N. 27 SENTENZA 1 dicembre 2021- 28 gennaio 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Impiego pubblico - Trattamento economico - Fissazione  di  un  limite
  massimo annuo omnicomprensivo (c.d. tetto retributivo),  pari  alla
  retribuzione lorda del primo presidente della Corte di cassazione -
  Inclusione, in tale limite, delle somme comunque erogate, anche nel
  caso di piu' incarichi (nel caso di specie: giudice  tributario)  -
  Denunciata violazione dei principi lavorista, di uguaglianza  e  di
  ragionevolezza, di capacita' contributiva e di buon andamento della
  pubblica amministrazione, e di  quello,  anche  sovranazionale,  di
  proporzionalita'   della   retribuzione,   nonche'    dei    doveri
  inderogabili di solidarieta' economica e sociale e della riserva di
  legge  in  materia  di  prestazioni  patrimoniali  imposte  -   Non
  fondatezza delle questioni. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214,  art.  23-ter,
  comma 1; legge 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, commi 471,  473  e
  474;  decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, art. 13. 
- Costituzione, artt. 1, 2, 3, 10, 23, 36,  53  e  97;  Dichiarazione
  universale dei diritti dell'uomo, art. 23, secondo comma. 
(GU n.5 del 2-2-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela  NAVARRETTA,  Maria  Rosaria  SAN
  GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  23-ter,
comma 1, del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  nella  legge  22  dicembre
2011, n. 214, dell'art. 1, commi 471,  473  e  474,  della  legge  27
dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e  pluriennale  dello  Stato  (Legge  di  stabilita'
2014)», e dell'art. 13  del  decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66
(Misure urgenti  per  la  competitivita'  e  la  giustizia  sociale),
convertito, con modificazioni, nella legge 23  giugno  2014,  n.  89,
promosso dal Consiglio di Stato,  sezione  quinta,  nel  procedimento
d'appello vertente tra S.  S.  e  la  Presidenza  del  Consiglio  dei
ministri, il Ministero dell'economia e delle finanze, il Consiglio di
Stato   nonche'   il   Segretariato    generale    della    giustizia
amministrativa, con ordinanza del 5 maggio 2021, iscritta al  n.  119
del registro ordinanze 2021 e  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  S.  S.  nonche'  l'atto   di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica  del  1°  dicembre  2021  il  Giudice
relatore Maria Rosaria San Giorgio; 
    uditi gli avvocati Daniele Granara e Federico Tedeschini  per  S.
S. e l'avvocato dello Stato Gianni De Bellis per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 1° dicembre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 5 maggio  2021,  iscritta  al  n.  119  del
registro ordinanze 2021, il Consiglio di Stato,  sezione  quinta,  ha
sollevato, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 10, 23,  36,  53  e  97
della Costituzione, in relazione -  per  l'art.  10  -  all'art.  23,
secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti  dell'uomo,
adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il  10  dicembre
1948, questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  23-ter,
comma 1, del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  nella  legge  22  dicembre
2011, n. 214, dell'art. 1, commi 471,  473  e  474,  della  legge  27
dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e  pluriennale  dello  Stato  (Legge  di  stabilita'
2014)», e dell'art. 13  del  decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66
(Misure urgenti  per  la  competitivita'  e  la  giustizia  sociale),
convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89. 
    1.1.- Il giudice rimettente  espone  che,  con  ricorso  proposto
davanti al Tribunale amministrativo regionale per il  Lazio,  S.  S.,
magistrato  amministrativo,  ha  impugnato   il   provvedimento   del
Segretariato generale della Giustizia amministrativa,  con  il  quale
veniva disposto - a decorrere dalla mensilita' di gennaio 2020 e sino
a quella di dicembre del medesimo anno - il  recupero,  nel  rispetto
del  limite  massimo  retributivo  vigente,  dei  maggiori   compensi
percepiti, pari ad euro 31.481,26, per le funzioni  esercitate  quale
giudice tributario nel triennio 2015-2018. 
    Il ricorrente ha, pertanto, richiesto l'accertamento del  diritto
a percepire il trattamento economico spettante, senza le decurtazioni
previste, e il conseguente annullamento - per violazione di legge  ed
eccesso di potere e, in subordine, per  la  paventata  illegittimita'
costituzionale  delle   sottese   disposizioni   di   legge   -   del
provvedimento impugnato, con la  condanna  dell'amministrazione  alla
restituzione delle somme  a  suo  dire  illegittimamente  trattenute,
oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. 
    Con sentenza 18 giugno 2020, n.  6668,  il  TAR  ha  respinto  il
ricorso e,  avverso  tale  decisione,  il  ricorrente  ha  interposto
appello davanti all'odierno rimettente. 
    1.2.- Il giudice a quo investito del gravame muove dalla premessa
che - a prescindere dalle diverse letture dell'inciso «nell'ambito di
rapporti di lavoro dipendente o autonomo» di cui all'art. 23-ter  del
d.l. n. 201 del 2011, al fine di individuare, in termini  soggettivi,
coloro cui si applica il "tetto retributivo" o piuttosto, in  termini
oggettivi, quali tra  gli  emolumenti  corrisposti  da  una  pubblica
amministrazione concorrano a formare il "tetto"  -  «la  formulazione
onnicomprensiva della norma  non  consenta,  almeno  ictu  oculi,  di
escludere dal relativo computo i compensi corrisposti ai membri delle
Commissioni tributarie», pur non apparendo gli  stessi  qualificabili
alla  stregua  di  emolumenti  derivanti  da  «rapporti   di   lavoro
subordinato  o  autonomo»,  perche'  afferenti  a  funzioni  la   cui
investitura e' a titolo onorario. 
    1.3.- In punto di rilevanza, il Consiglio di Stato osserva che la
preclusa  corresponsione  degli  emolumenti  superiori   al   "tetto"
discende, in  modo  pressoche'  automatico,  dall'applicazione  delle
censurate disposizioni di legge. 
    1.4.- Sul piano sistematico il Consiglio di Stato deduce  che  la
disciplina del limite massimo alle retribuzioni pubbliche si  iscrive
in un contesto generale di risorse  finanziarie  pubbliche  limitate,
messo in relazione all'obiettivo politico-economico del  contenimento
della spesa pubblica. 
    Queste andrebbero ripartite in modo congruo,  il  che  avverrebbe
sganciandole del tutto, raggiunto un certo livello, dall'effettivita'
del sinallagma contrattuale  lavorativo  del  pubblico  (ma  non  del
privato) dipendente: dunque, gravando ex lege di gratuita', e  al  di
fuori di quanto responsabilmente accettato e previsto dal  lavoratore
all'atto di costituzione del rapporto lavorativo, le prestazioni  del
lavoratore pubblico che abbia, nell'ambito dell'attivita'  lavorativa
pubblica -  qualunque  sia  la  quantita'  o  qualita'  -,  raggiunto
complessivamente l'imprevisto "tetto" lordo, e sempre che non rientri
tra le poche eccezioni nominatamente stabilite dalla legge. 
    Richiamando la sentenza di questa  Corte  n.  124  del  2017,  il
giudice rimettente specifica che si ricade in un  regime  restrittivo
particolare, che concerne i soli lavoratori pubblici  e  che,  pur  a
parita' di condizioni, li  distingue  economicamente  dai  lavoratori
privati:  per  i  quali  non   si   impone   altrettanto   sacrificio
remunerativo da "taglio lineare", per il fatto soggettivo che i  loro
rapporti di lavoro principali sono estranei alla  spesa  pubblica;  e
dunque evidenzia la difficile sostenibilita', a lungo termine, di  un
siffatto,   comunque   oggettivamente   discriminatorio   tra    pari
lavoratori, "taglio lineare". 
    1.5.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni,  il
giudice rimettente rileva che la riferita disparita'  di  trattamento
assumerebbe,  nella  specie,  tratti  nuovi  e  affatto   particolari
rispetto a quanto vagliato in passato, non dovendosi  solo  comparare
genericamente diverse  o  simili  prestazioni  lavorative,  e  dunque
svolgere una  comparazione  per  categorie  soggettive  generali,  ma
dovendosi,  invece,  comparare  specificamente,   in   concreto,   la
medesima, oggettiva, prestazione lavorativa, ossia quella di  giudice
tributario: la quale, malgrado  siffatta  identita'  oggettiva  della
prestazione,  e'  diversamente  remunerata  dallo  Stato  secondo  un
criterio  discretivo  meramente  soggettivo;  cioe'  in   base   alla
circostanza che sia prestata da un lavoratore privato  ovvero  da  un
lavoratore pubblico, che abbia una  retribuzione  principale  pari  o
prossima  al  "tetto"  indicato,  il  quale  percio',  a   differenza
dell'altro, che pur svolge la  medesima  prestazione,  di  nulla,  in
pratica, verrebbe ad essere retribuito per quanto supera il "tetto". 
    Si tratterebbe, conseguentemente, di  un'evidente  disparita'  di
trattamento non di situazioni simili, ma della medesima situazione; e
questo varrebbe per tutti i  giudici  tributari  che  siano  pubblici
dipendenti, purche' toccati dal "tetto", rispetto a tutti  i  giudici
tributari che non siano  pubblici  dipendenti,  anche  se  altrimenti
sarebbero stati toccati dal "tetto" medesimo. 
    Questa conclusione non sarebbe "giustificata" da altro se non che
il rapporto di lavoro "principale" e', da un lato, di lavoro privato,
dall'altro, di lavoro pubblico. 
    Ma  nulla  muterebbe  con  riferimento  alle  energie  e  risorse
personali e ai tempi messi  a  disposizione  ed  utilizzati  dai  due
lavoratori nello svolgere quel pur medesimo lavoro. 
    1.5.1.- Inoltre, ad avviso del giudice rimettente, ancor meno una
tale  discriminazione  troverebbe  giustificazione  con  riguardo  ai
doveri inderogabili  di  solidarieta'  economica  e  sociale  di  cui
all'art. 2 Cost., posti a carico di  tutti  in  relazione  alle  loro
capacita' - anche economiche ai sensi dell'art. 53 Cost. -, ma di cui
nella fattispecie evidentemente si farebbe carico il solo  dipendente
pubblico, mentre  il  lavoratore  privato  ne  sarebbe  espressamente
affrancato, anche se, quale cittadino, alla fine ne beneficia,  quale
che sia il suo livello di reddito. 
    La discriminazione e la disparita' si  aggraverebbero  alla  luce
del fatto che nessun riguardo le norme sospettate  di  illegittimita'
costituzionale porrebbero alla complessiva  capacita'  reddituale  da
lavoro dei soggetti cosi' diversamente trattati. 
    1.5.2.-  Il   Consiglio   di   Stato   ritiene,   altresi',   che
l'applicazione delle norme  denunciate  interferirebbe  non  con  una
prestazione lavorativa secondaria a remunerazione "fissa", ma con una
prestazione  la  cui  remunerazione  e'  dalla  legge  prevista  come
variabile, in relazione  alla  quantita'  e  al  livello  del  lavoro
effettuato, ai sensi dell'art. 13 del decreto legislativo 31 dicembre
1992, n. 545 (Ordinamento  degli  organi  speciali  di  giurisdizione
tributaria  ed  organizzazione  degli  uffici  di  collaborazione  in
attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge
30 dicembre 1991, n. 413). 
    L'incidenza del quadro normativo  denunciato  sul  riconoscimento
degli emolumenti per  l'attivita'  espletata  di  giudice  tributario
determinerebbe in se' una tendenziale, progressiva imposizione  della
gratuita' della prestazione lavorativa effettuata in capo  a  chi  e'
prossimo, o addirittura ha gia'  raggiunto,  il  "tetto"  retributivo
suddetto. 
    Questa  situazione   genererebbe   un'ulteriore   disparita'   di
trattamento, interna  alla  categoria  dei  dipendenti  pubblici  che
svolgono un siffatto servizio ulteriore: a seconda che  siano  o  non
siano prossimi al (o abbiano raggiunto il) "tetto". 
    Dalle indicate comparazioni risulterebbe, pertanto, una gratuita'
tendenziale,  paradossalmente  tanto  maggiore  quanto  maggiore  sia
l'impegno lavorativo, complessivo e settoriale,  realmente  esplicato
dal lavoratore a beneficio dell'amministrazione pubblica. 
    1.5.3.- In base a queste premesse, le norme  censurate  sarebbero
lesive sia del principio di  ragionevolezza,  sia  del  principio  di
eguaglianza. Il rimettente  lamenta  anche  il  vulnus  al  principio
generale della giusta e - a parita' di condizioni - pari retribuzione
del lavoro di cui all'art. 36 Cost. 
    Argomenta, sul punto, il Consiglio di Stato che si tratterebbe di
principi  oggi  immanenti  a  ogni  ordinamento  civile,   tanto   da
concretizzare - gia'  sul  piano  internazionale  -  un  riconosciuto
diritto fondamentale dell'uomo. 
    Infatti, il «diritto ad eguale retribuzione  per  eguale  lavoro»
sarebbe espressamente considerato un diritto dell'uomo dall'art.  23,
secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. 
    Si ricadrebbe percio' nella  violazione  non  solo  dell'art.  36
Cost., ma anche - e prima - del diritto dell'uomo a tale  parita'  di
retribuzione, riconosciuto al massimo livello internazionale: del che
occorrerebbe tener conto alla luce dell'art. 10, primo comma,  Cost.,
anche in combinato disposto con l'art. 2 Cost. 
    1.5.4.-  Inoltre,  una  tale  discriminatoria  privazione   della
proporzionata retribuzione del lavoro andrebbe  ponderata  anche  nel
tempo, essendo ormai passati cinque anni dall'avvio del "taglio". 
    Secondo il giudice a quo, la distinzione, specie  se  considerata
in un cosi' lungo lasso temporale, parrebbe superare il parametro  di
sostenibilita' dell'eccezione e appalesarsi per quello che e',  ossia
un'effettiva discriminazione:  il  che  sembrerebbe  oltrepassare  la
soglia stabilita dalla sentenza n. 124 del 2017,  che  -  riferendosi
alla congiuntura economica - ha richiamato una «tutela sistemica, non
frazionata, dei valori costituzionali», tale per cui «[i]l  principio
di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e alla qualita'
del  lavoro  svolto  deve  essere  valutato  [...]  in  un   contesto
peculiare». 
    Il riferimento al «contesto particolare» indurrebbe a prospettare
che il lungo tempo ormai trascorso sarebbe un indice del  superamento
di un tale limite. 
    In  forza  di  queste   considerazioni,   le   norme   denunciate
violerebbero anche l'art.  36,  primo  comma,  Cost.,  parametro  che
applica al lavoro  il  principio  di  proporzionalita',  di  generale
imperativita' e riferibile a tutti i rapporti di lavoro subordinato. 
    Il  principio  prescinderebbe   dalle   preesistenti   condizioni
economiche soggettive del lavoratore e sarebbe ancorato all'oggettivo
valore economico proprio del singolo lavoro prestato - nella  specie,
nel quantum  stabilito  dalle  norme  di  legge  sulla  proporzionale
remunerazione dei giudici tributari, quale che sia il  loro  rapporto
di lavoro "principale", pubblico o privato, dipendente o autonomo. 
    Sarebbe,  dunque,  collegato   al   mero   fatto   dell'effettiva
prestazione  personale   mediante   l'utilizzazione   delle   energie
lavorative;  e  non  soffrirebbe  limitazioni  o  restrizioni   -   e
soprattutto discriminazioni - per la circostanza dell'afferire  a  un
secondo, volontario, lavoro, qual e' il lavoro di giudice tributario. 
    1.5.5.- Ad avviso del giudice a quo, non rispetterebbe la  comune
logica assumere che la percezione del  "tetto  massimo"  varrebbe  ad
assicurare l'adeguata retribuzione di tutte le  attivita'  lavorative
effettivamente  svolte,  per  quanto  considerate  e  confuse  in  un
coacervo contabile. 
    Ove si aderisse a questa impostazione,  non  si  darebbe  rilievo
alcuno al pur esistente dispendio aggiuntivo di energie per il lavoro
ulteriore svolto: e si assumerebbe - con una poco ragionevole  fictio
iuris -  che  l'attivita'  di  giudice  tributario  non  direttamente
retribuita verrebbe, di fatto, a non comportare questo  dispendio  di
energie e a non generare il diritto alla retribuzione. 
    Anche  da  quest'angolazione   il   Consiglio   di   Stato   trae
un'ulteriore ragione di contrasto con l'art. 3  Cost.,  in  punto  di
disparita' di trattamento e di  violazione  del  canone  generale  di
ragionevolezza. 
    Aspetto decisivo della sospettata  illegittimita'  costituzionale
sarebbe, pertanto, la circostanza che - lungi dal prevedere un limite
massimo   di   retribuzione   per   l'attivita'   lavorativa   svolta
nell'interesse dell'amministrazione, qual e' l'intento dichiarato del
legislatore - l'applicazione dell'istituto  del  "tetto  retributivo"
anche ai compensi dei giudici tributari, che ordinariamente  svolgano
attivita' lavorativa subordinata presso una pubblica amministrazione,
in realta' finirebbe per tradursi  nell'imposizione  unilaterale,  da
parte dell'amministrazione beneficiaria dei relativi  servizi,  della
progressiva gratuita' delle relative prestazioni,  man  mano  che  la
qualita' e quantita' delle stesse vada aumentando. 
    Siffatto approdo, oltre a contrastare, nella sua assolutezza, con
il  gia'   richiamato   principio   di   cui   all'art.   36   Cost.,
contraddirebbe,   altresi',   il   principio   di   buon    andamento
dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost., valutato tenendo conto
dei suoi effetti sul buon andamento  della  pubblica  amministrazione
complessivamente  intesa,  non  gia'  di  singole   sue   componenti,
isolatamente considerate. 
    Nella specie, la certezza della decurtazione automatica, in tutto
o in parte, del trattamento economico riferito  all'attivita'  svolta
quale  giudice   tributario   non   potrebbe   che   recare   effetti
disincentivanti:  dunque,  dissuadere,  in  prospettiva,  proprio   i
funzionari pubblici di maggiore esperienza e competenza  nel  settore
giurisdizionale. 
    Ne deriverebbe, infatti, come  naturale  conseguenza,  il  fatale
progressivo  ritiro  dalla  giustizia  tributaria  delle  piu'   alte
professionalita' e l'abbassamento generale della qualita' e dei tempi
di quella risposta di giustizia. 
    1.5.6.- In questi termini, prosegue il giudice rimettente, l'aver
fatto il legislatore ricorso ad un parametro  meramente  quantitativo
con cui modulare il corrispettivo economico del servizio prestato tra
le diverse categorie di soggetti chiamati a svolgere le  funzioni  di
giudice tributario significherebbe, nella sostanza,  essersi  avvalsi
di  un  parametro  che  non  tiene  conto   della   rilevanza   delle
professionalita' acquisite. 
    Sarebbe cosi' leso il principio di responsabilita' personale e lo
stesso «principio lavorista» che l'art. 1  Cost.  pone  a  fondamento
della Repubblica. 
    Negare la «giusta mercede» varrebbe, dunque, a negare  il  valore
stesso del  merito  acquisito  dall'individuo  mediante  l'operosita'
attivamente riversata nel lavoro. 
    1.5.7.- Le circostanze evidenziate inducono, infine, il giudice a
quo  a  dubitare  della  compatibilita'  del   regime   economico   e
retributivo  dei  giudici  tributari  con  il  principio  della  pari
capacita' contributiva di cui all'art. 53 Cost. 
    Sarebbe invero difficile non cogliere  in  una  tale  sottrazione
della «giusta mercede» un prelievo di natura tributaria o comunque  a
questo assimilabile, attesa la  pari  natura  pecuniaria  e  la  pari
affluenza del prelievo al bilancio pubblico, quindi alle  entrate  (o
mancate spese) e cosi' alla fiscalita' generale. 
    A questo riguardo, secondo il  giudice  rimettente,  si  dovrebbe
comunque riconoscere che l'eventuale «temporaneita'  dell'imposizione
non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione  a
un'imposta,  che  potrebbe  comunque  risultare   disarticolata   dai
principi costituzionali», di talche', a maggior ragione, si  dovrebbe
considerare  che   la   definitivita'   del   prelievo   fiscale   ne
rimarcherebbe l'illegittimita' costituzionale,  ove  disancorata  dai
predetti principi ex artt. 3, 23 e 53 Cost. (e' citata la sentenza di
questa Corte n. 288 del 2019). 
    In aggiunta, la forma occulta di siffatto prelievo contraddirebbe
il principio per cui «[n]essuna prestazione personale o  patrimoniale
puo' essere imposta se non in base alla legge», di  cui  all'art.  23
Cost. 
    2.- Con memoria depositata il 17 settembre 2021 si e'  costituito
in giudizio S. S., che ha chiesto di verificare la non applicabilita'
del divieto di cumulo stabilito dalle  norme  censurate  al  caso  di
specie o, in subordine, di accogliere la  questione  di  legittimita'
costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato. 
    A  tal  proposito,  la  parte  contesta  la  legittimita'   della
decurtazione, che lo ha  interessato  in  ragione  del  principio  di
onnicomprensivita' della retribuzione del trattamento  economico  dei
pubblici dipendenti e del sistema  rafforzativo  e  complementare  di
tale   principio,    introdotto    dalle    disposizioni    censurate
dall'ordinanza di rimessione  e  riassunto  nella  fissazione  di  un
limite massimo retributivo, valevole  non  soltanto  per  i  pubblici
dipendenti, ma per chiunque riceva a carico delle  finanze  pubbliche
emolumenti  o  retribuzioni  nell'ambito  di   rapporti   di   lavoro
dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni. 
    Ad  avviso  della  parte,  in  base  al   dato   testuale   delle
disposizioni censurate, l'applicazione del  "tetto"  massimo  non  si
potrebbe estendere  al  diverso  caso  di  un  rapporto  di  servizio
onorario, quale quello di giudice tributario. 
    La circolare  della  Presidenza  del  Consiglio  dei  ministri  -
Dipartimento della funzione pubblica 3 agosto 2012, n. 8, sui  limiti
retributivi, confermerebbe tale lettura. 
    Rileva, ancora, il ricorrente nel giudizio  principale  che,  nel
caso  in  esame,  il  cumulo  contestato  riguarda  lo  stipendio  di
magistrato in servizio e altra retribuzione per un incarico  che  non
rientra tra quelli  di  lavoro  autonomo  o  dipendente  oggetto  del
divieto, che oltretutto potrebbe  beneficiare  della  deroga  di  cui
all'ultima parte del comma 489 della legge n. 147 del  2013,  secondo
cui sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso  fino  alla
loro naturale scadenza, prevista negli stessi. 
    La parte, in ultimo, evidenzia che la stessa sentenza  di  questa
Corte n. 124 del 2017  avrebbe  ritenuto  non  implausibile  la  tesi
interpretativa del giudice rimettente, che aveva individuato l'ambito
dei rapporti esclusi dal regime di cumulo facendo leva esclusivamente
sulla loro natura temporanea. 
    3.- Con atto depositato il 21 settembre 2021  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  che  ha  chiesto  di
dichiarare manifestamente  infondate  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale sollevate. 
    La difesa statale sostiene, anzitutto, che la normativa censurata
si  inquadrerebbe  nell'ambito  delle  misure  di  contenimento   dei
trattamenti economici nel settore pubblico, gia' avviate  con  l'art.
23-ter del d.l. n. 201 del 2011 e applicabili in via generale a tutto
il settore pubblico. 
    Questa   misura   costituirebbe   esercizio   ragionevole   della
discrezionalita' legislativa, come gia' affermato dalla  sentenza  n.
124 del 2017. 
    Una volta ammesso che al legislatore e' consentito introdurre  un
"tetto" massimo agli emolumenti che un soggetto puo'  ricevere  dalla
pubblica  amministrazione,  sarebbe  precluso  ipotizzare   qualsiasi
disparita'  di  trattamento  tra  giudici  tributari  di  provenienza
pubblica e quelli provenienti dal settore privato. 
    Essendo  la  ratio  delle  disposizioni   censurate   quella   di
contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa pubblica, in
una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti,
in presenza di risorse limitate, ne conseguirebbe che  la  disciplina
non puo' logicamente riguardare gli  oneri  che  sono  a  carico  dei
privati. 
    Secondo  l'Avvocatura   generale   dello   Stato,   le   riferite
considerazioni lasciano emergere la non  fondatezza  delle  questioni
anche in riferimento alla dedotta violazione  degli  artt.  2  e  10,
primo comma, Cost. 
    La difesa erariale puntualizza, poi, che le norme  censurate  non
disciplinano specificamente i compensi dei giudici tributari,  mentre
i suoi possibili effetti indiretti sul buon andamento della  pubblica
amministrazione sono stati  gia'  dichiarati  compatibili  da  questa
Corte, con la sentenza n. 124  del  2017,  in  relazione  all'analoga
vicenda dei consiglieri del Consiglio di  Stato  e  della  Corte  dei
conti di nomina governativa. 
    Con  riferimento  al  parametro  di  cui   all'art.   53   Cost.,
l'Avvocatura generale dello Stato riferisce che le norme che  fissano
il  "tetto"  non  introducono  un  prelievo   tributario   eccessivo,
selettivo ovvero comunque  non  connesso  ad  un'effettiva  capacita'
contributiva, ma piu' semplicemente si limitano ad imporre un  limite
massimo ai compensi a carico della pubblica amministrazione. 
    Con l'effetto che vi sarebbe una finalita'  (e  una  natura)  non
tributaria, ma esclusivamente "retributiva" della norma, giustificata
da oggettive esigenze finanziarie  dello  Stato  ed  estesa  a  tutti
coloro che percepiscono somme dalla pubblica amministrazione. 
    Dall'assenza  di  natura  tributaria  deriverebbe  anche  la  non
fondatezza della questione sotto il profilo dell'art. 23 Cost. 
    Infine, secondo la difesa dello Stato, non assumerebbe rilievo la
circostanza che il "tetto" sia in vigore gia' da alcuni anni, poiche'
la sentenza n. 124 del 2017 avrebbe gia' chiarito che, nell'esercizio
della sua discrezionalita', il legislatore ben potrebbe,  secondo  un
ragionevole contemperamento dei  contrapposti  interessi,  modificare
nel tempo il parametro prescelto, in modo da garantirne la perdurante
adeguatezza alla luce del complessivo andamento della spesa  pubblica
e dell'economia. 
    4.- All'udienza pubblica la parte e il Presidente  del  Consiglio
dei  ministri  hanno   chiesto   l'accoglimento   delle   conclusioni
rispettivamente formulate nella memoria di costituzione  e  nell'atto
di intervento. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Consiglio di Stato, sezione quinta, dubita, in riferimento
agli artt. 1, 2, 3, 10, 23,  36,  53  e  97  della  Costituzione,  in
relazione - per  l'art.  10  -  all'art.  23,  secondo  comma,  della
Dichiarazione   universale   dei    diritti    dell'uomo,    adottata
dall'Assemblea generale delle Nazioni  Unite  il  10  dicembre  1948,
della legittimita' costituzionale  dell'art.  23-ter,  comma  1,  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per  la
crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei   conti   pubblici),
convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n.  214,
dell'art. 1, commi 471, 473 e 474, della legge 27 dicembre  2013,  n.
147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (Legge di stabilita' 2014)», e  dell'art.  13
del decreto-legge 24 aprile  2014,  n.  66  (Misure  urgenti  per  la
competitivita'   e   la   giustizia   sociale),    convertito,    con
modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, nella parte in  cui
prevedono un limite massimo delle retribuzioni e degli emolumenti per
i lavoratori pubblici. 
    Il  combinato  disposto  delle   norme   evocate   definisce   il
trattamento economico annuo onnicomprensivo  di  chiunque  riceva,  a
carico delle finanze pubbliche, retribuzioni  o  emolumenti  comunque
denominati nell'ambito di rapporti di lavoro  dipendente  o  autonomo
con pubbliche amministrazioni statali, ivi incluso  il  personale  in
regime   di    diritto    pubblico    (cosiddetto    personale    non
contrattualizzato), stabilendo come parametro massimo di  riferimento
il trattamento economico spettante al primo presidente della Corte di
cassazione, pari all'attualita' ad euro 240.000,00 annui al lordo dei
contributi previdenziali ed assistenziali e  degli  oneri  fiscali  a
carico del dipendente. 
    A tale scopo devono essere computate in modo cumulativo le  somme
comunque erogate all'interessato a carico  del  medesimo  o  di  piu'
organismi, anche nel caso di pluralita' di incarichi conferiti da uno
stesso organismo nel corso dell'anno. 
    Le  risorse  rivenienti  dall'applicazione  di  dette  misure  di
contenimento della spesa pubblica sono annualmente versate  al  Fondo
per l'ammortamento dei titoli di Stato. 
    1.1.- Ai fini della completa ricostruzione del quadro  normativo,
occorre rilevare che, nelle more del presente giudizio, il  parametro
cui ragguagliare la soglia del trattamento economico  complessivo  e'
parzialmente mutato, con decorrenza dall'anno 2022.  Infatti,  l'art.
1, comma 68, della legge  30  dicembre  2021,  n.  234  (Bilancio  di
previsione  dello  Stato  per  l'anno  finanziario  2022  e  bilancio
pluriennale per il triennio  2022-2024),  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale del 31 dicembre 2021, n. 310, ed entrata in  vigore  il  1°
gennaio 2022, testualmente stabilisce: «A decorrere  dall'anno  2022,
per il personale di cui all'articolo 1, comma  471,  della  legge  27
dicembre 2013, n. 147, il limite retributivo di cui all'articolo  13,
comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014,  n.  66,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n,. 89,  e'  rideterminato
sulla base della percentuale stabilita  ai  sensi  dell'articolo  24,
comma 2, della legge 23 dicembre 1998,  n.  448,  in  relazione  agli
incrementi medi conseguiti nell'anno precedente  dalle  categorie  di
pubblici dipendenti contrattualizzati, come calcolati  dall'ISTAT  ai
sensi del comma 1 del medesimo articolo 24». 
    Il richiamato art. 24  della  legge  23  dicembre  1998,  n.  448
(Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), ai
commi 1 e 2, testualmente prevede: «1. A decorrere dal 1 gennaio 1998
gli stipendi, l'indennita' integrativa speciale e gli assegni fissi e
continuativi  dei  docenti  e  dei  ricercatori   universitari,   del
personale dirigente della Polizia di  Stato  e  gradi  di  qualifiche
corrispondenti,  dei  Corpi  di  polizia  civili  e   militari,   dei
colonnelli e generali delle Forze  armate,  del  personale  dirigente
della carriera prefettizia,  nonche'  del  personale  della  carriera
diplomatica, sono adeguati di diritto annualmente  in  ragione  degli
incrementi   medi,   calcolati   dall'ISTAT,   conseguiti   nell'anno
precedente dalle categorie di pubblici  dipendenti  contrattualizzati
sulle  voci  retributive,  ivi  compresa   l'indennita'   integrativa
speciale, utilizzate dal medesimo Istituto per  l'elaborazione  degli
indici delle  retribuzioni  contrattuali.  [...]  2.  La  percentuale
dell'adeguamento annuale prevista dal comma 1 e' determinata entro il
30 aprile di ciascun anno con decreto del  Presidente  del  Consiglio
dei ministri, su proposta dei Ministri per la funzione pubblica e del
tesoro, del bilancio e della programmazione economica.  A  tal  fine,
entro il mese di marzo, l'ISTAT comunica la variazione percentuale di
cui al comma 1. Qualora i dati necessari non siano disponibili  entro
i termini previsti, l'adeguamento e' effettuato nella  stessa  misura
percentuale dell'anno precedente, salvo successivo conguaglio». 
    1.2.- La portata dello ius superveniens richiamato non  determina
la necessita' di disporre la restituzione degli atti al giudice a quo
affinche' sia rinnovato l'esame della rilevanza  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale sollevate, la quale persiste in quanto la
nuova disposizione non esclude l'applicazione, medio  tempore,  della
normativa censurata (ex plurimis, sentenze n. 213 del 2021 e  n.  257
del 2017). 
    2.- Secondo il rimettente, le norme censurate, nella parte in cui
stabiliscono il limite massimo del trattamento  economico-retributivo
spettante al personale pubblico, vigente anche con  riferimento  allo
svolgimento delle funzioni di giudice tributario, violerebbero l'art.
3 Cost., in ragione dell'ingiustificata disparita' di trattamento che
si  determinerebbe  tra  giudici   tributari   che   siano   pubblici
dipendenti, interessati dal "tetto" retributivo, e giudici  tributari
che non lo siano. 
    Le censure si appuntano  anche  sull'ingiustificata  e  ulteriore
disparita' di trattamento - interna  alla  categoria  dei  dipendenti
pubblici che svolgano altresi' il servizio di giudici tributari - tra
dipendenti pubblici che siano prossimi al (o  abbiano  raggiunto  il)
"tetto" retributivo e dipendenti pubblici che non rientrino  in  tale
limite, con una tendenziale gratuita' paradossalmente tanto  maggiore
quanto maggiore sia l'impegno lavorativo, complessivo  e  settoriale,
realmente profuso dal  lavoratore  a  beneficio  dell'amministrazione
pubblica. 
    Il plesso normativo censurato recherebbe vulnus,  altresi',  agli
artt. 2 e 53 Cost., per effetto dell'indebita discriminazione che  si
creerebbe tra lavoro  pubblico  e  lavoro  privato,  con  conseguente
violazione  dei  doveri  inderogabili  di  solidarieta'  economica  e
sociale  e  senza  tenere  adeguatamente  conto   della   complessiva
capacita'  reddituale  da  lavoro  di  soggetti  cosi'   diversamente
trattati. 
    Una disciplina cosi' congegnata lederebbe ancora gli artt. 3 e 36
Cost., in quanto la riferita sostanziale gratuita' delle mansioni  di
giudice tributario,  allorche'  la  remunerazione  spettante  per  il
rapporto di pubblico impiego raggiunga la soglia massima  consentita,
sarebbe intrinsecamente irragionevole e comunque antitetica  rispetto
al principio generale della giusta e - a identita'  di  condizioni  -
pari retribuzione del lavoro. 
    La normativa cosi' delineata violerebbe pure l'art. 97 Cost., per
il pregiudizio arrecato al principio di buon andamento della pubblica
amministrazione, in quanto la certezza della decurtazione automatica,
in tutto o in parte, del trattamento economico riferito all'attivita'
svolta    quale    giudice    tributario    implicherebbe     effetti
disincentivanti,  ossia  dissuaderebbe  dallo  svolgimento  di  detta
funzione giudiziaria, in prospettiva, proprio i  funzionari  pubblici
di maggiore esperienza e competenza nel settore giurisdizionale. 
    Il giudice rimettente denuncia, quindi, la  violazione  dell'art.
10, primo comma, Cost., in  relazione  all'art.  23,  secondo  comma,
della Dichiarazione universale  dei  diritti  dell'uomo,  poiche'  il
mancato  riconoscimento  di  una  retribuzione  corrispondente   alla
qualita' e quantita' del lavoro  prestato  comporterebbe  l'incisione
del diritto ad eguale retribuzione per eguale  lavoro,  espressamente
considerato un diritto dell'uomo sul piano internazionale. 
    Un meccanismo di tal fatta si risolverebbe  poi  in  una  lesione
dell'art. 1 Cost., poiche'  il  ricorso  ad  un  parametro  meramente
quantitativo con il quale modulare  il  corrispettivo  economico  del
servizio prestato tra le diverse categorie  di  soggetti  chiamati  a
svolgere  le  funzioni  di  giudice  tributario  sacrificherebbe   la
rilevanza  delle  professionalita'  acquisite,   cosi'   ledendo   il
principio del lavoro posto a  fondamento  della  Repubblica,  per  la
negazione del  valore  stesso  del  merito  acquisito  dall'individuo
mediante l'operosita' attivamente riversata nel lavoro. 
    Sarebbe  violato,  altresi',  l'art.   53   Cost.,   poiche'   la
sottrazione della "giusta mercede" integrerebbe un prelievo di natura
tributaria - o comunque ad esso assimilabile - eccessivo, selettivo o
comunque non connesso ad un'effettiva capacita' contributiva. 
    E conseguentemente sarebbe inciso l'art. 23 Cost., in  quanto  la
definitivita' del prelievo fiscale cosi'  operato,  per  di  piu'  in
forma  occulta,  contraddirebbe  il   principio   per   cui   nessuna
prestazione personale o patrimoniale puo' essere imposta  se  non  in
base alla legge. 
    Per l'effetto, il giudice a  quo  sollecita  la  caducazione  del
limite al cumulo tra retribuzioni a carico  delle  finanze  pubbliche
previsto dalle disposizioni denunciate (sentenze n. 124 e n.  16  del
2017). 
    3.-  In   via   preliminare,   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale   sollevate   non    incorrono    nei    profili    di
inammissibilita' segnalati dal ricorrente  nel  procedimento  a  quo,
costituitosi nel presente giudizio. 
    3.1.- Quest'ultimo eccepisce, in primis, che  la  previsione  del
"tetto" non si estenderebbe ai  compensi  ricevuti  nell'espletamento
del servizio di giudice tributario, prestato a titolo onorario e come
tale non rientrante nei rapporti di lavoro dipendente o autonomo  con
pubbliche amministrazioni statali, cui si riferiscono le disposizioni
censurate. 
    L'assunto non puo' essere condiviso. 
    L'esclusione  dal  perimetro  applicativo  della  disciplina  sul
trattamento economico onnicomprensivo dei servizi prestati  a  titolo
onorario attiene  al  profilo  della  rilevanza  delle  questioni  di
legittimita'  costituzionale:  se  operasse  il  regime   restrittivo
invocato dalla parte, infatti, non verrebbe in rilievo la  disciplina
sul  cumulo  delle  retribuzioni  o  emolumenti  e  la  questione  di
legittimita' costituzionale sarebbe irrilevante. 
    Trattandosi di detto requisito preliminare, questa Corte  non  e'
chiamata a sindacare  la  fondatezza  delle  diverse  interpretazioni
delle disposizioni censurate che si contendono il campo, ma e' tenuta
solo a vagliare la plausibilita' della premessa  ermeneutica  da  cui
muove l'ordinanza di rimessione per avvalorare la pertinenza al  caso
esaminato del dubbio  di  legittimita'  costituzionale  espresso  (ex
plurimis, sentenze n. 207, n. 183, n. 181, n. 59, n. 32, n. 22  e  n.
15 del 2021). 
    Sul punto, il giudice  rimettente  osserva  che  la  formulazione
onnicomprensiva della norma non consentirebbe, almeno ictu oculi,  di
escludere dal relativo computo i compensi corrisposti ai membri delle
Commissioni tributarie, pur non apparendo  gli  stessi  qualificabili
alla  stregua  di  emolumenti  derivanti  da  «rapporti   di   lavoro
subordinato o autonomo», perche' afferenti a funzioni ad  investitura
onoraria. 
    Questa   conclusione   prescinderebbe   dalle   diverse   letture
dell'inciso «nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo»
di cui all'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito,  al
fine di individuare, in termini soggettivi, coloro cui si applica  il
"tetto retributivo" o piuttosto, in termini oggettivi, quali tra  gli
emolumenti corrisposti da una pubblica amministrazione  concorrano  a
formare il "tetto". 
    Il  percorso  ricostruttivo  compiuto  dal  giudice  a   quo   e'
plausibile. 
    3.1.1.-  Anzitutto,  e'  ampiamente  condiviso  che  le  funzioni
esercitate dai giudici tributari sono di natura onoraria, poiche'  il
servizio da essi prestato  non  ricade  nell'ambito  di  un'attivita'
professionale svolta in via esclusiva. 
    Questa Corte ha affermato che i  compensi  dei  componenti  delle
commissioni tributarie non sono  assimilabili  alla  vera  e  propria
retribuzione, ma consistono in semplici emolumenti, la cui disciplina
esula dalla previsione dell'art. 108  Cost.,  e  la  loro  misura  e'
inidonea ad incidere sull'indipendenza del giudice (ordinanza n.  272
del 1999). 
    Nella pronuncia  innanzi  richiamata  questa  Corte  ha,  quindi,
precisato   che   le   posizioni   dei   magistrati   che    svolgono
professionalmente e  in  via  esclusiva  funzioni  giurisdizionali  e
quelle dei componenti delle commissioni  tributarie,  che  esercitano
funzioni onorarie, non sono fra  loro  raffrontabili  ai  fini  della
valutazione del rispetto del principio di eguaglianza. 
    Infatti, il compenso per i secondi e' previsto  per  un'attivita'
che essi non esercitano professionalmente,  bensi',  di  massima,  in
aggiunta ad altre attivita' svolte in via primaria e, quindi, non  si
impone che agli stessi venga  riconosciuto  il  medesimo  trattamento
economico di cui beneficiano i primi. 
    Medesime  conclusioni  sono   state   prospettate   dalla   Corte
regolatrice, che ha espressamente qualificato il  giudice  tributario
quale giudice onorario (Corte di cassazione,  sezione  prima  civile,
sentenza 21 marzo 2005,  n.  6107;  sezione  tributaria,  sentenza  8
luglio 2004, n. 12598; sezione lavoro, sentenza 14  maggio  2004,  n.
9251). Nell'ambito di tale inquadramento, la Corte di legittimita' ha
puntualizzato, per un verso, che la natura onoraria dell'incarico non
e' assimilabile al rapporto di pubblico impiego (Corte di cassazione,
sezioni unite civili, sentenza 4 settembre 2015,  n.  17591)  e,  per
altro verso, che  il  compenso,  fisso  e  aggiuntivo,  spettante  ai
componenti  delle  commissioni  tributarie  per  l'attivita'  svolta,
ricade nella categoria degli emolumenti di natura indennitaria (Corte
di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 settembre  2013,  n.
21592). 
    Anche la  giurisprudenza  amministrativa  ha  evidenziato  che  i
magistrati competenti in materia tributaria sono giudici onorari  che
continuano a svolgere le  originarie  professioni,  contrariamente  a
quelli in materia  ordinaria,  amministrativa  e  contabile,  la  cui
attivita' si coniuga con l'esercizio pieno della giurisdizione e  non
con una carica onoraria (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza
8 marzo 2019, n. 1600). 
    3.1.2.- In conseguenza,  e'  del  tutto  ragionevole  la  lettura
dell'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, resa  dal
Consiglio di Stato, secondo il quale il campo applicativo del  limite
retributivo massimo sembra riferito a tutti gli  emolumenti  posti  a
carico delle finanze  pubbliche  («chiunque  riceva  a  carico  delle
finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni»), allorche' si tratti di
soggetti vincolati da un rapporto di lavoro dipendente o autonomo con
pubbliche amministrazioni statali («nell'ambito di rapporti di lavoro
dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali,  di  cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30  marzo  2001,  n.
165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale  in  regime
di diritto pubblico  di  cui  all'articolo  3  del  medesimo  decreto
legislativo, e successive modificazioni»). 
    Non e', invece, necessario  che  tutte  le  prestazioni  ricevute
siano riconducibili ad un rapporto di lavoro dipendente  o  autonomo,
sicche' - una volta instauratosi un siffatto  rapporto  di  lavoro  -
concorre  ad  incidere  sulla  soglia  indicata  qualunque  ulteriore
retribuzione o emolumento percepiti, che siano a carico dello  Stato,
benche' essi non siano  inquadrabili  in  altro  rapporto  di  lavoro
dipendente o autonomo. 
    La componente oggettiva (rapporto di lavoro dipendente o autonomo
con  amministrazioni  statali)  si  combina  con  quella   soggettiva
(emolumenti a carico delle finanze pubbliche), nel senso che, ove sia
integrato il requisito  oggettivo,  sul  piano  soggettivo  qualsiasi
prestazione  a  carico  dello  Stato  incide  sulla  definizione  del
trattamento economico annuo onnicomprensivo. 
    Tale  scelta   interpretativa   e'   corroborata,   quanto   alla
individuazione  dei  redditi  che   cadono   in   questo   "paniere",
contribuendo  ad  alimentare,  fino  al  "tetto",   il   "trattamento
economico omnicomprensivo", dalla previsione di cui all'art.  23-ter,
comma 1, ultimo periodo, del d.l. n. 201 del 2011,  come  convertito,
secondo cui «[a]i fini dell'applicazione della disciplina di  cui  al
presente comma devono essere computate in modo  cumulativo  le  somme
comunque erogate all'interessato a carico  del  medesimo  o  di  piu'
organismi, anche nel caso di pluralita' di incarichi conferiti da uno
stesso organismo nel corso dell'anno». 
    Cosicche', come e' stato esposto nella sentenza impugnata davanti
al giudice rimettente, «cadono nel paniere  de  quo  tutte  le  somme
"comunque erogate"  dalla  stessa  amministrazione  cui  il  soggetto
"inciso" e' legato da rapporto di lavoro  autonomo/dipendente  ovvero
da altre amministrazioni, anche  in  forza  dell'esecuzione  di  meri
"incarichi" -  dunque  anche  quegli  incarichi  che,  eventualmente,
determinano  un  mero  rapporto  di  servizio  onorario  -   purche',
ovviamente, comportino un esborso a carico  della  finanza  pubblica»
(Tribunale amministrativo regionale per  il  Lazio,  sezione  seconda
quater, sentenza 18 giugno 2020, n. 6668). 
    3.2.-  Attiene  al  profilo  della  rilevanza  anche  l'ulteriore
eccezione formulata dalla parte. 
    Il  ricorrente  nel  giudizio   principale   prospetta   che   la
limitazione  del  trattamento  economico  non  opererebbe   per   gli
incarichi  di  natura  temporanea,  alla  stregua   dell'applicazione
analogica dell'art. 1, comma  489,  della  legge  n.  147  del  2013,
secondo cui «[s]ono fatti salvi i contratti e gli incarichi in  corso
fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi». 
    Sicche', ad avviso della parte, l'esclusione  degli  incarichi  a
tempo  dal   divieto   di   erogazione   di   trattamenti   economici
onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico erogato  da
gestioni previdenziali pubbliche, eccedano il tetto massimo di cui al
citato art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, si estenderebbe anche al
cumulo tra retribuzioni. 
    Neppure questa eccezione e' fondata. 
    Contrariamente  all'assunto  della  parte,   non   puo'   trovare
applicazione, nel caso in esame, l'art. 1, comma 489, della legge  n.
147 del 2013, norma che esonera dal divieto di cumulo i  contratti  e
gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza. 
    Per un verso, il divieto di cumulo in questione non e' certamente
applicabile al di fuori  del  rigido  perimetro  applicativo  che  la
contraddistingue, ossia al cumulo  tra  trattamenti  pensionistici  a
carico dell'erario e trattamenti economici omnicomprensivi. 
    Ed invero, le norme di cui all'art. 1, comma 489, della legge  n.
147 del 2013 e all'art. 23-ter, comma 1, del d.l. n.  201  del  2011,
come convertito, pur avendo una matrice  "unitaria",  presentano  una
«particolarita' che le contraddistingue» (sentenza n. 124 del 2017) e
che  le  rende  insuscettibili  di  applicazione   estensiva   ovvero
analogica alla fattispecie in esame. 
    Per  altro  verso,  deve  escludersi  che  la  nomina  a  giudice
tributario possa essere equiparata all'attribuzione di un incarico di
natura  temporanea,  posto  che  l'art.  11,  comma  2,  del  decreto
legislativo 31  dicembre  1992,  n.  545  (Ordinamento  degli  organi
speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione  degli  uffici
di collaborazione in attuazione della  delega  al  Governo  contenuta
nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), prevede che  «[i]
componenti delle  commissioni  tributarie  provinciali  e  regionali,
indipendentemente dalle funzioni svolte,  cessano  dall'incarico,  in
ogni caso, al compimento del settantacinquesimo anno di eta'». 
    Ne discende  che  l'esenzione  sancita  per  i  contratti  e  gli
incarichi in corso ha una precisa portata precettiva, circoscritta ai
rapporti intrinsecamente temporanei, con l'effetto  che  la  clausola
non  deve  trovare   applicazione   a   un   rapporto   di   ufficio,
tendenzialmente  stabile  e  svincolato  da  un  termine  di   durata
precostituito. 
    Tale opzione ermeneutica e' suffragata dalla  puntuale  accezione
tecnica della locuzione «contratti e incarichi in corso», che vale  a
differenziarli  rispetto  al   rapporto   d'ufficio,   assistito   da
particolari garanzie di stabilita'. 
    In   questa    prospettiva,    «il    concetto    di    incarico,
significativamente accostato al  vocabolo  "contratto",  evocherebbe,
anche secondo il significato proprio  delle  parole  (art.  12  delle
preleggi),   una   prospettiva   di   temporaneita'.   La    scadenza
dell'incarico, indicata nell'incarico stesso, differisce dalla durata
massima legale di un rapporto di ufficio, determinata in ragione  dei
limiti d'eta' di volta in volta stabiliti dalla legge»  (sentenza  n.
124 del 2017). 
    4.- Nel merito, lo scrutinio delle censure sollevate dal  giudice
rimettente non puo' trascurare i rilievi gia'  sviluppati  da  questa
Corte  con  riferimento  alle  medesime  norme  oggi  sospettate   di
illegittimita' costituzionale. 
    4.1.- Infatti, la citata sentenza n. 124 del 2017, nel respingere
le censure rivolte, tra l'altro, all'art. 23-ter del d.l. n. 201  del
2011, come convertito, e all'art. 13 del d.l. n. 66  del  2014,  come
convertito, ha evidenziato che «[l]a disciplina del  limite  massimo,
sia  alle  retribuzioni  nel  settore  pubblico  sia  al  cumulo  tra
retribuzioni e  pensioni,  si  iscrive  in  un  contesto  di  risorse
limitate,  che  devono  essere  ripartite  in   maniera   congrua   e
trasparente». 
    Ne  ha  desunto  che  «[i]l  limite  delle  risorse  disponibili,
immanente al  settore  pubblico,  vincola  il  legislatore  a  scelte
coerenti,  preordinate  a  bilanciare  molteplici  valori  di   rango
costituzionale, come la parita' di trattamento  (art.  3  Cost.),  il
diritto a  una  retribuzione  proporzionata  alla  quantita'  e  alla
qualita' del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza
libera e dignitosa (art.  36,  primo  comma,  Cost.),  il  diritto  a
un'adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.),  il
buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.)». 
    Questa Corte ha, dunque, gia' valutato  il  bilanciamento  tra  i
richiamati valori confliggenti effettuato dal legislatore, escludendo
che il limite massimo alle retribuzioni, dettato nel settore pubblico
sulla base di criteri non  uniformi  a  quelli  relativi  al  settore
privato,  ispirati  alle  leggi  di   mercato,   sia   manifestamente
irragionevole (si veda  anche,  con  riguardo  alla  riduzione  delle
tariffe professionali riguardanti incarichi di  natura  pubblicistica
rispetto  a  quelle  relative  ad   attivita'   libero-professionali,
sentenze n. 89 del 2020, n. 178 del 2017 e n. 192 del 2015). 
    Non  senza  considerare  che  la  previsione  di  un  tetto  alle
retribuzioni  dei  pubblici  dipendenti  ha,  poi,   un   particolare
significato che evidenzia come l'attivita' delle alte  cariche  dello
Stato vada al di la' di  un  profilo  di  mera  proporzionalita'  del
trattamento retributivo. 
    Ha inoltre ritenuto che il  sacrificio  economico  imposto  dalla
previsione di un limite massimo alle retribuzioni  e  al  cumulo  tra
retribuzioni e pensioni  sia  «tale  da  non  sacrificare  in  misura
arbitraria e sproporzionata il diritto  al  lavoro  [...]  libero  di
esplicarsi nelle forme piu' convenienti» (sentenza n.124 del 2017). 
    Del  resto,  la  soglia  retributiva  fissata,  commisurata  alla
retribuzione, e, quindi, alle funzioni di una  carica  di  rilievo  e
prestigio indiscussi, qual e' il  primo  presidente  della  Corte  di
cassazione, e' da considerare adeguata (vedi, ancora, sentenza n. 124
del 2017). 
    5.- Le suesposte argomentazioni danno anzitutto conto  della  non
fondatezza della prima delle questioni  sollevate  dal  Consiglio  di
Stato, che assume  il  contrasto  delle  disposizioni  censurate  con
l'art.  3  Cost.   nella   parte   in   cui   esse   determinerebbero
un'ingiustificata disparita' di trattamento tra giudici tributari che
siano pubblici dipendenti, interessati  dal  "tetto"  retributivo,  e
giudici tributari che non lo siano. 
    5.1.- Secondo l'ordinanza di rimessione, poi, l'introduzione  del
trattamento      economico       onnicomprensivo       determinerebbe
un'ingiustificata e ulteriore disparita' di trattamento, interna alla
categoria dei dipendenti pubblici che svolgano altresi'  il  servizio
di giudici tributari, tra coloro che siano  prossimi  al  (o  abbiano
raggiunto il) "tetto" retributivo massimo e coloro che non  rientrino
in tale limite, con una gratuita' tendenziale  paradossalmente  tanto
maggiore quanto maggiore  sia  l'impegno  lavorativo,  complessivo  e
settoriale,   realmente   profuso   dal   lavoratore   a    beneficio
dell'amministrazione pubblica. 
    La questione non e' fondata. 
    La  comparazione  tra  categorie  di  dipendenti  pubblici,  alla
stregua della misura  della  loro  retribuzione,  non  e'  pertinente
rispetto alla ratio dell'intervento normativo denunciato, che  ha  lo
scopo di porre un limite ai soli redditi piu' elevati  salvaguardando
comunque  l'adeguatezza  professionale  e  retributiva  della  soglia
contemplata, che utilizza, quale cifra  di  riferimento,  un  elevato
livello stipendiale, relativo, come gia' segnalato, ad una figura  di
indubbio prestigio. 
    Non ricorre, dunque, nei confronti dei  pubblici  dipendenti  che
non  raggiungono  il  "tetto",  una  discriminazione   irragionevole,
essendo coerente sul piano sistematico che  il  "tetto"  colpisca  le
categorie professionali che godono  dei  trattamenti  economici  piu'
elevati. 
    Tanto piu' che l'introduzione di tale "tetto" vale anche a  porre
rimedio alle differenziazioni fra  i  trattamenti  retributivi  delle
figure di vertice dell'amministrazione e concorre agli  obiettivi  di
piu' ampio spettro volti a  rendere  trasparente  la  gestione  delle
risorse pubbliche (ancora una volta, sentenza n. 124 del 2017). 
    5.2.-  Il  giudice  a  quo  lamenta,   poi,   che   la   indebita
discriminazione  operata  tra  lavoro  pubblico  e   lavoro   privato
recherebbe vulnus agli artt. 2 e 53 Cost. 
    In  particolare,  sarebbero  violati  i  doveri  inderogabili  di
solidarieta'  economica  e  sociale,  posti  a  carico  di  tutti  in
relazione alle rispettive capacita', anche economiche, non tenendosi,
tra  l'altro,  adeguatamente  conto  della   «complessiva   capacita'
reddituale da lavoro dei soggetti cosi' diversamente trattati». 
    Neanche tale questione e' fondata. 
    Premesso che la previsione  di  un  "tetto"  retributivo  mira  a
realizzare  anche   un   fine   di   mutualita'   intergenerazionale,
consentendo  un  piu'  ampio  accesso   al   pubblico   impiego,   e'
sufficiente, al riguardo, considerare che nel caso di specie  non  si
tratta di un prelievo di natura tributaria. 
    Anzitutto, dal ruolo assunto dallo Stato nella vicenda di cui  si
tratta - come risulta dalla rubrica legis sia  dell'art.  23-ter  del
d.l. n. 201 del 2011, come convertito  (Disposizioni  in  materia  di
trattamenti economici), sia dell'art. 13 del d.l.  n.  66  del  2014,
come  convertito  (Limite  al  trattamento  economico  del  personale
pubblico e  delle  societa'  partecipate),  nonche'  dall'inserimento
organico di tali previsioni nei  capi  delle  misure  concernenti  le
riduzioni di spesa e,  segnatamente,  rispettivamente  nel  Capo  III
«Riduzioni  di  spesa.  Costi  degli  apparati»   e   nel   Capo   II
«Amministrazione sobria» (e non gia' nei capi relativi al reperimento
di nuove entrate) - si ricava, prima facie, che l'autorita'  statale,
legiferando, e' intervenuta  in  veste  di  "datore  di  lavoro"  dei
dipendenti pubblici interessati dalla statuizione del "tetto"  e  non
come "ente impositore". 
    Ed  ancora,  secondo  l'articolata  trama  normativa  su  cui  si
innestano le norme censurate, la fissazione di una soglia retributiva
non importa una decurtazione o un prelievo a  carico  del  dipendente
pubblico, ne' un'acquisizione di risorse al bilancio dello  Stato  e,
pertanto, e' priva degli elementi che connotano indefettibilmente  la
prestazione tributaria (sentenza n. 234 del 2020). 
    Secondo il costante orientamento di questa Corte,  tali  elementi
sono  individuabili  in  una  disciplina  legale  diretta,   in   via
prevalente, a determinare una definitiva decurtazione patrimoniale  a
carico del soggetto passivo, che  non  integri  una  modifica  di  un
rapporto sinallagmatico, e nella destinazione delle risorse, connesse
a un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla  suddetta
decurtazione, a sovvenire a pubbliche spese. 
    Si deve comunque trattare di un prelievo coattivo, finalizzato al
concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo
in base ad uno  specifico  indice  di  capacita'  contributiva.  Tale
indice, inoltre,  deve  esprimere  l'idoneita'  di  ciascun  soggetto
all'obbligazione tributaria (sentenze n. 263 del  2020,  n.  240  del
2019, n. 89 del 2018, n. 269 e n. 236 del 2017, n. 70  del  2015,  n.
219 del 2014, n. 154 del 2014, n. 102 del 2008, n. 91 del 1972, n. 97
del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964). 
    Invece, le caratteristiche delle misure impugnate divergono dagli
elementi distintivi del prelievo tributario. 
    Il limite al cumulo disposto dalle norme  censurate  non  implica
una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento retributivo,
con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare,  essendo
stabilito l'accantonamento in appositi fondi. 
    Si ricade, dunque, nella specie, in una regola conformativa delle
medesime retribuzioni (sentenza n. 200 del 2018). 
    In  questa  prospettiva,  si  deve  considerare  il  vincolo   di
destinazione  che  il  legislatore  imprime  alle  risorse  derivanti
dall'applicazione  delle  norme  censurate,  stabilendo   che   siano
destinate annualmente al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato
(art. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, come  convertito,  e
art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente  a  una
contabilita' speciale di tesoreria. 
    5.3.- Il Consiglio di Stato dubita, ancora, della  compatibilita'
delle disposizioni censurate  con  l'art.  36  Cost.,  in  quanto  la
riferita sostanziale gratuita' delle mansioni di  giudice  tributario
allorche' la remunerazione spettante  per  il  rapporto  di  pubblico
impiego raggiunga la soglia massima consentita lederebbe il principio
generale della giusta retribuzione del lavoro, anche per effetto  del
procrastinarsi nel tempo di tale limitazione, idonea  a  superare  la
giustificazione, in un contesto peculiare, della deroga al  principio
di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e qualita'  del
lavoro svolto. 
    La questione non e' fondata. 
    Va  premesso  che,  allo  scopo  di  verificare  la  legittimita'
costituzionale delle norme  in  tema  di  trattamento  economico  dei
dipendenti, deve farsi riferimento, non gia' alle singole  componenti
di quel trattamento, ma alla retribuzione nel  suo  complesso,  avuto
riguardo - in sede di giudizio di non conformita' della  retribuzione
ai requisiti costituzionali di proporzionalita' e  sufficienza  -  al
principio di onnicomprensivita' della retribuzione medesima (sentenze
n. 90 del 2019, n. 13 del 2016, n. 178 del 2015, n. 154 del 2014,  n.
310 e n. 304 del 2013). 
    In questa prospettiva, il parametro evocato, anche in riferimento
agli artt. 3 e 97  Cost.,  non  risulta  violato,  non  incidendo  le
disposizioni  in  esame  sulla  struttura  della   retribuzione   del
personale del pubblico impiego nel suo complesso, ma introducendo  un
limite  massimo  del  tutto  congruo,  ancorato  ad  un   riferimento
quantitativo ragguardevole, come tale non idoneo a ledere  i  livelli
essenziali dei diritti. 
    La commisurazione del "tetto" alla retribuzione  (e  dunque  alle
funzioni) del primo presidente della Corte di cassazione non risulta,
come ripetutamente rilevato, inadeguata e tale da violare il  diritto
al  lavoro  o  svilire  l'apporto  professionale  delle  figure  piu'
qualificate, garantendo, invece, che  il  nesso  tra  retribuzione  e
quantita' e qualita' del lavoro svolto sia  salvaguardato  anche  con
riguardo alle prestazioni piu' elevate (sentenza  n.  124  del  2017;
nello stesso senso sentenza n. 153 del 2015, sulla estensibilita' del
limite retributivo alle autonomie territoriali; sentenze n.  178  del
2015 e n.  310  del  2013,  sulle  misure  aventi  valenza  generale;
sentenze n.  223  del  2012  e  n.  1  del  1978,  sul  rapporto  fra
trattamento retributivo e autonomia e indipendenza dei magistrati). 
    Quanto alla circostanza che si sarebbe comunque  in  presenza  di
una prestazione lavorativa non retribuita, e' dirimente il fatto  che
si tratta  pur  sempre  di  una  prestazione  frutto  di  una  scelta
volontaria. 
    Il censurato temporaneo "blocco" della retribuzione  risponde  al
principio di gradualita' nell'attuazione dei diritti, di modo che  e'
comunque compatibile con la Costituzione una normativa che cerchi  di
dare progressiva esecuzione alle disposizioni sui diritti, sulla base
delle risorse in concreto disponibili. 
    5.4.- Il giudice  rimettente  sostiene  altresi'  che  il  plesso
normativo in esame arrecherebbe un vulnus al diritto al  lavoro,  che
impone  che  ad  eguale  lavoro  corrisponda   eguale   retribuzione,
espressamente   considerato   un   diritto   dell'uomo   sul    piano
internazionale. 
    Per le ragioni gia' esposte la questione non e' fondata. 
    Deve essere, in merito, ribadito che la soglia individuata  attua
un contemperamento non irragionevole dei  principi  costituzionali  -
dei  quali  il  legislatore  e'  chiamato  a  garantire  una   tutela
sistemica, non frazionata - e non sacrifica in  maniera  indebita  il
diritto a  una  retribuzione  proporzionata  alla  quantita'  e  alla
qualita' del lavoro svolto, ne' compromette in  misura  arbitraria  e
sproporzionata il diritto al lavoro del dipendente  pubblico,  libero
di esplicarsi nelle forme  piu'  convenienti  (sentenza  n.  124  del
2017). 
    5.5.- La ragionevolezza delle misure contestate, gia'  dimostrata
in base alle argomentazioni svolte nei paragrafi che  precedono,  da'
conto altresi' della infondatezza della censura secondo la  quale  la
previsione di  un  limite  massimo  nelle  retribuzioni  del  settore
pubblico    sarebbe    intrinsecamente     irragionevole,     poiche'
l'applicazione  dell'istituto  del  "tetto  retributivo"   anche   ai
compensi dei giudici tributari, che ordinariamente svolgano attivita'
lavorativa subordinata presso una pubblica amministrazione, finirebbe
per    tradursi    nell'imposizione     unilaterale,     da     parte
dell'amministrazione  beneficiaria  dei   relativi   servizi,   della
progressiva gratuita' delle relative  prestazioni,  via  via  che  la
qualita' e quantita' delle stesse progredisca. 
    Non e', invero, precluso al legislatore dettare un limite massimo
alle retribuzioni, a condizione che la scelta, volta a  bilanciare  i
diversi valori coinvolti,  non  sia  manifestamente  irragionevole  e
rispetti requisiti rigorosi che salvaguardino l'idoneita' del  limite
fissato a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli
interessi  contrapposti,  atteso  che  il  fine   prioritario   della
razionalizzazione  della  spesa  deve  tener  conto   delle   risorse
concretamente disponibili senza svilire il  lavoro  prestato  da  chi
esprime professionalita' elevate (sentenze n. 124 del 2017 e  n.  241
del 2016). 
    5.6.- Il giudice rimettente rileva, inoltre,  che  la  previsione
sul limite retributivo massimo recherebbe pregiudizio al principio di
buon andamento della pubblica amministrazione. 
    La certezza della decurtazione automatica, in tutto o  in  parte,
del trattamento economico riferito all'attivita' svolta quale giudice
tributario  implicherebbe  effetti  disincentivanti  proprio  per   i
funzionari pubblici di maggiore esperienza e competenza  nel  settore
giurisdizionale. 
    La questione non e' fondata. 
    Il principio del buon andamento  della  pubblica  amministrazione
non puo' essere associato alle politiche di incrementi retributivi, i
quali  non  sono  legati  da  un  vincolo  funzionale  all'efficiente
organizzazione dell'amministrazione (sentenze n. 96 del 2016, n.  154
del 2014, n. 304 del 2013, n. 273 del  1997;  ordinanze  n.  263  del
2002, n. 368 del 1999 e n. 205 del 1998). 
    Non sussiste, infatti, un rapporto diretto di  causa  ed  effetto
tra la previsione della  limitazione  retributiva  e  la  dissuasione
dall'espletamento di attivita', la cui retribuzione comporterebbe  il
superamento del "tetto" massimo. 
    E quand'anche tale effetto dissuasivo si producesse, esso non  e'
automaticamente di  pregiudizio  al  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione, posto che l'efficienza della macchina amministrativa
non e' di per se' scalfita dal fatto che determinate  funzioni  siano
esercitate da personale che non gode del livello retributivo  massimo
consentito   ma   dispone   comunque   di   adeguata   competenza   e
professionalita'. 
    La  previsione  si  giustifica,  d'altronde,   in   ragione   del
contemperamento di interessi in conflitto e persegue  altresi',  come
gia' chiarito, l'obiettivo di promuovere  il  ricambio  generazionale
nel lavoro pubblico. 
    5.7.- Secondo il rimettente,  la  previsione  in  esame,  con  la
sottrazione della  «giusta  mercede»,  integrerebbe  un  prelievo  di
natura  tributaria  non  connesso  alla  capacita'   contributiva   e
imporrebbe una prestazione patrimoniale definitiva e occulta. 
    Neanche tali questioni sono fondate. 
    Al riguardo e'  sufficiente  rinviare  alle  argomentazioni  gia'
svolte al punto 5.2. 
    6.- Deve, in conclusione, essere  dichiarata  la  non  fondatezza
delle questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  23-ter,
comma 1, del d.l. n. 201 del  2011,  come  convertito,  dell'art.  1,
commi, 473 e 474, della legge n. 147 del 2013 e dell'art. 13 del d.l.
n. 66 del 2014, come convertito. 
    Resta fermo  che  il  legislatore,  in  un  quadro  di  politiche
economiche  e  sociali  in  perenne  evoluzione,   puo'   prefigurare
soluzioni diverse e modulare in senso  piu'  duttile  il  cumulo  tra
retribuzioni, anche in rapporto alle mutevoli esigenze  di  riassetto
complessivo della spesa, tenuto  conto  altresi'  del  mutamento  del
costo della vita, con una  valutazione  ponderata  degli  effetti  di
lungo periodo  della  disciplina  restrittiva  oggi  sottoposta  allo
scrutinio di questa Corte (sentenza n. 124 del 2017), come  avvenuto,
da ultimo, con l'art. 1, comma 68, della legge n. 234 del 2021. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.  201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il  consolidamento
dei conti pubblici), convertito, con modificazioni,  nella  legge  22
dicembre 2011, n. 214, dell'art. 1, commi 471, 473 e 474, della legge
27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e  pluriennale  dello  Stato  (Legge  di  stabilita'
2014)», e dell'art. 13  del  decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66
(Misure urgenti  per  la  competitivita'  e  la  giustizia  sociale),
convertito, con modificazioni, nella legge 23  giugno  2014,  n.  89,
sollevate, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 10, 23,  36,  53  e  97
della Costituzione, in relazione -  per  l'art.  10  -  all'art.  23,
secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti  dell'uomo,
adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il  10  dicembre
1948,  dal  Consiglio  di  Stato,  sezione  quinta,  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 1° dicembre 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA