N. 162 SENTENZA 8 - 30 giugno 2022

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Previdenza - Prestazioni ai superstiti - Cumulo massimo tra  pensione
  di reversibilita' e redditi aggiuntivi - Limiti alla decurtazione -
  Divieto che la decurtazione effettiva della pensione ai  superstiti
  possa eccedere l'ammontare  complessivo  dei  redditi  dei  redditi
  aggiuntivi - Omessa previsione - Irragionevolezza -  Illegittimita'
  costituzionale in parte qua. 
- Legge 8 agosto 1995, n. 335, art.  1,  comma  41,  terzo  e  quarto
  periodo, e allegata Tabella F. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.27 del 6-7-2022 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giuliano AMATO; 
Giudici :Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO, Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni
  AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,  Angelo
  BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria  SAN  GIORGIO,  Filippo
  PATRONI GRIFFI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale   del   combinato
disposto del terzo e quarto periodo  dell'art.  1,  comma  41,  della
legge 8 agosto  1995,  n.  335  (Riforma  del  sistema  pensionistico
obbligatorio e complementare), e della connessa Tabella  F,  promosso
dalla Corte dei conti, sezione  giurisdizionale  per  il  Lazio,  nel
procedimento  vertente  tra  A.  P.  e  l'Istituto  nazionale   della
previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 7 maggio 2020,  iscritta
al n. 63 del registro ordinanze  2021  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 20,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2021. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  dell'INPS,  nonche'  l'atto   di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  10  maggio  2022  il  Giudice
relatore Maria Rosaria San Giorgio; 
    uditi l'avvocato Antonella Patteri per l'INPS e l'avvocato  dello
Stato Pio Giovanni  Marrone  per  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio dell'8 giugno 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza iscritta al n. 63 del registro ordinanze  2021,
la  Corte  dei  conti,  sezione  giurisdizionale  per  il  Lazio,  ha
sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di
legittimita' costituzionale del combinato disposto del terzo e quarto
periodo del comma 41 dell'art. 1 della legge 8 agosto  1995,  n.  335
(Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e  complementare),  e
della connessa  Tabella  F,  «nella  parte  in  cui  prevede  che  la
decurtazione  effettiva  della  pensione   ai   superstiti   il   cui
beneficiario possieda redditi aggiuntivi possa  eccedere  l'ammontare
complessivo di tali redditi». 
    In punto di  fatto,  il  giudice  rimettente  riferisce  di  aver
depositato, contestualmente all'ordinanza di rimessione, una sentenza
non definitiva che ha parzialmente rigettato  i  capi  della  domanda
proposta, nel giudizio a quo, da A.P. Quest'ultima - titolare, dal 1°
febbraio 2015, di una pensione di reversibilita' - aveva censurato la
legittimita' delle decurtazioni  che,  sulla  pensione,  erano  state
effettuate dall'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ai
sensi dell'art. 1,  comma  41,  della  legge  n.  335  del  1995.  La
ricorrente aveva lamentato che, «almeno per  l'annualita'  2015»,  le
fossero state applicate decurtazioni in eccesso rispetto ai  «redditi
aggiuntivi»  di  riferimento  (ossia,  rispetto  ai  redditi  da  lei
conseguiti nel 2014). Con la menzionata sentenza non  definitiva,  il
rimettente «ha disatteso  le  doglianze  attoree  fino  a  rispettiva
concorrenza dei redditi aggiuntivi», dovendo per il resto  dar  corso
al giudizio onde rimettere  la  presente  questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    In diritto, l'ordinanza di rimessione richiama la  norma  di  cui
all'art. 1, comma 41, terzo periodo, della legge n. 335 del 1995, che
stabilisce il principio del cumulo tra il  trattamento  pensionistico
ai superstiti e i redditi  del  beneficiario,  con  la  precisazione,
tuttavia, che detto cumulo non puo' eccedere i limiti indicati  dalla
Tabella F allegata alla  legge.  Quest'ultima  indica  tre  fasce  di
reddito calcolate come triplo, quadruplo e quintuplo del  trattamento
minimo annuo previsto dal Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD)
e, con riferimento a ciascuna delle tre fasce, indica la  percentuale
di cumulabilita' del trattamento di reversibilita'  (rispettivamente,
del 75 per cento, del 60 per cento e del 50 per cento). 
    Nel  caso  di  specie  -  riferisce  il  rimettente  -  l'operato
dell'INPS risulta rispettoso  di  tali  prescrizioni,  essendo  stata
applicata,  in  favore  della  ricorrente,  anche  la   clausola   di
salvaguardia di cui al quarto periodo del comma 41 dell'art. 1  della
legge n. 335 del 1995 (secondo cui «[i]l  trattamento  derivante  dal
cumulo dei redditi di cui  al  presente  comma  con  la  pensione  ai
superstiti ridotta non puo' essere comunque inferiore  a  quello  che
spetterebbe allo stesso soggetto qualora il reddito  risultasse  pari
al limite massimo delle fasce immediatamente precedenti quella  nella
quale il reddito posseduto  si  colloca»).  Tuttavia,  la  pedissequa
applicazione delle norme ha comportato che, per le annualita' 2015  e
2016, la  ricorrente  abbia  subito  «decurtazioni  quantitativamente
superiori rispetto  ai  redditi  aggiuntivi  il  cui  possesso  [...]
costituisce  la  causa  efficiente  delle  decurtazioni  stesse».   E
infatti, per l'annualita' 2015, a fronte  di  un  reddito  aggiuntivo
pari a euro 30.106, sono state applicate «decurtazioni non  inferiori
a 43.174,43 euro», con eccedenza negativa pari ad euro 13.000  circa;
per l'annualita' 2016, a fronte di un reddito aggiuntivo pari ad euro
30.646, sono state applicate «correlative decurtazioni per  47.638,02
euro», con eccedenza negativa pari ad euro  17.000  circa.  Peraltro,
precisa il rimettente, ogni decurtazione annuale e' autonoma rispetto
a quelle degli anni precedenti o successivi,  non  essendo  possibile
alcuna forma di compensazione. 
    L'esorbitanza  quantitativa  delle  decurtazioni   sofferte,   in
paragone ai redditi aggiuntivi che le hanno determinate, ridonderebbe
- a giudizio  del  rimettente  -  in  violazione  del  «principio  di
ragionevolezza a cui e' informato il secondo comma dell'art. 3  della
Costituzione». 
    La rilevanza della questione  discenderebbe  da  quanto  fin  qui
considerato,  essendosi  in  presenza,  nel  caso   di   specie,   di
«decurtazioni in misura (largamente) superiore rispetto a quella  dei
correlativi  redditi  aggiuntivi  posseduti»  dalla  ricorrente   del
giudizio principale. L'accoglimento della questione comporterebbe  la
riconduzione delle decurtazioni, gia' operate dall'INPS per  entrambe
le annualita' 2015 e 2016, «entro il  limite  di  cui  ai  rispettivi
redditi aggiuntivi». 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente  sottolinea
come «decurtazioni ultra vires esulino palesemente dalla ratio  della
normativa qui censurata: ratio che consiste nell'escludere il diritto
alla pensione di reversibilita' nella misura in cui, a  quest'ultima,
il relativo titolare cumuli ulteriori redditi la cui entita' sia tale
da controbilanciare la  parallela  decurtazione  di  quella  medesima
pensione». Del resto, qualora il  reddito  aggiuntivo  posseduto  dal
titolare della pensione sia tale da iscriverlo nella fascia piu' alta
di cui alla Tabella F (situazione che corrisponde alla  «eventualita'
meno  favorevole  per  il   pensionato»),   la   legge   prevede   la
cumulabilita' del 50 per cento  del  trattamento  di  reversibilita':
cio', sottolinea il rimettente, «a  prescindere  da  quanto  cospicuo
possa rivelarsi l'ammontare dei redditi aggiuntivi». 
    In definitiva,  sussisterebbe  una  reciproca  autonomia  tra  il
parametro del reddito aggiuntivo,  che  determina  l'ammontare  della
decurtazione, e  il  trattamento  di  reversibilita'.  La  menzionata
clausola di  salvaguardia,  di  cui  all'art.  1,  comma  41,  quarto
periodo,  della  legge  n.  335  del  1995  riuscirebbe  «soltanto  a
temperare le conseguenze concrete di quell'autonomia», senza tuttavia
eliminare  «l'assurda  eventualita'  che  le   decurtazioni   possano
travalicare i correlativi redditi aggiuntivi di riferimento». 
    L'esorbitanza cosi'  censurata  si  risolverebbe  in  «un  totale
stravolgimento dell'istituto delle decurtazioni» le quali, da  indice
di bilanciamento atto  a  far  valere  la  sussistenza  di  ulteriori
risorse con cui far fronte alle esigenze di vita richiamate dall'art.
38, secondo comma, Cost., «si trasformerebbero in mero  pretesto  per
un'espropriazione  della  pensione  di  reversibilita'».  In   simile
evenienza  -  chiosa  il  rimettente  -  «assurdamente   risulterebbe
preferibile che il pensionato  non  avesse  conseguito  affatto  quei
redditi aggiuntivi o, almeno, che essi non  avessero  travalicato  la
soglia di rilevanza di cui alla tabella F». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, concludendo per l'inammissibilita' o la manifesta infondatezza
della questione. 
    Nel ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte,  la
pensione di  reversibilita'  risponde  alla  ratio  di  «tutelare  le
esigenze di vita della famiglia, cui il  defunto  contribuiva»  (sono
citate le sentenze n. 495 del 1993 e n.  926  del  1988),  la  difesa
erariale sostiene la  ragionevolezza  della  scelta  legislativa  «di
ancorare il parametro, in base al quale va stabilita l'entita'  delle
decurtazioni, all'ammontare  dei  redditi  aggiuntivi  posseduti  dal
beneficiario». Il contesto normativo in cui  fu  approvata  la  norma
cosiddetta "anticumulo",  del  resto,  era  «volto  ad  una  radicale
revisione della materia pensionistica, allo specifico fine di ridurne
la spesa»: come messo  in  luce  dal  «diritto  vivente»,  frutto  di
elaborazione  della  giurisprudenza  della   Corte   di   cassazione,
l'obiettivo  era  quello  di  ridurre  la  spesa  pensionistica   nei
confronti  dei   soggetti   che   potessero   contare   su   guadagni
ragguardevoli. Secondo la costante giurisprudenza  di  questa  Corte,
del resto, rientrerebbe nella discrezionalita' del legislatore tenere
conto delle esigenze di bilancio  e  stabilire,  di  conseguenza,  le
variazioni perequative dell'ammontare delle prestazioni dovute  (sono
citate la sentenza n. 316 del 2010 e l'ordinanza n. 256 del 2001). 
    L'interveniente osserva che la normativa censurata  non  lede  il
beneficiario della pensione di reversibilita' che versi in  stato  di
bisogno, in  quanto  non  e'  prevista  alcuna  decurtazione  qualora
l'ammontare dei suoi redditi  ulteriori  sia  inferiore  alla  soglia
individuata dal legislatore. Le  decurtazioni,  pertanto,  sono  solo
«eventuali e aumentano secondo criteri di progressivita'». Oggetto di
incisione,  peraltro,  e'  solo  l'importo  liquidato  a  titolo   di
pensione, «ma non il quantum della pensione, che  rimane  determinato
dall'aliquota di reversibilita'». Inoltre, i limiti di  cumulabilita'
sono dalla legge esclusi qualora il beneficiario faccia parte  di  un
nucleo familiare con figli minori. 
    Le modalita' delle decurtazioni, con cui si e' data attuazione al
bilanciamento dei suddetti  interessi,  non  svelerebbero,  pertanto,
alcuna lesione del principio di ragionevolezza. 
    3.- Si e' costituito in giudizio l'INPS, in persona  del  proprio
legale rappresentante pro tempore, concludendo per l'inammissibilita'
o la non fondatezza della questione. 
    Ricordato il «peculiare fondamento solidaristico» della  pensione
di reversibilita' (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 174
del 2016, n. 74 del 2008 e n. 446 del 2002),  l'INPS  pone  l'accento
sulla  prevista   graduazione   dell'importo   del   trattamento   di
reversibilita', in presenza di redditi aggiuntivi  del  beneficiario,
graduazione che «e' stata ritenuta legittima e equa»  dalla  sentenza
di questa  Corte  n.  446  del  2002.  L'importo  della  pensione  ai
superstiti risulta oggi condizionato, proprio per effetto delle norme
di cui alla legge n. 335 del 1995,  dalla  situazione  economica  del
titolare;  cio',  secondo   valutazioni   che   sono   rimesse   alla
discrezionalita' del  legislatore,  «col  solo  limite  della  palese
irrazionalita'». 
    Peraltro - fa notare l'INPS - i limiti alla cumulabilita' non  si
applicano se il beneficiario fa parte  di  un  nucleo  familiare  con
figli minori, studenti o inabili, ed e' comunque salva la clausola di
salvaguardia dettata dal quarto periodo  del  comma  41  dell'art.  1
della legge n. 335 del 1995. A  questo  proposito,  viene  citato  un
passaggio della circolare  n.  662  (recte:  n.  692)  del  1996  del
Ministero del Tesoro, secondo la  quale  il  raffronto  tra  le  voci
reddituali, ai fini  dell'applicazione  di  tale  clausola,  andrebbe
effettuato  «con  riferimento  ai  rispettivi  importi  annui   lordi
comprensivi della tredicesima mensilita'». 
    A  giudizio   dell'INPS,   non   sarebbe   configurabile   alcuna
«espropriazione» a danno del beneficiario,  contrariamente  a  quanto
sostenuto dal giudice rimettente.  La  norma  censurata,  invero,  fa
espressamente salvi i trattamenti previdenziali piu' favorevoli  gia'
in essere, con cio' evitando di incidere su diritti  acquisiti  e  su
legittimi affidamenti ingenerati. Sono richiamati ampi stralci  della
citata sentenza n. 446 del 2002, che avrebbe valorizzato le  esigenze
di tutela degli equilibri di bilancio e di contenimento  della  spesa
pensionistica, aventi rilievo anche per  la  presente  questione.  In
tale complessivo quadro assumerebbe  rilevanza,  secondo  l'INPS,  la
«congruita'  delle  decurtazioni  ragionevolmente   calibrata   sulla
situazione reddituale reale del destinatario del trattamento». 
    La prospettazione del giudice  rimettente  risentirebbe  di  «una
peculiarita' della fattispecie che e', ontologicamente, insita  nella
previsione di legge» e ometterebbe  di  considerare  «la  consistenza
reddituale che connota ciascuna  posizione».  In  sostanza,  a  voler
seguire tale prospettazione, resterebbe «indifferente [...] la fascia
reddituale di riferimento» e si attribuirebbe «il  medesimo  peso»  a
«situazioni obiettivamente differenti sotto il profilo patrimoniale»:
circostanza, essa si', che aprirebbe il fianco ad  «evidenti  profili
di illegittimita' costituzionale poiche'  palesemente  irrazionale  e
del tutto sganciata da qualsivoglia criterio di proporzionalita'». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio,  ha
sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di
legittimita' costituzionale del combinato disposto del terzo e quarto
periodo del comma 41 dell'art. 1 della legge 8 agosto  1995,  n.  335
(Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e  complementare),  e
della connessa  Tabella  F,  «nella  parte  in  cui  prevede  che  la
decurtazione  effettiva  della  pensione   ai   superstiti   il   cui
beneficiario possieda redditi aggiuntivi possa  eccedere  l'ammontare
complessivo di tali redditi». 
    Il  giudice  rimettente  e'  chiamato  a  decidere  sul   ricorso
proposto, nei  confronti  dell'Istituto  nazionale  della  previdenza
sociale (INPS), dalla titolare di un  trattamento  di  reversibilita'
che, pur avendo goduto del cumulo tra detto trattamento  e  i  propri
redditi aggiuntivi maturati nelle annualita' 2015 e 2016, si e' vista
applicare decurtazioni della pensione in  misura  superiore  a  detti
redditi.  L'operato  dell'INPS,  precisa   il   rimettente,   risulta
rispettoso  delle  disposizioni  legislative  di   riferimento,   che
impongono di calcolare le decurtazioni secondo i  parametri  indicati
dalla Tabella F allegata  alla  legge  n.  335  del  1995.  Tuttavia,
l'applicazione di tali disposizioni comporta che, nel caso di specie,
le riduzioni superino  l'importo  dei  redditi  aggiuntivi  che,  per
ciascuna  delle  annualita'  considerate,   le   hanno   determinate,
comportando,  per  l'effetto,  una  sorta  di  «espropriazione  della
pensione di reversibilita'» tale da contraddire, in modo  palese,  la
ratio dell'istituto di cui si tratta, rinvenibile nella riduzione del
trattamento solo nella misura in cui  «il  relativo  titolare  cumuli
ulteriori redditi la cui entita'  sia  tale  da  controbilanciare  la
parallela decurtazione di quella medesima pensione». 
    Il  Collegio  rimettente  riferisce  di  avere,  pertanto,   gia'
respinto parzialmente il ricorso, con sentenza non definitiva,  «fino
a rispettiva concorrenza dei  redditi  aggiuntivi  teste'  indicati»,
mentre,  con  riguardo  alla  parte  ulteriore  della   decurtazione,
sottopone a questa Corte il  dubbio  di  legittimita'  costituzionale
delle richiamate disposizioni per violazione dell'art. 3 Cost. 
    2.- Le eccezioni di inammissibilita' sollevate dal Presidente del
Consiglio dei    ministri, intervenuto in    giudizio    per    mezzo
dell'Avvocatura generale dello Stato, e dall'INPS non possono trovare
ingresso nel presente  giudizio,  in  quanto  si  risolvono  in  mere
clausole di stile, prive di qualsivoglia argomentazione. 
    3.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    L'istituto della pensione ai superstiti,  introdotto  nel  nostro
ordinamento  dal  regio  decreto-legge  14  aprile   1939,   n.   636
(Modificazioni delle disposizioni  sulle  assicurazioni  obbligatorie
per l'invalidita' e  la  vecchiaia,  per  la  tubercolosi  e  per  la
disoccupazione involontaria e sostituzione dell'assicurazione per  la
maternita' con l'assicurazione obbligatoria per la  nuzialita'  e  la
natalita'), convertito, con modificazioni, in legge 6 luglio 1939, n.
1272, costituisce «una forma di tutela previdenziale ed uno strumento
necessario per il perseguimento  dell'interesse  della  collettivita'
alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed  alla  garanzia  di
quelle  minime  condizioni  economiche  e  sociali   che   consentono
l'effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3,  secondo
comma,  della  Costituzione)  con  una  riserva,   costituzionalmente
riconosciuta,  a   favore   del   lavoratore,   di   un   trattamento
preferenziale (art. 38, secondo comma, della  Costituzione)  rispetto
alla  generalita'  dei  cittadini  (art.  38,  primo   comma,   della
Costituzione)» (sentenza n. 286 del 1987, punto 3.2. del  Considerato
in diritto; piu' di recente, sentenza n. 174 del 2016, punto 3.1. del
Considerato in diritto). 
    La ratio dei trattamenti di reversibilita', come questa Corte  ha
gia'   sottolineato,   consiste   nel   «farne   proseguire,   almeno
parzialmente, anche dopo la morte del loro titolare, il godimento  da
parte dei soggetti a lui legati  da  determinati  vincoli  familiari,
garantendosi, cosi', ai beneficiari la protezione  dalle  conseguenze
che derivano dal decesso del congiunto (fra le tante, sentenze n. 180
e n. 70 del 1999, n. 18 del 1998). Si realizza in tal modo, anche sul
piano previdenziale, una forma di  ultrattivita'  della  solidarieta'
familiare (ancora sentenza n. 180 del 1999), proiettando il  relativo
vincolo la sua forza cogente anche nel tempo  successivo  alla  morte
(cosi', con riferimento al rapporto coniugale, la sentenza di  questa
Corte n. 174 del 2016)» (sentenza n. 88 del 2022). 
    Cio' posto, deve rilevarsi, come questa Corte ha  gia'  affermato
con riferimento alla specifica questione del cumulo  tra  pensione  e
redditi da lavoro, che la sussistenza di altre fonti di reddito  puo'
ben giustificare una diminuzione del trattamento  pensionistico,  «in
quanto "la funzione previdenziale della pensione non  si  esplica,  o
almeno viene notevolmente ridotta,  quando  il  lavoratore  si  trovi
ancora in godimento di un trattamento di attivita'" (sentenza n.  275
del 1976)» (sentenza n. 241 del 2016). Il legislatore, attraverso  le
norme che stabiliscono i  limiti  di  cumulabilita'  tra  pensione  e
reddito, tiene conto della diminuzione dello  stato  di  bisogno  del
pensionato, che deriva dalla disponibilita' di un reddito aggiuntivo,
e,  nell'esercizio  della  sua  discrezionalita',   e'   chiamato   a
bilanciare  i  diversi  valori  coinvolti   modulando   la   concreta
disciplina del cumulo,  in  necessaria  armonia  con  i  principi  di
eguaglianza e di ragionevolezza (sentenza n. 241 del 2016). 
    Tuttavia, la  regolamentazione  del  cumulo  tra  la  prestazione
previdenziale e  i  redditi  aggiuntivi  del  suo  titolare,  laddove
comporti una diminuzione del trattamento pensionistico, deve muoversi
entro i binari della non irragionevolezza. 
    La disciplina introdotta dal  legislatore  del  1995,  che  trova
applicazione nel giudizio a quo, non e' rispettosa dei criteri appena
richiamati, nella parte in cui consente all'istituto previdenziale di
applicare decurtazioni del trattamento di  reversibilita'  in  misura
superiore ai redditi aggiuntivi goduti dal beneficiario nell'anno  di
riferimento. Risulta alterato, in tal  modo,  il  rapporto  che  deve
intercorrere  tra  la  diminuzione  del  trattamento  di  pensione  e
l'ammontare del reddito personale goduto dal titolare,  il  quale  si
trova esposto a un sacrificio  economico  che  si  pone  in  antitesi
rispetto  alla  ratio  solidaristica  propria   dell'istituto   della
reversibilita'. Il legame familiare che univa il de cuius al titolare
del trattamento di reversibilita', anziche' favorire  quest'ultimo  -
mediante il  riconoscimento  di  una  posta  aggiuntiva  rispetto  ai
redditi che  egli  produca  -  finisce  infatti  paradossalmente  per
nuocergli, sottraendogli non  solo  l'ammontare  corrispondente  alla
totalita' dei redditi aggiuntivi prodotti, ma anche una  parte  dello
stesso trattamento di reversibilita'. 
    Un siffatto  risultato  e'  evidentemente  irragionevole,  e  non
emendabile, come dimostra la situazione concreta che si e' verificata
nel procedimento a quo, mediante la sola applicazione della  clausola
di salvaguardia prevista dal quarto periodo del comma 41 dell'art.  1
della legge n. 335  del  1995,  che  cosi'  recita:  «Il  trattamento
derivante dal cumulo dei redditi di cui  al  presente  comma  con  la
pensione ai superstiti ridotta non puo' essere comunque  inferiore  a
quello che  spetterebbe  allo  stesso  soggetto  qualora  il  reddito
risultasse  pari  al  limite  massimo  delle   fasce   immediatamente
precedenti quella nella quale il reddito posseduto si colloca».  Come
afferma di aver gia' accertato il giudice a  quo,  mediante  apposita
istruttoria, nel caso di specie l'INPS,  prima  ancora  di  procedere
alle decurtazioni della pensione di reversibilita' della  ricorrente,
ha bensi' applicato detta clausola di salvaguardia:  cio',  tuttavia,
non e' stato sufficiente a evitare che  l'importo  complessivo  delle
trattenute travalicasse l'ammontare dei redditi aggiuntivi annuali di
riferimento. Il vulnus  al  principio  di  ragionevolezza,  pertanto,
investe non solo il terzo periodo del  comma  41  (che  stabilisce  i
limiti di cumulabilita' tra  pensione  di  reversibilita'  e  redditi
aggiuntivi),  in  relazione  alle  fasce  reddituali  indicate  dalla
Tabella F allegata alla legge n. 335 del 1995,  ma  anche  il  quarto
periodo  dello  stesso  comma,  proprio  perche'   la   clausola   di
salvaguardia ivi prevista omette di dare congrua regolazione  a  tale
ipotesi. 
    4.- Al  fine  di  ricondurre  a  ragionevolezza  le  disposizioni
censurate, e' necessario introdurre un tetto  alle  decurtazioni  del
trattamento di reversibilita' che sono cagionate dal possesso  di  un
reddito aggiuntivo. In tal senso, il legislatore - nell'ambito di  un
sistema che imponeva limiti al  cumulo  tra  pensione  e  redditi  da
lavoro, prima cioe'  dell'abolizione  di  tali  limiti  avvenuta  con
l'art. 19 del decreto-legge 25  giugno  2008,  n.  112  (Disposizioni
urgenti  per  lo   sviluppo   economico,   la   semplificazione,   la
competitivita',  la  stabilizzazione  della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella  legge
6 agosto 2008, n. 133 - ha dettato discipline  anti-cumulo  calibrate
sull'effettiva consistenza  dei  redditi  aggiuntivi,  stabilendo  la
possibilita' di operare  diminuzioni  del  trattamento  pensionistico
fino a concorrenza di tali redditi (o di una parte di tali  redditi).
E' quanto accaduto, ad esempio, per la disciplina (decorrente dal  1°
gennaio 2001) concernente il  cumulo  tra  le  quote  delle  pensioni
dirette di anzianita', di invalidita'  e  degli  assegni  diretti  di
invalidita', eccedenti il trattamento minimo, e il 70 per  cento  dei
redditi da lavoro autonomo. In questo caso il legislatore, con l'art.
72, comma 2, secondo periodo, della legge 23 dicembre 2000,  n.  388,
recante «Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», ha  precisato  che
«[l]e relative trattenute non possono,  in  ogni  caso,  superare  il
valore pari al  30  per  cento  dei  predetti  redditi».  Secondo  la
disciplina  previgente,  in  materia  di  cumulo  delle  pensioni  di
anzianita', eccedenti il trattamento minimo, con il 50 per cento  dei
redditi  da  lavoro  autonomo,  le   decurtazioni   sul   trattamento
pensionistico potevano essere applicate «fino  alla  concorrenza  dei
redditi stessi» (cosi' l'art. 59, comma 14, della legge  27  dicembre
1997, n. 449, recante «Misure per la  stabilizzazione  della  finanza
pubblica»). In base alla disciplina, ancora  precedente,  del  cumulo
tra trattamento minimo delle pensioni di vecchiaia e di invalidita' e
il 50 per cento della retribuzione percepita  dal  beneficiario  (per
rapporto  di  lavoro  alle  dipendenze  di  terzi),  le   conseguenti
decurtazioni sull'ammontare  del  trattamento  di  pensione  potevano
effettuarsi «fino a concorrenza della retribuzione stessa» (art.  20,
primo comma, del decreto del Presidente della  Repubblica  27  aprile
1968, n. 488, recante «Aumento  e  nuovo  sistema  di  calcolo  delle
pensioni a carico  dell'assicurazione  generale  obbligatoria»,  come
sostituito dall'art. 20, primo comma, della legge 30 aprile 1969,  n.
153, recante «Revisione degli ordinamenti pensionistici  e  norme  in
materia di sicurezza sociale»). 
    La stessa legge n. 335 del 1995, del resto, ha utilizzato, a piu'
riprese, il limite della «concorrenza» con i redditi, allorquando  ha
introdotto limiti al cumulo tra trattamenti pensionistici  e  redditi
aggiuntivi del titolare. L'art. 1, commi  21  e  22  (successivamente
abrogati dal citato art. 19, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008,  come
convertito), invero,  nel  prevedere  un  limite  di  cumulo  tra  la
pensione di vecchiaia, eccedente il trattamento minimo, e  i  redditi
da  lavoro  dipendente  e  autonomo,  stabiliva  che  le  conseguenti
decurtazioni al trattamento di pensione devono  considerarsi  ammesse
«fino a concorrenza dei  redditi  stessi».  Analogamente,  l'art.  1,
comma 43, della richiamata legge n. 335 del 1995 -  nel  disporre  il
divieto di cumulo tra le pensioni di inabilita', di reversibilita'  o
l'assegno ordinario  di  invalidita',  liquidati  in  conseguenza  di
infortunio  sul  lavoro  o  malattia  professionale,  e  la   rendita
vitalizia liquidata per lo stesso evento invalidante -  ha  stabilito
che la conseguente decurtazione della pensione  puo'  essere  ammessa
«fino a concorrenza della rendita stessa». 
    Allo stesso modo, la formulazione del censurato art. 1, comma 41,
terzo e quarto periodo, della legge  n.  335  del  1995  deve  essere
integrata - al fine di ricondurla a ragionevolezza, onde  evitare  la
possibilita' che, come accaduto nella fattispecie che ha  dato  luogo
al  giudizio  a  quo,  le  decurtazioni   della   pensione   superino
l'ammontare  dei  redditi  goduti  dal  beneficiario  -  mediante  la
previsione  del  limite   della   «concorrenza   dei   redditi».   Di
conseguenza, il combinato disposto delle norme denunciate deve essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, in caso
di cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i  redditi
aggiuntivi  del  beneficiario,  non  prevede  che   la   decurtazione
effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore
alla concorrenza dei redditi stessi. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita' costituzionale del  combinato  disposto
del terzo e quarto periodo dell'art.  1,  comma  41,  della  legge  8
agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare), e della connessa Tabella F, nella parte  in  cui,  in
caso di cumulo tra il trattamento pensionistico  ai  superstiti  e  i
redditi aggiuntivi del beneficiario, non prevede che la  decurtazione
effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore
alla concorrenza dei redditi stessi. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 giugno 2022. 
 
                                F.to: 
                     Giuliano AMATO, Presidente 
                Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 30 giugno 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA