N. 34 SENTENZA 11 gennaio - 17 febbraio 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Straniero - Politiche sociali - Reddito  di  inclusione  -  Requisiti
  richiesti anteriormente alla novella -  Possesso  del  permesso  di
  soggiorno  UE  per  soggiornanti  di  lungo  periodo  -  Denunciata
  irragionevolezza, violazione di diritto  individuale  essenziale  e
  del principio, anche convenzionale, di non  discriminazione  -  Non
  fondatezza delle questioni. 
- Decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147,  art.  3,  comma  1,
  lettera a), numero 1). 
- Costituzione, artt. 2, 3, 31, 38 e 117,  primo  comma;  Convenzione
  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle   liberta'
  fondamentali, art.14; Carta dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
  europea, artt. 20, 21, 33 e 34. 
(GU n.8 del 23-2-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giuliano AMATO; 
Giudici :Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO, Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni
  AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,  Angelo
  BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1,
lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017,  n.
147 (Disposizioni per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di
contrasto  alla  poverta'),  promosso  dal  Tribunale  ordinario   di
Bergamo, sezione lavoro, nel procedimento  vertente  tra  J.  C.C.  e
l'Istituto nazionale della previdenza sociale  (INPS)  e  altro,  con
ordinanza del 29 gennaio  2021,  iscritta  al  n.  113  del  registro
ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visti gli atti di costituzione di J. C.C.  e  dell'INPS,  nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udita nell'udienza  pubblica  dell'11  gennaio  2022  la  Giudice
relatrice Daria de Pretis; 
    uditi gli avvocati Alberto Guariso per J. C.C.,  Mauro  Sferrazza
per l'INPS e l'avvocato dello Stato Paolo Gentili per  il  Presidente
del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio dell'11 gennaio 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Bergamo,  sezione  lavoro,  solleva
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  3,  comma  1,
lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017,  n.
147 (Disposizioni per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di
contrasto alla poverta'), che, fra i diversi requisiti necessari  per
l'ottenimento del reddito di inclusione  (di  seguito,  anche:  ReI),
richiedeva agli stranieri il «possesso del permesso di  soggiorno  UE
per soggiornanti di lungo periodo», in riferimento agli artt.  2,  3,
31, 38, 117 della Costituzione,  nonche'  in  relazione  all'art.  14
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848,  e  agli
artt.  20,  21,  33  e  34  della  Carta  dei  diritti   fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000  e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    Il giudizio a  quo  e'  stato  promosso  da  J.  C.C.,  cittadina
boliviana, con ricorso proposto ai sensi  dell'art.  28  del  decreto
legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari  al
codice di procedura civile in materia di riduzione e  semplificazione
dei procedimenti civili di  cognizione,  ai  sensi  dell'articolo  54
della legge 18 giugno 2009, n. 69), contro il  Comune  di  Bergamo  e
l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS). 
    La ricorrente, soggiornante in Italia dal 2010, il 6  marzo  2018
aveva presentato al Comune domanda finalizzata ad ottenere il reddito
di inclusione. Tale domanda e' stata respinta per mancato  uso  delle
modalita' telematiche e per  il  mancato  possesso  del  permesso  di
soggiorno di lungo periodo.  La  ricorrente  riferiva  di  essere  in
possesso di tutti i requisiti previsti dal d.lgs. n. 147 del 2017 per
beneficiare del reddito di inclusione, ad eccezione del  permesso  di
soggiorno di lungo periodo, ed eccepiva in giudizio  l'illegittimita'
costituzionale in parte qua dell'art. 3 di tale decreto. 
    Il rimettente argomenta  l'ammissibilita'  dell'azione  proposta,
osservando che si tratta di azione contro la discriminazione e non di
azione in materia previdenziale: la domanda della ricorrente  «ha  ad
oggetto l'accertamento della discriminazione, la sua  cessazione,  la
rimozione degli effetti e, quale conseguenza  di  cio',  l'erogazione
della prestazione, [...] per cui correttamente e' stato  attivato  il
procedimento» di cui all'art. 28 del d.lgs.  n.  150  del  2011.  Non
osterebbe all'ammissibilita', poi,  il  fatto  che  il  Comune  abbia
applicato  una  norma  legislativa   «in   quanto   la   nozione   di
discriminazione accolta dalla normativa europea e dalla  legislazione
nazionale  e'  di  tipo   oggettivo   e   ha   riguardo   all'effetto
pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi,
atto, patto o comportamento, indipendentemente  dalla  motivazione  e
dall'intenzione di chi li pone in essere». 
    Il giudice a  quo  ritiene  dirimente,  per  la  soluzione  della
controversia, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
3, comma 1, lettera a), numero  1),  del  d.lgs.  n.  147  del  2017,
«vigente al momento della  richiesta  della  prestazione»,  la'  dove
richiede agli stranieri il permesso di soggiorno  di  lungo  periodo,
«escludendo gli stranieri in possesso di permesso  di  soggiorno  per
motivi di lavoro (o per altri motivi)». 
    Il rimettente si sofferma sull'applicabilita' della  disposizione
censurata nonostante la sua abrogazione a  decorrere  dal  1°  aprile
2019, ad opera dell'art. 11 del decreto-legge 28 gennaio 2019,  n.  4
(Disposizioni urgenti in materia di  reddito  di  cittadinanza  e  di
pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo  2019,
n. 26. Il giudice a quo  illustra  la  norma  transitoria,  contenuta
nell'art. 13 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, e osserva che i
requisiti del diritto a un  beneficio,  previsto  da  una  norma  poi
abrogata, vanno verificati con riferimento al momento della  domanda;
a tale proposito, menziona la sentenza  della  Corte  di  cassazione,
sezione prima, del 19  febbraio  2019,  n.  4890,  che  ha  affermato
analogo criterio per le domande  di  permesso  umanitario  presentate
prima dell'entrata in vigore del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113
(Disposizioni urgenti  in  materia  di  protezione  internazionale  e
immigrazione, sicurezza pubblica, nonche' misure per la funzionalita'
del Ministero dell'interno  e  l'organizzazione  e  il  funzionamento
dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e  la  destinazione  dei
beni  sequestrati  e  confiscati  alla   criminalita'   organizzata),
convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n.  132.
Precisa inoltre che l'abrogazione del reddito di inclusione da  parte
del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, non e'  stata  disposta  con
efficacia retroattiva, e che l'accoglimento del ricorso comporterebbe
il  riconoscimento  della  prestazione  "ora  per   allora",   ovvero
dall'aprile 2018 fino al 31 marzo 2019. 
    Sempre in punto di rilevanza, il giudice a  quo  rileva  che  non
sono in discussione  tutti  gli  altri  requisiti  per  l'accesso  al
beneficio, dal momento che  la  ricorrente  «risultava  residente  in
Italia, in via continuativa, da  almeno  due  anni»  e  sussistevano,
altresi', i requisiti  relativi  alla  condizione  economica  e  alla
composizione del nucleo familiare. Ne' rileverebbe il  fatto  che  la
domanda  sia   stata   presentata   in   forma   cartacea,   anziche'
telematicamente, «trattandosi solo di irregolarita' formale, peraltro
imputabile alla  strutturazione  del  sistema,  che  non  incide  sul
riconoscimento della prestazione, ove sussista il diritto». 
    Il rimettente ricorda che  il  reddito  di  inclusione  era  «una
misura a carattere universale, condizionata alla prova  dei  mezzi  e
all'adesione  a  un  progetto  personalizzato  di  attivazione  e  di
inclusione sociale e lavorativa finalizzato  all'affrancamento  dalla
condizione di poverta'» (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 147 del 2017)
e ne illustra i requisiti, sia  economici  sia  attinenti  al  nucleo
familiare. Secondo il giudice a quo, il reddito di inclusione e'  una
prestazione  essenziale,  volta  al  soddisfacimento   di   «"bisogni
primari" inerenti alla stessa sfera di tutela della  persona  umana»:
di fronte a tali prestazioni, qualsiasi discriminazione tra cittadini
e stranieri regolarmente soggiornanti si porrebbe  in  contrasto  con
l'art. 14 CEDU (vengono citate le sentenze n. 40 del 2013  e  n.  187
del 2010 di questa Corte).  Il  reddito  di  inclusione  sarebbe  una
prestazione essenziale perche' e'  finalizzato  all'affrancamento  da
una condizione di «vera e  propria  poverta'»  e  alla  garanzia  del
«diritto ad un'esistenza libera  e  dignitosa»,  nell'ottica  di  una
«lettura coordinata degli artt. 2,  3  e  38  Cost.».  Il  rimettente
ricorda che numerose norme costituzionali si pongono  l'obiettivo  di
contrastare la poverta' economica in quanto ostacolo al godimento dei
diritti fondamentali; inoltre, in base  all'art.  2,  comma  13,  del
d.lgs. n. 147 del 2017 il reddito di inclusione  costituiva  «livello
essenziale  delle  prestazioni  [...]  nel   limite   delle   risorse
disponibili nel Fondo Poverta'». 
    Lo Stato sarebbe soggetto a controllo giurisdizionale nel momento
in cui limita il godimento di prestazioni  essenziali  e  di  diritti
fondamentali; nel caso di specie, la norma censurata si  porrebbe  in
contrasto con gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 Cost., nonche'  con  l'art.
14 CEDU. 
    In ogni caso,  anche  qualora  il  reddito  di  inclusione  fosse
considerato «prestazione esterna al nucleo dei  bisogni  essenziali»,
la limitazione delle prestazioni sociali «deve pur sempre  rispondere
al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.» e tale principio puo'
ritenersi  rispettato  solo   qualora   «sussista   una   ragionevole
correlazione tra la  richiesta  e  le  situazioni  di  bisogno  o  di
disagio, in vista delle  quali  le  singole  prestazioni  sono  state
previste» (vengono citate le sentenze della Corte  costituzionale  n.
166 e n. 107 del 2018). Il giudice a quo rileva che la disciplina  in
questione gia' contemplava «il requisito  del  radicamento»,  essendo
necessario - per ottenere il beneficio - essere «residente in Italia,
in via continuativa, da almeno due anni al momento  di  presentazione
della domanda» (art. 3, comma 1, lettera a, numero 2, d.lgs.  n.  147
del 2017). L'esclusione degli stranieri sprovvisti  del  permesso  di
soggiorno di lungo periodo andrebbe «a penalizzare proprio  i  nuclei
familiari  piu'  bisognosi,   tradendo   l'intento   dichiarato   dal
legislatore». Infatti, molto spesso  gli  stranieri  non  riescono  a
ottenere il permesso in questione «in quanto titolari di  un  reddito
inferiore a quello (pur basso) prescritto a tal fine dall'art. 9 T.U.
immigrazione». 
    Il rimettente ritiene che per la  norma  censurata  varrebbero  a
fortiori le  argomentazioni  svolte  dall'ordinanza  della  Corte  di
cassazione, sezione lavoro, del 17 giugno 2019, n. 16164, con cui  e'
stata sollevata questione di legittimita' costituzionale in relazione
al  cosiddetto  bonus  bebe'.  Inoltre,   la   norma   censurata   si
discosterebbe dall'art. 42 (recte: 41)  del  decreto  legislativo  25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle  disposizioni  concernenti  la
disciplina  dell'immigrazione  e   norme   sulla   condizione   dello
straniero), che garantisce parita' di trattamento  -  in  materia  di
assistenza sociale - agli stranieri titolari di permesso di soggiorno
valido almeno un anno. 
    Dunque, l'art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del  d.lgs.  n.
147 del 2017 avrebbe introdotto, in violazione dell'art. 3 Cost., «un
elemento  di  distinzione  arbitrario,  nella  mancanza   di   alcuna
ragionevole correlazione tra la  residenza  protratta  per  il  tempo
necessario all'ottenimento del  permesso  di  lungo  soggiorno  e  la
situazione di disagio economico che il legislatore ha posto alla base
della provvidenza»; ne' si comprenderebbe perche' il legislatore  non
abbia «ritenuto sufficiente, quale elemento indicativo di uno stabile
radicamento sul territorio, il requisito della residenza continuativa
biennale, pretendendo il permesso di lungo  soggiorno».  Inoltre,  il
rimettente rileva che il reddito di inclusione sarebbe  un  beneficio
limitato nel  tempo,  nell'ottica  di  un  reinserimento  sociale,  e
diverso dall'assegno sociale, per il quale la sentenza n. 50 del 2019
di questa Corte ha fatto salvo il requisito del permesso di soggiorno
di lungo periodo. 
    In definitiva, la norma censurata si porrebbe in contrasto, oltre
che con l'art. 3 Cost., con gli artt. 20, 21, 33  e  34  CDFUE,  «che
enunciano il principio  di  uguaglianza  e  di  non  discriminazione,
garantiscono "la  protezione  della  famiglia  sul  piano  giuridico,
economico e sociale"  (art.  33,  1°  comma,  CDFUE)  e  "il  diritto
all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa  [...]"  (art.  34,
comma 3, CDFUE)». 
    Il giudice a quo precisa poi che  la  prestazione  in  esame  non
ricadrebbe nell'ambito di operativita' della direttiva  (UE)  2011/98
del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, relativa
a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico
che consente ai cittadini di paesi terzi di  soggiornare  e  lavorare
nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune  di  diritti
per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente  in  uno
Stato membro, «non rientrando nell'elenco dei rischi di cui  all'art.
3 del Regolamento n. 883/04»: infatti, il reddito di  inclusione  non
avrebbe la finalita' di «compensare i carichi familiari,  poiche'  il
suo riconoscimento non e'  subordinato  alla  sussistenza  di  nucleo
familiare numericamente consistente, ma alla situazione  di  poverta'
del nucleo familiare, che puo' essere semplicemente composto anche da
solo due persone». In ogni caso, aggiunge il rimettente, se anche  la
direttiva 2011/98/UE fosse  applicabile,  «cio'  non  impedirebbe  un
vaglio di legittimita' della disposizione  per  le  motivazioni  gia'
esposte dalla Corte di cassazione  con  la  richiamata  ordinanza  n.
16164/19, che si intendono qui richiamate». 
    2.- Il 6 settembre 2021 si e' costituito davanti a  questa  Corte
l'INPS, convenuto nel giudizio a quo. 
    In primo  luogo,  la  parte  eccepisce  l'inammissibilita'  delle
questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza,  in  quanto  il
rimettente, omettendo di dar conto di  quanto  statuito  dalla  norma
transitoria di  cui  all'art.  13  del  d.l.  n.  4  del  2019,  come
convertito, non avrebbe colmato le lacune rilevate dalla sentenza  n.
146 del 2020 di questa Corte. 
    Ancora, la questione sarebbe inammissibile perche' il  rimettente
- in assenza  di  pronunce  della  Cassazione  -  avrebbe  omesso  di
sperimentare  una   possibile   interpretazione   adeguatrice   della
disposizione censurata. 
    Sarebbero  inoltre  «[d]el   tutto   generici»   i   profili   di
illegittimita' costituzionale riferiti all'art. 14 CEDU e agli  artt.
20, 21, 33 e 34 CDFUE. 
    Venendo alla non manifesta infondatezza, la  parte  riepiloga  la
normativa dettata in materia e osserva che il reddito  di  inclusione
non  potrebbe  essere  considerato,  ne'  un   «mero   sussidio   per
l'affrancamento dalla poverta'», ne' «una prestazione che afferisce a
bisogni  primari  ed  essenziali  della  persona».  Il   reddito   di
inclusione non sarebbe solo un beneficio economico ma «un piu'  ampio
progetto personalizzato [...] volto a "traghettare" verso l'autonomia
chi e' in condizioni  di  poverta'».  Non  sarebbe  una  «prestazione
meramente assistenziale e  generalizzata»,  poiche'  esso  non  viene
corrisposto «ove il nucleo familiare non sottoscriva  e  persegua  il
"progetto  personalizzato"».  La  realizzazione  di   tale   progetto
comporterebbe «una giustificata  e  necessaria  correlazione  tra  la
prestazione ed un maggiore e piu' intenso  radicamento  del  soggetto
nel territorio dello Stato italiano tale da  rendere  ragionevole  la
previsione del requisito del possesso del permesso  di  soggiorno  di
lungo periodo»: invero, la realizzazione del progetto potrebbe essere
«vanificata e/o non  perseguibile  ove  fosse  sufficiente,  ai  fini
dell'accesso al ReI, un permesso lavorativo di piu' breve periodo». 
    Il ReI sarebbe una prestazione diretta a superare  le  criticita'
in cui e' incorso il nucleo familiare gia' radicato  stabilmente  nel
territorio italiano, non a creare il radicamento sociale  dei  nuclei
non integrati. Esso non  sarebbe  una  prestazione  essenziale  e  si
distinguerebbe dalle provvidenze oggetto  delle  sentenze  di  questa
Corte n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010, attinenti ai bisogni  primari
della persona. 
    Il rimettente osserva che il reddito di inclusione si porrebbe al
di fuori dei  settori  di  sicurezza  sociale  tutelati  dal  diritto
europeo e richiama la direttiva 2003/109/CE  del  Consiglio,  del  25
novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi  che
siano  soggiornanti  di  lungo  periodo,  la  quale  limiterebbe   al
soggiornante di lungo periodo il diritto alla parita' di  trattamento
riguardo alle prestazioni sociali. 
    L'INPS richiama la sentenza n. 50 del 2019 di questa  Corte  (che
ha fatto salvo  il  requisito  del  permesso  di  lungo  periodo  per
l'assegno sociale) e osserva che l'uguaglianza tra cittadini italiani
(ed europei) e stranieri andrebbe garantita solo per  le  prestazioni
finalizzate al soddisfacimento di un bisogno primario dell'individuo,
«che si configura come diritto inviolabile». Al di  fuori  di  questi
casi, il legislatore potrebbe richiedere agli stranieri un titolo  di
soggiorno che  attesti  «un'attiva  partecipazione  [...]  alla  vita
sociale ed allo  sviluppo/progresso  del  Paese».  Le  considerazioni
espresse nella citata sentenza n. 50 del 2019 sarebbero estendibili a
tutte le prestazioni «che non sono  poste  a  garanzia  della  stessa
sopravvivenza», che potrebbero essere limitate a quegli stranieri che
hanno  contribuito  al   «progresso   morale   e   materiale»   della
collettivita'. 
    Il  reddito  di  inclusione   non   ricadrebbe   nell'ambito   di
applicazione della direttiva 2011/98/UE, non rientrando  nei  settori
di sicurezza sociale di cui  al  regolamento  (CE)  n.  883/2004  del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004,  relativo  al
coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, e cio'  implicherebbe
«la  discrezionalita'  dello   Stato   membro   di   disciplinare   e
condizionare il riconoscimento della misura di politica attiva  [...]
in  considerazione  della  peculiare  finalita'   della   prestazione
all'esame». La questione riferita all'art. 34  CDFUE  sarebbe  dunque
del  tutto  infondata,  dato   che   la   Carta   si   applica   solo
nell'attuazione del diritto europeo (art. 51 CDFUE). La  materia  del
contrasto alla poverta' rientrerebbe  nella  competenza  degli  Stati
membri. 
    Il requisito del permesso di lungo periodo si  raccorderebbe  con
la previsione dell'art.  9  t.u.  immigrazione,  in  connessione  con
l'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000,  n.  388,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (legge finanziaria 2001)». 
    3.- Il 14 settembre 2021 si e' costituita davanti a questa  Corte
J. C.C., ricorrente nel giudizio a quo. 
    La parte osserva,  in  primo  luogo,  che,  data  la  motivazione
dell'ordinanza di rimessione, le  ragioni  che  hanno  condotto  alla
sentenza di questa Corte n. 146 del 2020 sarebbero ora venute meno. 
    Nel merito,  espone  che  i  profili  rilevanti,  quali  emergono
dall'ordinanza di rimessione, sono due: a) la prestazione tutelerebbe
la dignita' della persona e, dunque,  non  sarebbe  «suscettibile  di
limitazioni afferenti  lo  status  civitatis»;  b)  il  requisito  in
questione (permesso di soggiorno di lungo periodo) non  risponderebbe
al   criterio   di   «ragionevole   correlabilita'»   di   cui   alla
giurisprudenza costituzionale. 
    Sotto il primo profilo,  la  parte  ricorda  alcune  pronunce  di
accoglimento  di  questa   Corte   relative   alle   prestazioni   di
invalidita', che si sono fondate su diversi parametri, che  sarebbero
pertinenti anche nel caso in esame.  Infatti,  anche  il  bisogno  di
emanciparsi «da una condizione di poverta' assoluta» e di «avviamento
all'inserimento  sociale»  sarebbe  riconducibile  alla  ratio  delle
sentenze menzionate e  avrebbe  copertura  costituzionale.  La  parte
rammenta che la legge 15 marzo 2017,  n.  33  (Delega  recante  norme
relative al contrasto della poverta', al riordino delle prestazioni e
al sistema degli interventi e  dei  servizi  sociali),  definisce  il
reddito di  inclusione  come  livello  essenziale  delle  prestazioni
sociali,  da  garantire  in  tutto  il  territorio  nazionale,   «con
l'ampiezza garantita dal principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.», e
rileva che la soglia  economica  fissata  dalla  norma  censurata  e'
«ampiamente inferiore a quella utilizzata dall'ISTAT per definire  le
famiglie in condizioni di poverta' assoluta».  Sarebbe  evidente  che
«l'uscita da una condizione di poverta' assoluta appartiene al nucleo
dei bisogni primari ed  essenziali  della  persona».  Il  diritto  ad
un'esistenza libera e dignitosa dovrebbe essere  tutelato  in  quanto
tale, al di la' del "canale" di cui all'art. 36 Cost. e dei  casi  di
inabilita' al lavoro ex art. 38 Cost. Anche l'art. 34,  paragrafo  3,
CDFUE parlerebbe di «esistenza dignitosa» senza fare  riferimento  al
lavoro. 
    Con riferimento ai bisogni primari, nessuna limitazione  potrebbe
essere opposta con riferimento a  condizioni  personali  estranee  al
bisogno: men che meno potrebbero essere esclusi gli stranieri ratione
census (cioe'  per  non  aver  raggiunto  il  reddito  necessario  ad
ottenere il permesso di lungo periodo) o ratione temporis (cioe'  per
non  aver  maturato  la  residenza  quinquennale  necessaria  per  il
permesso in questione). 
    La parte fornisce un esempio per dimostrare  che  il  reddito  di
inclusione e' destinato a persone prive  di  reddito  o  comunque  in
condizione di poverta' assoluta e  precisa  di  essere  residente  in
Italia dal 2010, con un figlio a carico e titolare di permesso  unico
di lavoro e (al momento della domanda) di  un  ISEE  di  4.707  euro:
percio', pur essendo destinata a restare in Italia  per  molti  anni,
non potra' mai accedere al ReI ne' al reddito  di  cittadinanza,  non
avendo entrate  sufficienti  per  conseguire  il  permesso  di  lungo
periodo. 
    Sotto il secondo profilo, la parte evidenzia il «circolo vizioso»
tra un titolo di soggiorno (permesso di lungo periodo)  che  richiede
due requisiti reddituali minimi (reddito pari all'assegno  sociale  e
alloggio idoneo) e una prestazione  destinata  ai  casi  di  poverta'
assoluta. Anche a tale proposito la parte richiama la  giurisprudenza
costituzionale relativa alle prestazioni di  invalidita',  osservando
che non ci sarebbe differenza tra la condizione di sofferenza causata
da invalidita' e quella derivante da altre cause. 
    La parte poi rileva che gli argomenti della sentenza  n.  50  del
2019 di questa Corte non sarebbero applicabili al ReI in  quanto  una
prestazione  volta  all'inclusione  sociale   non   potrebbe   essere
condizionata a un permesso che richiede un inserimento gia' avvenuto.
Inoltre,  il  reddito  di  inclusione  ha  durata  limitata,   mentre
l'assegno sociale e' a tempo indeterminato.  Il  ReI  e'  subordinato
alla partecipazione ad un processo di inclusione: dunque, la garanzia
del radicamento territoriale atterrebbe al futuro della  prestazione,
mentre l'assegno sociale non e' soggetto ad alcuna condizionalita'. 
    Ancora, un'ulteriore illogicita' deriverebbe dal fatto che,  piu'
alto e' il numero dei figli, piu' difficile e' conseguire il permesso
di soggiorno che consente l'accesso al  ReI  (in  quanto  aumenta  il
reddito  necessario  ad  ottenere  il  permesso  di  lungo  periodo).
Inoltre, la residenza biennale (richiesta a tutti) gia'  garantirebbe
una certa stabilita' sul territorio. 
    In definitiva, il requisito del permesso di lungo periodo sarebbe
irragionevole,  non  proporzionato  e   discriminatorio   verso   gli
stranieri. La parte osserva anche che in tutti gli Stati  europei  le
misure di contrasto alla poverta' sono  prestazioni  condizionali  ma
che in nessuno Stato esse sono subordinate a un titolo  di  soggiorno
che manifesti gia' tale inclusione. 
    4.- Il 14 settembre 2021 e' intervenuto in giudizio il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato. 
    In primo luogo, l'Avvocatura eccepisce  l'inammissibilita'  della
questione perche' il rimettente chiederebbe «una  sentenza  additiva,
che modifichi la norma denunciata». Il giudice a quo  proporrebbe  di
abolire per gli stranieri il requisito del permesso di lungo periodo,
«reputando per tali soggetti sufficiente il requisito della residenza
continuativa in Italia da  almeno  due  anni».  Senonche',  una  cosa
sarebbero  i  requisiti  di  residenza,  un'altra  i   requisiti   di
soggiorno, che sarebbero richiesti anche  per  i  cittadini  europei,
dovendo questi possedere «il diritto di soggiorno  o  il  diritto  di
soggiorno permanente». La difesa erariale  rileva  che,  in  base  al
diritto europeo (art.  11  della  direttiva  2003/109/CE),  l'accesso
degli stranieri alle prestazioni sociali e' limitato ai  soggiornanti
di  lungo  periodo,  salvo  l'ampliamento  previsto  dalla  direttiva
2011/98/UE in relazione a determinati settori di  sicurezza  sociale.
Dunque, la norma censurata avrebbe optato per «la sola  possibilita'»
a disposizione del legislatore nazionale. In base alla  proposta  del
rimettente, il reddito di inclusione dovrebbe  essere  concesso  agli
stranieri sulla base  della  sola  residenza  biennale  continuativa,
mentre per i cittadini europei cio'  non  sarebbe  sufficiente:  cio'
determinerebbe  uno   «stravolgimento   dell'impianto   della   norma
denunciata,   che   verrebbe   trasformata    in    una    disciplina
sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata;  e  anzi
costituzionalmente vietata dall'art. 117 c. 1 Cost., nella misura  in
cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell'Unione
e a vantaggio dei cittadini di paesi terzi». Poiche' quella  proposta
dal  giudice  a  quo  non  e'  l'unica  soluzione  configurabile   in
alternativa a quella censurata, la  questione  sarebbe  inammissibile
per invasione della discrezionalita' legislativa. 
    Inoltre, secondo l'Avvocatura la  motivazione  dell'ordinanza  di
rimessione non sarebbe idonea a superare l'inammissibilita' accertata
dalla sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte. 
    Ancora, la  motivazione  sulla  rilevanza  sarebbe  insufficiente
perche' il rimettente  non  specifica  il  titolo  che  legittima  il
soggiorno in Italia della ricorrente. 
    In relazione alla non manifesta infondatezza, l'Avvocatura rileva
che il reddito di inclusione sarebbe diverso dalle altre  prestazioni
assistenziali in relazione alle  quali  questa  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 80, comma 19,  della  legge
n. 388 del 2000: in quei casi  «si  trattava  del  riconoscimento  di
benefici attinenti ai bisogni primari e vitali della persona». 
    Il permesso di lungo periodo offrirebbe la prova del  radicamento
dello straniero nell'ordinamento italiano, in mancanza del quale  non
potrebbe  «parlarsi  di  una  situazione  di  poverta'   che   spetti
all'ordinamento  italiano  soccorrere,  ne'  vi  e'   la   base   per
predisporre e attuare  nel  tempo  il  progetto  personalizzato».  Il
reddito di inclusione presupporrebbe un radicamento  gia'  esistente,
non sarebbe lo strumento per  crearlo.  La  norma  censurata  sarebbe
anche volta a scoraggiare il cosiddetto  "turismo  assistenziale".  A
sostegno dell'infondatezza, l'Avvocatura invoca la citata sentenza n.
50 del 2019,  riguardante  l'assegno  sociale.  Inoltre,  proprio  le
sentenze di questa Corte che  hanno  esteso  a  tutti  gli  stranieri
regolari, a  prescindere  dal  permesso  di  lungo  periodo,  diverse
prestazioni  assistenziali  condurrebbero  ancor  piu'   a   ritenere
ragionevole  la  richiesta  di  tale  permesso  per  il  reddito   di
inclusione,   trattandosi    di    un    diritto    «finanziariamente
condizionato», che impone un bilanciamento tra diritti individuali ed
esigenze finanziarie. Dunque, l'art. 3 Cost. non sarebbe violato. 
    L'Avvocatura nega poi  che  sia  violato  l'art.  31  Cost.,  che
contemplerebbe una tutela della famiglia «ma sempre nei limiti  delle
compatibilita' finanziarie e sul presupposto che si tratti non  della
famiglia  "in  astratto",  bensi'   della   famiglia   specificamente
riferibile  alla  societa'  italiana».  Inoltre,  l'art.   31   Cost.
lascerebbe discrezionalita' al legislatore e non lo costringerebbe  a
prevedere  proprio  il  reddito  di  inclusione  e  a  individuare  i
requisiti auspicati dal rimettente. 
    Ancora, la difesa erariale nega che il reddito di inclusione  sia
una  «prestazione  essenziale»:  esso  mirerebbe  a  contrastare  una
situazione di poverta', «per quanto difficile,  comunque  compatibile
con lo svolgimento di attivita' lavorativa». 
    Sarebbe infondata anche la questione riferita all'art. 117, primo
comma, Cost., «per il tramite del principio di non discriminazione di
cui agli artt. 20 e 21» CDFUE. La scelta di limitare  la  prestazione
de qua ai soli stranieri lungosoggiornanti sarebbe in  linea  con  il
diritto europeo, in particolare con la direttiva 2003/109/CE. 
    Infine, sarebbe insussistente la violazione dell'art.  34  CDFUE.
Tale  disposizione  non  si  applicherebbe  perche'  la  materia  del
«contrasto alla poverta'» sarebbe di competenza degli  Stati  membri.
Comunque, come gia' detto per l'art. 31 Cost., l'art.  34  CDFUE  non
costringerebbe il legislatore  a  prevedere  proprio  il  reddito  di
inclusione ne' a individuare i requisiti auspicati dal rimettente. 
    5.-  Il  20  dicembre  2021  l'INPS  ha  depositato  una  memoria
integrativa, ribadendo gli argomenti gia' svolti. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Nel giudizio iscritto al  reg.  ord.  n.  113  del  2021,  il
Tribunale  ordinario  di  Bergamo,  sezione  lavoro,   dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera a),  numero
1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n.  147  (Disposizioni
per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di  contrasto   alla
poverta'), che, fra i diversi requisiti necessari  per  l'ottenimento
del reddito di inclusione (di seguito, anche  ReI),  richiedeva  agli
stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per  soggiornanti
di lungo periodo». 
    Il rimettente divide le questioni sollevate  in  due  gruppi,  il
secondo dei quali ha carattere subordinato. 
    In primo luogo, il giudice a quo ritiene che la  norma  censurata
violi gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonche'  l'art.
14 della Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e
delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in
quanto il reddito di inclusione sarebbe una  prestazione  essenziale,
diretta a soddisfare «"bisogni primari" inerenti alla stessa sfera di
tutela  della  persona  umana».  In  relazione  a  questo   tipo   di
prestazioni, qualsiasi  discriminazione  tra  cittadini  e  stranieri
regolarmente soggiornanti sarebbe costituzionalmente illegittima. 
    In secondo luogo, il rimettente osserva  che,  anche  qualora  il
reddito di  inclusione  fosse  considerato  «prestazione  esterna  al
nucleo dei  bisogni  essenziali»,  non  vi  sarebbe  una  ragionevole
correlazione tra il requisito richiesto e le situazioni di bisogno  a
rimedio delle quali la prestazione e' prevista, considerato anche che
la  disciplina  in  questione  gia'  contemplava  «il  requisito  del
radicamento», essendo necessario - per ottenere il beneficio - essere
«residente in Italia, in via continuativa,  da  almeno  due  anni  al
momento di presentazione della domanda» (art. 3, comma 1, lettera  a,
numero 2, del d.lgs. n. 147 del 2017); di qui la asserita  violazione
degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.,  quest'ultimo  in  relazione
agli artt. 20, 21, 33 e  34  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000  e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    2.- Le medesime questioni  di  legittimita'  costituzionale  sono
state gia'  sollevate  dallo  stesso  giudice  a  quo,  nel  medesimo
giudizio, e sono state dichiarate inammissibili da questa  Corte  con
la sentenza n.  146  del  2020,  per  difetto  di  motivazione  sulla
rilevanza,  in   quanto   il   rimettente   non   aveva   argomentato
sull'applicabilita'  della  norma  censurata,   nonostante   la   sua
abrogazione disposta, a decorrere dal 1° aprile  2019,  dall'art.  11
del decreto-legge 28 gennaio 2019,  n.  4  (Disposizioni  urgenti  in
materia di reddito di cittadinanza e di  pensioni),  convertito,  con
modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26. 
    Sia l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), sia  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  hanno  nuovamente  eccepito
l'inammissibilita' delle questioni per difetto di  motivazione  sulla
rilevanza, in quanto il rimettente  non  avrebbe  colmato  le  lacune
rilevate dalla sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Nell'ordinanza ora in esame il Tribunale di Bergamo dedica  ampio
spazio a motivare l'applicabilita' della norma censurata nel giudizio
a quo: dando puntualmente atto dell'abrogazione operata dal d.l. n. 4
del  2019,  come  convertito,  illustrando  la  portata  della  norma
transitoria  di  cui  all'art.  13  del  medesimo   decreto-legge   e
argomentando sulla sua irretroattivita'. Il  rimettente  si  sofferma
inoltre sulla necessita' di valutare la domanda presentata  nel  2018
in base alle norme vigenti all'epoca, al fine  di  un  riconoscimento
giudiziale del reddito di inclusione "ora per allora", e richiama  la
sentenza della Corte di cassazione,  sezione  prima  civile,  del  19
febbraio 2019, n. 4890, riguardante le domande di permesso umanitario
presentate  prima  del  decreto-legge  4   ottobre   2018,   n.   113
(Disposizioni urgenti  in  materia  di  protezione  internazionale  e
immigrazione, sicurezza pubblica, nonche' misure per la funzionalita'
del Ministero dell'interno  e  l'organizzazione  e  il  funzionamento
dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e  la  destinazione  dei
beni  sequestrati  e  confiscati  alla   criminalita'   organizzata),
convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132. 
    Mentre dunque nella precedente ordinanza il Tribunale di  Bergamo
aveva omesso di dare conto dell'intervenuta abrogazione  della  norma
censurata, cosi' come di indicare le  ragioni  che  lo  inducevano  a
ritenerla nondimeno applicabile, e non aveva preso in  considerazione
la norma transitoria di cui all'art. 13 del d.l. n. 4 del 2019,  come
convertito, nella nuova  ordinanza  il  medesimo  rimettente  si  da'
carico di ricostruire in maniera  adeguata  il  quadro  normativo  di
riferimento e offre elementi a sostegno delle sue  conclusioni  circa
la  necessita'  di  applicare  la  norma  censurata,  ancorche'   nel
frattempo non piu' operante. 
    Gli argomenti offerti  nell'ordinanza  in  esame  forniscono  una
motivazione adeguata e plausibile sulla  rilevanza  della  questione,
considerato anche il fatto che,  sul  tema,  questa  Corte  opera  un
controllo "esterno" sulla valutazione del giudice a quo  (ex  multis,
sentenze n. 19 del 2022, n. 236 e n. 183 del 2021, n. 44 del  2020  e
n. 128 del 2019). 
    3.- L'INPS e l'Avvocatura  sollevano  anche  altre  eccezioni  di
inammissibilita'. 
    3.1.- Secondo l'INPS,  la  motivazione  sulla  rilevanza  sarebbe
carente  perche'  il  rimettente  non   avrebbe   argomentato   sulla
«possibilita' di interpretare la norma in maniera  costituzionalmente
orientata».  La  parte  non  indica  quale   sarebbe   la   possibile
interpretazione conforme a Costituzione. Interpretazione che peraltro
pare preclusa dal tenore letterale  della  disposizione,  che  limita
chiaramente il beneficio ai soli stranieri titolari del  permesso  di
lungo periodo, con la conseguenza che deve  trovare  applicazione  il
«principio - ripetutamente affermato da questa  Corte  -  secondo  il
quale l'onere di interpretazione conforme viene  meno,  lasciando  il
passo  all'incidente  di  costituzionalita',  allorche'   il   tenore
letterale  della  disposizione  non  consenta  tale  interpretazione»
(sentenza n. 221 del 2019; piu' di recente, sentenza n. 19 del  2022,
riguardante l'analoga questione sollevata in relazione al reddito  di
cittadinanza). 
    Pertanto, nemmeno tale eccezione e' fondata. 
    3.2.- Inoltre, per l'INPS  sarebbero  «[d]el  tutto  generici»  i
profili di illegittimita' costituzionale riferiti all'art. 14 CEDU  e
agli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE. 
    L'eccezione non e' fondata con riferimento all'art. 14  CEDU.  Il
rimettente cita le sentenze n. 187 del 2010  e  n.  40  del  2013  di
questa  Corte,  che   hanno   accolto   questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate, in riferimento all'art. 14 CEDU,  sull'art.
80,  comma  19,  della  legge  23  dicembre  2000,  n.  388,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (legge finanziaria 2001)», nella parte in cui tale  norma
subordinava al requisito della carta di soggiorno la concessione agli
stranieri di determinati benefici. Inoltre, l'ordinanza  menziona  la
decisione della Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,  5  settembre
2005, Stec e altri contro  Regno  Unito,  riguardante  una  lamentata
violazione dell'art. 14 CEDU in relazione a certe  provvidenze.  Cio'
consente di ritenere sufficiente, ancorche' sintetica, la motivazione
sulla non manifesta infondatezza di tale questione. 
    L'eccezione e' invece fondata con riferimento agli artt. 20,  21,
33 e 34 CDFUE, che sono semplicemente menzionati e  sintetizzati  dal
rimettente, senza alcun argomento sulla loro pertinenza  al  caso  di
specie,  ne'  sulla  loro  assunta  violazione.  In  particolare,  il
rimettente non illustra il presupposto di applicabilita' della CDFUE,
cioe'  la  circostanza  che  le  norme  sul  reddito  di   inclusione
rappresentino «attuazione del diritto dell'Unione» ai sensi dell'art.
51  CDFUE,  cio'  che  e'  sufficiente  a  determinare  la  manifesta
inammissibilita' di tutte le censure basate sulla Carta  (da  ultimo,
sentenze n. 19 del 2022, n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021 e n. 278  del
2020). 
    Vanno  pertanto  dichiarate  manifestamente  inammissibili,   per
insufficiente  motivazione  sulla  non  manifesta  infondatezza,   le
questioni sollevate per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.,
in relazione agli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE. 
    3.3.-  Va  dichiarata  manifestamente  inammissibile   anche   la
questione ex art. 31  Cost.,  poiche'  tale  parametro  e'  meramente
menzionato e il rimettente si limita a  sintetizzarne  il  contenuto,
senza spendere argomenti per illustrare la sua  violazione  da  parte
della norma censurata. 
    3.4.-  L'Avvocatura  eccepisce   poi   l'inammissibilita'   delle
questioni perche' il rimettente proporrebbe «una  sentenza  additiva,
che modifichi la norma denunciata»  in  modo  non  costituzionalmente
obbligato, con invasione della discrezionalita' legislativa. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il giudice a quo contesta l'art. 3, comma 1, lettera  a),  numero
1), del d.lgs. n. 147 del 2017  «nella  parte  in  cui  prevede,  per
l'accesso  al  ReI  (reddito  di  inclusione),  che  i  cittadini  di
nazionalita' extra UE debbano  essere  titolari  di  un  permesso  di
soggiorno di lungo periodo, escludendo gli stranieri in  possesso  di
permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi)».  Il
petitum formulato dal rimettente non e' manipolativo, ma parzialmente
ablativo: viene semplicemente chiesta  l'eliminazione  del  requisito
del permesso di  lungo  periodo,  cui  conseguirebbe  il  venir  meno
dell'esclusione degli altri stranieri  regolarmente  soggiornanti  in
Italia. A questa Corte non e' richiesto dunque di  introdurre  alcuna
nuova norma, con la conseguenza che il tema delle "rime obbligate" e'
impropriamente introdotto in questo contesto, cosi' come e' improprio
affermare che il giudice a quo  avrebbe  invaso  la  discrezionalita'
legislativa (in senso simile, sentenze n. 126 del 2021 e n.  166  del
2018). 
    3.5.- Infine, secondo l'Avvocatura la motivazione sulla rilevanza
sarebbe insufficiente perche' il rimettente non specifica  il  titolo
che legittima il soggiorno in Italia della ricorrente. 
    In  effetti,  l'ordinanza  non   fornisce   questa   informazione
(dall'atto di costituzione di J. C.C. risulta che la  ricorrente  era
titolare di permesso unico di lavoro), ma la lacuna non  comporta  un
difetto  di  motivazione,  perche'  il   giudice   a   quo   contesta
l'esclusione degli stranieri «in possesso di  permesso  di  soggiorno
per motivi di lavoro (o  per  altri  motivi)»,  cioe'  di  tutti  gli
stranieri regolari e non degli stranieri titolari  di  uno  specifico
permesso. 
    Nemmeno tale eccezione e' dunque fondata. 
    4.- Superate le eccezioni preliminari, e'  possibile  passare  al
merito. 
    Le questioni sollevate in via  principale,  in  riferimento  agli
artt. 2, 3 e 38 Cost., non sono fondate. 
    Devono essere richiamate qui le  conclusioni  alle  quali  questa
Corte e' pervenuta nella recente sentenza n. 19  del  2022,  con  cui
sono state dichiarate non fondate questioni analoghe, sollevate dallo
stesso odierno rimettente in riferimento al reddito di  cittadinanza,
cioe'  all'istituto  che  nel  2019  ha  sostituito  il  reddito   di
inclusione qui in esame. 
    Sulla scia di alcuni precedenti (sentenze n. 137, n. 126 e  n.  7
del 2021), questa Corte ha osservato in particolare che  «il  reddito
di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di
contrasto  alla  poverta',  non  si  risolve   in   una   provvidenza
assistenziale   diretta   a   soddisfare    un    bisogno    primario
dell'individuo, ma persegue diversi e piu'  articolati  obiettivi  di
politica attiva del lavoro e di integrazione  sociale»,  e  che  «[a]
tale  sua  prevalente  connotazione  si  collegano  coerentemente  la
temporaneita' della prestazione  e  il  suo  carattere  condizionale,
cioe' la necessita' che ad essa si accompagnino precisi  impegni  dei
destinatari»,  il  cui  inadempimento  implica   la   decadenza   dal
beneficio. 
    Nonostante le differenze che il reddito  di  inclusione  presenta
rispetto al reddito di cittadinanza - il quale in effetti si  connota
per una  piu'  spiccata  finalizzazione  all'inserimento  lavorativo,
oltre che per un maggior peso degli impegni in capo ai beneficiari  e
una piu' alta soglia economica d'accesso - i due  istituti  hanno  in
comune le caratteristiche  che  questa  Corte  ha  valorizzato  nella
sentenza n. 19 del 2022 per  pervenire  alla  conclusione  della  non
fondatezza delle questioni che le erano state sottoposte. 
    La medesima conclusione raggiunta deve essere confermata, per  le
stesse ragioni, in relazione al (precedente) istituto del reddito  di
inclusione. 
    Al di la' della sua definizione «quale  misura  unica  a  livello
nazionale di contrasto alla poverta' e all'esclusione sociale»  (art.
2, comma 1), e' innanzitutto decisiva, per qualificarne la natura, la
prevista necessaria adesione del nucleo familiare beneficiario «a  un
progetto personalizzato di attivazione  e  di  inclusione  sociale  e
lavorativa» (art. 2, comma 2). Parimenti, il contenuto  della  misura
non si  esauriva  in  un  beneficio  economico,  perche'  con  questo
concorreva una componente di servizi alla persona identificata  nello
stesso progetto personalizzato,  in  esito  ad  una  valutazione  del
bisogno del nucleo  familiare  (art.  2,  comma  3).  Tale  progetto,
destinato a essere sottoscritto dai componenti il  nucleo  familiare,
doveva individuare, «sulla base dei fabbisogni del  nucleo  familiare
come emersi nell'ambito della valutazione multidimensionale:  a)  gli
obiettivi  generali  e  i  risultati  specifici  che   si   intendono
raggiungere in un percorso volto al superamento della  condizione  di
poverta', all'inserimento o reinserimento lavorativo e all'inclusione
sociale; b) i sostegni, in termini di specifici interventi e servizi,
di cui il nucleo necessita, oltre al beneficio economico connesso  al
ReI; c) gli  impegni  a  svolgere  specifiche  attivita',  a  cui  il
beneficio economico e`  condizionato,  da  parte  dei  componenti  il
nucleo familiare» (art. 6, comma 2).  Servizi  e  impegni  erano  poi
definiti nell'art. 6, commi 4 e 5. 
    Ancora, era previsto che,  in  caso  di  mancato  rispetto  degli
impegni da parte dei beneficiari, si sarebbero applicate le  sanzioni
di cui all'art. 12 (art. 2, comma 9) e che  la  durata  del  progetto
potesse eccedere la durata del beneficio economico (art. 6, comma 7). 
    Alla luce delle gia' richiamate conclusioni della citata sentenza
n. 19 del 2022, questa Corte deve dunque dichiarare  non  fondate  le
questioni sollevate in via principale, in riferimento agli artt. 2, 3
e 38 Cost., non senza sottolineare nuovamente che  «[l]a  conclusione
di non fondatezza cosi' raggiunta non esclude che resta compito della
Repubblica, in attuazione dei principi  costituzionali  di  cui  agli
artt. 2, 3 e  38,  primo  comma,  Cost.,  garantire,  apprestando  le
necessarie misure, il diritto di ogni individuo  alla  "sopravvivenza
dignitosa" e al "minimo vitale" (sentenza n. 137 del 2021)». 
    5.- Non e' fondata neppure la questione sollevata per  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., in  relazione  all'art.  14  CEDU.
Anche in questo caso, si possono riproporre  le  considerazioni  gia'
svolte nella sentenza  n.  19  del  2022  in  merito  al  reddito  di
cittadinanza. 
    5.1.- Il parametro interposto e' invocato in modo pertinente. 
    L'art.  14  CEDU  costituisce  completamento  di  altre  clausole
normative della Convenzione e  dei  suoi  Protocolli  e  puo'  essere
invocato solo in collegamento con una di esse  (ex  multis,  sentenze
della Corte EDU, 6 luglio 2021, A.M. e altri contro Russia, paragrafo
64; 8 aprile 2014, Dhahbi contro Italia, paragrafo 39). 
    Il rimettente non indica espressamente la disposizione della CEDU
cui l'art. 14 si collega nel caso di specie, ma implicitamente invoca
l'art. 1 del Protocollo addizionale, riguardante la protezione  della
proprieta', attraverso il richiamo alla gia' citata  decisione  della
Corte EDU, 5 settembre 2005, Stec e altri contro Regno Unito, e  alla
sentenza n. 187 del 2010 di questa Corte, nella quale lo stesso  art.
1 si raccorda con il principio di non discriminazione. E, poiche'  il
d.lgs. n. 147 del 2017 prevedeva un diritto al reddito di  inclusione
(che «e' riconosciuto dall'INPS  previa  verifica  del  possesso  dei
requisiti», in base al suo art. 2, comma 6, ma la cui erogazione  era
poi subordinata alla sottoscrizione del progetto personalizzato, come
previsto all'art. 9, commi 5 e 6), non impropriamente  il  giudice  a
quo ha invocato il parametro convenzionale. 
    5.2.- Questa Corte si e' gia'  pronunciata,  in  piu'  occasioni,
sulla conformita' dell'art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000
(la' dove subordinava l'accesso a determinate provvidenze al possesso
della carta di soggiorno) all'art. 14 CEDU. Nella sentenza n. 187 del
2010, in particolare, si e' osservato che «[c]io' che  dunque  assume
valore dirimente» e' «accertare se, alla  luce  della  configurazione
normativa e della funzione sociale che e'  chiamato  a  svolgere  nel
sistema, lo specifico "assegno" che viene qui in discorso  integri  o
meno un rimedio destinato a consentire  il  concreto  soddisfacimento
dei "bisogni primari" inerenti alla  stessa  sfera  di  tutela  della
persona  umana,  che  e'  compito  della  Repubblica   promuovere   e
salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un  diritto  fondamentale
perche' garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto».  Sicche',
ove «si versi in tema  di  provvidenza  destinata  a  far  fronte  al
"sostentamento" della persona, qualsiasi discrimine tra  cittadini  e
stranieri  regolarmente  soggiornanti  nel  territorio  dello  Stato,
fondato su requisiti diversi dalle condizioni  soggettive,  finirebbe
per risultare in contrasto con  il  principio  sancito  dall'art.  14
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, avuto riguardo  alla
relativa lettura che, come si e' detto, e' stata in piu'  circostanze
offerta dalla Corte di Strasburgo». Questo criterio  di  giudizio  e'
stato poi ribadito dalle sentenze n. 329 del 2011 e n. 50 del 2019. 
    In questa  prospettiva,  le  conclusioni  sopra  raggiunte  sulle
caratteristiche del reddito di inclusione - che non si  esaurisce  in
una provvidenza assistenziale volta a soddisfare un bisogno  primario
dell'individuo, ma persegue piu' ampi obiettivi di inclusione sociale
e lavorativa - conducono a ritenere non fondata  anche  la  questione
sollevata con  riferimento  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 14 CEDU. 
    6.- Resta da esaminare la questione sollevata in via subordinata,
con riferimento all'art. 3, primo  comma,  Cost.  Il  giudice  a  quo
ritiene che, anche qualora il reddito di inclusione fosse considerato
«prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali» della persona,
la  disposizione  censurata   sarebbe   comunque   costituzionalmente
illegittima per l'assenza di  una  ragionevole  correlazione  tra  il
requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo e le  situazioni
di bisogno in vista delle quali la prestazione e' prevista. 
    Nemmeno tale questione e' fondata, giacche' il raffronto  fra  il
requisito prescritto e  le  finalita'  perseguite  dalla  misura  non
conduce a conclusioni di irragionevolezza della  scelta  operata  dal
legislatore nell'esercizio della sua discrezionalita'. 
    Anche in questo caso, si  possono  riproporre  le  considerazioni
gia' svolte nella sentenza n. 19 del 2022 in  merito  al  reddito  di
cittadinanza. 
    Il permesso di soggiorno di lungo  periodo  e'  concesso  qualora
ricorra una serie di  presupposti  che  testimoniano  della  relativa
stabilita' della presenza sul territorio, e il suo regime si  colloca
nella logica di  una  ragionevole  prospettiva  di  integrazione  del
destinatario nella comunita' ospitante. Piu'  precisamente,  in  base
all'art. 9, commi 1 e 2-bis, del decreto legislativo 25 luglio  1998,
n. 286 (Testo unico  delle  disposizioni  concernenti  la  disciplina
dell'immigrazione e norme sulla  condizione  dello  straniero),  esso
puo' essere chiesto in presenza di quattro requisiti:  a)  «possesso,
da almeno cinque anni, di  un  permesso  di  soggiorno  in  corso  di
validita'»;  b)  «disponibilita'  di   un   reddito   non   inferiore
all'importo annuo dell'assegno sociale»;  c)  «alloggio  idoneo»;  d)
«superamento, da parte del richiedente,  di  un  test  di  conoscenza
della lingua italiana». Il permesso e' a tempo indeterminato (art. 9,
comma 2, t.u. immigrazione) e fra le cause della sua  revoca  non  e'
prevista la perdita dei requisiti di cui sopra (cioe', del reddito  e
dell'alloggio idoneo). 
    Cio' precisato, la  ragionevole  correlazione  tra  il  requisito
fissato dalla norma censurata e la ratio del  reddito  di  inclusione
discende dalla circostanza, gia' ampiamente  sottolineata,  che  tale
provvidenza  non  si  risolve  in  un  mero  sussidio  economico,  ma
costituisce   una   misura   piu'   articolata,   comportante   anche
l'assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere
il nucleo familiare beneficiario in un «percorso volto al superamento
della  condizione  di  poverta',  all'inserimento   o   reinserimento
lavorativo e all'inclusione sociale» (art. 6, comma 2, lettera a, del
d.lgs. n. 147 del 2017). Va considerato, inoltre, che la  durata  del
beneficio economico poteva arrivare a diciotto mesi, con possibilita'
di rinnovo per un periodo di dodici mesi (art. 4, comma 5). Peraltro,
«[l]a durata del progetto  puo'  eccedere  la  durata  del  beneficio
economico» (art. 6, comma 7). 
    L'orizzonte temporale  della  misura  non  era  dunque  di  breve
periodo, considerando, sia la durata del beneficio, sia il  risultato
perseguito. Gli obiettivi  dell'intervento  implicavano  infatti  una
complessa operazione di  inclusione  sociale  e  lavorativa,  che  il
legislatore,   nell'esercizio   della   sua   discrezionalita',   non
irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in  Italia
a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine
del reddito di inclusione, la titolarita' del diritto di  soggiornare
stabilmente in Italia non si presenta  come  un  requisito  privo  di
collegamento con la ratio della misura concessa, sicche' la scelta di
escludere gli stranieri  regolarmente  soggiornanti,  ma  pur  sempre
privi di un consolidato radicamento nel territorio, non  puo'  essere
giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara la  manifesta  inammissibilita'  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, lettera a),  numero
1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n.  147  (Disposizioni
per  l'introduzione  di  una  misura  nazionale  di  contrasto   alla
poverta'), sollevate, in riferimento  agli  artt.  31  e  117,  primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli  artt.  20,
21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione  europea
(CDFUE),  proclamata  a  Nizza  il  7  dicembre  2000  e  adattata  a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario  di  Bergamo,
sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma  1,  lettera  a),  numero  1),  del
d.lgs. n. 147 del 2017, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 38
e 117, primo comma, Cost.,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  14
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,  n.  848,  dal
Tribunale di Bergamo, sezione lavoro,  con  l'ordinanza  indicata  in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 gennaio 2022. 
 
                                F.to: 
                     Giuliano AMATO, Presidente 
                     Daria de PRETIS, Redattrice 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 17 febbraio 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA