N. 46 SENTENZA 21 febbraio - 22 marzo 2024

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Appropriazione indebita - Trattamento sanzionatorio  -
  Minimo edittale - Previsione della  reclusione  «da  due  a  cinque
  anni» anziche' «fino a cinque anni» - Violazione del  principio  di
  proporzionalita' della pena e disparita'  di  trattamento  rispetto
  alla pena minima prevista per il furto e la truffa - Illegittimita'
  costituzionale parziale. 
- Codice penale, art. 646, primo comma, come modificato dall'art.  1,
  comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3. 
- Costituzione, artt. 3 e 27, terzo comma. 
(GU n.13 del 27-3-2024 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta da: 
Presidente:Augusto Antonio BARBERA; 
Giudici :Giulio PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',
  Luca  ANTONINI,   Stefano   PETITTI,   Angelo   BUSCEMA,   Emanuela
  NAVARRETTA,  Filippo  PATRONI  GRIFFI,  Marco  D'ALBERTI,  Giovanni
  PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 646,  primo
comma, del codice penale,  come  modificato  dall'art.  1,  comma  1,
lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in  materia  di
prescrizione del reato e in materia  di  trasparenza  dei  partiti  e
movimenti politici), promosso dal  Tribunale  ordinario  di  Firenze,
sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di F. F.,  con
ordinanza del 6 marzo 2023, iscritta al n. 55 del registro  ordinanze
2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  18,
prima serie speciale, dell'anno 2023, la  cui  trattazione  e'  stata
fissata per l'adunanza in camera di consiglio del 20 febbraio 2024. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    deliberato nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 6 marzo 2023,  il  Tribunale  ordinario  di
Firenze, sezione prima penale, ha sollevato  -  in  riferimento  agli
artt. 3  e  27,  terzo  comma,  della  Costituzione  -  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 646, primo  comma,  del  codice
penale, come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera u), della legge
9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto  dei  reati  contro  la
pubblica amministrazione, nonche'  in  materia  di  prescrizione  del
reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti  politici),
censurandolo nella parte in cui punisce la condotta di appropriazione
indebita con la reclusione da due a cinque anni,  oltre  alla  multa,
anziche' con la reclusione da sei mesi  a  cinque  anni,  oltre  alla
multa. 
    1.1.- Il rimettente giudica della responsabilita'  penale  di  F.
F., mediatore immobiliare, imputato del delitto di cui  all'art.  646
cod. pen., aggravato dall'abuso  di  prestazione  d'opera  (art.  61,
numero 11, cod. pen.), per essersi appropriato, al fine di procurarsi
un ingiusto profitto, di somme di denaro consegnategli da un  cliente
in relazione alla proposta di locazione di un immobile. 
    Il giudice a quo riferisce in particolare  che  l'imputato  aveva
ricevuto dal cliente 700 euro, pari a una mensilita' del contratto di
locazione da stipulare, a titolo di deposito cauzionale, e  ulteriori
700 euro quale compenso per  l'attivita'  di  mediazione  svolta.  Il
contratto  di  locazione  non  era  poi  stato  stipulato.  Tuttavia,
l'imputato aveva restituito al proprio cliente la somma di  500  euro
in contanti, oltre a una  cambiale,  rivelatasi  poi  falsa,  per  il
pagamento della residua somma di 900 euro. Dopo la  presentazione  di
querela  da  parte  della  persona  offesa,  l'imputato   gli   aveva
corrisposto l'ulteriore somma di 200 euro. 
    Il  rimettente  ritiene  configurabile  il   delitto   contestato
all'imputato, quantomeno in riferimento al denaro ricevuto  a  titolo
di  deposito  cauzionale,  alla  luce  del  vincolo  di  destinazione
impresso su tale somma, destinata  al  locatore  dell'immobile  (sono
citate Corte di cassazione, sezione  seconda  penale,  sentenze  8-23
aprile 2021, n. 15566; 26 novembre-30 dicembre  2020,  n.  37820;  16
novembre-7 dicembre 2017, n. 54945) e  della  sua  restituzione  solo
parziale,  peraltro  non  accompagnata  da  imputazione  al  deposito
cauzionale. Non varrebbe invece a escludere il delitto contestato  la
dazione di ulteriori 200 euro dopo la sua consumazione. 
    Il giudice a quo esclude,  d'altra  parte,  che  il  fatto  possa
considerarsi di particolare tenuita' ai sensi dell'art. 131-bis  cod.
pen., rilevando che l'appropriazione indebita della cifra di 200 euro
- ossia l'importo del deposito cauzionale, detratte  le  restituzioni
effettuate - sarebbe avvenuta ai danni di un cittadino straniero, con
tre figli, di cui uno affetto da autismo;  che  la  condotta  sarebbe
stata posta in essere nell'esercizio di un'attivita' professionale  e
con riferimento a somme di  denaro  «corrisposte  in  relazione  alla
locazione di un immobile  da  adibire  ad  abitazione  e  dunque  per
soddisfare  un  bisogno  fondamentale»;  e  che  la  restituzione  di
ulteriori 200 euro dopo la querela  da  parte  della  persona  offesa
sarebbe avvenuta  dopo  «plurime  condotte  dilatorie»,  tra  cui  la
consegna di un titolo di credito non valido. 
    Nemmeno  sarebbe  integrata  la   causa   estintiva   del   reato
consistente nelle condotte  riparatorie  (art.  162-ter  cod.  pen.),
atteso che l'imputato non avrebbe  corrisposto  gli  interessi  sulla
somma restituita, ne' avrebbe  riparato  il  danno  non  patrimoniale
patito dalla persona offesa. 
    Si renderebbe percio' necessario  applicare  all'imputato  l'art.
646, primo comma, cod. pen., che  punisce  l'appropriazione  indebita
con la reclusione da due a cinque anni, oltre che con  la  multa.  La
pena da irrogare dovrebbe attestarsi sul minimo edittale, in  ragione
della contenuta gravita'  del  fatto  (vista  l'entita'  delle  somme
oggetto di appropriazione) e  del  riconoscimento  delle  circostanze
attenuanti  generiche  ex   art.   62-bis   cod.   pen.,   prevalenti
sull'aggravante di cui all'art. 61, numero  11),  cod.  pen.  (tenuto
conto della riparazione, pur non integrale, del danno). 
    Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale
della cornice edittale stabilita dall'art.  646,  primo  comma,  cod.
pen., con particolare riguardo alla pena minima comminata. 
    1.2.- Il giudice  a  quo  rammenta  anzitutto  che  tale  cornice
edittale e' stata innalzata dall'art. 1, comma 1, lettera  u),  della
legge n. 3 del 2019, che ha sostituito la pena della reclusione  fino
a tre anni e della multa fino a 1.032 euro, in  precedenza  prevista,
con quella della reclusione da due a cinque anni  e  della  multa  da
1.000 a 3.000 euro. La modifica legislativa si sarebbe collocata  nel
contesto di un piu' ampio intervento di contrasto ai reati contro  la
pubblica amministrazione, nel quale si sono altresi' estese (ai sensi
del novellato art. 649-bis cod. pen.) le  ipotesi  di  procedibilita'
d'ufficio delle condotte di cui all'art. 646 cod. pen. 
    La  ratio  dell'intervento  sarebbe  dunque  da  ricondurre  alla
«volonta' del Legislatore di colpire piu'  severamente  le  attivita'
prodromiche ai fenomeni corruttivi», atteso che  -  come  emergerebbe
dal dibattito  parlamentare  relativo  al  mutamento  del  regime  di
procedibilita' di talune ipotesi di  appropriazione  indebita  -  «ad
avviso del  Legislatore  tale  reato  sarebbe  talora  realizzato  in
funzione della successiva attivita' corruttiva,  con  la  sostanziale
creazione di provviste illecite  cui  poi  attingere  per  pagare  il
prezzo della corruzione». 
    L'innalzamento del minimo edittale della pena  detentiva  di  ben
quarantotto volte contrasterebbe, tuttavia, con gli  artt.  3  e  27,
terzo comma, Cost., «sia per cio' che attiene al  generale  principio
di  uguaglianza,  sia  sotto  il   profilo   della   proporzionalita'
intrinseca  del  trattamento  sanzionatorio»,  poiche'  tale   minimo
edittale comporterebbe «l'inflizione di  una  pena  irragionevole  in
relazione alla dosimetria sanzionatoria impiegata dal legislatore  in
altre  fattispecie  offensive  del  bene  giuridico  patrimoniale»  e
impedirebbe al giudice di «applicare una  pena  adeguata  a  condotte
delittuose che, per quanto conformi al  tipo  considerato,  risultino
essere caratterizzate da una lesivita' modesta». 
    1.2.1.- Osserva preliminarmente il giudice a quo che  l'art.  646
cod. pen., per la sua formulazione «lata e generica», e' suscettibile
di abbracciare sia episodi  di  appropriazione  indebita  connessi  a
fenomeni corruttivi, sia  condotte  «ben  piu'  banali  e  di  minore
portata offensiva», quali appropriazioni  commesse  da  conduttori  a
danno dei proprietari di beni  concessi  in  locazione  (sono  citate
Corte di cassazione, sezione seconda  penale,  sentenze  9  aprile-27
maggio 2019, n. 23176; 27 giugno-21 luglio 2017, n. 36113; 6 dicembre
2012-8 marzo 2013, n. 10991; 22 dicembre  2011-9  febbraio  2012,  n.
4958; 5 luglio-13  ottobre  2011,  n.  36897),  o  in  leasing  (sono
richiamate Corte di cassazione, sezione seconda penale,  sentenze  31
maggio-17 giugno 2016, n. 25288; 5 dicembre 2013-6 febbraio 2014,  n.
5809; 7 gennaio-1° aprile 2011, n.  13347;  20  settembre-18  ottobre
2007, n. 38604), o da professionisti o lavoratori  su  somme  o  beni
loro consegnati a vario titolo  (sono  citate  Corte  di  cassazione,
sezione quarta penale, sentenza 12 maggio-14 giugno 2022,  n.  23129;
sezione seconda penale, sentenze  19  settembre-4  ottobre  2018,  n.
44244; 3 maggio-6 giugno 2016, n. 23347; 31 maggio-17 giugno 2016, n.
25281; 24 settembre-6 novembre  2015,  n.  44650;  9  ottobre  2013-4
febbraio 2014, n.  5499).  In  relazione  a  tali  condotte  -  assai
numerose nella prassi - il notevole incremento  del  minimo  edittale
della pena detentiva operato dal legislatore  del  2019  risulterebbe
manifestamente irragionevole. 
    1.2.2.-  Ritiene  inoltre  il  rimettente  che,  in   base   alla
giurisprudenza costituzionale sulla  ragionevolezza  del  trattamento
sanzionatorio, a sua volta fondata sul principio di eguaglianza (sono
citate le sentenze di questa Corte n. 218 del 1974, n. 176 del  1976,
n. 409 del 1989, e n. 244 del 2022), la pena minima di  due  anni  di
reclusione, prevista dall'attuale formulazione dell'art.  646,  primo
comma, cod. pen., sia «irragionevolmente sproporzionat[a] rispetto al
"limite inferiore" della pena previsto per fattispecie di aggressione
all'integrita' patrimoniale equiparabili al reato  di  appropriazione
indebita e di gravita' simile (se non superiore)», come il furto e la
truffa. 
    Il furto, per il quale e' previsto il minimo edittale di sei mesi
di reclusione, si caratterizzerebbe infatti per un maggior  disvalore
rispetto all'appropriazione indebita. Esso presuppone  -  osserva  il
giudice a quo - la non disponibilita' del bene in capo all'autore del
reato e la sua sottrazione alla vittima, con  conseguente  violazione
della «sfera della disponibilita' materiale» di  questa;  e  cio'  da
parte di un soggetto che normalmente non e' noto alla persona offesa.
Al contrario, l'appropriazione indebita presupporrebbe  la  pregressa
detenzione della res da parte dell'autore, sulla base di un  rapporto
fiduciario con la vittima, e denoterebbe quindi «una minore capacita'
a delinquere in capo al soggetto agente, che si "limita" a convertire
il  proprio  possesso  in  proprieta',  senza   [...]   intromettersi
unilateralmente nella  sfera  della  disponibilita'  materiale  della
persona offesa».  Piu'  agevole  sarebbe,  inoltre,  l'individuazione
dell'autore del reato, proprio  in  quanto  persona  gia'  nota  alla
vittima. 
    D'altra parte, i pur significativi inasprimenti  del  trattamento
sanzionatorio del furto previsti da numerose  circostanze  a  effetto
speciale potrebbero essere neutralizzati  nel  bilanciamento  con  le
eventuali  circostanze  attenuanti,  anche  generiche,   secondo   il
discrezionale apprezzamento del giudice.  L'innalzamento  della  pena
minima per la fattispecie base di appropriazione indebita  imporrebbe
invece al giudice, anche per  i  fatti  meno  gravi,  di  operare  le
diminuzioni connesse alla presenza di circostanze attenuanti muovendo
sempre da tale elevata pena base. 
    Quanto alla truffa, parimenti punita  nell'ipotesi  base  con  la
reclusione minima di sei mesi, si tratterebbe di un reato di danno il
cui autore - con il quale sovente la vittima non ha alcun rapporto di
pregressa  conoscenza  -  «non  si  limita  ad  approfittare  di  una
situazione preesistente,  determinatasi  lecitamente;  al  contrario,
attraverso i propri artifici o raggiri fa sorgere  nella  vittima  la
fiducia necessaria ad  indurla  a  compiere  l'atto  di  disposizione
patrimoniale». Tale fattispecie sarebbe dunque caratterizzata  da  un
disvalore maggiore rispetto a quello dell'appropriazione indebita, in
cui «il soggetto agente approfitta della preesistente  disponibilita'
del bene, derivante dal precedente atto dispositivo della vittima». 
    Persino la truffa aggravata dalla minorata difesa  della  persona
offesa, prevista dall'art. 640, secondo comma,  numero  2-bis),  cod.
pen., e' punita - prosegue il giudice a quo - con la pena  minima  di
un anno di reclusione, e dunque  con  una  pena  inferiore  a  quella
prevista per l'ipotesi base di appropriazione indebita. 
    La differenza sanzionatoria esistente tra appropriazione indebita
e truffa produrrebbe inoltre l'assurda conseguenza per cui chi abbia,
come l'imputato nel giudizio a quo, promosso  la  conclusione  di  un
contratto di locazione di un immobile effettivamente esistente, salvo
poi indebitamente trattenere le somme ricevute dal futuro conduttore,
sarebbe punito piu'  severamente  di  chi  avesse  «pubblicizzato  un
annuncio di locazione per un immobile non effettivamente esistente  o
comunque non nella sua disponibilita',  facendo  credere  di  poterlo
concedere in locazione e determinando con tali artifizi e raggiri  la
vittima a compiere  la  dazione  di  denaro»,  realizzando  cosi'  il
delitto di truffa. 
    1.2.3.- La disciplina censurata violerebbe altresi' gli artt. 3 e
27,  terzo  comma,  Cost.,  sotto   il   profilo   della   necessaria
proporzionalita' della pena rispetto alla gravita' del fatto di reato
(e' citata la sentenza n. 343 del 1993 di questa Corte). 
    Ad avviso del rimettente, pur potendosi  considerare  ragionevole
l'inasprimento del massimo edittale  previsto  dall'art.  646,  primo
comma,  cod.  pen.,   finalizzato   a   sanzionare   condotte   dalla
significativa carica offensiva, come ad  esempio  «appropriazioni  di
cifre ingenti commesse dagli amministratori di societa' di capitali»,
non altrettanto potrebbe dirsi per l'introduzione di una pena  minima
di due anni di  reclusione.  Quest'ultima  sarebbe  irragionevolmente
sproporzionata rispetto alle ipotesi - statisticamente assai comuni -
in cui le modalita' concrete della condotta, il rapporto  tra  autore
del reato e vittima, la consistenza dell'offesa patrimoniale, rendano
il disvalore del fatto decisamente contenuto. 
    Il caso di specie, in cui la condotta illecita e' stata  compiuta
da un soggetto noto alla vittima, che ha potuto recuperare il  denaro
oggetto di appropriazione, e ha cagionato  una  lesione  patrimoniale
«non    irrisoria»,    ma    «comunque    contenuta»,     mostrerebbe
emblematicamente  la  «manifesta  [...]  incapacita'  della   attuale
cornice edittale dell'art. 646 c.p. di essere adeguata rispetto  alle
plurime ipotesi sussumibili in  detta  fattispecie  e  prevedere  per
ciascuna di esse una pena equa e capace di  assolvere  al  necessario
compito rieducativo, senza risultare eccessivamente afflittiva». 
    1.3.- Sulla scorta di  tali  considerazioni,  il  giudice  a  quo
invoca un intervento  di  questa  Corte  che  ridetermini  il  minimo
edittale  della  pena  detentiva   prevista   per   il   delitto   di
appropriazione indebita in sei mesi di reclusione, sulla falsariga di
quanto previsto per le fattispecie di  furto  e  truffa:  fattispecie
ritenute equiparabili, quando non superiori, quanto a disvalore delle
condotte, e dunque idonee a costituire «precisi punti di  riferimento
gia' rinvenibili nel sistema legislativo» (e' citata la  sentenza  n.
222 del 2018 di questa Corte). 
    Un  simile  intervento,  ad  avviso  del   rimettente,   «sarebbe
rispettoso della scelta discrezionale del Legislatore di inasprire il
trattamento    sanzionatorio     precedentemente     previsto     per
l'appropriazione indebita, ma altresi' capace di [...] garantire  una
cornice edittale (reclusione da sei mesi a cinque anni) che  consenta
al giudice di poter adeguare la pena al caso concreto,  nel  rispetto
della necessaria proporzionalita' della stessa». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano  dichiarate  inammissibili  o
non fondate. 
    2.1.-    L'inammissibilita'    discenderebbe    dalla     mancata
considerazione,  da  parte  del  rimettente,  della  possibilita'  di
applicare, in ragione degli elementi di fatto che connotano  il  caso
di  specie,  «istituti  in   grado   di   alleggerire   la   risposta
sanzionatoria», quali la causa di non punibilita'  della  particolare
tenuita' del fatto (art. 131-bis) o la causa di estinzione del  reato
di cui all'art. 162-ter cod. pen. 
    2.2.- Le questioni sarebbero, in ogni caso, non fondate. 
    I delitti di furto e di truffa non costituirebbero idonei  tertia
comparationis, attese le  peculiarita'  che  connotano  il  reato  di
appropriazione indebita, fattispecie  «spesso  collegata  a  fenomeni
corruttivi ed in genere reati contro la pubblica  amministrazione»  e
caratterizzata dalla  «peculiare  posizione  giuridica  del  soggetto
attivo» e dalla sussistenza  di  «un  rapporto  privilegiato  con  la
persona offesa». 
    La pena edittale prevista dall'art. 646, primo comma,  cod.  pen,
potrebbe peraltro essere adeguata alla  gravita'  del  caso  concreto
attraverso gli istituti contemplati dagli  artt.  131-bis  e  162-ter
cod. pen. nonche'  attraverso  il  riconoscimento  delle  circostanze
attenuanti generiche come prevalenti. 
    Il legislatore avrebbe compiuto una precisa valutazione circa  la
gravita' del reato  di  cui  all'art.  646  cod.  pen.,  escludendone
l'equiparazione,  quanto  al  trattamento  sanzionatorio,  ad   altre
fattispecie ad esso accomunate solo da «similitudini relative al bene
giuridico protetto o all'elemento psicologico richiesto». 
    Tale soluzione normativa presenterebbe  «inevitabilmente  margini
di opinabilita'», ma  cio'  non  sarebbe  sufficiente  a  fondare  un
giudizio di manifesta irragionevolezza della disposizione  censurata,
che potrebbe formularsi solo in presenza di un  «uso  distorto  della
discrezionalita'  che  raggiunga  una  soglia  di  evidenza  tale  da
atteggiarsi alla stregua di una figura per cosi' dire sintomatica  di
"eccesso  di  potere"  e,  dunque,   di   sviamento   rispetto   alle
attribuzioni che l'ordinamento  assegna  alla  funzione  legislativa»
(sono citate l'ordinanza n. 297 del 1998 e la  sentenza  n.  313  del
1995 di questa Corte). 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale  ordinario
di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato - in riferimento  agli
artt. 3  e  27,  terzo  comma,  Cost.  -  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 646, primo comma, cod. pen., nella parte  in
cui punisce la condotta di appropriazione indebita con la  reclusione
da due a cinque anni, oltre alla multa, anziche' con la reclusione da
sei mesi a cinque anni, oltre alla multa. 
    In sostanza, il giudice a quo censura la scelta - compiuta  dalla
legge n. 3 del 2019 - di innalzare la pena  minima  dalla  previgente
soglia di quindici  giorni  a  quella  di  due  anni  di  reclusione,
ritenendo che essa conduca all'irrogazione  di  pene  sproporzionate,
sia rispetto a quelle applicabili per i contigui delitti di  furto  e
truffa, sia - intrinsecamente - in rapporto alla concreta gravita' di
una  vasta  gamma  di  condotte  sussumibili  entro  la   fattispecie
criminosa, ma di  contenuto  disvalore  offensivo  rispetto  al  bene
giuridico protetto. 
    2.-    L'Avvocatura    generale     dello     Stato     eccepisce
l'inammissibilita'  delle  questioni  per  non  avere  il  rimettente
adeguatamente considerato la  possibilita'  di  applicare,  nel  caso
concreto, la causa di non punibilita' della particolare tenuita'  del
fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. e la causa di estinzione  del
reato per condotte riparatorie di cui all'art. 162-ter cod. pen. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il giudice rimettente ha plausibilmente  motivato  (supra,  punto
1.1. del Ritenuto in fatto) sulla ritenuta inapplicabilita' nel  caso
concreto di entrambi gli istituti. Tanto basta, secondo  la  costante
giurisprudenza di questa Corte, ai fini del  vaglio  della  rilevanza
delle questioni sollevate (ex multis, sentenze n. 192 e  n.  145  del
2023). 
    3.- Le questioni sono fondate. 
    3.1.-  Da   sempre   questa   Corte   ha   riconosciuto   l'ampia
discrezionalita' del  legislatore  nella  definizione  della  propria
politica criminale, e in particolare nella determinazione delle  pene
applicabili a chi abbia  commesso  reati,  cosi'  come  nella  stessa
selezione delle condotte costitutive di reato (ex multis, sentenze n.
207 del 2023 e n. 117 del 2021). 
    Discrezionalita', tuttavia, non equivale ad arbitrio. 
    Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni  dei  diritti
fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in
relazione  a  una  o  piu'   finalita'   legittime   perseguite   dal
legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare
manifestamente  sproporzionati  rispetto  a  quelle   pur   legittime
finalita'. 
    Il controllo sul rispetto di tali limiti spetta a  questa  Corte,
che e' tenuta a esercitarlo con  tanta  maggiore  attenzione,  quanto
piu' la legge incida sui diritti fondamentali della persona. 
    Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali,  che
sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti
fondamentali, sulla liberta' personale dei loro destinatari. 
    3.2.- Dalla data di entrata in vigore del codice penale del  1930
sino al 2019 il delitto di appropriazione indebita  di  cui  all'art.
646 cod.  pen.  e'  stato  punito,  nella  sua  forma  base,  con  la
reclusione «fino a tre anni», oltre alla  multa.  Per  effetto  della
regola generale di cui all'art.  23  cod.  pen.,  la  pena  detentiva
minima prevista per il delitto era, dunque, quella di quindici giorni
di reclusione. 
    L'art. 1, comma 1, lettera u), della legge n. 3 del 2019 ha  reso
sensibilmente piu' severa tale cornice edittale, che spazia ora da un
minimo di due anni di reclusione sino a un massimo di cinque, accanto
alla multa da 1.000 a 3.000 euro. 
    Le  ragioni  di  tale   brusco   innalzamento   del   trattamento
sanzionatorio del delitto di appropriazione  indebita,  dovuto  a  un
emendamento (n. 1.120, Di Sarno e altri) introdotto nella seduta  del
15 novembre 2018 delle Commissioni riunite I (Affari  costituzionali)
e  II  (Giustizia)  della  Camera,  non  sono  state  in  alcun  modo
illustrate nel corso  del  dibattito  parlamentare  che  ha  condotto
all'approvazione complessiva della legge n. 3 del 2019, ufficialmente
rubricata «Misure per il  contrasto  dei  reati  contro  la  pubblica
amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del  reato  e  in
materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici». 
    In mancanza di indicazioni  desumibili  dai  lavori  preparatori,
occorre dunque comprendere se l'inasprimento della  cornice  edittale
per  il  delitto  di  appropriazione  indebita,  e   in   particolare
l'innalzamento del minimo della pena detentiva in misura pari -  come
osserva il rimettente - a quarantotto  volte  il  minimo  originario,
presentino una connessione razionale con gli obiettivi di fondo della
legge  n.  3  del  2019;  o,  quanto  meno,  appaiano   razionalmente
collegabili a una qualche discernibile finalita', anche  distinta  da
quelle che ispirano le restanti disposizioni della legge. 
    A  questo  riguardo,  potrebbe   in   ipotesi   valorizzarsi   la
motivazione contenuta  nella  relazione  illustrativa  all'originario
disegno di legge A.C. 1189, dal quale e' scaturita poi la legge n.  3
del 2019, a sostegno della scelta di  intervenire  sull'art.  649-bis
cod. pen. per ampliare le ipotesi  di  procedibilita'  d'ufficio  del
delitto di appropriazione indebita (e in particolare per estenderla a
quelle aggravate ai sensi dell'art. 646, secondo  comma  o  dell'art.
61, primo comma, numero 11, cod.  pen.,  ove  ricorressero  non  solo
aggravanti a effetto speciale, ma anche l'incapacita'  della  persona
offesa per eta' o infermita', o ancora un danno di rilevante gravita'
in capo a quest'ultima). 
    «[S]ebbene non  si  tratti  di  un  delitto  contro  la  pubblica
amministrazione»  -  si  legge  nella  relazione  -  «il   reato   di
appropriazione indebita e' strumento che consente  comunemente  (come
il reato di falso  in  bilancio  o  i  reati  tributari)  di  formare
provviste illecite utilizzabili per il  pagamento  del  prezzo  della
corruzione.  Sembra  pertanto  opportuno,  nella  prospettiva  di  un
contrasto efficace non solo dei fenomeni corruttivi, ma  anche  delle
attivita' prodromiche alla corruzione,  mantenere  la  procedibilita'
d'ufficio per le  ipotesi  di  maggiore  gravita'  di  appropriazione
indebita». 
    Tuttavia, e' evidente che una simile motivazione - impiegata  per
illustrare la scelta di prevedere la procedibilita' d'ufficio per  le
appropriazioni indebite ritenute «di maggiore gravita'» - non  e'  in
grado di fornire alcuna giustificazione  razionale  della  scelta  di
innalzare di quarantotto volte la pena minima della fattispecie  base
di  appropriazione  indebita.  Pena  minima  che  e'   destinata   ad
applicarsi, proprio al contrario, ai  fatti  meno  gravi  tra  quelli
compresi nel raggio dell'art. 646 cod. pen., i  quali  -  nella  gran
maggioranza dei  casi  -  nulla  hanno  a  che  vedere  con  condotte
prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione  di
"fondi neri" dai quali poter attingere per tale scopo. 
    Se, dunque, puo' comprendersi la scelta del legislatore del  2019
di  innalzare  la  pena  massima  dell'appropriazione  indebita,   in
relazione   alla   necessita'   di   colpire   severamente   condotte
appropriative che  l'esperienza  ha  mostrato  essere  potenzialmente
prodromiche a pratiche corruttive, resta del tutto oscura la  ragione
che lo ha indotto anche ad innalzare in maniera cosi' aspra il minimo
edittale. E cio' a fronte  del  dato  di  comune  esperienza  che  il
delitto di appropriazione indebita comprende  condotte  di  disvalore
assai differenziato: produttive ora di  danni  assai  rilevanti  alle
persone offese, ora (come nel caso oggetto del  giudizio  a  quo)  di
pregiudizi  patrimoniali  in  definitiva  modesti,   anche   se   non
necessariamente di particolare tenuita' ai  sensi  dell'art.  131-bis
cod. pen. 
    L'assenza di qualsiasi plausibile  giustificazione  -  ricavabile
dai lavori  preparatori,  o  comunque  ricostruibile  dall'interprete
sulla base delle rationes ascrivibili alla  riforma  -  di  un  cosi'
rilevante inasprimento della pena per tutti i fatti di appropriazione
indebita, e conseguentemente di una compressione assai  piu'  gravosa
della liberta'  personale  per  i  destinatari  del  precetto  penale
rispetto   alla   situazione   preesistente,   rende   di   per   se'
costituzionalmente illegittima la disciplina  censurata,  al  duplice
metro degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. evocati dal rimettente. 
    3.3.- Inoltre, per effetto dell'innalzamento del limite  edittale
minimo  il  trattamento  sanzionatorio  dell'appropriazione  indebita
finisce oggi per essere assai piu' gravoso  di  quello  riservato  al
furto e alla truffa, assunti entrambi quali tertia comparationis  dal
rimettente. 
    Certo,  come   osserva   l'Avvocatura   generale   dello   Stato,
appropriazione indebita, furto e truffa sono reati accomunati  bensi'
dalla  loro  attitudine  offensiva   del   patrimonio,   ma   restano
caratterizzati   da   modalita'   esecutive   differenti,   che   non
necessariamente esigono una risposta sanzionatoria identica da  parte
del legislatore: il quale resta libero, ad esempio, di  connotare  in
termini di minore gravita'  la  circostanza  che  nell'appropriazione
indebita  il  recupero  della  cosa  o  del  denaro  sia  normalmente
agevolato dal rapporto di  conoscenza  che  lega  autore  e  vittima,
ovvero - all'opposto - di assegnare  uno  speciale  disvalore  a  una
condotta  caratterizzata  dalla  violazione  della  fiducia  che  chi
consegna ad altri una propria cosa o una somma di denaro  normalmente
ripone nella correttezza del contraente  nell'adempimento  delle  sue
obbligazioni. 
    E tuttavia, non puo' non rilevarsi la macroscopica disparita'  di
trattamento  sanzionatorio,  generata  dall'attuale  disciplina,  tra
l'appropriazione indebita di una  somma  di  200  euro,  come  quella
oggetto del giudizio a quo, e un furto o  una  truffa  che  producano
esattamente il medesimo danno patrimoniale alla persona  offesa:  sei
mesi di reclusione in queste  ultime  ipotesi;  due  anni,  e  dunque
quattro volte tanto, nel caso di appropriazione indebita. 
    Tale irragionevole disparita' di trattamento  e'  particolarmente
evidente ove si consideri la  difficolta',  su  cui  si  sofferma  da
sempre la dottrina penalistica, di tracciare la linea discretiva  tra
furto e appropriazione indebita da un lato, e truffa e appropriazione
indebita dall'altro; ed e' ulteriormente dimostrata dalla contiguita'
criminologica  tra  questi  due   ultimi   reati,   ben   evidenziata
dall'ordinanza di rimessione proprio in relazione al caso dell'agente
immobiliare che si appropri della somma versatagli dal  contraente  a
titolo di cauzione. A  parita'  di  danno  patrimoniale  arrecato  al
proprio  cliente,  infatti,  l'agente  immobiliare  commette   truffa
qualora  millanti  un  mandato  inesistente   con   il   proprietario
dell'immobile offerto in  vendita  o  in  locazione,  restando  cosi'
soggetto alla pena minima di sei  mesi  di  reclusione;  e  si  rende
invece responsabile di  appropriazione  indebita,  soggiacendo  cosi'
(illogicamente) a una pena minima quadruplicata,  quando  il  mandato
sia stato effettivamente conferito, ma il contratto non  si  concluda
per la successiva indisponibilita' del proprietario  a  vendere  o  a
locare l'immobile. 
    Simili  sperequazioni   sanzionatorie   pongono   seriamente   in
discussione il canone della coerenza tra le  norme  dell'ordinamento;
canone «che nel campo delle norme del diritto  e'  l'espressione  del
principio di eguaglianza di trattamento tra eguali posizioni  sancito
dall'art. 3» Cost.  (sentenza  n.  204  del  1982,  punto  11.1.  del
Considerato   in   diritto).   E   cio'   proprio   in   un   settore
dell'ordinamento   cosi'   delicato,   per   lo   speciale    rilievo
costituzionale degli interessi in gioco, come il sistema penale. 
    3.4.- La manifesta sproporzione delle pene  che  la  disposizione
censurata puo' produrre  nel  caso  concreto  non  e',  infine,  resa
sostanzialmente innocua per  i  destinatari  -  come  invece  ritiene
l'Avvocatura generale dello Stato - dalla possibilita'  di  applicare
le diminuzioni di pena conseguenti  ad  eventuali  attenuanti,  anche
generiche, o ancora di  ritenere  il  fatto  non  punibile  ai  sensi
dell'art. 131-bis cod. pen. o il reato  estinto  ai  sensi  dell'art.
162-ter cod. pen.; ne', tanto meno, dalla  possibilita'  di  ottenere
una ulteriore diminuzione connessa alla scelta  del  rito,  ovvero  -
ancora - di accedere  alla  sospensione  condizionale  della  pena  o
comunque a pene sostitutive di carattere non detentivo. 
    Quanto alle circostanze attenuanti, la loro effettiva sussistenza
nel caso concreto non puo' assumersi in  via  generale,  neppure  per
cio' che concerne le attenuanti generiche. Come ha, anzi,  rammentato
recentemente questa Corte, queste ultime «non  svolgono  nel  sistema
una funzione genericamente indulgenziale, quasi si  trattasse  di  un
beneficio sistematicamente concesso  a  qualsiasi  condannato.  [...]
[A]lle attenuanti generiche compete piuttosto  l'essenziale  funzione
di attribuire rilevanza, ai fini della commisurazione della sanzione,
a specifiche e puntuali caratteristiche del singolo fatto di reato  o
del suo autore [...] che connotano il fatto di  un  minor  disvalore,
rispetto a quanto la conformita' della condotta alla figura  astratta
del reato lasci a prima vista supporre» (sentenza n.  197  del  2023,
punto 5.3.2. del  Considerato  in  diritto).  Specifiche  e  puntuali
caratteristiche che il giudice dovrebbe poter  rilevare  nel  singolo
caso concreto, dandone conto nella motivazione; senza che, invece, il
giudice sia di fatto costretto a riconoscere le attenuanti  generiche
al solo scopo di evitare l'irrogazione di  una  pena  sproporzionata,
altrimenti imposta  dal  minimo  edittale,  in  relazione  all'esiguo
disvalore del fatto concreto (sentenza n. 63 del 2022, punto 4.6. del
Considerato in diritto). 
    Per ragioni analoghe non puo' essere  considerato  sufficiente  a
ovviare  alla  manifesta  sproporzione   del   minimo   edittale   la
possibilita' per il giudice di riconoscere la sussistenza della causa
di non punibilita' di cui all'art. 131-bis cod. pen. ovvero la  causa
di estinzione del reato di cui all'art. 162-ter  cod.  pen.  Entrambi
gli istituti sono infatti condizionati  al  ricorrere  di  stringenti
requisiti normativi, che non e' detto sussistano nel  caso  concreto;
non riuscendo cosi' a impedire che fatti di  appropriazione  indebita
di tenue disvalore - ma per qualsiasi ragione non  coperti  dall'art.
131-bis cod. pen. -  siano  assoggettati  alla  gravosa  pena  minima
prevista dalla disposizione censurata,  in  violazione  dei  principi
costituzionali all'esame. 
    Quanto alle diminuzioni connesse al rito, occorre  qui  ricordare
che  la  scelta  di  un  rito  alternativo  costituisce  un   diritto
dell'imputato, il quale ha la possibilita'  di  rinunziare  a  talune
garanzie del contraddittorio in cambio di  uno  sconto  significativo
della pena che il giudice potra' poi irrogare nei suoi confronti.  Ma
di un mero diritto, per l'appunto,  si  tratta:  l'imputato  non  ha,
invece, alcun onere di optare per un rito semplificato -  rinunziando
cosi' al complesso delle garanzie  riconosciutegli,  in  particolare,
dall'art. 111 Cost. - al solo fine di ottenere l'applicazione di  una
pena  non  sproporzionata,  o  meno  sproporzionata,  rispetto   alla
gravita' del fatto di cui e' accusato. 
    Infine, la circostanza  che  il  minimo  edittale  stabilito  dal
legislatore sia ancora compatibile con  la  sospensione  condizionale
della pena - nonche', oggi, con l'applicazione  di  pene  sostitutive
delle pene detentive brevi - non esclude di per se'  che  essa  possa
essere considerata manifestamente sproporzionata  alla  gravita'  del
reato,  quanto  meno  con  riferimento  ai  fatti  rientranti   nella
fattispecie  astratta,  ma  contrassegnati  in  concreto   da   minor
disvalore. Tant'e' vero che, gia' trent'anni or sono, la sentenza  n.
341 del 1994 ebbe a dichiarare l'illegittimita' costituzionale  della
pena minima di sei mesi di reclusione allora prevista per il  delitto
di oltraggio,  nonostante  la  pacifica  possibilita'  di  sospendere
condizionalmente quella pena. 
    3.5.- Resta assorbito ogni ulteriore profilo di censura. 
    4.- Cosi' accertata la violazione  dei  parametri  costituzionali
evocati dal rimettente, si tratta ora, per questa Corte, di stabilire
un rimedio appropriato a tale violazione. 
    4.1.- Il giudice a quo aspira a  una  pronuncia  che  sostituisca
l'attuale pena minima di due anni di reclusione  con  quella  di  sei
mesi, equiparandola cosi' a quella oggi prevista per  le  fattispecie
base di furto e di truffa. 
    Il rimedio suggerito dal rimettente  si  muove,  dichiaratamente,
nell'orizzonte   delle   soluzioni   "costituzionalmente    adeguate"
(sentenza n. 40 del 2019, punto 4.2.  del  Considerato  in  diritto),
ossia tratte da discipline «gia'  esistenti»  (sentenza  n.  236  del
2016, punto 4.4. del Considerato in diritto), che consentono a questa
Corte «di porre rimedio nell'immediato al vulnus  riscontrato,  senza
creare insostenibili vuoti di tutela  degli  interessi  di  volta  in
volta  tutelati  dalla  norma  incriminatrice  incisa  dalla  propria
pronuncia», restando poi ferma «la possibilita' per il legislatore di
intervenire in qualsiasi momento  a  individuare,  nell'ambito  della
propria discrezionalita',  altra  -  e  in  ipotesi  piu'  congrua  -
soluzione   sanzionatoria,   purche'    rispettosa    dei    principi
costituzionali» (sentenza n. 222 del 2018, punto 8.1. del Considerato
in diritto; ex multis, nello stesso senso, sentenze n. 95  del  2022,
punto 5 del Considerato in diritto, e n. 252 del 2020, punto 4.6. del
Considerato in diritto). 
    4.2.- Come piu' volte precisato dalla piu' recente giurisprudenza
costituzionale, peraltro, «il petitum dell'ordinanza di rimessione ha
la funzione di chiarire il contenuto e il verso delle  censure  mosse
dal giudice rimettente», ma  non  vincola  questa  Corte,  che,  «ove
ritenga  fondate  le  questioni,  rimane  libera  di  individuare  la
pronuncia  piu'  idonea  alla   reductio   ad   legitimitatem   della
disposizione censurata» (sentenza  n.  221  del  2023,  punto  4  del
Considerato in diritto; in senso conforme, piu' di recente,  sentenza
n. 12 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto). 
    E al riguardo, si deve ribadire che «[l]'esigenza di far  ricorso
a una pronuncia di tipo manipolativo,  che  sostituisca  la  sanzione
censurata   con   altra   conforme   a    Costituzione,    si    pone
imprescindibilmente solo  allorche'  la  lacuna  di  punibilita'  che
conseguirebbe  a  una  pronuncia  ablativa,  non  colmabile   tramite
l'espansione  di  previsioni  sanzionatorie  coesistenti,  si  riveli
foriera di "insostenibili vuoti di tutela" per gli interessi protetti
dalla norma incisa (sentenza n. 222  del  2018):  come,  ad  esempio,
quando ne derivasse una menomata protezione di  diritti  fondamentali
dell'individuo  o  di  beni  di  particolare  rilievo  per   l'intera
collettivita' rispetto a gravi forme di  aggressione,  con  eventuale
conseguente violazione di obblighi costituzionali  o  sovranazionali»
(sentenza n. 185 del 2021,  punto  3  del  Considerato  in  diritto).
Laddove invece una simile  situazione  non  ricorra,  come  nel  caso
deciso dalla  pronuncia  appena  citata,  l'intervento  rimediale  di
questa Corte ben puo' limitarsi  all'ablazione,  totale  o  parziale,
della disposizione censurata. 
    4.3.- Rispetto alla disposizione ora sottoposta all'esame, la sua
reductio  ad   legitimitatem   esige   la   sola   dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale  della  pena  minima  di  due  anni  di
reclusione, suscettibile di produrre in singoli  casi  concreti  pene
manifestamente sproporzionate per eccesso. L'ablazione del  minimo  -
tecnicamente attuabile con la  sostituzione  dell'inciso  «da  due  a
cinque anni» con l'inciso «fino a cinque anni» - determina infatti la
riespansione della regola generale di cui all'art. 23 cod. pen.,  che
stabilisce in quindici  giorni  la  durata  minima  della  reclusione
ogniqualvolta la legge non disponga diversamente. 
    Una tale soluzione - che corrisponde, del resto, a quella rimasta
in vigore per il delitto di appropriazione  indebita  dal  1931  sino
alla riforma del 2019 - non crea alcun insostenibile vuoto di  tutela
per il patrimonio, che continuera' ad essere  efficacemente  tutelato
grazie alla pena prevista dall'art. 646 cod.  pen.,  suscettibile  di
essere applicata dal giudice - nell'ipotesi delittuosa base - sino  a
un massimo di cinque anni di reclusione. 
    Al contempo,  questa  soluzione  consentira'  al  legislatore  di
valutare se intervenire, nell'esercizio della  sua  discrezionalita',
equiparando  la  pena  minima  per  l'appropriazione  indebita   alla
medesima soglia oggi stabilita per  il  furto  e  la  truffa,  ovvero
stabilendone una diversa durata,  tenendo  conto  del  suo  peculiare
disvalore, e  comunque  entro  i  limiti  dettati  dal  principio  di
proporzionalita' tra gravita' del reato e severita' della pena. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  646,  primo
comma, del codice penale,  come  modificato  dall'art.  1,  comma  1,
lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto
dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in  materia  di
prescrizione del reato e in materia  di  trasparenza  dei  partiti  e
movimenti politici),  nella  parte  in  cui  prevede  la  pena  della
reclusione «da due a cinque anni» anziche' «fino a cinque anni». 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2024. 
 
                                F.to: 
                 Augusto Antonio BARBERA, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 22 marzo 2024 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA