N. 230 SENTENZA 19 ottobre - 15 novembre 2022
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Dibattimento - Nuove contestazioni - Possibilita' per il giudice, ove accerti la sussistenza di una circostanza aggravante (nel caso di specie: recidiva reiterata pluriaggravata) di restituire gli atti al pubblico ministero - Omessa previsione - Denunciata violazione del principio di ragionevolezza e uguaglianza della pena, nonche' di obbligatorieta' dell'azione penale - Non fondatezza delle questioni. - Codice di procedura penale, art. 521, comma 2. - Costituzione, artt. 3 e 112.(GU n.46 del 16-11-2022 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Silvana SCIARRA; Giudici :Daria de PRETIS, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 521, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo nel procedimento penale a carico di M. C. e di M. S., con ordinanza del 14 ottobre 2021, iscritta al n. 216 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 2022. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 5 ottobre 2022 il Giudice relatore Francesco Vigano'; deliberato nella camera di consiglio del 19 ottobre 2022. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 14 ottobre 2021, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 521, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando accerta che risulta una circostanza aggravante non oggetto di contestazione. 1.1.- Il rimettente si trova a giudicare, con rito abbreviato, della responsabilita' penale di M. C. e di M. S., entrambi imputati di concorso in truffa aggravata dall'avere cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante entita'. Nei confronti soltanto di M. S. il pubblico ministero ha inoltre contestato l'aggravante della recidiva reiterata infraquinquennale. Sulla base di tali contestazioni, il pubblico ministero ha richiesto la pena di dieci mesi di reclusione e 600 euro di multa a carico di M. C. e quella di un anno e sei mesi di reclusione e 1.200 euro di multa per M. S. Il giudice a quo rileva che dall'esame dei certificati generali del casellario giudiziale relativi ai due imputati emergono effettivamente, in capo a M. S., due precedenti condanne a pena pecuniaria per il delitto di invasione di edifici, mentre a carico di M. C. - rispetto al quale il pubblico ministero non aveva contestato alcuna recidiva - risultano sedici condanne irrevocabili per delitti non colposi, molti dei quali di particolare gravita', come rapina aggravata e sequestro di persona. Il rimettente osserva quindi che l'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. prevede che il giudice disponga con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero qualora accerti che il fatto e' «diverso» da come descritto nel decreto che dispone il giudizio, ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2, cod. proc. pen. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimita', tale disposizione non abiliterebbe invece il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero allorche' dagli atti emerga la sussistenza di una circostanza aggravante non contestata, essendo l'eventuale provvedimento di restituzione in tale ipotesi qualificato dalla giurisprudenza addirittura in termini di abnormita' (sono citate Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 maggio 2015, n. 25882; sezione prima penale, sentenza 5 luglio 2011, n. 30498; sezione quarta penale, sentenza 25 giugno 2008, n. 31446). 1.2.- Il giudice a quo dubita della compatibilita' di tale interpretazione dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. con gli artt. 3 e 112 Cost. Sotto il primo profilo, il rimettente ritiene che l'impossibilita' di procedere alla restituzione degli atti al pubblico ministero nel caso in cui emerga una circostanza aggravante non contestata abbia «l'effetto di ricondurre casi meno gravi a un regime sanzionatorio piu' pesante di quello riservato a casi di pari gravita' o addirittura piu' gravi». Sotto il secondo profilo, il principio di obbligatorieta' dell'azione penale non dovrebbe intendersi limitato agli elementi essenziali del fatto, ma dovrebbe riguardare anche gli elementi circostanziali, tenuto conto dell'incidenza che la loro presenza o assenza ha sul complessivo trattamento sanzionatorio. 1.3.- Evidente risulterebbe, pertanto, la rilevanza delle questioni prospettate, dato che il loro accoglimento imporrebbe nel procedimento a quo la trasmissione degli atti al pubblico ministero affinche' proceda alla rituale contestazione dell'aggravante della recidiva reiterata pluriaggravata anche a carico di M. C. 2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, non fondate. 2.1.- Le questioni sarebbero anzitutto inammissibili per difetto di rilevanza, dal momento che nel giudizio abbreviato sarebbe esclusa la possibilita' di procedere alla modificazione dell'imputazione ovvero alla contestazione di una nuova circostanza aggravante ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., la cui applicabilita' sarebbe confinata alla fase dibattimentale. Sicche', pur ipotizzando che questa Corte proceda all'addizione normativa auspicata dal rimettente, la restituzione degli atti al pubblico ministero sarebbe comunque impossibile. Inoltre, le questioni risulterebbero inammissibili perche' il giudice a quo si sarebbe erroneamente limitato a censurare l'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., «senza considerare il dettato dell'art. 522 codice procedura penale riguardo alla sostanziale equiparazione della circostanza aggravante al fatto nuovo e al reato concorrente rispetto alla rappresentata problematica del difetto di contestazione penale». 2.2.- Nel merito, la censura formulata in riferimento all'art. 3 Cost. non sarebbe fondata, dal momento che il rimettente avrebbe omesso di «effettuare una ricognizione di sistema per valutare se gli strumenti normativi a sua disposizione consentano di ripristinare l'uguaglianza violata». In particolare, il giudice a quo avrebbe ben potuto escludere la recidiva reiterata contestata a M. S., ovvero riconoscere come sussistente la recidiva stessa, ma non applicare nei suoi confronti alcun aumento di pena, o, ancora, operare un bilanciamento tra tale aggravante ed eventuali circostanze attenuanti, facendo uso sapiente dei poteri discrezionali che presiedono alla commisurazione della pena ai sensi degli artt. 132 e 133 del codice penale; poteri che avrebbero consentito al giudice perfino di infliggere una pena piu' severa all'imputato per il quale il pubblico ministero aveva richiesto un trattamento meno severo in considerazione della mancata contestazione, nei suoi confronti, della recidiva. Quanto poi all'allegata violazione dell'art. 112 Cost., l'interveniente esclude che il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale comporti un dovere, a carico del pubblico ministero, di «scandagliare ogni possibile contestazione in astratto elevabile rispetto al reato che intende perseguire». Non sarebbe del resto infrequente che il certificato del casellario giudiziale non sia aggiornato al momento del rinvio a giudizio, e che solo in una fase successiva i precedenti penali siano portati all'attenzione del giudice. Il che escluderebbe in radice che la mancata contestazione della recidiva possa imputarsi al pubblico ministero. In ogni caso, ad avviso dell'interveniente, sarebbe «riservata alle prerogative del PM la contestazione di circostanze aggravanti cui fa da contraltare il divieto per il giudice di sollecitare o autonomamente ritenere circostanze aggravanti non oggetto di specifica contestazione». Considerato in diritto 1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 521, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando accerta che risulta una circostanza aggravante non oggetto di contestazione. In sostanza, il rimettente sollecita questa Corte a una pronuncia additiva, per effetto della quale il giudice dovrebbe essere tenuto alla restituzione degli atti al pubblico ministero non solo quando risulti che il fatto sia «diverso» da quello contestato, ma anche quando risulti dagli atti una circostanza aggravante non contestata dal pubblico ministero. 2.- Le eccezioni sollevate dall'Avvocatura generale dello Stato non sono fondate. 2.1.- Non e' fondata, anzitutto, l'eccezione secondo cui le questioni sarebbero irrilevanti dal momento che, nell'ambito del giudizio abbreviato, il pubblico ministero non potrebbe comunque procedere alla contestazione di nuove circostanze aggravanti ai sensi dell'art. 517 cod. proc. pen. Contrariamente a quanto sembra ipotizzare l'interveniente, infatti, il giudice a quo non mira a riaprire l'udienza e a sollecitare il pubblico ministero a procedere, in quella sede, alla contestazione di nuove circostanze aggravanti - cio' che, secondo la giurisprudenza di legittimita' (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 18 aprile 2019-13 febbraio 2020, n. 5788), sarebbe effettivamente precluso in sede di giudizio abbreviato senza richiesta di integrazioni probatorie, come nel caso di specie. Il rimettente auspica, piuttosto, che gli sia riconosciuta la possibilita' di restituire gli atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., affinche' questi proceda, conformemente all'art. 335 cod. proc. pen., a una nuova iscrizione della notitia criminis e a un nuovo esercizio dell'azione penale per il reato correttamente qualificato dalla circostanza aggravante originariamente non contestata. Il che ben potrebbe accadere, laddove questa Corte accogliesse la questione di legittimita' costituzionale prospettata, anche nell'ambito del giudizio a quo, stante la pacifica applicabilita' dell'art. 521 cod. proc. pen. al rito abbreviato (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 21 febbraio 2019, n. 18566; Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 18 dicembre 2012-9 gennaio 2013, n. 859). 2.2.- Neppure e' fondata la seconda eccezione di inammissibilita' per carenza di rilevanza, formulata sull'assunto che il rimettente, erroneamente, non avrebbe considerato il disposto dell'art. 522 cod. proc. pen., che equiparerebbe la disciplina della nuova contestazione di una «circostanza aggravante» a quella avente a oggetto un «fatto nuovo» o un «reato concorrente». In realta', l'art. 522 cod. proc. pen. si limita a prevedere la nullita' soltanto parziale della sentenza di condanna pronunciata per un fatto nuovo, per un reato concorrente o per una circostanza aggravante senza che siano state osservate le disposizioni in materia di contestazioni suppletive, di cui agli artt. 516 e seguenti cod. proc. pen. Contrariamente a quanto sembra ritenere l'interveniente, l'art. 522 cod. proc. pen. non sancisce un generale principio di equiparazione di trattamento giuridico fra le tre ipotesi, ne' tantomeno tra queste e quella - oggetto delle odierne questioni di legittimita' costituzionale - del fatto «diverso»: ciascuna di queste ipotesi e', in effetti, diversamente regolata dalle disposizioni in questione, che disciplinano le contestazioni suppletive durante il processo e i poteri del giudice in sede di decisione. Dal che discende tra l'altro, come correttamente osservato dal giudice a quo, l'impossibilita' di estendere in via ermeneutica la disposizione in questa sede censurata, testualmente riferita al fatto «diverso», all'ipotesi in cui risulti al giudice la sussistenza di una circostanza aggravante (in questo senso, ex multis, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 13 ottobre 2021, n. 44973; sezione prima penale, sentenza 12 maggio 2015, n. 25882; con specifico riferimento alla recidiva, sezione prima penale, sentenza 5 luglio 2011, n. 30498). 3.- Nel merito, la questione formulata con riferimento all'art. 3 Cost. non e' fondata. 3.1.- In proposito, occorre rammentare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore gode di ampia discrezionalita' nella configurazione degli istituti processuali, censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarieta' delle scelte operate (ex plurimis, sentenze n. 74 del 2022, n. 213 del 2021, n. 95, n. 79 e n. 58 del 2020). Un tale standard di giudizio - particolarmente rispettoso della discrezionalita' del legislatore - si impone anche allorche', come in questo caso, vengano allegate dal rimettente irragionevoli disparita' di trattamento, o irragionevoli equiparazioni di trattamento tra situazioni diseguali. La disciplina del processo e', infatti, frutto di delicati bilanciamenti tra principi e interessi in naturale conflitto reciproco, sicche' ogni intervento correttivo su una singola disposizione, volto ad assicurare una piu' ampia tutela a uno di tali principi o interessi, rischia di alterare gli equilibri complessivi del sistema. Cio' spiega perche' questa Corte sia solita esercitare una speciale cautela nello scrutinio delle censure in materia processuale fondate, in particolare, sull'art. 3 Cost. 3.2.- La premessa ermeneutica da cui muove il giudice rimettente, relativa all'impossibilita' di estendere la disciplina dettata per il fatto «diverso» all'ipotesi del fatto connotato da una circostanza aggravante non contestata dal pubblico ministero, e' invero corretta, come gia' osservato (supra, punto 2.2.). La giurisprudenza di legittimita' ritiene, anzi, abnorme il provvedimento del giudice che, rilevata l'omessa contestazione della recidiva nell'imputazione, restituisca gli atti al pubblico ministero affinche' la riformuli (Cass., sentenza n. 30498 del 2011). In tale ipotesi il giudice non potra' nemmeno ritenere esistente in base agli atti la circostanza non contestata, essendogli cio' precluso dall'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., e dovra' pertanto limitarsi a pronunciare condanna per il fatto di reato non qualificato, come ritualmente contestato dal pubblico ministero. Il rimettente ritiene che tale diritto vivente sia produttivo di irragionevoli differenze di trattamento censurabili al metro dell'art. 3 Cost., emblematicamente esemplificate dal caso di specie sottoposto al suo esame, in cui - a parita' di delitto commesso - un imputato al quale e' stata ritualmente contestata la recidiva rischierebbe di essere punito piu' severamente rispetto ad altro imputato al quale la recidiva non e' stata contestata dal pubblico ministero, nonostante i numerosi precedenti risultanti dai certificati del casellario giudiziale. 3.3.- Che la soluzione consacrata dal diritto vivente possa produrre risultati come quello evidenziato dal giudice a quo e', in effetti, innegabile. Ne' e' possibile, come suggerisce l'Avvocatura generale dello Stato, sollecitare il giudice a far uso dei propri poteri discrezionali nella commisurazione della pena per evitare disparita' di trattamento (ovvero l'eguale trattamento di situazioni diseguali) tra diversi imputati, per correggere l'eventuale omissione, da parte del pubblico ministero, della contestazione di circostanze aggravanti a questo o quell'imputato. Un tale suggerimento e', anzi, improprio, dal momento che una circostanza aggravante non contestata all'imputato, e pertanto non oggetto di contraddittorio tra accusa e difesa, deve essere considerata tamquam non esset per il giudice. Cio' vale anche, e in special modo, per la recidiva, che pure e' fondata sulla previa commissione di delitti accertati con sentenze definitive risultanti per tabulas dai certificati del casellario giudiziale, giacche' la sua applicazione non e' mai obbligatoria: il che comporta il preciso onere per il pubblico ministero, che intenda contestarla, di dimostrare, nel contraddittorio con l'imputato, che nel caso concreto i reati da lui precedentemente commessi siano indicativi di una sua maggiore colpevolezza e di una sua maggiore pericolosita' (sentenza n. 120 del 2017, punto 2 del Considerato in diritto e precedenti ivi richiamati; nello stesso senso, ordinanza n. 145 del 2018; nella giurisprudenza di legittimita', Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 febbraio 2011, n. 20798). La disciplina in questa sede censurata, dunque, implica fisiologicamente la possibilita' di un trattamento sanzionatorio del condannato meno severo di quello che deriverebbe dall'applicazione di circostanze aggravanti ritenute sussistenti dal giudice, ma non contestate - consapevolmente, o anche per mera disattenzione - dal pubblico ministero; e, correlativamente, la possibilita' di identici trattamenti sanzionatori per imputati di fatti di reato analoghi, alcuni dei quali pero' connotati dalla presenza di una o piu' circostanze aggravanti, anche in questo caso rilevate dal giudice, ma non contestate dal pubblico ministero. 3.4.- Queste possibili alterazioni della logica del principio di eguaglianza nella commisurazione della pena sono, pero', l'altrettanto fisiologica conseguenza della regola della necessaria correlazione tra accusa e sentenza, saldamente radicata nel sistema del codice di procedura penale. Come da tempo questa Corte ha evidenziato (sentenza n. 88 del 1994), tale regola di sistema e', anzitutto, funzionale al corretto svolgersi del contraddittorio, e a garantire cosi' la pienezza del diritto di difesa dell'imputato. In secondo luogo, essa tutela la stessa posizione del pubblico ministero, che l'ordinamento vigente - imperniato sul principio accusatorio - individua come esclusivo titolare dell'azione penale. Infine, la regola assicura la posizione di terzieta' e imparzialita' del giudice rispetto alle opposte allegazioni delle parti: posizione che e' pur essa inscindibilmente legata alla logica del principio accusatorio. La regola in questione chiama il giudice a pronunciarsi sulla responsabilita' dell'imputato per i soli fatti descritti nel capo di imputazione, o che siano stati oggetto delle eventuali contestazioni suppletive durante il processo, proprio perche' unicamente su tali fatti si e' svolto il contraddittorio tra le parti; ed esclude che il giudice possa affermare la responsabilita' dell'imputato - e applicare la relativa sanzione, o frazione di sanzione - per fatti «nuovi» o «connessi» non ritualmente contestati, per un fatto «diverso» da quello contestato, o ancora per circostanze aggravanti anch'esse non oggetto di contestazione. La disposizione di cui all'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. in questa sede censurata e', in effetti, essa stessa espressione di questa regola, precludendo al giudice di condannare l'imputato per il fatto che risulti dal compendio delle prove, ma sia «diverso» da quello descritto nell'imputazione. Nell'ipotesi tuttavia in cui il giudice rilevi la presenza di un fatto «nuovo» - connesso o meno con quello contestato - ulteriore rispetto a quello oggetto di imputazione, egli puo' comunque pronunciare condanna per il fatto contestato e ritenuto provato, lasciando poi che sia il pubblico ministero a procedere eventualmente per tale ulteriore fatto di reato emerso durante il processo. Nell'ipotesi, invece, di fatto «diverso» da quello contestato, il giudice dovrebbe limitarsi ad assolvere l'imputato; onde, in assenza di una disposizione come quella oggi censurata, al pubblico ministero sarebbe precluso iniziare una nuova azione penale, per effetto della regola generale del ne bis in idem consacrata dall'art. 649 cod. proc. pen. Per evitare tale risultato, che condurrebbe alla radicale non punibilita' di un imputato che risulti comunque aver commesso un reato, seppur diverso da quello contestato dal pubblico ministero, l'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. dispone che il giudice, in questo caso, non definisca il processo attraverso una pronuncia di assoluzione, ma restituisca gli atti al pubblico ministero perche' questi possa procedere, se del caso, a un nuovo esercizio dell'azione penale sulla base del fatto emerso in giudizio. 3.5.- Occorre a questo punto chiedersi se risulti manifestamente irragionevole, o addirittura arbitrario, non estendere tale regola anche al caso in cui risultino circostanze aggravanti del fatto non contestate dal pubblico ministero. In questa ipotesi, il giudice e' invero tenuto a pronunciare condanna soltanto per il fatto contestato, non qualificato dall'aggravante; e il pubblico ministero non avra' poi alcuna possibilita' di "recuperare" tale aggravante ne' nei successivi gradi di giudizio, ne', a fortiori, in un diverso giudizio, stante anche in questo caso lo sbarramento del ne bis in idem. Vi e' tuttavia tra le due ipotesi la differenza essenziale poc'anzi segnalata: in quella del fatto «diverso» il giudice - ove non potesse restituire gli atti al pubblico ministero - dovrebbe tout court assolvere l'imputato; quando invece, dopo aver accertato la commissione del fatto cosi' come contestato, il giudice rileva altresi' la presenza di una circostanza aggravante non oggetto di contestazione, l'esito del giudizio resta comunque di condanna. Naturalmente, il legislatore avrebbe potuto prevedere anche in questo caso la possibilita' per il giudice di non definire il giudizio, e di restituire gli atti al pubblico ministero per consentirgli di procedere a una nuova contestazione, comprensiva dell'aggravante risultante dagli atti, si' da giungere - al termine del nuovo processo - all'applicazione di una pena corrispondente anche nel quantum all'effettiva colpevolezza dell'imputato. Ma una simile soluzione avrebbe comportato la necessita' di regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari. Soluzione questa che non e' mai indolore, dal punto di vista dei molteplici principi costituzionali in gioco, che all'evidenza includono anche il principio - coessenziale al diritto alla difesa dell'imputato, e «connotato identitario della giustizia del processo» (sentenza n. 74 del 2022) - della ragionevole durata del processo, sancito all'unisono dall'art. 111, secondo comma, Cost. e dalle carte internazionali dei diritti. La soluzione della restituzione degli atti al pubblico ministero affinche' riformuli l'imputazione costituisce, d'altra parte, una deviazione dalla funzione essenziale del giudice - che l'art. 111, secondo comma, Cost. esige sia «terzo e imparziale», e dunque equidistante da entrambe le parti - nell'ambito del processo. Tale funzione consiste, essenzialmente, nell'assumere come dato di partenza la prospettazione accusatoria, per verificare se le prove assunte nel contraddittorio con la difesa - o comunque sulle quali la difesa ha interloquito, nell'ambito del giudizio abbreviato - consentano di ritenere provata, oltre ogni ragionevole dubbio, quella prospettazione; non gia' in quella, in certo senso inversa, di assicurare che la prospettazione accusatoria venga adeguata alle prove effettivamente assunte in giudizio, o comunque utilizzabili ai fini della decisione. La scelta del legislatore e' stata, dunque, quella di calibrare la regola della restituzione degli atti al pubblico ministero, con il suo carico di allungamento dei tempi processuali, sulla sola ipotesi del fatto «diverso», in cui la definizione del giudizio con una sentenza assolutoria determinerebbe la totale impunita' di chi sia risultato autore di un fatto di reato, privilegiando invece le ragioni di tutela della ragionevole durata del processo e della posizione di terzieta' e imparzialita' del giudice nel caso in cui l'errore del pubblico ministero si ripercuota soltanto sulla misura della pena da infliggere a un imputato comunque condannato per il fatto di reato risultato provato in sede processuale. A giudizio di questa Corte, tale scelta individua un punto di equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e principi in gioco, tutti di grande rilievo nel vigente sistema del processo penale; ed e' in ogni caso ben lungi dal poter essere qualificata in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarieta'. Ne consegue la non fondatezza della censura ex art. 3 Cost. 4.- Neppure e' fondata la doglianza di violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost. 4.1.- Una risalente giurisprudenza di questa Corte ha affermato che «[l]'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale ad opera del Pubblico Ministero [...] e' stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l'indipendenza del Pubblico Ministero nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale» (sentenza n. 84 del 1979). Riprendendo e ampliando il secondo dei corollari enunciati, la successiva sentenza n. 88 del 1991 ha osservato che «[p]iu' compiutamente, il principio di legalita' (art. 25, secondo comma), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita' nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non puo' essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale». Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale da parte del pubblico ministero e' connesso, dunque, tanto al principio di eguaglianza quanto a quello di legalita' in materia penale, essendo in definitiva funzionale alla garanzia di un'uniforme e imparziale applicazione della legge penale a tutti i suoi destinatari. Per garantire l'effettivita' di tale principio l'ordinamento prevede vari meccanismi che assicurano il controllo di un giudice sulle decisioni del pubblico ministero relative all'esercizio dell'azione penale o ai suoi stessi esiti - a cominciare dal controllo del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta di archiviazione (art. 409 cod. proc. pen.), alla necessita' di verifica giudiziale sulla congruita' degli accordi tra imputato e pubblico ministero in merito all'applicazione della pena su richiesta (art. 448 cod. proc. pen.), sino, appunto, alla disciplina di cui all'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. in questa sede censurata, che prevede la restituzione degli atti al pubblico ministero perche' proceda ad un nuovo esercizio dell'azione penale, allorche' il giudice ritenga che il fatto sia diverso da quello contestato. Nonostante la fondamentale connotazione accusatoria del nostro sistema processuale, il pubblico ministero non e', insomma, dominus assoluto dell'azione penale, essendo previste varie possibilita' di intervento del giudice per assicurare, anche contro l'avviso del pubblico ministero, l'uniforme e imparziale applicazione della legge penale ai suoi destinatari, in omaggio alla ratio sottesa all'art. 112 Cost. 4.2.- Tuttavia, anche nella configurazione dei presupposti e dei limiti di tali controlli non possono non riconoscersi ampi spazi di manovra al legislatore, il quale e' - come si e' poc'anzi sottolineato - chiamato a un delicato bilanciamento tra i molti principi che entrano in gioco nel processo penale, e che possono porsi in conflitto rispetto alle stesse esigenze di assicurare piena tutela al principio di obbligatorieta' dell'azione penale, nel senso ampio appena precisato. Anzitutto, il principio di obbligatorieta' dell'azione penale non puo' essere ragionevolmente esteso sino al punto di negare qualsiasi spazio valutativo al pubblico ministero sulla concreta configurazione dell'imputazione, nella quale egli e' tenuto a enunciare i fatti storici corrispondenti all'insieme delle fattispecie astratte contenute nelle disposizioni da cui dipende la rilevanza penale di una condotta - ivi comprese quelle configuranti circostanze, le quali spesso contengono clausole generali o requisiti elastici che rimandano necessariamente ad apprezzamenti discrezionali di chi debba applicare la norma, a cominciare appunto dal pubblico ministero. Cio' e' tanto piu' vero con riguardo all'aggravante della recidiva, la cui applicazione implica sempre - come si e' rammentato (supra, punto 3.3.) - valutazioni discrezionali sulla significativita' delle precedenti condanne rispetto alla concreta maggiore colpevolezza e pericolosita' dell'imputato: valutazioni che proprio il pubblico ministero e' chiamato in prima battuta a compiere, e che spettera' poi al giudice convalidare una volta passate attraverso il filtro del contraddittorio. D'altra parte, il legislatore non puo' non preoccuparsi di garantire l'effettivita' del diritto di difesa dell'imputato, il quale - una volta formulata l'imputazione da parte del pubblico ministero - ha un'ovvia aspettativa a poter articolare la propria strategia difensiva in relazione, appunto, all'imputazione cosi' cristallizzata, e non ad eventuali imputazioni alternative emerse nel corso del giudizio, anche solo in termini di circostanze aggravanti non ritualmente contestategli dal pubblico ministero. Infine, lo stesso ruolo del giudice non puo' essere inteso sino a ricomprendere, per necessita' costituzionale, un penetrante sindacato su tutte le scelte compiute dal pubblico ministero nella descrizione del fatto che costituisce il thema decidendum del giudizio penale. Un tale sindacato finirebbe infatti per snaturare la stessa posizione di terzieta' e imparzialita' del giudice, chiamato in linea di principio - come poc'anzi osservato (supra, punto 3.5.) - a giudicare della corrispondenza dei fatti provati a quelli ascritti all'imputato dal pubblico ministero, e non gia' ad assicurare, in chiave collaborativa con quest'ultimo, l'adeguamento dell'imputazione ai fatti provati. 4.3.- In definitiva, la disposizione censurata individua - anche sotto il profilo della sua compatibilita' con l'art. 112 Cost. ora all'esame - un punto di equilibrio nient'affatto irragionevole tra il complesso dei principi e interessi sottesi al delicato meccanismo del processo penale; con conseguente non fondatezza della censura.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 521, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo con l'ordinanza indicata in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2022. F.to: Silvana SCIARRA, Presidente Francesco VIGANO', Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 15 novembre 2022. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA