera e) dell'art. 30 del decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 570/1960, anch'essa introdotta dalla riforma  del
2012, laddove la violazione dell'art.  71,  comma  3-bis  cit.  viene
sanzionata con  la  ricusazione  della  lista;  ne  consegue  che  la
ricusazione della lista «Le due Torri»  discenderebbe  dal  combinato
disposto degli articoli 71, comma 3-bis,  prima  parte,  del  decreto
legislativo n. 267/2000 e 30, comma  1,  lett.  e)  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 570/1960. 
    Si sono costituiti in giudizio i controinteressati chiedendo  che
il ricorso venisse dichiarato inammissibile  o  rigettato  in  quanto
infondato. 
    Le parti hanno depositato memorie difensive di replica a sostegno
delle rispettive tesi. 
    All'udienza pubblica  del  15  aprile  2021  l'appello  e'  stato
trattenuto in decisione. 
    Il Collegio, valutate la sua giurisdizione e  le  condizioni  per
addivenire  ad  una  decisione  nel  merito,  ritiene  sussistere   i
presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza  per  rimettere
alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 71, comma 3-bis,  decreto  legislativo  n.  267/2000  nella
parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di  entrambi  i
generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai
5.000 abitanti, nonche' dell'art.  30,  lett.  d)  bis  e  lett.  e),
decreto del Presidente della Repubblica n. 570/60, nella parte in cui
esclude dal regime sanzionatorio sub specie «escIusione della lista»,
le  liste  elettorali  presentate  in  violazione  della   necessaria
rappresentativita' di entrambi i sessi in riferimento ai  comuni  con
meno di 5.000 abitanti. E cio' in  quanto  tali  norme  risultano  in
contrasto con gli articoli 51,  3,  117,  comma  1  (quest'ultimo  in
relazione all'art. 14 CEDU, art.  1  Protocollo  addizionale  n.  12)
della Costituzione. 
    2. La vicenda di cui si discute trae origine da una  competizione
elettorale riferibile ad un Comune con popolazione inferiore ai 5.000
abitanti. 
    Il quadro normativo  di  riferimento,  risultante  dal  combinato
disposto delle norme indicate in epigrafe, e'  stato  oggetto  di  un
profondo  intervento  normativa  ad  opera  della  legge  n.  215/12,
rubricata «previsioni di riequilibrio».  La  novella  legislativa  e'
stata adottata con l'obiettivo di garantire la parita' di genere  tra
uomini e donne  nel  particolare  ambito  dell'accesso  alle  cariche
elettive, predisponendo delle misure, rectius delle contromisure, per
ridurre l'assenza e la mancanza di partecipazione  delle  donne  alla
vita politica. 
    Nell'attuale  assetto  normativa,   determinato   da   successivi
interventi legislativi e dalle pronunce della  Corte  costituzionale,
sono  individuabili  tre  livelli  di   tutela   crescente   la   cui
applicazione dipende dal numero di abitanti  del  Comune  interessato
dalla competizione elettorale. 
    In un'ottica decrescente: 
      nel caso dei Comuni con piu' di 15.000 abitanti il legislatore,
attraverso il combinato disposto degli articoli 73, comma 1,  decreto
legislativo n. 267/2000 e art. 33, comma 1, lett. d-bis, decreto  del
Presidente della Repubblica n. 570/1960, ha  predisposto  il  massimo
livello di protezione con due differenti meccanismi, uno di riduzione
e l'altro di esclusione. Ed invero, l'art. 2, comma 1, lett.  d),  al
punto 1), della legge n. 215/12 - aggiungendo un periodo al  comma  1
dell'art. 73 del decreto  legislativo  n.  267/00,  ha  previsto  che
nessuno dei due sessi puo' essere rappresentato in ciascuna lista  in
misura superiore a due terzi  dei  candidati  (ammessi).  Il  calcolo
viene effettuato secondo una modalita' precisata dalla stessa  norma.
L'art. 2, comma 2, lettera b),  punto  1)  della  legge,  modificando
l'art. 33, primo comma, del decreto del Presidente  della  Repubblica
n.  570  del  1960,  ha  prescritto  che  la  Commissione  elettorale
circondariale verifichi il rispetto della suddetta  previsione  sulle
quote di genere  e,  se  necessario,  riduca  la  lista  cancellando,
partendo dall'ultimo, i nomi dei  candidati  appartenenti  al  genere
rappresentato in misura eccedente  i  due  terzi  dei  candidati.  In
questa ipotesi trova applicazione il meccanismo di  esclusione  della
lista previsto dall'art. 33, comma 1, lett d-bis cit: qualora questa,
anche dopo tale riduzione, contenga un numero  di  candidati  ammessi
inferiore a quello previsto, la Commissione  stessa  procedera'  alla
ricusazione della lista; 
      nei Comuni con popolazione tra i 5.000 e i 15.000 abitanti, gli
articoli 71, comma 3-bis, decreto legislativo n. 267/2000 e art.  30,
comma 1, lett. d-bis  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.
570/1960, prevedono un livello di protezione «intermedio». In caso di
violazione delle disposizioni a tutela della parita'  tra  sessi,  la
lista viene ridotta cancellando i nomi dei candidati appartenenti  al
genere rappresentato in misura eccedente i due terzi  dei  candidati,
procedendo in tal caso dall'ultimo della lista.  La  riduzione  della
lista non puo', in ogni caso,  determinare  un  numero  di  candidati
inferiore al minimo prescritto per l'ammissione della lista medesima; 
      nel caso dei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti
l'unica previsione di riequilibrio di genere e'  contenuta  nell'art.
2, comma 1, lett. c), al punto  1),  della  legge  n.  215/2012  che,
aggiungendo il comma 3-bis all'art. 71  del  decreto  legislativo  n.
267/00, enuncia, al primo periodo, il principio  secondo  cui  «Nelle
liste dei candidati e' assicurata la  rappresentanza  di  entrambi  i
sessi». La rubrica della norma «elezione del sindaco e del  consiglio
comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti» consente con certezza  di
estendere la sua efficacia ai Comuni  che  presentino  tale  densita'
anagrafica e tuttavia non e' prevista dalla vigente normativa  alcuna
misura sanzionatoria a carico  delle  liste  che  non  assicurano  la
rappresentanza di entrambi i sessi. 
    Da  questa  breve  premessa  emerge   chiaramente   che   l'unica
disposizione applicabile al caso controverso sottoposto al vaglio  di
questo Collegio e' l'art. 71, comma  3-bis,  decreto  legislativo  n.
267/2000 come modificato dall'art. 2, legge n. 215/12. 
    La  Corte   Costituzionale   ha   costantemente   affermato   che
«l'applicabilita'  della  disposizione  al  giudizio  principale   e'
sufficiente  a  radicare  la  rilevanza   della   questione»   (Corte
Costituzionale sent. n. 174/2016) e che «il nesso di pregiudizialita'
tra il giudizio principale e il giudizio costituzionale  implica  che
la norma censurata debba necessariamente essere applicata nel primo e
che l'eventuale illegittimita' della stessa incida  sul  procedimento
principale» (cosi' Corte Costituzionale n. 91/2013). 
    Questo Collegio ritiene che nessun  dubbio  residui  in  tema  di
applicabilita'  necessaria  dell'art.  71,   comma   3-bis,   decreto
legislativo n. 267/2000 al caso di specie. 
    Dall'applicabilita' della norma derivano conseguenze specifiche e
immediate in capo agli appellanti. Invero, la  tenuta  costituzionale
delle  disposizioni  censurate  -  e,  quindi,  mancato  obbligo   di
rappresentativita' di entrambi i generi  nelle  liste  elettorali  in
Comuni con meno di 5.000 abitanti e contestuale assenza di meccanismi
sanzionatori e detenenti contro la  violazione  del  principio  della
parita' di genere - produrrebbe  un  effetto  preclusivo  di  rigetto
della pretesa. Il Collegio dovrebbe limitarsi a rigettare  l'appello,
confermando la sentenza di primo grado. 
    Al contrario, qualora  le  disposizioni  fossero  ritenute  dalla
Corte Costituzionale in contrasto con la Costituzione -  nei  termini
che si avra'  modo  di  specificare  -  la  pronuncia  determinerebbe
l'esclusione della lista n. 2), lista «Le due Torri», il  conseguente
annullamento  del  risultato  elettorale  e  la  proclamazione  degli
appellanti quali consiglieri comunali eletti. 
    3. Rilevato un potenziale vulnus di costituzionalita' rispetto ai
parametri di cui agli articoli 3, 51, 117 comma  1  (quest'ultimo  in
riferimento all'art. 14 CEDU e all'art. 3, Prot add. 12  CEDU)  della
Costituzione nei termini che si avra' modo di specificare in punto di
non manifesta infondatezza, il Collegio giudicante ritiene di  dovere
valutare    se    sia    percorribile    un'operazione    ermeneutica
costituzionalmente orientata, a maggior ragione se  si  considera  la
ratio che ha spinto il  legislatore  ad  intervenire  nella  suddetta
materia: garantire il riequilibrio nella partecipazione  attiva  alla
vita politica, rimuovere gli ostacoli di ordine economico  e  sociale
che  limitano  di  fatto  la  «pienezza  del  diritto  di  elettorato
passivo», questione piu' volte affrontata dalla Corte  Costituzionale
(da ultimo, nella sentenza n. 48/21 in cui, pur  non  condividendo  i
dubbi di legittimita' costituzionale del giudice a quo, la  Corte  ha
ribadito la centralita' del diritto all'elettorato passivo nella vita
politica e sociale del Paese). 
    Una interpretazione costituzionalmente orientata  -  quanto  meno
dell'art. 71, decreto legislativo n. 267/2000 -  potrebbe  essere  la
seguente.  Si  potrebbe  in  astratto  sostenere  che   la   presenza
obbligatoria  di  persone  appartenenti  ad  entrambi  i  sessi   sia
prescritta per tutti i Comuni, a prescindere dal numero  di  abitanti
ma, nei Comuni con popolazione dai 5.000  ai  15.000  abitanti,  tale
presenza non possa essere rappresentata in misura superiore  ai  2/3.
In questa prospettiva e, ragionando a contrario, nei comuni  con  una
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti dovrebbe essere assicurata la
presenza di entrambi i generi nelle liste senza che venga in  rilievo
un limite minimo ne' massimo. 
    Tale  prospettazione,  pero',  non  trova  conforto   ne'   nell'
interpretazione letterale ne' in quella sistematica. 
    L'art. 71, comma 3-bis, TU enti locali prevede che  «Nelle  liste
dei candidati e' assicurata la rappresentanza di  entrambi  i  sessi.
Nelle medesime liste, nei comuni con popolazione compresa tra 5.000 e
15.000 abitanti, nessuno dei due sessi puo' essere  rappresentato  in
misura superiore ai  due  terzi  dei  candidati,  con  arrotondamento
all'unita' superiore qualora il numero dei candidati del  sesso  meno
rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra  decimale
inferiore a 50 centesimi». Nonostante l'incipit  -  «nelle  liste  e'
assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi» - sembrerebbe porre
un obbligo generalizzato  valido  a  prescindere  dal  dato  empirico
relativo al numero degli abitanti del Comune, la seconda parte  della
disposizione non risponde al canone di generalita' e prescrive che e'
solo nei Comuni con popolazione compresa  tra  i  5.000  e  i  15.000
abitanti che «nessuno dei due  sessi  puo'  essere  rappresentato  in
misura superiore ai due terzi». 
    Del resto, cio'  trova  pienamente  conferma,  sotto  il  profilo
sistematico  nell'art.  30,  lett.  d-bis  e  lett  e),  decreto  del
Presidente   della   Repubblica   n.   570/60,   della   cui   tenuta
costituzionale pure si discute, che predispone  misure  sanzionatorie
riferite unicamente ai  comuni  con  popolazione  superiore  a  5.000
abitanti. 
    Anche all'art. 71, comma 5, TUEL il  legislatore  ha  predisposto
una ulteriore misura di  contrasto  al  disequilibrio,  quello  della
«doppia  preferenza»  ma  solo  ed  esclusivamente  nei  comuni   con
popolazione tra 5.000 e 15.000. 
    Tali considerazioni impediscono  di  aderire  alla  ricostruzione
esegetica  che  sostiene  la  tenuta   costituzionale   delle   norme
censurate. 
    I caratteri  propri  del  procedimento  elettorale  e  la  natura
sanzionatoria della misura  di  riequilibrio  prevista,  con  diverse
modalita' legate al numero degli abitanti, per  la  violazione  delle
norme   a   tutela   della   parita'   di   genere   non   consentono
un'interpretazione analogica delle fattispecie. Il  legislatore,  pur
dopo avere espressamente previsto l'obbligo di assicurare la  parita'
di genere nelle  elezioni  di  qualsiasi  Comune,  ha  chiaramente  e
volutamente omesso di disciplinare le conseguenze della violazione di
tale obbligo nei Comuni piu' piccoli. Un'estensione  analogica  della
normativa  prevista  per  i  Comuni  piu'  grandi   equivarrebbe   ad
un'attivita' di creazione legislativa che farebbe  sconfinare  questo
Collegio    dai    limiti    dell'attivita'    giurisdizionale.    Ad
un'interpretazione estensiva si oppongono  peraltro,  oltre  al  dato
letterale  gia'  messo  in  rilievo,  argomentazioni   di   carattere
sistematico desumibili dai lavori preparatori alla  legge  n.  215/12
che,  come  piu'  volte  ricordato,  ha  inciso  profondamente  sulla
materia. Accanto a dichiarazioni di principio si collocano,  infatti,
chiare determinazioni circa  la  portata  applicativa  della  novella
legislativa. Nel Dossier  studi  n.  376/12  si  legge  infatti:  «Le
previsioni  sopra  ricordate  hanno  per  destinatari  i  Comuni  con
popolazione pari o superiore a 5.000 abitanti. (cfr dossier  servizio
studi pag. 8).» 
    La medesima impostazione si  ritrova  anche  nella  Circolare  n.
30/13 Ministero dell'interno che, pur non assurgendo a rango di fonte
di diritto,  fornisce  comunque  interessanti  elementi  che  possono
risultare utili nell'interpretazione della normativa. Nella circolare
de qua si legge, tra l'altro, che «la riforma, tuttavia, presenta una
diversa modulazione a seconda delle tre seguenti  fasce  demografiche
di comuni: sotto 5.000 abitanti; da 5.000 a  15.000  abitanti;  sopra
15.000  abitanti  (...)  La  legge,  tuttavia,  non  prevede   misure
sanzionatorie  a  carico  delle   liste   che   non   assicurano   la
rappresentanza di entrambi i sessi (nei  comuni  con  meno  di  5.000
abitanti, ndr).» 
    Ad una interpretazione compatibile con il dettato  costituzionale
non   si   potrebbe   giungere   neanche    attraverso    l'eventuale
disapplicazione della normativa de qua per contrasto  con  l'art.  23
della Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione  europea  rubricata
«parita' tra donne e uomini», a mente del quale «La parita' tra donne
e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia
di occupazione, di lavoro  e  di  retribuzione.  Il  principio  della
parita' non  osta  al  mantenimento  o  all'adozione  di  misure  che
prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato». 
    La norma infatti non  presenta  efficacia  immediata  e  diretta,
quanto  meno  con   riferimento   alla   legislazione   promozionale,
rimettendo al legislatore nazionale la scelta dei migliori  strumenti
per l'affermazione  del  principio  di  parita'.  Mancano  quindi  le
condizioni che consentono al giudice di disapplicare la norma interna
per contrasto con il diritto comunitario. 
    Deve  quindi  concludersi  che  la  questione   di   legittimita'
costituzionale che il Collegio intende sollevare e' rilevante  e  non
risolvibile    attraverso    un'interpretazione    costituzionalmente
orientata del dettato normativo. 
    4. Nel valutare la non manifesta infondatezza della questione  di
costituzionalita' sopra descritta va  premesso  che  il  Collegio  e'
perfettamente  consapevole  dell'orientamento  della   giurisprudenza
costituzionale e  sovrannazionale  relativo  ai  ristretti  spazi  di
sindacato in materia  elettorale,  materia  questa  connotata  da  un
elevato grado di discrezionalita' in capo al legislatore. Nei casi de
quibus, il controllo di costituzionalita' puo' interessare unicamente
il parametro  della  proporzionalita',  la  verifica  che  la  misura
predisposta dal legislatore sia idonea,  necessaria  e  proporzionata
«in senso stretto». 
    Da ultimo, tale orientamento e' stato richiamato dalla  Corte  di
Cassazione che, con l'ordinanza n. 157/20, ha affermato che «siffatto
scrutinio impone a questa Corte di verificare  che  il  bilanciamento
degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato
con modalita' tali da determinare il sacrificio o la compressione  di
uno di essi in misura  eccessiva  e  pertanto  incompatibile  con  il
dettato costituzionale.  Tale  giudizio  deve  svolgersi  "attraverso
ponderazioni relative alla proporzionalita' dei mezzi  prescelti  dal
legislatore nella sua insindacabile  discrezionalita'  rispetto  alle
esigenze  obiettive  da  soddisfare  o  alle  finalita'  che  intende
perseguire,  tenuto  conto  delle  circostanze  e  delle  limitazioni
concretamente sussistenti" (sentenza n. 1130 del 1988).  Il  test  di
proporzionalita' utilizzato da  questa  Corte  come  da  molte  delle
giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme  con  quello  di
ragionevolezza, ed essenziale  strumento  della  Corte  di  giustizia
dell'Unione europea per il controllo giurisdizionale di  legittimita'
degli atti dell'Unione e degli Stati membri, richiede di valutare  se
la norma oggetto di scrutinio,  con  la  misura  e  le  modalita'  di
applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al  conseguimento  di
obiettivi legittimamente  perseguiti,  in  quanto,  tra  piu'  misure
appropriate,  prescriva  quella  meno  restrittiva  dei   diritti   a
confronto  e  stabilisca  oneri  non   sproporzionati   rispetto   al
perseguimento di detti obiettivi» (sentenze 1/14, 35/17). 
    La Corte, pero', nelle materie connotate  da  un  alto  grado  di
discrezionalita'  ha  nel  tempo  predisposto  strumenti  idonei   al
corretto bilanciamento tra la propria funzione di Giudice delle leggi
e  il  monopolio  legislativo  del  Parlamento,  o  accompagnando  la
decisione  di  inammissibilita'  con  un  monito  al  legislatore   o
sospendendo in alcuni casi il giudizio rinviando a data fissa la  sua
prosecuzione in modo da dare il tempo al legislatore  di  intervenire
in modo organico per superare il contrasto della norma impugnata  con
la Costituzione (cfr. ordinanza n. 207/18, ordinanza n. 132/20 e,  da
ultimo, ordinanza n. 97/2021). 
    Il canone di proporzionalita',  come  appena  ricostruito,  trova
riscontro anche nella giurisprudenza della Corte europea dei  diritti
dell'uomo. Limitazioni al diritto di elettorato attivo e passivo sono
astrattamente possibili in presenza di tre condizioni (cfr. § 59;  62
sentenza Ekoglasnost c. Bulgaria, che in parte qua richiama  sentenza
Mathieu-Monin c. Belgio): 
      che le norme che le pongono perseguano scopi legittimi; 
      che  i  mezzi  utilizzati   non   si   rivelino   in   concreto
sproporzionati; 
      che le regole che li definiscono siano chiare e prevedibili. 
    Riassumendo, occorre una «prova di  resistenza»:  la  scelta  del
legislatore deve essere idonea, necessaria e proporzionata  in  senso
stretto. 
    Ora, ritiene il Collegio che le norme sopra richiamate sospettate
di incostituzionalita', non  prevedendo  alcuna  conseguenza  per  la
violazione del principio di  parita'  nelle  competizioni  elettorali
nell'ambito dei Comuni di popolazione  inferiore  a  5.000  abitanti,
diversamente da quanto previsto per i Comuni piu' grandi,  vadano  al
di la' di ogni possibile valutazione di proporzionalita' e, pertanto,
si pongono anzitutto in  contrasto  con  l'art.  51,  comma  1  e  2,
Costituzione. 
    Sulla non manifesta infondatezza 
    L'art. 51 Costituzione, la cui natura immediatamente precettiva e
non meramente programmatica e' ormai indubbia, impone alla Repubblica
- e non allo Stato, e non ad un  singolo  potere  dello  Stato  -  la
predisposizione di misure idonee a colmare  le  disuguaglianze  nella
partecipazione politica, partecipazione politica che si risolve nella
possibilita' di rendersi portavoce di  un  centro  di  interessi,  di
quello che una parte della giurisprudenza amministrativa ha  definito
un «patrimonio  umano,  culturale,  sociale,  di  sensibilita'  e  di
professionalita',  che  assume   una   articolata   e   diversificata
dimensione in  ragione  proprio  della  diversita'  del  genere»  nei
termini che si avra' modo di definire in seguito. 
    La questione della parita' di genere  rispetto  all'accesso  alle
cariche politiche ha generato un ampio e  vivace  dibattito  in  seno
all'Assemblea  Costituente.  E'  noto  che  furono  predisposte   due
versioni  della  disposizione  di  cui  all'art.  51,  entrambe   con
l'intento comune di riconoscere  una  piena  capacita'  giuridica  di
diritto pubblico alla donna. Le  conseguenze  del  riconoscimento  di
tale  diritto  che,   secondo   la   giurisprudenza   costituzionale,
rappresenta  «un  diritto  politico  fondamentale  con  i   caratteri
dell'inviolabilita' di  cui  all'art.  2  Costituzione»  (ex  multis,
sentenze n. 25 del 2008, n. 288 del 2007, n. 160 del 1997, n. 344 del
1993, n. 539 del 1990, n. 571 del 1989, n. 235 del  1988,  da  ultimo
richiamate nella sentenza n. 48 del 2021) si comprendono solo  se  lo
stesso si contestualizza nel periodo storico della sua  formulazione.
La visione della donna come strumento  di  protezione  dell'identita'
nazionale quale moglie e madre cedette il passo alla rimozione  degli
ostacoli che impedivano (e impediscono) l'accesso a tutti gli  ambiti
della vita pubblica del Paese a condizioni di parita' con gli uomini. 
    Nell'ambito degli  interventi  di  promozione  della  parita'  di
genere occorre segnalare il decreto legislativo 11  aprile  2006,  n.
198 (Codice delle pari opportunita'). Ratio della novella,  ai  sensi
dell'art. 1 del codice, e' quella di  predisporre  «misure  volte  ad
eliminare ogni  distinzione,  esclusione  o  limitazione  basata  sul
sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di  compromettere  o
di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti
umani e delle liberta' fondamentali  in  campo  politico,  economico,
sociale, culturale e  civile  o  in  ogni  altro  campo».  Dopo  aver
definito la nozione di  discriminazione  diretta.  ovvero  indiretta,
all'art. 25, il Codice  si  occupa  -  tra  le  altre  cose  -  degli
interventi promozionali  finalizzati  a  contrastarle.  Fulcro  della
disciplina  in  commento  e'  rappresentato  infatti  dall'art.   42,
rubricato «adozione e finalita' delle azioni positive». Tali sono  le
azioni  predisposte  per  rimuovere  gli  ostacoli   che   di   fatto
impediscono la realizzazione di pari opportunita', nell'ambito  della
competenza statale. Vale la pena richiamare l'elenco contenuto  nella
disposizione perche' ritenuto da questo Collegio dirimente  nel  caso
di specie. 
    Le «azioni positive», vale a dire quelle misure che, ai sensi del
comma 1 dell'art. 42 del Codice, devono rimuovere gli ostacoli che di
fatto impediscono la realizzazione di pari opportunita' in  un'ottica
di uguaglianza sostanziale hanno, in particolare, lo scopo di: 
      a)  eliminare  le  disparita'  nella  formazione  scolastica  e
professionale,  nell'accesso  al  lavoro,   nella   progressione   di
carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilita'; 
      b) favorire  la  diversificazione  delle  scelte  professionali
delle donne in particolare  attraverso  l'orientamento  scolastico  e
professionale e gli strumenti della formazione; 
      c) favorire l'accesso al  lavoro  autonomo  e  alla  formazione
imprenditoriale e la qualificazione professionale  delle  lavoratrici
autonome e delle imprenditrici; 
      d) superare  condizioni,  organizzazione  e  distribuzione  del
lavoro che provocano  effetti  diversi,  a  seconda  del  sesso,  nei
confronti  dei   dipendenti   con   pregiudizio   nella   formazione,
nell'avanzamento professionale e di carriera ovvero  nel  trattamento
economico e retributivo; 
      e) promuovere l'inserimento delle donne  nelle  attivita',  nei
settori  professionali  e   nei   livelli   nei   quali   esse   sono
sottorappresentate e  in  particolare  nei  settori  tecnologicamente
avanzati ed ai livelli di responsabilita'; 
      f) favorire, anche  mediante  una  diversa  organizzazione  del
lavoro, delle condizioni e del  tempo  di  lavoro,  l'equilibrio  tra
responsabilita' familiari e professionali e una migliore ripartizione
di tali responsabilita' tra i due sessi. 
    Accanto al Codice  per  le  pari  opportunita',  nella  specifica
materia elettorale, il  legislatore  ha  inciso  trasversalmente  sui
sistemi  elettorali  presenti   nei   diversi   livelli   (nazionale,
regionale, locale e al Parlamento europeo). Tali interventi, tra  cui
figura anche quello ad opera della legge n. 215/12,  sono  stati  ben
rassegnati nello «Studio sulla parita' di genere Camera dei  Deputati
dei 5/3/2021»: tra queste figurano, oltre la  legge  n.  215/2012  la
legge n. 56/2014 per le elezioni - di secondo grado  -  dei  consigli
metropolitani e provinciali; la legge 20/2016  per  le  elezioni  dei
consigli  regionali;  la  legge  n.  165/2017  per  le  elezioni  del
Parlamento; la legge 65 del 2014 per la  rappresentanza  italiana  in
seno  al  Parlamento  europeo.   Misure   promozionali   delle   pari
opportunita'  sono  state   introdotte   anche   nei   piu'   recenti
provvedimenti riguardanti la disciplina dei partiti politici. 
    Tali interventi del legislatore sono improntati sul sistema delle
«quote». La Corte  Costituzionale,  dopo  aver  negato  in  un  primo
momento, la legittimita' delle quote (sentenza n. 422/1995) e cio' in
considerazione del fatto  che  il  principio  di  parita'  di  genere
avrebbe dovuto richiedere interventi di  natura  promozionale  e  non
coercitiva, ha progressivamente maturato un atteggiamento di apertura
e di favor nei confronti delle stesse, riconoscendone  la  natura  di
azioni positive per il riequilibrio necessario a garantire parita' di
genere (Corte Costituzionale 49/2003 e 4/2010). 
    Nel riconoscere  all'elettorato  passivo  la  natura  di  diritto
politico fondamentale garantito dall'art.  51  Costituzione  ad  ogni
cittadino, con i caratteri proprio dell'inviolabilita' ex art. 2,  la
Corte Costituzionale con la sentenza n. 14 gennaio  2010,  n.  4,  ha
sottolineato come  il  legislatore  costituzionale,  con  la  riforma
dell'art.  51  Costituzione,  abbia   «preso   atto   della   storica
sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta
a preclusioni formali incidenti sui requisiti di eleggibilita', ma  a
fattori culturali, economici e sociali»  e  abbia  «indicato  la  via
delle misure specifiche volte a dare effettivita' ad un principio  di
eguaglianza astrattamente sancito, ma  non  compiutamente  realizzato
nella prassi politica ed elettorale». 
    Afferma ancora la Corte che «i mezzi per attuare  questo  disegno
di  realizzazione  della  parita'  effettiva  tra  donne   e   uomini
nell'accesso alle cariche elettive possono essere di  diverso  tipo»,
con il solo limite di mantenere inalterati i diritti fondamentali  di
elettorato attivo e passivo e che il  meccanismo  introdotto  sia  di
tipo promozionale e non costrittivo, nello spirito delle disposizioni
costituzionali in materia di parita' di genere.» 
    La disamina della legislazione in materia di parita' di genere in
ambito elettorale e  le  implicazioni  giurisprudenziali  conseguenti
fanno emergere un'attenzione sempre  piu'  crescente  al  tema  della
parita' di genere, sia da parte del  legislatore  che  da  parte  del
giudice. La positivizzazione di questo  interesse  costituzionalmente
protetto dall'art.  51  coinvolge  indistintamente  tutti  i  livelli
(nazionale, locale e sovrannazionale) con  strumenti  differenti,  ma
comunque  efficaci.  La  sola  eccezione  allo  sforzo  di  garantire
l'effettivita'  della  parita'  e'   rappresentata   dalle   elezioni
comunali in cui persiste una differenziazione su  base  numerica:  la
tutela della parita' di genere  «cede»  in  contesti  aggregativi  di
modeste  dimensioni,  nonostante  questi  rappresentino  dei   centri
propulsivi di assoluta importanza nella vita del Paese. 
    La mancanza di ragionevolezza e la gravita' delle conseguenze  di
questa previsione normativa che lascia  senza  tutela  le  operazioni
elettorali dei piccoli Comuni  puo',  infatti,  essere  ancor  meglio
compresa valutando il tessuto demografico del  nostro  Paese.  Su  un
totale di 7904 Comuni italiani (dati  Istat  al  20  febbraio  2021),
circa 5.500 (secondo il rapporto ANCI «Atlante  dei  piccoli  comuni»
del 5 luglio 2019) sono formati da meno di 5.000 abitanti.  Piu'  dei
due terzi dei Comuni. La somma della popolazione residente in  questi
piccoli comuni e' considerevole, essendo pari a quasi 10  milioni  di
abitanti. 
    Questo Giudice dubita della Costituzionalita' delle  disposizioni
censurate anche  e  soprattutto  in  considerazione  di  questo  dato
empirico.  Se  la  ratio  della  novella  legislativa  e'  quella  di
garantire  la   parita'   di   genere   promuovendo   interventi   di
riequilibrio, nessuna effettivita' puo'  dirsi  realizzata  se  nella
maggior parte  (per  non  dire  nella  quasi  totalita')  dei  Comuni
italiani  gli  interventi  sono  neutralizzati  dall'assenza  di   un
meccanismo sanzionatorio. 
    La  diversita'  di  trattamento  non  puo'  trovare  la   propria
giustificazione   nella   presunta   difficolta'    di    individuare
materialmente  donne  candidate  in  contesti  abitativi  di  piccole
dimensioni. E cio' almeno per due ordini di ragione: 
      a) Non  c'e'  l'obbligo  di  candidare  persone  residenti  nel
Comune.  Tale  conclusione  emerge  in  maniera  inequivocabile   dal
combinato disposto degli articoli 55, 56 e 57, decreto legislativo n.
267/2000, per  cui  «Sono  eleggibili  a  sindaco,  presidente  della
provincia, consigliere comunale, provinciale e  circoscrizionale  gli
elettori di un qualsiasi Comune della Repubblica che abbiano compiuto
il diciottesimo anno  di  eta',  nel  primo  giorno  fissato  per  la
votazione  (...);  «Nessuno  puo'  presentarsi   come   candidato   a
consigliere in piu' di due province o in piu' di due comuni o in piu'
di due circoscrizioni, quando le elezioni si  svolgano  nella  stessa
data. I consiglieri provinciali,  comunali  o  di  circoscrizione  in
carica non possono candidarsi, rispettivamente, alla medesima  carica
in altro consiglio provinciale, comunale  o  circoscrizionale  (...);
«Il candidato che sia eletto contemporaneamente  consigliere  in  due
province, in due comuni, in due circoscrizioni, deve optare  per  una
delle  cariche  entro  cinque  giorni  dall'ultima  deliberazione  di
convalida. Nel caso di mancata opzione rimane  eletto  nel  consiglio
della  provincia,  del  comune  o  della  circoscrizione  in  cui  ha
riportato il maggior numero di voti in percentuale rispetto al numero
dei votanti ed e' surrogato nell'altro consiglio». 
      b) la carenza demografica come giustificazione alla  diversita'
di trattamento  e'  inconferente.  La  carenza  demografica  potrebbe
eventualmente determinare difficolta' nel predisporre delle liste  in
se', cioe' nella difficolta' di individuare candidati  a  prescindere
dal genere. Delle due l'una: o c'e' difficolta' a reperire  candidati
(uomini o donne che siano) o non c'e'. Se non si predispongono misure
di tutela  (sub  specie  di  promozione  della  partecipazione  e  di
connessa  sanzione  in  caso  di  violazione  come  quello   previsto
dall'art. 30, lett d) bis e lett e),  decreto  del  Presidente  della
Repubblica  n.  570/60)  proprio   nelle   realta'   demograficamente
svantaggiate in cui e' oggettivamente piu' difficile  valorizzare  il
patrimonio umano e  professionale  delle  donne  (statisticamente  il
genere femminile e' stato quello meno rappresentato nell'ambito della
partecipazione alla vita politica)  nonche'  disancorare  il  diritto
all'elettorato passivo da retaggi culturali che  l'hanno  vista  come
grande assente nel panorama politico nazionale  e  locale,  la  ratio
legis  alla  base  della  legge  n.  215/12  -  che  si  pone   quale
fondamentale  strumento  di  rimozione  degli  ostacoli   di   ordine
economico   e   sociale    che    impediscono    la    partecipazione
all'organizzazione  politica  -  e'  privata  radicalmente  di   ogni
pienezza e di ogni effettivita'. 
    Inoltre, la mancata prescrizione di liste miste anche nei  Comuni
con meno di 5.000 abitanti rende di  fatto  inapplicabile  l'art.  6,
decreto legislativo n. 267/2000,  che  prescrive  che:  «Gli  statuti
comunali e provinciali stabiliscono norme per  assicurare  condizioni
di pari opportunita' tra uomo e donna ai sensi della legge 10  aprile
1991, n. 125, e per garantire (1) la presenza  di  entrambi  i  sessi
nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della  provincia,
nonche' degli enti,  aziende  ed  istituzioni  da  essi  dipendenti»,
operazione questa impossibile se a monte non c'e' la  garanzia  della
necessaria presenza di entrambi i generi. 
    5.  Va  adesso  indagata  la   compatibilita'   della   normativa
denunciata di incostituzionalita' e sopra specificata  con  l'art.  3
Costituzione che  costituisce  prius  logico-giuridico  dell'art.  51
Costituzione di cui si e' finora discusso. 
    Ed e' proprio in merito all'art.  3  Costituzione  che  viene  in
rilievo  la  premessa  sul  sindacato  della  Corte   nella   materia
elettorale. Il giudizio, secondo quanto gia' detto,  «deve  svolgersi
attraverso ponderazioni  relative  alla  proporzionalita'  dei  mezzi
prescelti dal legislatore nella  sua  insindacabile  discrezionalita'
rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle  finalita'  che
intende  perseguire,  tenuto  conto   delle   circostanze   e   delle
limitazioni concretamente sussistenti». E ancora, secondo la costante
giurisprudenza della Corte Costituzionale il trattamento si configura
come «discriminatorio» quando la differenziazione di  disciplina  sia
«ingiustificata», «formalmente contraddittoria» ovvero  «irrazionale,
secondo le regole del discorso pratico» (Sentenze n. 155 del 2014; n.
108 del 2006; n. 340 e n. 136 del 2004). 
    Se  e'  vero  -  come  e'  -  che  ogni  discriminazione  e'  una
differenza, non e' vero il contrario.  Solo  alcune  differenze  sono
qualificabili come discriminazione e cio' in presenza di  determinati
presupposti. 
    Nel caso di specie appare irragionevole non gia' l'avere previsto
da parte  del  legislatore  differenti  modalita'  di  partecipazione
minima dei candidati di sesso differente in relazione alle dimensioni
del Comune, ma il non avere indicato alcun vincolo  nella  formazione
delle liste elettorali nei Comuni fino a  5.000  abitanti  e  l'avere
privato gli aspiranti candidati agli organi elettivi di  tali  Comuni
di ogni forma di  tutela  avverso  le  violazioni  del  principio  di
parita' di genere nelle competizioni elettorali, principio che  -  si
e' detto - e' stato per essi  espressamente  affermato  dallo  stesso
legislatore. 
    La questione di cui si discute,  quindi,  non  e'  la  scelta  di
articolare discipline diverse che tengono conto delle dimensioni  dei
Comuni, ma non avere dato concretezza  al  principio  di  parita'  di
genere, pur espressamente sancito dalla  legge,  nei  Comuni  fino  a
5.000 abitanti  e  avere  cosi'  garantito  impunita'  a  chi,  nelle
competizioni  elettorali  che  si  svolgono  in  tali  enti,  intende
violarlo. Secondo costante giurisprudenza della Corte Costituzionale,
invero, il trattamento si configura come «discriminatorio» quando  la
differenziazione di  disciplina  sia  «ingiustificata»,  «formalmente
contraddittoria» ovvero «irrazionale, secondo le regole del  discorso
pratico» (Sentenze n. 155 del 2014; n. 108 del 2006; n. 340 e n.  136
del  2004).  In  tal  modo  appare  al  Collegio  violato  l'art.  3,
Costituzionale con riferimento  alla  predisposizione  di  regimi  di
tutela  differenziati  con  riferimento   al   diritto   fondamentale
all'elettorato passivo inteso, come gia'  piu'  volte  ribadito,  nei
termini di «diritto politico fondamentale che l'art. 51  Costituzione
garantisce   ad   ogni   cittadino    con    i    caratteri    propri
dell'inviolabilita' ex art. 2, Costituzione». 
    In tema di parita'  di  genere,  non  puo'  dirsi  supportata  da
razionalita' la misura che esclude dall'ambito della sua applicazione
milioni di cittadini - e specialmente di  cittadine  -  per  il  solo
fatto di vivere in aree urbane a bassa densita' demografica.  Nessuna
evidenza statistica, sociologica o scientifica esclude che in  questi
Comuni sia superfluo  un  intervento  promozionale  del  legislatore.
Intervento che, anzi, puo' risultare  talora  indispensabile  per  le
minori  opportunita'  che  alcuni  piccoli  o  piccolissimi   offrono
rispetto alle grandi aree urbane. 
    6. Analoghe riflessioni merita  la  censura  avente  per  oggetto
l'art. 117, comma primo comma in riferimento all'art. 14 della  CEDU,
art. 1 Protocollo addizionale n. 12. 
    L'art. 14 della CEDU dispone che: «Il  godimento  dei  diritti  e
delle liberta' riconosciuti nella presente  Convenzione  deve  essere
assicurato  senza  nessuna  discriminazione,  in  particolare  quelle
fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la  religione,  le
opinioni politiche o quelle di altro genere,  l'origine  nazionale  o
sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la  ricchezza,  la
nascita od ogni altra condizione.» 
    L'art. 1 Prot. Add. n. 12 CEDU relativo al  divieto  generale  di
discriminazione prevede che «Il godimento di  ogni  diritto  previsto
dalla legge deve essere assicurato senza nessuna discriminazione,  in
particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua,
la religione, le opinioni politiche  o  di  altro  genere,  l'origine
nazionale o sociale, l'appartenenza a  una  minoranza  nazionale,  la
ricchezza, la nascita o ogni altra condizione. 
    2. Nessuno potra' essere oggetto di discriminazione da  parte  di
una qualsivoglia  autorita'  pubblica  per  i  motivi  menzionati  al
paragrafo 1». 
    La giurisprudenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo  ha
costantemente sostenuto che per discriminazione si intende  il  fatto
di trattare in maniera diversa,  senza  giustificazione  oggettiva  e
ragionevole,  persone  che  si  trovano  in  situazioni  comparabili.
Tuttavia, una disparita' di trattamento non comporta  automaticamente
una violazione di tale articolo: una distinzione  e'  discriminatoria
quando «manchi  di  una  giustificazione  oggettiva  e  ragionevole»,
«quando non persegua un fine legittimo» ovvero qualora, comunque, non
sussista «un rapporto di ragionevole  proporzionalita'  tra  i  mezzi
impiegati ed il fine perseguito» (ex multis, sentenza Cusan  e  Fazzo
c. Italia, § 58; sentenza Willis c. Regno Unito, § 48) 
    Sostiene ancora la Corte EDU che «(...) soltanto  «considerazioni
fortissime» possono indurre a ritenere compatibile con la Convenzione
una disparita' di trattamento basata esclusivamente sul sesso  (...).
Il trattamento diviene dunque discriminatorio - ha  puntualizzato  la
giurisprudenza della Corte - ove esso non trovi  una  giustificazione
oggettiva  e  ragionevole;  non  realizzi,  cioe',  un  rapporto   di
proporzionalita' tra i  mezzi  impiegati  e  l'obiettivo  perseguito»
(Sentenza Si Amer c. Francia). 
    Il  Collegio  non  ravvisa  la  presenza  di  elementi  idonei  a
giustificare una disparita' di trattamento tra i Comuni  con  piu'  o
meno di 5.000 abitanti. La discriminazione che  viene  a  realizzarsi
impatta su due piani. Tra generi,  quello  maschile  (statisticamente
piu' rappresentato) e quello femminile da  un  lato  e  nello  stesso
genere femminile tra i Comuni con piu' di 5.000 abitanti  in  cui  e'
comunque assicurata la presenza e quelli con meno di 5.000 abitanti -
che, occorre ribadirlo ancora una volta, sono la quasi totalita' - in
cui il genere femminile rischia  di  rimanere  completamente  escluso
dalla vita politica con un vulnus che coinvolge,  in  un  certo  qual
modo,  anche  il  principio  del  buon   andamento   della   pubblica
amministrazione. La giurisprudenza amministrativa ha  avuto  modo  di
precisare che: «L'equilibrata rappresentanza di entrambi i  sessi  in
seno agli organi amministrativi elettivi garantisce l'acquisizione al
modus  operandi  dell'ente,  e  quindi  alla  sua   concreta   azione
amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale,  sociale,
di sensibilita' e di professionalita', che assume  una  articolata  e
diversificata dimensione in  ragione  proprio  della  diversita'  del
genere. Organi squilibrati nella rappresentanza di genere,  in  altre
parole, oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica
dell'articolata  composizione  del  tessuto  sociale  e   del   corpo
elettorale risultano anche potenzialmente  carenti  sul  piano  della
funzionalita',  perche'  sprovvisti  dell'apporto  collaborativo  del
genere non adeguatamente  rappresentato»  (TAR  Lazio,  Sez.  Il,  25
luglio 2011, n. 6673, richiamata nella sentenza TAR Lazio 4706/21). 
    Tutti  gli  argomenti  sin  qui  richiamati  valgono  in  maniera
speculare per l'art.  30,  lett  d)  bis  e  lett.  e),  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 570/60. 
    Alla  stregua  delle  precedenti  considerazioni  e  poiche'   la
presente controversia  non  puo'  essere  definita  indipendentemente
dalla  risoluzione  delle   delineate   questioni   di   legittimita'
costituzionale, il giudizio va sospeso e  vanno  rimesse  alla  Corte
costituzionale, ai sensi dell'art. 1  della  legge  costituzionale  9
febbraio 1948, n. 1 e dell'art. 23, legge 11 marzo 1953,  n.  87,  le
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 71,  comma  3-bis,
decreto legislativo n. 267/2000 nella parte in  cui  non  prevede  la
necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali
nei comuni con  popolazione  inferiore  ai  5.000  abitanti,  nonche'
dell'art. 30, lett. d) bis e lett. e), decreto del  Presidente  della
Repubblica  n.  570/60  nella  parte  in  cui  esclude   dal   regime
sanzionatorio  sub  specie  «esclusione  della   lista»,   le   liste
elettorali    presentate    in    violazione     della     necessaria
rappresentativita' di entrambi i sessi in riferimento ai  comuni  con
meno di 5.000 abitanti per contrasto  con  agli  articoli  51,  primo
comma, 3, secondo comma, 117, primo comma Costituzione in riferimento
all'art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo addizionale n. 12. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione terza), 
    Visti  gli  articoli  134  della  Costituzione,  1  della   legge
costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953,
n.  87,  dichiara  rilevante  e  non  manifestamente  infondata,   in
relazione agli articoli 51, primo comma, 3, secondo comma, 117, primo
comma Costituzione in riferimento all'art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo
addizionale n.  12,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale,
dell'art. 71, comma 3-bis,  decreto  legislativo  n.  267/2000  nella
parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di  entrambi  i
generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai
5.000 abitanti, nonche' dell'art.  30,  lett.  d)  bis  e  lett.  e),
decreto del Presidente della Repubblica n. 570/60 nella parte in  cui
esclude dal regime sanzionatorio sub specie «esclusione della lista»,
le  liste  elettorali  presentate  in  violazione  della   necessaria
rappresentativita' di entrambi i sessi in riferimento ai  comuni  con
meno di 5.000 abitanti per contrasto  con  agli  articoli  51,  primo
comma, 3, secondo comma, 117, primo comma Costituzione in riferimento
all'art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo addizionale n. 12. 
    Sospende il giudizio in corso e ordina  l'immediata  trasmissione
degli atti  alla  Corte  costituzionale.  Ordina  che  a  cura  della
Segreteria la presente ordinanza  sia  notificata  alle  parti  e  al
Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti  del
Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. 
    Cosi' deciso in Roma nella camera  di  consiglio  del  giorno  15
aprile 2021 con l'intervento dei magistrati: 
      Michele Corradino, presidente; 
      Paola Alba Aurora Puliatti, consigliere; 
      Stefania Santoleri, consigliere, estensore; 
      Raffaello Sestini, consigliere; 
      Ezio Fedullo, consigliere. 
 
                      Il Presidente: Corradino 
 
                                               L'estensore: Santoleri